Che fatica rialzare i sipari

Per uno che chiede: “A che scopo i poeti in miseri tempi?”, c’è un altro che risponde: “Poiché non ci suicidiamo/ ritentiamo sempre con il teatro/ anche se è la cosa più assurda/ e bugiarda”. È Thomas Bernhard. E con ben due opere del muriatico austriaco riaprirà il Piccolo Teatro di Milano, almeno nel 2021, tra gli spettacoli ancora da confermare (come l’atteso Hamlet di Latella): per ora, infatti, il più importante “Stabile” italiano annuncia solo la prima parte di stagione, da ottobre a dicembre, con una sobria, sin dimessa, conferenza stampa, l’ultima del direttore uscente (dopo oltre 22 anni) Sergio Escobar.

A Escobar – al centro della recente polemica dei lavoratori, che lo ha portato di fatto alle dimissioni – si può imputare di tutto, ma non che sia un burocrate senza cuore: con grande sensibilità intellettuale se l’è presa ieri con il “distanziamento sociale: non sanitario, non d’emergenza, proprio sociale”, una scivolosa definizione che la dice lunga sull’impoverimento culturale causato, tra gli altri effetti collaterali, dalla pandemia. Proponendosi come “luogo di resilienza”, come già lo fu nel dopoguerra di Grassi e Strehler e in altri momenti tragici della storia di Milano e d’Italia (piazza Fontana…), il Piccolo propone un cartellone di basso profilo, con molti déjà vu e pochi ospiti internazionali, soprattutto a causa della limitata mobilità tra Paesi: in autunno troviamo i soliti Gifuni e Massini, Branciaroli e Lella Costa (con un omaggio ai cent’anni di Franca Valeri). Molto curiosi, invece, il Pinocchio dei marionettisti Colla; Tu es libre di Francesca Garolla (selezionato dalla Comédie-Française); La tragedia del vendicatore diretta da Donnellan in versione “reloaded”, con attori che rispetteranno il distanziamento in palco e indosseranno mascherine Ffp2, a dispetto del carnalissimo allestimento. Arte a parte, l’infilata di numeri snocciolata da Escobar è impressionante: lo Strehler potrà accogliere solo 260 spettatori su 990 posti, il Grassi 150 (su 500), lo Studio 140 (su 370): “Per il Piccolo le perdite si aggirano intorno ai 4 milioni di euro”. Unico dato positivo è la generosità del pubblico che non ha voluto il rimborso del biglietto delle recite saltate, regalando così al teatro 300 mila euro: è il secondo mecenate dopo una banca.

Al Teatro di Roma non va meglio: anche qui la calendarizzazione ufficiale si fermerà al 2020 “con molte produzioni proprie”, mentre la seconda parte di stagione sarà “rimodulata” in base all’evoluzione del virus, e conseguenti norme di sicurezza: all’Argentina, ridotto a 200 posti, si (ri)vedranno Popolizio e il direttore del teatro Giorgio Barberio Corsetti con un Kafka, mentre l’India riparte con “Oceano indiano”, un progetto di residenza per giovane compagnie, e recite all’aperto – meteo permettendo – per massimo 154 persone. Ancora senza titolo è la stagione di necessaria “reinvenzione”: Corsetti ha un’idea precisa di “Teatro pubblico come cantiere dell’immaginazione”; ora, fino ad agosto, si veleggia “Verso il ritorno” con un timido cartellone estivo, mentre nel 2021 saranno recuperati alcuni spettacoli annullati.

Anche al Nord l’hanno presa alla larga, imbastendo da settimane un “festival” : “Per noi la stagione 2020/21 è già iniziata con ‘Summer Plays’ che mette in scena 16 titoli di drammaturgia contemporanea”, spiega il direttore del Teatro Stabile di Torino Filippo Fonsatti. In autunno, invece, verranno recuperati i titoli cancellati durante il lockdown e/o interrotti (Binasco, Lidi, Dini…). “Potremmo intitolare questa fase ‘verso una nuova normalità’, perché nulla sarà più come prima a partire dal concetto novecentesco di ‘stagione’: meno ipertrofia produttiva e meno assillo per il botteghino, più attenzione alla partecipazione attiva delle comunità e al rischio culturale. La programmazione procederà per trimestri, come nel teatro di repertorio europeo, per poter reagire in tempo reale a eventuali fattori esterni”.

Un passo alla volta, gradualmente, si muove anche lo Stabile di Napoli, il cui palinsesto sarà presentato venerdì. Mimmo Basso, il direttore operativo, ha però confermato che “Scena aperta”, in corso al Maschio Angioino, è un assaggio di stagione, con il recupero di spettacoli interrotti (Pappi Corsicato, Lamanna, Luconi…) e classici contemporanei partenopei (Borrelli). “Intanto abbiamo dato un segno forte di apertura alla città. All’aperto è più semplice, ma questa estate potrebbe fare da ammortizzatore e incoraggiare il rientro in sala. Avremo un cartellone fortemente contrassegnato dal neodirettore Roberto Andò: a ottobre la ripartenza sarà molto mirata e attenta alle misure di sicurezza, ma tra gennaio e maggio contiamo di recuperare una qualche normalità”.

