’Ndrangheta fino in Svizzera e legami politici: 75 in manette

Nei territori da Lamezia Terme a Vibo Valentia, la cosca Anello di Filadelfia controllava tutto: dalle attività imprenditoriali alle estorsioni, dal traffico di droga e armi al riciclaggio passando per il controllo del voto per le regionali. Non è un caso il nome “Imponimento” che la Dda di Catanzaro ha dato all’operazione antimafia della Guardia di Finanza. Un’inchiesta, coordinata dal procuratore Nicola Gratteri e dall’aggiunto Vincenzo Capomolla assieme alla Procura della Confederazione elvetica di Berna.

Il blitz interforze è scattato prima dell’alba e ha colpito quella che i pm definiscono la “criminalità organizzata internazionale”: 75 arresti in Calabria e in Svizzera dove il boss Rocco Anello faceva arrivare grosse somme di denaro e a trafficare in armi grazie ai referenti in territorio elvetico. Tra i fermati, boss e gregari, ma anche l’ex assessore regionale Francescantonio Stillitani accusato assieme al fratello Emanuele (anche lui fermato) di essere un imprenditore al servizio del clan Anello. Sono 158 gli indagati. La Dda ha sequestrato beni per 169 milioni di euro. Sigilli anche a tre villaggi turistici. Uno di questi era dell’ex assessore regionale Stillitani che con il fratello è accusato di concorso esterno con la ’ndrangheta ed estorsione.

Abbandonata la politica nel 2013, l’esponente delle giunte Chiaravalloti e Scopelliti (centrodestra) era “l’uomo politico di riferimento del sodalizio” al quale Stillitani garantiva denaro e assunzioni in cambio dell’“appoggio in occasione delle competizioni elettorali che lo vedevano candidato attraverso plurimi accordi politico-mafiosi”. Così alle Regionali del 2005. Nell’inchiesta anche i recenti contatti tra gli Anello e la politica. Secondo i pm “si ipotizzava che il candidato al Senato della Repubblica Giuseppe Mangialavori (non indagato), per le elezioni del 4 marzo 2018, attraverso l’architetto Francescantonio Tedesco, avesse ottenuto l’appoggio di Rocco Anello”.

Capaci Bis, quattro ergastoli confermati

Confermati anche in appello i quattro ergastoli inflitti a Salvatore “Salvino” Madonia, Giorgio Pizzo, Cosimo Lo Nigro e Lorenzo Tinnirello, il primo capomafia della famiglia di Resuttana, gli altri tre esponenti della cosca di Brancaccio, accusati di avere partecipato alla strage di Capaci. Per loro il procuratore generale di Caltanissetta Lia Sava aveva chiesto la conferma della massima pena inflitta in primo grado. Confermata dalla Corte di assise di appello di Caltanissetta anche l’assoluzione di Vittorio Tutino, per il quale il pg aveva chiesto la massima pena, già condannato all’ergastolo in appello per la strage di via D’Amelio: è uno dei fedelissimi del boss Giuseppe Graviano che Gaspare Spatuzza accusa di avere rubato insieme a lui la Fiat 126 utilizzata come autobomba.

La sentenza conferma il coinvolgimento di esponenti della cosca di Brancaccio nel trasporto dell’esplosivo, che in un primo tempo erano rimasti fuori dall’inchiesta. Adesso le indagini proseguono per individuare l’esistenza di eventuali mandanti esterni: “In questo giudizio di appello abbiamo ascoltato altri collaboratori di giustizia e abbiamo messo a disposizione delle difese acquisizioni sul cosiddetto doppio cantiere ancora in corso di approfondimento – ha detto il procuratore generale nella requisitoria – la genetista Nicoletta Resta ha ipotizzato la presenza di una donna sul cantiere di Capaci. Per fare i processi ci vogliono elementi di prova certi e il nostro impegno è quello di non fermarsi mai”.

