Ci vorrà tempo per capire cosa è successo in questo lungo Consiglio europeo. Il compromesso finale lascia tutti in grado di dire di aver vinto, ma tutti hanno dovuto fare concessioni. Per di più, come ha scritto il Financial Times, ricorrere al deficit federale contro la recessione da Covid “è un risultato storico, ma non necessariamente permanente”. Se però volessimo giocare a “chi ha vinto, chi ha perso”, il quadro è variegato.
Viktor Orbán. Il primo ministro ungherese arrivava a Bruxelles con pessime carte: la maggior parte dei Paesi sembrava volere che i fondi Ue di qui in poi fossero vincolati al rispetto del diritto europeo con cui Orbán è spesso entrato in conflitto; l’ungherese lascia invece il Belgio senza che quella minaccia sia diventata realtà e con la promessa di Angela Merkel di “aiutare l’Ungheria” a uscire dal processo ex articolo 7 (la sospensione dei diritti di adesione per violazione grave e persistente del diritto comunitario) avviato dall’Europarlamento nel 2018. Il partito Fidesz di Orbán porta tanti eletti ai Popolari europei di cui fa parte la Cdu di Merkel.
Merkel. Con la manovra pro-Orbán, che tranquillizza anche la Polonia, la Cancelliera si tiene stretti i Paesi dell’Est, così necessari all’industria tedesca, e contemporaneamente mostra la sua faccia solidale ai Paesi del Sud riuscendo pure a non inimicarsi i cosiddetti “frugali”, finora alleati della Germania. Tutte cambiali che Berlino non mancherà di riscuotere. I problemi veri la Merkel li ha con la destra del suo partito, al momento assai più in sintonia con Rutte che con lei.
Conte. Al di là della portata del piano di ripresa europeo, si porta a casa un serie di cose buone rispetto alla vigilia: 1) Conferma i sussidi e ottiene un aumento dei prestiti (Roma è la prima beneficiaria delle risorse, davanti a Spagna e Francia); 2) la retroattività del Fondo, che potrà pagare interventi avviati con l’inizio dell’emergenza (febbraio 2020) velocizzando l’impiego dei fondi (la farraginosità autorizzativa e la lentezza di spesa è il peggior aspetto del Recovery Fund); 3) si guadagna un ruolo politico nuovo, da capofila dell’asse del Sud.
Macron. La Francia è stata fondamentale per spostare la Germania su posizioni più morbide, ma l’impressione è che il compromesso di ieri sia più tedesco che francese e che Emmanuel Macron non abbia guadagnato capitale politico.
Rutte e gli altri. I cosiddetti “frugali” (Austria, Danimarca, Olanda e Svezia), a cui in questi giorni s’è aggiunta la Finlandia, sono nella situazione dell’Italia, vale a dire che vanno a casa con un bilancio positivo, ma non del tutto: politicamente si sono presi il ruolo che fu della Gran Bretagna, ma senza averne il peso e soprattutto avendo assai più bisogno di Londra del mercato unico (sono tutti Paesi esportatori). L’ammontare di Next Generation Ue è stato sì rivisto al ribasso, come chiedevano, ma soprattutto sui programmi di spesa a loro più cari: ricerca e ambiente su tutti. Zero risultati anche sul piano del “rispetto dello Stato di diritto” (vedi Orbán). Strappano però “sconti” enormi sui contributi da versare a Bruxelles (attenuando, in prospettiva, l’effetto netto del Recovery per il Sud Europa) e hanno ottenuto che sia il Consiglio – e non la Commissione – ad avere un ruolo centrale sulle “condizioni” per l’esborso dei soldi. I governo “frugali” ora dovranno vedersela coi loro Parlamenti.
Polonia. Insieme al resto dell’Est può sorridere quanto allo “Stato di diritto”, ma si vede ridurre da 30 a 10 milioni il Fondo per la transizione ecologica giusta, che era in larga parte destinato a lei.
commissione. Sembra la grande sconfitta della partita. Il governi ne hanno ridimensionato il ruolo, e cancellato gran parte dei programmi su “green”, “digitale” e “salute” su cui puntava Ursula Von Der Leyen, che infatti si è assai risentita (“è deprimente”). Anche le indicazioni dell’Europarlamento (risorse adeguate, rispetto dello Stato di diritto etc.) non sono state granché tenute in considerazione.