 

L’ultima richiesta d’aiuto di Narges

Ci vorrebbe davvero l’uomo ragno per ridare ai gemellini Kiana e Ali la loro mamma, la paladina dei diritti umani Narges Mohamadi, 48 anni, imprigionata dal 2015 nel famigerato carcere di Zanjan. Nonostante sia stata contagiata dal Covid, assieme ad altre 11 detenute, l’avvocata non è stata scarcerata come invece è accaduto a molti delinquenti comuni (specialmente maschi) rinchiusi nello stesso istituto di pena. Nella foto che accompagna la lettera/appello di Mohamadi, pubblicata sui social dal marito Taghi Rahmani – esule con i figli a Londra – uno dei gemelli gioca con la maschera dell’eroe dei fumetti come fosse l’ultima speranza. Anzi, la penultima. I due bimbi chiedono infatti all’opinione pubblica mondiale di unirsi alla loro voce, per poter almeno risentire, dopo 11 mesi, la voce della madre. Il testo della lettera è stato diffuso anche dalla Fondazione Alexander Langer che nel 2009 premiò l’attivista per il suo operato a favore “dell’uguaglianza di tutti i cittadini, indipendentemente dall’appartenenza di genere e dalle opinioni politiche o religiose”. L’appello inizia con queste parole: “Siamo 12 donne contagiate dal coronavirus… La settimana scorsa, viste le nostre condizioni di salute e su insistenza delle nostre famiglie, ci hanno fatto il test. Non abbiamo comunque ricevuto fino a oggi i risultati… Una donna in condizioni cliniche preoccupanti è stata trasferita giovedì scorso in ospedale e successivamente rilasciata su cauzione a seguito della diagnosi di Covid. Nel giro di un mese in questo carcere sono entrate 30 persone di cui alcune con sintomi da coronavirus e almeno una di loro con diagnosi certa di Covid, che è stata successivamente rilasciata a causa del peggioramento delle sue condizioni di salute. Noi 12 presentiamo sintomi di affaticamento eccessivo e dolore addominale, diarrea, vomito, perdita di olfatto. Non abbiamo accesso alle cure adeguate né a una alimentazione corretta… In questo periodo, per l’esplicita richiesta del ministero dell’Intelligenza e della Magistratura, non mi viene permesso né di comprare carne a mie spese né di sentire i miei figli per telefono…”. Le condizioni di salute della donna sono precarie da molto tempo. Dopo varie pressioni dei medici, nel maggio del 2019 fu autorizzata a essere sottoposta a un intervento per l’asportazione dell’utero. Nel 2012 Narges Mohammadi era stata condannata a sei anni di carcere ma era stata rilasciata per le sue condizioni di salute. “Proprio per questo motivo, non avrebbe mai dovuto trascorrere un giorno in più in carcere. Invece, nel 2016 le è stata inflitta un’altra condanna, stavolta di 16 anni”, denuncia Riccardo Noury portavoce di Amnesty International.

La “colpa” di Narges Mohammadi è di aver invocato l’abolizione della pena di morte, aver parlato di diritti umani con rappresentanti di istituzioni internazionali e aver preso parte a manifestazioni pacifiche per i diritti delle donne.

Londra è il cortile dei russi, ma gli 007 prendono il tè

L’Intelligence and Security Committee si chiede se il governo abbia distolto l’attenzione dalla Russia, trova che abbia sottovalutato la risposta necessaria per gestire la minaccia russa e che stia ancora cercando di recuperare terreno”. Perfino nel cauto linguaggio ufficiale del parlamento britannico la sintesi del Russian Report, il documento prodotto dalla commissione parlamentare per l’Intelligence e Sicurezza sulle interferenze russe nel Regno Unito, suona come un’accusa nettissima al governo. E si capisce meglio perché quel governo ne abbia rimandato per 9 mesi la pubblicazione, inizialmente prevista per la vigilia delle elezioni politiche del dicembre 2019. Boris Johnson, o il suo consigliere Dominic Cummings, avrebbero rimandato ancora: ma la commissione si è ribellata, ha respinto con alleanza bipartisan il candidato alla Presidenza designato dall’esecutivo ed eletto invece Julian Lewis, conservatore ribelle. Il rapporto è una denuncia senza sconti all’inattività del governo. Peggio, evidenzia come non si sia voluto indagare in direzioni indicate chiaramente dai numerosi testimoni.

Al punto che, per evitare di produrre un documento troppo censurato per essere leggibile, i parlamentari hanno preferito pubblicarne una versione ridotta, comprensibile, affidando i dettagli agli allegati. “La Russia considera il Regno Unito come uno dei suoi principali obiettivi di intelligence in Occidente… Questo approccio sembra essere legato alla stretta relazione del Regno Unito con gli Stati Uniti e al fatto che il Regno Unito è percepito come centrale per la lobby occidentale anti-russa”. Ma il Regno Unito si è lasciato penetrare dal denaro e dal potere russo. “L’influenza russa nel Regno Unito è la nuova normalità. Governi successivi hanno accolto gli oligarchi e i loro soldi a braccia aperte, fornendo loro i mezzi per riciclare fondi illegali tramite la lavatrice londinese, nonché connessioni al livello più altro con accesso a società e figure politiche britanniche”. Indispensabile per questo costante processo di penetrazione è l’attività dei cosiddetti enablers o facilitatori: avvocati, commercialisti, agenti immobiliari che, consapevolmente o no, sono “agenti di fatto dello Stato russo”. È l’élite dei servizi di lusso descritta in dettaglio nel recente rapporto “Al vostro servizio” di Transparency International: professionisti che si sono arricchiti sfruttando i benefici di Londongrad, la comunità di ricchi russi sbarcata a Londra a partire dagli Anni Novanta. Ci sono anche banche, società di security, hotel, scuole di elite per i figli degli oligarchi. Un mare di denaro lasciato entrare senza controlli sulla sua origine. “Questo dimostra chiaramente la tensione interna fra le ambizioni di prosperità economica del governo e la necessità di proteggere la sicurezza nazionale”.