Ferri ricusa tutto il Csm. Palamara non vuole Davigo

Luca Palamara ricusa Piercamillo Davigo. Cosimo Ferri fa molto di più: ricusa tutti (quasi) i consiglieri del Csm: questo proceso disciplinare non s’ha da fare con gli attuali componenti. Risultato: tra ricusati e un legittimo impedimento, del difensore di Palamara, Stefano Guizzi, ieri il processo per lo scandalo nomine, davanti alla sezione disciplinare, è stato aperto e rinviato al 15 settembre. Comincia Palamara: ricusa Davigo, nella lista dei suoi 133 testi: l’ex pm di Roma Stefano Fava gli avrebbe parlato dell’intenzione di fare un esposto al Csm contro il procuratore Pignatone e contro l’aggiunto Ielo, di cui si sarebbe servito, secondo l’accusa, Palamara. Ma Davigo, che era stato invitato da Palamara ad astenersi, è stato secco: “Rispetto ai fatti non ravviso alcun motivo di ricusazione”. Rinvio pure per Ferri. Deputato renziano, toga in aspettativa, poiché viene accusato anche di aver condizionato l’attività del Csm, per dimostrare che non è stato così, spiega al Fatto, deve sentire come testi tutti i consiglieri in carica fino al 9 maggio 2019, quando, di notte, all’hotel Champagne di Roma, con Palamara, Luca Lotti, deputato e imputato a Roma e 5 allora consiglieri, Lepre, Cartoni, Criscuoli, Morlini e Spina (incolpati) pianificavano la nomina del procuratore di Roma e non solo. Quindi, secondo Ferri, il collegio deve andare a casa: non possono giudicarlo né Davigo, né Basile, né Braggion, né Donati (che ieri ha sostituito Gigliotti) né Gigliotti. Ricusata anche una nuova consigliera, Elisabetta Chinaglia, subentrata l’8 dicembre perché avrebbe espresso pre-giudizi in campagna elettorale. Considerato che su 24 consiglieri complessivi, il deputato chiede di sentirne 18, il processo sarebbe paralizzato. E così dovrebbe essere per Ferri, che invocando il diritto alla difesa, chiede al collegio di rivolgersi alla Corte Costituzionale perché la legge non prevede la sospensione.

Attentato Antoci, a Roma i partiti attaccano Fava

“Prendo atto delle sollecitazioni che mi sono arrivate a vergognarmi o a ritenermi indegno… credo che l’antimafia non sia una chiesa e non sia previsto cantare messa, che anche in questa parola così astratta e così complessa ci sia il dovere e la libertà di porsi tutte le domande che servono e pazienza se qualcuno ci resta male”. Claudio Fava, presidente della commissione antimafia siciliana ha concluso così ieri una surreale audizione a Roma davanti alla commissione parlamentare antimafia presieduta da Nicola Morra (M5s).Tema: una vicenda mai del tutto chiarita, quella dell’attentato a Giuseppe Antoci, allora presidente del Parco dei Nebrodi, il 18 maggio 2016.

Audizione surreale tanto da sembrare scritta dal genio di Pirandello o su qualche pagina firmata Camilleri. È la Sicilia. E a Roma è andata in scena la pièce teatrale “Tutti contro Claudio Fava”. Tutti d’accordo dal Pd ai 5Stelle passando per Forza Italia, fino all’ex grillino (ora gruppo Misto) Mario Giarrusso: “Indegno presidente”, ha urlato contro Fava. Poco prima si era saputo dell’archiviazione della nuova indagine avviata dopo la pubblicazione della relazione-Fava sull’attentato Antoci, che nulla chiarisce rispetto a movente e dubbi emersi. “Sebbene le indagini – scrive il gip – non abbiano consentito di risalire agli autori dell’attentato, alle sue modalità, al movente, la conclusione raggiunta dalla commissione, appare preconcetta e non supportata da alcun dato probatorio”. Fava replica: “Linguaggio stravagante e superficiale quello del gip che accusa di elucubrazioni e di illazioni sul coinvolgimento di Antoci nel falso attentato, ma è falso, noi scriviamo che Antoci in ogni caso è vittima”.

Fava poi denuncia pubblicamente tra strepiti e urla di onorevoli e senatori che la Procura di Messina “non ha svolto nessun nuovo atto d’indagine limitandosi a leggere la nostra relazione”. Anche Antoci affronta Fava urlandogli: “Dimettiti”.