E poi c’è il capitolo della disinformazione diffusa da agenti russi e il rischio di inquinamento dei processi democratici. Parentesi politica: se il rapporto accredita l’ipotesi di una tentato condizionamento russo a favore dell’indipendenza scozzese nel referendum del 2014, sulla presunta influenza del referendum pro Brexit del 2016 alza le mani. ‘È difficile da dimostrare e non abbiamo cercato di farlo. Ma… I documenti che ci sono stati forniti suggeriscono che il governo e i servizi non abbiano cercato le prove di una interferenza o di qualsiasi attività che abbia potuto avere un impatto concreto sui risultati”. E, al contrario di quanto accaduto negli Usa dopo la vittoria di Trump alle Presidenziali, “Non abbiamo ricevuto nessuna valutazione post referendum europeo dei tentativi russi di interferenza”. In conferenza stampa, uno dei membri della Commissione, l’indipendentista scozzese Stewart Hosie, è stato piu esplicito: “Il governo ha attivamente evitato di cercare prove di interferenza. Non voleva sapere”.

 

Trump cerca voti: “Città dem allo sbando, mando i feds”

Indietro nei sondaggi, Donald Trump torna a indossare i panni di presidente Law&Order e ripropone lo scontro con i poteri locali guidati dall’opposizione. Il magnate minaccia di inviare agenti federali a Chicago, New York e in altre metropoli con sindaci democratici, dove, a suo dire, la criminalità dilaga per il lassismo delle autorità. “Li invierò con o senza l’accordo dei leader locali”, dice il presidente. “Sono città in mano alla sinistra radicale… Lì stanno succedendo cose mai viste… Se Biden vincerà, per l’intero Paese sarà l’inferno”. Da New York gli ribatte il sindaco Bill De Blasio: “Se ci manda i federali, lo denuncio e lo porto in tribunale”. Poi De Blasio ironizza: Trump spesso ‘bluffa’ e quindi non vale la pena dare troppo peso alle sue parole. Pronti a dare battaglia anche la sindaca di Chicago, afroamericana e lesbica, Lori Lightfoot – “Se vuole fare qualcosa per noi, Trump aumenti i controlli sulle armi” –, il governatore della California Gavin Newsom e vari altri sindaci e procuratori: “È un abuso di potere”. Spunto per lo scontro sui federali sono le violenze esplose nelle ultime settimane in alcune metropoli, in particolare a Chicago, dove le cifre delle vittime di sparatorie fanno impallidire il ricordo della Notte di San Valentino (12 morti e una cinquantina di feriti nel fine settimana). C’è anche un’eco delle filippiche del presidente contro i sindaci delle ‘città santuario’ tolleranti verso gli immigrati clandestini e verso le manifestazioni antirazzismo del mese di giugno, spesso degenerate, da Seattle ad Atlanta, da New York a San Francisco, da Chicago a Louisville. I sondaggi, ormai costanti nel dare avanti il candidato democratico Joe Biden in doppia cifra, confortano, in qualche misura, la scelta di Trump di rispolverare lo slogan di Law&Order: gli americani stanno con Black Lives Matter, il movimento nero antirazzista, ma sono contro i saccheggi e l’abbattimento delle statue. Il magnate le prova tutte, per dare una scossa alla sua campagna. La battaglia tra Trump e i poteri locali democratici si combatte anche sui fronti del voto per posta, che il presidente osteggia, e l’epidemia di coronavirus. Il presidente, polemico con i lockdown a suo giudizio eccessivi, spinge ora per la riapertura delle scuole a settembre, pur senza avere il potere di imporla. I sussulti dell’epidemia, che viaggia al ritmo di 60 mila contagi al giorno, sta però inducendo anche governatori repubblicani e ‘trumpiani’, come Greg Abbott in Texas e Ron De Santis in Florida, a ripristinare forme di chiusura.

Cinque cerchi di violenza. Olimpici fra abusi e suicidi

“Sono stanca di essere picchiata. Sono stanca di piangere… è per questo che voglio lasciare questo mondo”. La giovane lanciatrice di giavellotto si è appena qualificata per i campionati nazionali giapponesi. Si suicida subito dopo, a 17 anni: è la sua estrema rivolta contro gli abusi fisici subiti dal suo allenatore. Sono i primi anni Ottanta: il suo dramma rivela al mondo il tabù della violenza nello sport giovanile in Giappone. Ma un recentissimo rapporto di Human Rights Watch conferma che, a un anno dalle Olimpiadi di Tokyo, quel livello di violenza è ancora attuale.

Come testimonia il racconto di Daiki, 23 anni, raccolto a febbraio 2020: “Sono stato picchiato così spesso che ho perso il conto. Una volta l’allenatore ci ha convocato e mi ha colpito in faccia davanti a tutti. Ho cominciato a sanguinare dal naso ma non ha smesso”. L’analisi è basata su un sondaggio diffuso su Facebook e Twitter: 757 le risposte, fra ex atleti e sportivi ancora in attività, dai 10 e i 73 anni, in rappresentanza di 50 sport in 45 delle 47 prefetture giapponesi. È un racconto dell’orrore, in cui la violenza viene scambiata per amore. Naoko, ex professionista di pallacanestro, capitano della squadra del liceo nella seconda metà degli anni Duemila. “Ci picchiavano sempre, anche durante le partite. Io ero il capitano, l’allenatore mi tirava i capelli e mi prendeva a calci… Ero pieno di lividi, sanguinavo… Eppure, perfino ora, non provo rancore. Mi sentivo considerato. Nessuno odiava l’allenatore, ma ne avevamo il terrore… è quello che prova una vittima di violenza domestica, un sentimento di violenza e di amore”.

Una sudditanza psicologica verso il persecutore, l’idea che tormentare gli allievi sia la strada migliore per spingerli ad avere risultati. Il taibatsu, la punizione fisica come prassi educativa, frutto avvelenato della tradizione militarista giapponese. Per alcuni è stata fatale. Nel 2004 un 15 enne di Yokohama salta la lezione di judo. Il suo allenatore lo trova, lo costringe a combattere: con una presa lo soffoca fino a farlo svenire, poi lo picchia finché rinviene e lo soffoca di nuovo. I colpi causano una emorragia cerebrale che costa al ragazzo un handicap permanente. Fra il 1983 e il 2016, ricorda Human Rights Watch, sono almeno 121 le vittime delle scuole di judo giapponesi. Fra gli abusi documentati: colpi con mazze e canne di bamboo, schiaffi in faccia, waterboarding, insulti, violenza fisica o sessuale, taglio coatto dei capelli, obbligo di allenarsi anche se infortunati, allenamento estremo come punizione per risultati non soddisfacenti, nutrizione forzata o negata. Una situazione nota, che ha spinto le istituzioni a prendere provvedimenti. Il principale è, nel 2013, la Dichiarazione nazionale di eliminazione della violenza nello sport, che invita le organizzazioni sportive a combattere le violenze e creare un procedure sicure per denunciare. Dal 2019 sono state diffuse delle linee guida per organi sportivi e federazioni. Nessuno di questi impegni, nota Hew, è legalmente vincolante o indirizzato specificamente agli abusi sui minori. Illegali in Giappone ma ancora molto diffusi, tanto che solo quest’anno una galassia di associazioni della società civile è riuscita a ottenere il bando completo delle punizioni corporali.

Alla radice del perpetuarsi di queste violenze c’è il fallimento di un intero sistema. Senza un autorità centrale, le federazioni sportive “sono abbandonate a se stesse nella redazione di protocolli per la prevenzione, ricerca e sanzione di eventuali abusi. Molte non hanno protocolli per le denunce, altre le accettano solo via e-mail o fax”. Non esiste nessun organismo che tenga traccia di segnalazioni o denunce. Gli allenatori responsabili non subiscono conseguenze: portano i loro metodi altrove, perfino quando quei metodi hanno provocato il suicidio dei loro allievi. Una cultura di totale impunità con pochissime eccezioni. Il rapporto si conclude con alcune raccomandazioni urgenti che tengano conto dell’obbligo, stabilito dal diritto internazionale, di garantire il diritto dei bambini di giocare e di vivere liberi da violenze e abusi.

L’obiettivo è un approccio unitario, il bando della violenza come tecnica accettata di allenamento e la creazione di un Centro per lo sport sicuro, un ente indipendente con il compito di proteggere i giovani atleti e supervisionare indagini sul loro trattamento, punire i responsabili e lavorare con la polizia per i casi più gravi. C’è ancora un anno prima delle Olimpiadi.

Il Conte Cocciuto e i “disfattisti”

Alla fine l’Europa dei Ventisette ha prodotto il Recovery Fund che aveva promesso, con vantaggi cospicui non solo per Italia e Spagna ma anche per se stessa, per quest’Unione che fatica a trovare il suo “momento Hamilton”: il momento in cui di fronte alle grandi crisi (più di 100.000 morti per Covid, una recessione che rimanda al crollo del ’29) scopre di doversi unire meglio, come avvenne in America del Nord nel 1790 quando i debiti della guerra di indipendenza vennero messi in comune.

Al successo hanno contribuito Angela Merkel ed Emmanuel Macron, ma ancor più ha pesato la cocciuta insistenza di Giuseppe Conte, che trascinando altri otto Paesi si è battuto per una svolta nella politica europea sin da marzo. Si è rivelata vincente anche la sua ritrosia nei confronti del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) che offre prestiti agevolati ma è pur sempre figlio di politiche vecchie, e di un Patto di stabilità solo provvisoriamente sospeso. La preferenza tattica data al Recovery Fund ha smosso il pigro status quo nell’Unione.

Tuttavia non si dimenticherà il subbuglio delle cinque giornate di Bruxelles, e l’Unione non esce affatto guarita da questo vertice che approva il Fondo ma non senza concessioni di rilievo ai cosiddetti “frugali”. I quali hanno provato a disfare il Recovery Fund e a ridurne le novità cambiando sia la sua ripartizione (la quota delle sovvenzioni resta ma è ridotta) sia la natura dei controlli che verranno esercitati via via che si attueranno i piani di ripresa finanziati dall’Unione. Non hanno acquisito un esplicito diritto di veto sulle progressive erogazioni di fondi, ma hanno ottenuto che l’opposizione di un singolo Stato potrà temporaneamente bloccarle.