“Maxitangente per l’affare Eni in Nigeria”. Chiesti otto anni per Scaroni e Descalzi

Richieste pesanti, anni di carcere e rimborsi miliardari. Dopo due intere giornate di requisitoria, i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro hanno formulato le richieste di pena per gli imputati del processo Eni-Nigeria, accusati a Milano di corruzione internazionale. Ben 8 anni per l’appena riconfermato amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, e per il suo predecessore Paolo Scaroni; 6 anni e 8 mesi per l’intermediario Luigi Bisignani e per due manager Eni, Vincenzo Armanna e Ciro Pagano; 7 anni e 4 mesi per il braccio destro di Descalzi, Roberto Casula. Addirittura 10 anni per l’ex ministro del petrolio nigeriano, Dan Etete.

È la vicenda della concessione dei diritti d’esplorazione del blocco petrolifero Opl 245, il più grande giacimento della Nigeria, assegnata nel 2011 a Eni e Shell in cambio del pagamento di 1 miliardo e 92 milioni di dollari, versati dalla compagnia petrolifera italiana su un conto a Londra del governo africano, ma poi subito girati a Malabu, una società riferibile all’ex ministro Etete, e infine dispersi in una serie di conti di politici, faccendieri, ministri ed ex ministri nigeriani e di alcuni mediatori internazionali, come Bisignani, Gianfranco Falcioni e il russo Ednan Agaev (per gli ultimi due sono stati richiesti 6 anni di reclusione).

Pesanti le richieste in denaro: 900 mila euro ciascuna a Eni e Shell come sanzione, più la confisca di 1 miliardo e 92 milioni di dollari, pari all’intera cifra pagata dalle compagnie per ottenere Opl 245: secondo l’accusa, è una gigantesca tangente, sottratta allo Stato africano e spartita tra politici nigeriani, intermediari e “consulenti”, con qualche “retrocessione” anche a manager Eni. Un caso in cui la mazzetta non è una percentuale, ma l’intera somma dell’affare trattato. Pesanti le richieste di pena (da 6 anni e 8 mesi a 7 anni e 4 mesi) anche per i quattro manager Shell coinvolti nella vicenda e imputati nel processo milanese, che però – a differenza di quelli Eni – sono già tutti usciti dalla compagnia petrolifera anglo-olandese.

A settembre, toccherà agli avvocati di parte civile, che rappresentano lo Stato nigeriano e chiederanno i danni subiti nell’affare, e infine ai difensori dei tredici imputati e delle due compagnie. Eni ha sempre negato le responsabilità proprie e dei propri manager, definendo “inconsistenti” gli argomenti dell’accusa e “prive di qualsiasi fondamento le richieste di condanna”. La compagnia sostiene di aver regolarmente pagato i pattuiti 1,092 miliardi di dollari su un conto del governo nigeriano: “Eni non conosceva, né era tenuta a conoscere l’eventuale destinazione dei fondi successivamente versati a Malabu dal governo nigeriano”.

Genova, la protesta dei tir a passo di lumaca. “Miliardi di danni, la ministra non risponde”

Una colonna di tir che attraversano il centro a passo di lumaca, simbolo del caos sulle autostrade liguri. Così le associazioni imprenditoriali e della logistica, riunite nel comitato ‘Salviamo Genova e la Liguria’, hanno accolto la ministra dei Trasporti Paola De Micheli in visita nel capoluogo per il riavvio dei lavori di ampliamento sul nodo ferroviario cittadino. Le sigle denunciano il crollo dell’economia regionale causato dal Covid e dallo stallo autostradale: “Oltre un miliardo al mese di danni, 40 mila lavoratori in cassa integrazione, -25% di fatturato nella grande distribuzione, -50% in mercati rionali e negozi di vicinato, -75% nel settore florovivaistico”. “È sbagliata la narrazione che la Liguria sia irraggiungibile. I cantieri si stanno risolvendo”, ha dichiarato la ministra al termine dell’incontro in Prefettura con una rappresentanza del comitato. “Siamo arrabbiati e ci sentiamo umiliati. Abbiamo perso traffici, economia e lei ci parla di narrazione. Ha la responsabilità di non aver dato una risposta all’economia ligure, e questo è gravissimo”, è la replica.

I pm: “Regione regalò 1 milione”. Maroni: “È stato tutto regolare”

“Tutto regolare”: contattato dal Fatto, Roberto Maroni non vuole aggiungere altro sul finanziamento da un milione di euro stanziato dalla Regione Lombardia, quando ne era presidente, e destinato alla Lombardia Film Commission. Ottocentomila euro di quei fondi, secondo la Procura di Milano, sono serviti per pagare un immobile a Cormano, ora sede della Fondazione. Quella compravendita adesso però è finita al vaglio dei pm Eugenio Fusco e Stefano Civardi, che vogliono vedere chiaro non solo su tutta l’operazione immobiliare, ma pure sui soldi pubblici erogati. Tanto che ieri i magistrati hanno inviato la Guardia di finanza negli uffici del Pirellone per acquisire, tra gli altri documenti, anche gli atti della delibera con cui nel 2015 la Giunta regionale guidata da Maroni (non indagato) ha stanziato il contributo di un milione di euro. E così le Fiamme gialle tornano nella sede della Regione. C’erano già state per acquisire documenti prima per la questione relativa alla gestione della pandemia, poi nell’ambito di un’indagine sulla fornitura di camici. Ieri una nuova visita, seppur per fatti diversi.

Stavolta l’inchiesta riguarda l’immobile di Cormano. Un acquisto da parte della Lombardia Film Commission che i magistrati definiscono “insensato” e parlano di “ritorni per chi l’ha deciso e attuato”. Per i pm l’operazione era finalizzata al “‘drenaggio’ di risorse che la Regione Lombardia aveva già destinato alla Fondazione e di cui Di Rubba era presidente; e infatti – continuano i magistrati negli atti – Di Rubba e il ‘socio’ Manzoni beneficeranno della quota maggiore”.

Il riferimento è ad Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, il primo amministratore della Lega al Senato, il secondo revisore del gruppo alla Camera. Entrambi sono accusati di peculato e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente. Stessi reati per i quali è stato iscritto anche Michele Scillieri, commercialista nel cui studio nel 2017 è stato domiciliato il movimento “Lega per Salvini premier”.

L’operazione immobiliare a prezzo “gonfiato”

L’operazione immobiliare è piuttosto complessa. La Fondazione infatti nel 2017 acquista questo immobile alle porte di Milano dalla Immobiliare Andromeda srl, società di cui la Procura ritiene essere stato amministratore di fatto Scillieri. Il costo 800 mila euro, pagati anche con i soldi stanziati nel 2015 dalla Regione Lombardia. Denaro che i pm ritengono essere una sorta di “regalo” chiesto e ottenuto in poco più di un mese dalla Fondazione. I magistrati infatti sospettano che quel finanziamento sia stato un escamotage per far arrivare, in qualche modo, i soldi ai commercialisti vicini al Carroccio.

Per i pm però l’immobile è stato comprato a un costo gonfiato. Infatti prima di venderlo alla Lombardia Film Commission, l’Immobiliare Andromeda aveva acquistato quello stesso edificio dalla Paloschi srl, società di cui era liquidatore Luca Sostegni, altro indagato in questa inchiesta. Sostegni è accusato di peculato e di estorsione: secondo i magistrati avrebbe chiesto denaro in cambio del silenzio su ciò che sapeva sulle operazioni immobiliari.

Intercettato a giugno del 2020, al telefono con Scillieri l’uomo “spiegava come non comprendesse la ragione per la quale Di Rubba e Manzoni preferissero per risparmiare ‘pochi soldi’, fare ‘scoperchiare il pentolone, che può fargli danni assurdi’”.

Sostegni stava scappando in Brasile quando mercoledì scorso è stato fermato dagli uomini della Finanza. In un primo interrogatorio ha ricostruito i suoi rapporti con Scillieri. Ma giovedì tornerà davanti ai magistrati.