Li chiamano Paesi frugali, aggettivo sicuramente da loro assai apprezzato ma che non corrisponde a nulla. I governanti in Olanda, Austria, Svezia, Danimarca, Finlandia: chiamiamoli più realisticamente, in questo frangente, i custodi del mondo di ieri, quello che sta naufragando; i fautori di una misantropica colpevolizzazione del debito; i cultori di un’austerità non solo fallita ma del tutto impresentabile in tempi di Covid e di ritorno dello Stato nell’economia. Chiamiamoli disfattisti, è aggettivo non univoco ma più pertinente. E chiamiamo l’Olanda, il cui governo ha guidato questo fronte, il Paese noto nel mondo per essere un paradiso fiscale che danneggia enormemente gli alleati. Basta già questo, specie in epoche di crisi, per inficiare la solidarietà fra europei. E bastano a inficiarla i famosi sconti, i rebates concessi in extremis ai disfattisti. Questi rimborsi parziali dei soldi versati all’Unione furono un’invenzione di Margaret Thatcher nel 1984 e sono un modo per stare nell’Ue con un piede dentro e uno fuori.

Anche qui Conte è stato cocciuto e lucido, nell’evidenziare le discrasie europee che permangono: i rebates “azzoppano la solidarietà, la contrastano, la limitano, mentre il Recovery Plan realizza lo spirito di solidarietà che noi stessi abbiamo dichiarato di voler perseguire”. È stato lucido anche quando ha accusato l’olandese Rutte di miopia: “Vi state illudendo che la partita non vi riguardi (…). Tu forse sarai eroe in patria per qualche giorno, ma dopo qualche settimana sarai chiamato a rispondere pubblicamente davanti a tutti i cittadini europei per avere compromesso un’adeguata ed efficace reazione europea”. Naturalmente il disfattista ha il diritto di combattere il proprio Paese, se lo ritiene tirannico. Ma il disfattista di cui si parla qui vuole il degrado dell’Europa di cui c’è bisogno, e non smetterà di volerlo.

Il degrado è facilitato dal permanere, nelle decisioni più importanti, dell’unanimità: un solo Paese può alzare la bandiera del veto. È il motivo, tra l’altro, per cui da anni sono chiuse nei frigoriferi le riforme delle politiche di migrazione approvate dal Parlamento europeo: accordo di Dublino, rimpatri, reinsediamenti, qualifiche, accoglienza, ecc.

Il disfattista che gongola quando lo chiamano frugale è anche cieco. Gli è passato davanti un tifone – il Covid – e non se n’è accorto. In quel momento passeggiava nei giardinetti e proprio non l’ha visto, povero disgraziato. C’è un personaggio così nel Tifone di Conrad. Non avendolo visto e non vedendolo, Rutte ha chiesto quel che chiede da sempre: molto più potere agli Stati, molto meno alla Commissione che ha avuto la faccia tosta di proporre il Recovery Plan e che pensa di poter vegliare sulla sua attuazione, come chiesto dai non-disfattisti nella speranza che finiscano i rapporti di forza fra Stati cui l’Unione s’è ridotta.

In parte i disfattisti l’hanno purtroppo spuntata: il controllo dei vari piani di ripresa è nelle mani della Commissione, ma gli Stati nel Consiglio avranno l’ultima parola e un singolo Paese membro può interrompere le erogazioni per almeno tre mesi. Nei giorni scorsi Rutte è entrato nel dettaglio, ricordando quello che a suo parere l’Italia dovrebbe fare su pensioni e mercato del lavoro. Nessuna differenza, per lui, rispetto ai prestiti condizionati che hanno devastato la Grecia (anche per motivi politici: c’era un premier, Tsipras, cui bisognava dare una lezione).

A suo tempo, Conte disse che avrebbe negoziato, in Europa, avvalendosi della “forza del popolo”. Tsipras perse questa battaglia, ma l’Italia ha più peso e ha tentato il salto mortale. Nel dopo-lockdown, con l’esperienza di solitudine che hanno sperimentato i Paesi Ue, non sono più possibili ingerenze “alla greca”. L’ingerenza/punizione non è neppure più proponibile allo stesso modo di prima nei confronti dei Paesi di Visegrad, per quanto riguarda il legame tra fondi e rispetto dello Stato di diritto. Il Covid ha scosso certezze anche in questo campo.

Ultima cosa: è straordinario che la Germania, superando vecchi dogmi su sovvenzioni ed eurobond, abbia scelto l’alleanza con chi rifiuta che l’Unione abbia come unica ragion d’essere la protezione dei creditori (soprattutto bancari) dai debitori. Questa alleanza è la vera novità europea nei tempi di Covid, ma non possiamo essere sicuri che tale resterà nel dopo-Merkel.

Anche se volitiva, e più consapevole che in passato, la Germania ha faticato parecchio a imporsi. Era un egemone nascosto, ora esce dal nascondiglio ma non più egemone come prima. Ancor meno lo è la Francia, già diminuita dopo l’89 e l’allargamento a Est. È con questa realtà – la contusa egemonia tedesca, la Francia incapace di convincere durevolmente l’insieme dell’Unione, la risonanza dei disfattisti – che toccherà fare i conti.