Le email acquisite e la nomina di Di Rubba

Intanto il lavoro degli inquirenti si concentra su ciò che è stato acquisito ieri in Regione Lombardia. Dagli atti emerge che Di Rubba il 16 novembre 2015 scrisse una email nella quale chiedeva alla Regione proprio un milione di euro e che il 21 dicembre dello stesso anno la Regione gli rispose che lo stanziamento era stato accordato. Tra le carte utili, anche quelle relative alla nomina nel 2014 di Di Rubba (è rimasto in carica nella Fondazione fino al giugno 2018).

Commissioni, ancora liti sui presidenti

Ormai in maggioranza si tratta a oltranza per centrare l’obiettivo: rinnovare le commissioni parlamentari senza rinvii a settembre. E così certificare che, nonostante le fibrillazioni, lo stato di salute dell’alleanza giallorosa è tutto sommato buono. Ma per non cileccare anche la data del 29 luglio, dopo il rinvio del voto della scorsa settimana, occorre fare ancora un po’ di strada. E tra gli alleati c’è chi usa una iperbole che tradisce la difficoltà. “È una partita più difficile di quella portata a casa da Giuseppe Conte in Europa”. Fatte le debite proporzioni (e la tara all’ironia) in effetti riuscire nell’opera di redistribuzione delle presidenze tra Camera e Senato al giro di boa di una legislatura iniziata con una maggioranza diversa da quella attuale, pare impresa titanica. I 5 Stelle si trovano nella scomodissima posizione di dover rinunciare a due caselle (rispetto all’assetto della maggioranza gialloverde che fu) e già questo rende l’operazione non proprio indolore. Ma poi tra gli altri alleati c’è anche la corsa ad accaparrarsi le commissioni ancora a guida leghista ciascuno con le proprie preferenze e ambizioni. Il Pd tanto per cominciare ha necessità di portare a casa la commissione Affari costituzionali al Senato laddove la presidenza analoga di Giuseppe Brescia dei 5 Stelle alla Camera è intoccabile: da questa commissione, nella spola tra i due rami del Parlamento uscirà la nuova legge elettorale che tanti mal di pancia sta creando in questo giorni.

L’altra commissione considerata di prima fascia per importanza è la Bilancio per ovvie ragioni: verrebbe assegnata a Montecitorio ai dem rimanendo confermata a Palazzo Madama ai 5 Stelle. Andando poco più sotto per importanza, la commissione Giustizia rimarrebbe dei pentastellati a Montecitorio mentre spetterebbe a Pietro Grasso di LeU al Senato.

Proprio al Senato restano ancora aperte alcune questioni, questa volta che riguardano Italia Viva. Ai renziani anche qui spettano due presidenze come alla Camera. Dove, in base a un accordo di massima con gli alleati, hanno ipotecato la commissione Finanze e Trasporti (da affidare rispettivamente a Luigi Marattin e Raffaella Paita). E a Palazzo Madama? Volevano la commissione Lavoro su cui i 5 Stelle non mollano e ora puntano sulla commissione Industria, pure questa a guida pentastellata. Per la verità Italia Viva aveva adocchiato pure la commissione Sanità che specie in epoca di emergenza post coronavirus non sarebbe poca cosa: pure qui però c’è l’ostacolo di una candidatura a 5 Stelle. L’alternativa più probabile per accontentare Matteo Renzi potrebbe essere la Affari europei, da abbinare alla presidenza della commissione Cultura.

Ma si tratta ancora perché per dirla con un maggiorente dem di “un gioco a incastri micidiale” attorno alle 28 commissioni complessivamente da rinnovare (14 ai 5 Stelle, 9 al Pd, 4 a Italia Viva e una a LeU). Perché c’è una questione di equilibri e di aree di competenza da presidiare (le commissioni si dividono per importanza ma pure per macrotemi: politico, sociale, economico). E non ultima c’è pure una questione di candidati. Perché nel segreto dell’urna, il gradimento del singolo nominativo rischia di rappresentare una ulteriore incognita per la quadratura del cerchio anche nel caso di accordi che partono blindatissimi.

Nel decreto c’è il regalino per l’aeroporto di Firenze

Per eliminare il vincolo architettonico e ricostruire lo stadio di Firenze, il Pd ha già promesso un emendamento in commissione, mentre per l’ampliamento dell’aeroporto di Peretola voluto da Matteo Renzi e dal Giglio magico ci ha pensato direttamente il governo nel decreto Semplificazione. Un regalino che si cela tra le righe dell’articolo 50 scritto in estremo burocratese: con questa norma il governo estende agli aeroporti il modello di semplificazione che fino a pochi giorni valeva solo per le autorizzazioni dei porti. Secondo il decreto licenziato il 7 luglio dal Consiglio dei ministri, invece, le stesse norme potranno essere applicate anche “ai piani di sviluppo aeroportuali”.

In sintesi, tutta la partita si gioca sulle autorizzazioni: la Vas (Valutazione Ambientale Strategica) che riguarda l’iter del progetto e la Via (Valutazione di Impatto Ambientale) sulle singole opere. Fino a pochi giorni fa, queste due procedure dovevano essere approvate separatamente ma, con il nuovo decreto, per i Piani di sviluppo aeroportuale tutti gli elementi “già valutati in sede di Vas costituiscono dati acquisiti”. Non solo: la stessa Via si conclude con un unico provvedimento integrato. Peccato che la norma sembra scritta apposta per l’aeroporto di Firenze, le cui autorizzazioni negli ultimi anni sono state bocciate dai giudici amministrativi: prima la Vas rigettata dal Tar della Toscana nel 2016 e poi la Via su cui prima i giudici di primo grado e a poi anche il Consiglio di Stato hanno messo una pietra sopra. Con questa norma il progetto della nuova pista da 2.400 metri rinasce come l’araba fenice.

Dopo le elezioni regionali di settembre, infatti, la nuova giunta (al governo sperano targata Pd) non dovrà far ripartire il procedimento e approvare una nuova Vas ma solo la Via, evitando così di portare il dossier in consiglio regionale. Ed è uno snellimento sostanzioso, considerando che per la prima Vas la giunta Rossi ci aveva messo ben cinque anni e che adesso, rispetto al 2015, il peso delle forze politiche è cambiato notevolmente: buona parte del Pd zingarettiano è contrario all’ampliamento dell’aeroporto.

Sempre per velocizzare la procedura, il decreto ha anche ridotto i tempi – da 60 a 45 giorni – per dare modo ai cittadini e a tutti i soggetti interessati di presentare le proprie osservazioni. Non un bel segnale di trasparenza. “Per me l’articolo 50 è una porcata” dice Fabio Zita, del comitato “No aeroporto” che insieme ai comuni della piana fiorentina ha presentato i ricorsi ai giudici amministrativi. “Mi occupo di questa materia da 35 anni e non vedo la necessità di ridurre drasticamente i tempi – continua Zita – Se le opere non si realizzano non è per le procedure ma per colpa della politica”. Secondo gli attivisti, inoltre, c’è un mistero sulla norma perché nella bozza precedente era stata inserita all’articolo 37: l’ampliamento dai porti agli aeroporti però è stata inserita solo nell’ultima versione del decreto e non è chiaro di chi sia questa “manina”.

Nel frattempo, in Toscana gli attivisti del Movimento 5 Stelle, che da anni lottano contro la grande opera, sono sul piede di guerra contro il governo giallorosa. “Questa è una norma pericolosa – dice il consigliere regionale pentastellato, Andrea Quartini – la semplificazione delle procedure non deve diventare un modo per aggirare la salute dei cittadini”. Sulla stessa linea la candidata del M5S alle regionali, Irene Galletti: “Il progetto dell’aeroporto deve essere rifatto da cima a fondo – spiega al Fatto – Altro che Via semplificata. Non può essere una manina renziana a cancellare per decreto le sentenze dei tribunali. Sono certa che i nostri al governo e in Parlamento eliminino questa norma ad personam dal testo finale”.

Da Orbán a Ursula fino a Rutte, vincitori e vinti del vertice

Ci vorrà tempo per capire cosa è successo in questo lungo Consiglio europeo. Il compromesso finale lascia tutti in grado di dire di aver vinto, ma tutti hanno dovuto fare concessioni. Per di più, come ha scritto il Financial Times, ricorrere al deficit federale contro la recessione da Covid “è un risultato storico, ma non necessariamente permanente”. Se però volessimo giocare a “chi ha vinto, chi ha perso”, il quadro è variegato.