Mail Box

 

Aeroporti: pure l’eccesso di zelo è pericoloso

Volevo denunciare un fatto capitato a mio figlio di 17 anni all’aeroporto di Catania mercoledì scorso. Al rientro da una vacanza con gli amici a Lampedusa, il 15 luglio verso le 17.15 entra all’aeroporto per prendere il volo Alitalia delle 19.25 per Roma e poi per Torino. Entrando, il primo termo scanner rileva una temperatura troppo alta, allora un signore lo mette da parte dicendogli di aspettare un attimo e avrebbero riprovato di lì a poco. La situazione non ha aiutato, il ragazzo si è subito agitato molto, tanto che la temperatura si è alzata ancora. A quel punto, hanno continuato la misurazione ogni 5 minuti finché due poliziotti gentili lo hanno accompagnato fuori dall’aeroporto. Dopo poco, mio figlio rientra per incontrare una dottoressa che, presa nuovamente la temperatura a lui e a tutto il gruppo di amici con cui è stato per una settimana, decide di far passare loro e di buttare letteralmente mio figlio fuori, dicendogli di aspettare al di fuori dell’aeroporto fino a quando la temperatura non si fosse abbassata, nonostante sapessero che si trattasse di un minorenne. Dopo aver fatto notare anche che stesse diluviando, lei risponde che le regole sono quelle, dunque lo hanno lasciato sotto la pioggia. Mentre tutto ciò accadeva, nessuno ha informato noi genitori, infatti è stato mio figlio a chiamarci. Mio marito ha chiesto di poter parlare con qualcuno circa le procedure, ma chi misurava la temperatura della Sac si è rifiutato e ha consigliato a mio figlio di prendere un albergo. Quindi, tirando le somme della disavventura: mio figlio cittadino italiano con regolare biglietto aereo, minorenne, è stato sbattuto fuori dall’aeroporto senza curarsi di dove avrebbe passato la nottata, perché con sintomo Covid (aveva la temperatura a 37,8) ma senza un tampone, un test sierologico. E poi, se gli amici che hanno vissuto con lui sette giorni sono stati imbarcati, a cosa vale il protocollo seguito?

Silvana Ranaudo

 

La moralità è la prima qualità del premier

Il grande risultato di Giuseppe Conte è il frutto di tante qualità dell’uomo tra cui senz’altro la competenza. Ma la prima qualità di G. Conte sta in un termine importante e dimenticato dalla politica così come dalla società odierna: la moralità. Un uomo dall’alto senso etico, elemento che gli ha permesso di rinfacciare senza giri di parole per ben due volte a Salvini e una alla Meloni la loro disonestà intellettuale.

Barbara Cinel

 

DIRITTO DI REPLICA

In riferimento all’affermazione del Sost. Proc. Luca Tescaroli, resa a conclusione dell’articolo a sua firma e pubblicato il 14 luglio scorso da Il Fatto con il titolo “Strage di via D’Amelio, ancora ci sono interrogativi da capire.” Mi sorprende che il dr. Tescaroli, che è stato per non poco tempo in servizio presso la Procura di Caltanissetta, faccia un’affermazione del genere, malgrado abbia avuto parte attiva e determinante in tutte le indagini e nei successivi dibattimenti. E mi sorprende ancor più che evidentemente il dott. Tescaroli non legga le sentenze, a cominciare da quella, che mi concerne, della Corte di Appello di Palermo del 22 luglio 2019, dove l’attenta ricostruzione dei fatti operata dalla Corte nei miei confronti esclude la propalazione di alcun tipo di interrogativo che mi possa riguardare.

Calogero Mannino

 

L’accelerazione dell’esecuzione della strage di via Mariano d’Amelio costituisce uno degli interrogativi allo stragismo dei primi anni Novanta rimasti senza risposta, come ho più volte sottolineato in sede processuale e in pubblici dibattiti. Ho già avuto modo di evidenziare, in particolare, nel corso della requisitoria del processo d’appello per la strage di Capaci, dinanzi alla Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta, che Giovanni Brusca “ha spiegato che le stragi deliberate dovevano essere eseguite, ma non in quella rapida sequenza, e che vi è stata una ‘accelerazione’ per la commissione della strage di via Mariano D’Amelio, tant’è che lui Brusca veniva ‘stoppato’ nell’attività preparatoria volta all’eliminazione dell’On. Mannino. Ciò, evidentemente, a detta del Brusca, per ‘togliere un obiettivo o sceglierne un altro’ significava che Riina doveva commettere prioritariamente quest’altra strage, ma non ha saputo indicare il motivo di tale urgenza”. Nel mio scritto pubblicato da “Il Fatto Quotidiano”, come si può evincere agevolmente dallo stesso, non ho evidenziato quesiti afferenti alla persona di Calogero Mannino.

Luca Tescaroli

 

In merito all’articolo “Guerra dentro Confindustria: il Mise usato come pedina” a firma di Carlo Di Foggia, pubblicato lunedì sulla sua testata. Nell’articolo, ricostruzione poco attendibile di vari fatti, c’è un passaggio sul sottoscritto, assolutamente infondato, in cui avrei “chiesto la presidenza del Sole 24 Ore”. Non è mio costume operare con logiche di scambio, come viene insinuato nell’articolo. Per il seguito la invito a far verificare ai suoi collaboratori le intenzioni che vogliono attribuirmi come da me auspicate (cosa che nel caso di specie è del tutto insussistente) attraverso le strutture a ciò deputate.

Luigi Abete

Prendo atto che Luigi Abete non sarà presidente del Sole 24 Ore e mi scuso per aver sopravvalutato i suoi auspici.

Cdf

Abusi in famiglia. Donne e bimbi vittime due volte (se lo Stato manca)

 

Caro direttore, sto vivendo da alcuni anni un’esperienza molto drammatica che riguarda mia figlia, che sta subendo il calvario di una donna violentata prima da uomini brutali e poi dallo Stato: uno Stato che afferma una violenza, cieca e non visibile, di gran lunga peggiore di quella esibita da un marito violento. Ho già scritto alcuni mesi fa al capo dello Stato e ai ministri dell’Interno, della Giustizia e della Famiglia. Da allora, le cose sono se possibile persino peggiorate e mia figlia con i due suoi bambini gemelli – affetti da mille patologie – è dovuta fuggire da Roma, e vive ora lontana, in una condizione di clandestinità come una criminale. Non esiste solo Bibbiano. Il mio obiettivo sarebbe quello di sensibilizzare l’opinione pubblica, provocare delle interrogazioni della politica ed emettere qualche serio provvedimento legislativo contro il feroce sistema che regola la realtà dell’affido dei minori. Si strappano i figli alle madri per dirottarli, anche grazie a perizie di comodo, in case famiglie, gestite spesso da persone legate all’amministrazione stessa della giustizia. Parliamo di una realtà che riguarda circa 30 mila bambini. In un vorticoso giro che è anche giro di affari. Ma che fine fa l’interesse dei bambini?

Avv. Delfino Benevento

 

Gentile avvocato, non avendone lette le “carte”, non posso addentrarmi nel caso di sua figlia. Lei solleva però alcune questioni urgenti. La prima riguarda le donne vittime di violenza: negli ultimi anni si è fatto molto per loro, ma non abbastanza. A cominciare dalla “prevenzione” del fenomeno a finire con i fondi per la “cura” , ancora insufficienti. Le donne non trovano la rete necessaria per denunciare e vivere al sicuro. Molto spesso, anzi, vengono condannate a una vita in clandestinità, mentre i loro aguzzini restano liberi o con qualche ammonimento. E qui veniamo al secondo punto che lei solleva: la giustizia. Sono ancora molti i casi in cui le donne devono subire una seconda violenza in aula, laddove i processi agli aguzzini si trasformano in una “fiera” di perizie. E a farne le spese sono anche i figli, contesi a colpi di CTU e destinati al “giudizio” degli assistenti sociali. E se, per la stragrande maggioranza, la categoria è sana, si trovano casi che gettano fango sul lavoro onesto e amorevole di tutti gli altri. Mi ostino a pensare che i bambini non rappresentino un business. Non posso convincerla del contrario, ma le auguro che (anche) la storia di sua figlia molto presto mi dia ragione.

Silvia D’Onghia

I grattacieli vuoti e quel che resta del lavoro (smart)

Sono 26 mila metri quadrati di facciata, 5 mila cellule vetrate che insieme fanno il Curvo, il grattacielo progettato dall’architetto Daniel Libeskind che qualche giorno fa è stato ultimato nel quartiere City life, Milano. I giornali hanno scritto che il gigante di vetro (si sviluppa su 39 piani, per 175 metri) in autunno “ospiterà la nuova sede milanese del Gruppo PwC, grande società di consulenze”. Contiamo che sia così, perché – nonostante le rassicurazioni degli esperti del settore immobiliare – quel che si mormora in città non fa ben sperare: sarà forse la suggestione dalle grandi torri disabitate, dal silenzio delle saracinesche, dal panorama della città, mai deserta come in queste settimane? Le grandi aziende stanno aspettando di capire come e quando saranno prorogati il blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione. Il timore è che appena il blocco decadrà, i posti di lavoro verranno decimati. Intanto, in questo tempo sospeso, vige lo smart working, che in parte può spiegare le città vuote e che divide molto l’opinione pubblica. Per mesi è stato una scelta obbligata, ora rischia di essere la scusa per risparmiare sui costi (servizi, affitti, benefit ai lavoratori). Si sprecano, sui giornali, fiumi di parole sul “progresso che non si può fermare”. Che ogni progresso porti a un miglioramento delle condizioni di vita e convivenza sociale è tutto da verificare, come dimostrano questi ultimi anni. La grande domanda ora è questa: alla fine del tempo sospeso, i grattacieli torneranno a riempirsi? Forse no. L’idea di molte aziende è quella di affittare spazi per riunioni una tantum e per il resto continuare col lavoro da casa.