Viktor Orbán. Il primo ministro ungherese arrivava a Bruxelles con pessime carte: la maggior parte dei Paesi sembrava volere che i fondi Ue di qui in poi fossero vincolati al rispetto del diritto europeo con cui Orbán è spesso entrato in conflitto; l’ungherese lascia invece il Belgio senza che quella minaccia sia diventata realtà e con la promessa di Angela Merkel di “aiutare l’Ungheria” a uscire dal processo ex articolo 7 (la sospensione dei diritti di adesione per violazione grave e persistente del diritto comunitario) avviato dall’Europarlamento nel 2018. Il partito Fidesz di Orbán porta tanti eletti ai Popolari europei di cui fa parte la Cdu di Merkel.

Merkel. Con la manovra pro-Orbán, che tranquillizza anche la Polonia, la Cancelliera si tiene stretti i Paesi dell’Est, così necessari all’industria tedesca, e contemporaneamente mostra la sua faccia solidale ai Paesi del Sud riuscendo pure a non inimicarsi i cosiddetti “frugali”, finora alleati della Germania. Tutte cambiali che Berlino non mancherà di riscuotere. I problemi veri la Merkel li ha con la destra del suo partito, al momento assai più in sintonia con Rutte che con lei.

Conte. Al di là della portata del piano di ripresa europeo, si porta a casa un serie di cose buone rispetto alla vigilia: 1) Conferma i sussidi e ottiene un aumento dei prestiti (Roma è la prima beneficiaria delle risorse, davanti a Spagna e Francia); 2) la retroattività del Fondo, che potrà pagare interventi avviati con l’inizio dell’emergenza (febbraio 2020) velocizzando l’impiego dei fondi (la farraginosità autorizzativa e la lentezza di spesa è il peggior aspetto del Recovery Fund); 3) si guadagna un ruolo politico nuovo, da capofila dell’asse del Sud.

Macron. La Francia è stata fondamentale per spostare la Germania su posizioni più morbide, ma l’impressione è che il compromesso di ieri sia più tedesco che francese e che Emmanuel Macron non abbia guadagnato capitale politico.

Rutte e gli altri. I cosiddetti “frugali” (Austria, Danimarca, Olanda e Svezia), a cui in questi giorni s’è aggiunta la Finlandia, sono nella situazione dell’Italia, vale a dire che vanno a casa con un bilancio positivo, ma non del tutto: politicamente si sono presi il ruolo che fu della Gran Bretagna, ma senza averne il peso e soprattutto avendo assai più bisogno di Londra del mercato unico (sono tutti Paesi esportatori). L’ammontare di Next Generation Ue è stato sì rivisto al ribasso, come chiedevano, ma soprattutto sui programmi di spesa a loro più cari: ricerca e ambiente su tutti. Zero risultati anche sul piano del “rispetto dello Stato di diritto” (vedi Orbán). Strappano però “sconti” enormi sui contributi da versare a Bruxelles (attenuando, in prospettiva, l’effetto netto del Recovery per il Sud Europa) e hanno ottenuto che sia il Consiglio – e non la Commissione – ad avere un ruolo centrale sulle “condizioni” per l’esborso dei soldi. I governo “frugali” ora dovranno vedersela coi loro Parlamenti.

Polonia. Insieme al resto dell’Est può sorridere quanto allo “Stato di diritto”, ma si vede ridurre da 30 a 10 milioni il Fondo per la transizione ecologica giusta, che era in larga parte destinato a lei.

commissione. Sembra la grande sconfitta della partita. Il governi ne hanno ridimensionato il ruolo, e cancellato gran parte dei programmi su “green”, “digitale” e “salute” su cui puntava Ursula Von Der Leyen, che infatti si è assai risentita (“è deprimente”). Anche le indicazioni dell’Europarlamento (risorse adeguate, rispetto dello Stato di diritto etc.) non sono state granché tenute in considerazione.