Non è solo l’indotto di queste grandi aggregazioni di uffici a preoccupare – e quindi i bar, i ristoranti, le palestre, i negozi di prossimità che si affollavano durante le pause pranzo – ma soprattutto la nuova “flessibilità” che rischia di diventare un boomerang per i lavoratori. Ne parlava ieri su Repubblica Milano, l’architetto ingegnere Carlo Ratti “che da anni lavora sul futuro delle città” e oggi per il World Economic Forum è copresidente del “Future Council” su città e urbanizzazione. I toni farebbero la felicità di Crozza-Fuksas: “È una sorta di pendolare dei continenti”, ci spiegano perché, dopo il lockdown a Boston, sta facendo smart working in giro per l’Europa: “Sono stato in Piemonte, a Parigi, ora su un’isola greca”. Quanto ai contenuti, sono questi: “Con lo smart working, in teoria potresti anche trasferirti a Rocca Canotta e andare a Milano solo due volte alla settimana, ma se ti piace mangiare giapponese, se vuoi vedere gli amici, andare a teatro, a una mostra o a un foam party, chi te lo fa fare? Milano manterrà la sua attrattività, ma la maggiore flessibilità ci porta a capire come trasformare una grande città”. E ancora: “La nuova flessibilità permette di vivere meglio anche lo spazio urbano. Il problema della città del 900 era quello di Fantozzi. Vi ricordate il ragioniere che cerca di salire sul bus e non ci riesce perché tutti prendono lo stesso mezzo nello stesso momento o tutti vanno in vacanza partendo lo stesso giorno alla stessa ora? Ecco, la grande questione sarà capire come, grazie alla flessibilità permessa dalle nuove tecnologie, riusciremo a ridurre i picchi, un po’ come è accaduto con l’indice del contagio. Vale per il traffico, per l’energia, per l’inquinamento”. Varrà anche per i licenziamenti, le riduzioni di paga e dei diritti che sono all’orizzonte? A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca, dice il proverbio. Magari non è vero, però non vorremmo che in un momento così insidioso le decisioni venissero lasciate al mercato, rinviando quella che non è affatto “una questione privata” – lavorare come, dove, quanto – a quando i buoi saranno già scappati e non si potrà che prendere atto di scelte già prese.

 

Stati Uniti. Da impero a Circo Barnum: la realtà ormai ha superato la fantasia

Ammetto di non aver studiato a lungo, ma mi pare di aver capito che l’unica abilità riconosciuta di Kim Kardashian sia usare in modo creativo il cospicuo sedere, oltre ad avere un marito, tale Kanye West, di professione rapper, candidato alla presidenza degli Stati Uniti. Del quale – all’inizio distrattamente, ma sempre più avvinto secondo dopo secondo – ho visto un comizio elettorale in cui promette (tra altre cose, non tutte comprensibili) un milione di dollari a chi concepisce un figlio. Niente male: se aggiungesse uno yacht e una tenuta agricola in Arkansas sarebbe un buon incentivo alla natalità (ci metterei anche un mitra M16, non di peluche). Troppo facile prendersela con mister West, e va detto che la storia americana è piena di questi candidati “indipendenti”, pittoreschi, caricaturali. I più anziani e i più rockettari ricorderanno le numerose candidature di Jello Biafra, cantante dei Dead Kennedy’s (eccellente gruppo punk californiano) che aveva nel suo programma campi da golf nelle prigioni federali e nuove divise per la polizia: da clown. Un dadaista, insomma.

Ora c’è un piccolo problema: che le distanze tra lo sberleffo situazionista e quelli che ci credono veramente si sono assottigliate fino a scomparire, e questo anche per merito di un presidente in carica, Donald Trump, che ogni giorno pone il mondo davanti al dilemma classico: è matto o finge di? Insomma, con quale diritto sghignazziamo davanti a un rapper se a capo del mondo, con la valigetta dell’attacco nucleare, c’è uno che dallo Studio ovale fa pubblicità ai fagioli di cui la figlia è testimonial? O che teorizza le iniezioni di candeggina contro il Covid? O che… il povero Donald è costretto a inventarsene una al giorno, un po’ come qui (in sedicesimo) sono costretti a fare alcuni bei tomi sovranisti che tifano per lui.

Per farla breve – e scusandomi con gli osservatori degli States che si sforzano di raccontarci quell’universo parallelo – bisognerebbe capire come diavolo è successo che l’America sia passata da colosso politico-militar-culturale che “ci ha colonizzato l’inconscio” (cit. Wim Wenders) a una specie di immenso circo con la donna barbuta, il cane che conta fino a otto, il presidente che vuole comprare la Groenlandia, un posto di matti armati fino ai denti.

Sempre casualmente, come per il comizio di Kanye West, si può inciampare nel sito di Turning Point Usa, formazione studentesca di sostegno a Trump, e anche in quel caso bisogna affrontare qualche secondo di spiazzamento: è uno scherzo o dicono sul serio? A parte le solite fregnacce ultra-liberiste (per esempio la maglietta “Le tasse sono un furto”, che potrebbero attecchire anche qui presso i nostri liberisti alle vongole), ci sono cose assai interessanti, come il censimento (nomi, cognomi, foto) dei docenti universitari di tendenze liberal, vere liste di proscrizione e il divertente slogan “Il capitalismo aiuta i poveri”.

C’era un confine, una volta, tra la caricatura e la realtà, e ora pare che il confine sia scomparso, che follia ideologica e grottesco non siano più distinguibili. “Gesù mi ha detto di comprare un fucile mitragliatore” non è più una battuta alla Woody Allen, è quello che dicono (peggio: pensano!) in molti, la metamorfosi del paradosso in realtà è sempre spaventosa, e la percezione diffusa che si ha dell’America oggi è quella di una specie di manicomio a cielo aperto, dove quando si annuncia una pandemia globale la gente si mette in fila per comprarsi un mitra. Fa ridere, ma mica tanto.