Dalla svolta di Angela al discorso di Giuseppe che spacca i “nordisti”

Il vertice europeo tra i più lunghi della storia, non è cominciato il 17 luglio, ma agli inizi di marzo quando la pandemia da Covid è diventata il dramma che conosciamo. Allora la parola chiave non era Recovery fund, ma Coronabond, gli eurobond legati all’emergenza da Coronavirus.

18.3, “Straordinari”. “A una crisi straordinaria serve una risposta con strumenti straordinari e stiamo discutendo anche di Coronabond”, dice il commissario europeo dell’Italia, Paolo Gentiloni. Due giorni dopo, la Commissione europea mette in mora il Patto di stabilità lasciando liberi i Paesi membri di fare debito.

22.3, falchi più morbidi Isabel Schnabel, rappresentante tedesca nell’esecutivo della Bce, dice “sì” ai Coronabond, segno che una parte dell’establishment tedesco coglie la gravità della situazione.

25.3, Lagarde a ruota Se lo ha detto la Schnabel non può non dirlo anche la presidente della Bce, Christine Lagarde: “Sì ai Coronabond”.

25.3, Conte e gli 8 La situazione è matura per una iniziativa più esplicita e l’Italia insieme ai leader di Francia, Spagna, Portogallo, Slovenia, Grecia, Irlanda, Belgio, Lussemburgo scrive una lettera per chiedere al vertice europeo del giorno dopo, la creazione dei Coronabond.

26.3, Rubiconi Austria e Olanda dicono subito di no: “Respingiamo una mutualizzazione generalizzata dei debiti”, dice il cancelliere austriaco Sebastian Kurz seguito dal premier olandese Rutte, che cogliendo la svolta dichiara: “Siamo contrari ai coronabond, sarebbe come attraversare il Rubicone”.

26.3, la Merkel nicchia Nonostante la Schnabel, Angela Merkel è ancora cauta e in questa data spiega che la Germania, “preferisce il Mes”. Il leader della Spd, Walter Borjans, invece si esprime a favore dei Coronabond.

5.4, i due commissari Gentiloni e Breton, commissari europei d’Italia e Francia, propongono “un fondo europeo espressamente concepito per emettere obbligazioni a lungo termine”.

7.4, Vdl si muove La presidente della Commissione Von der Leyen mette in campo l’idea che si possa usare il bilancio della Ue 2021-2027 la cui definizione si è arenata con la presidenza finlandese: “Attraverso il bilancio di 7 anni possiamo fare leva per la somma di cui abbiamo bisogno per reagire al Coronavirus”.

10.4, eppur si muove Nel testo delle conclusioni dell’Eurogruppo del 10 aprile non compare alcun riferimento ai titoli di debito comune, ma l’allusione a “strumenti innovativi di finanziamento” nel punto che riguarda il Recovery Fund, basta al ministro Roberto Gualtieri per dire che si tratta di un primo successo.

15.4, Strasburgo approva L’Europarlamento approva l’ipotesi di un pacchetto per la ripresa finanziato anche da Recovery bond garantiti dal bilancio Ue: il voto è 395 si, 171 contrari e 128 astenuti. La destra italiana vota contro.

20.4, la Spagna perpetua La proposta spagnola del 20 aprile è la più ambiziosa: un Recovery Fund di circa 1.500 miliardi finanziato attraverso debito perpetuo dei Paesi dell’Ue assegnato tramite trasferimenti e non come debito.

21.4, Michel ci sta “La risposta esauriente alla crisi economica provocata dal coronavirus include il Recovery Fund. Suggerisco di concordare di lavorare per istituire tale fondo il più presto possibile”. Lo dice il presidente Ue, Charles Michel. Le prime indiscrezioni dicono che la Commissione sta pensando a un fondo da 300 miliardi.

23.4, i fondi perduti Conte, al vertice europeo, vista la situazione più favorevole, pone il problema di garantire “prestiti a fondo perduto per assicurare una risposta simmetrica a uno choc simmetrico”.

23.4, prime decisioni “La Commissione lavorerà in questi giorni per presentare già il prossimo 6 maggio un Recovery Fund di ampiezza adeguata” è la conclusione del vertice.

18.5, la svolta Germania e Francia sono d’accordo “su un piano temporaneo da 500 miliardi di euro che vengano dalle spese del bilancio dell’Ue, quindi non prestiti, a disposizione delle regioni e dei settori più colpiti dalla pandemia”. È quanto annunciano, dopo un bilaterale, Merkel e Macron. Ecco la svolta europea, il motore franco-tedesco, che come temeva Rutte, attraversa il “Rubicone”.

23.5, frugali contrari Austria, Olanda, Danimarca e Svezia replicano con un Recovery fund “temporaneo, una tantum” e limitato a due anni, senza “alcuna mutualizzazione del debito”. Posizione che terranno fino al 20 luglio.

27.5, ecco il Recovery La Commissione europea fa la sua proposta: 750 miliardi, finanziati emettendo debito da rimborsare entro il 2058 anche con tasse proprie. All’Italia saranno riservati circa 173 miliardi, 82 in aiuti e 91 in prestiti (come si vedrà, alla fine saranno di più). Paolo Gentiloni: “Per la prima volta la Commissione andrà a finanziarsi sui mercati”

19.6, ultimo miglio Verso il vertice europeo del 19 giugno, la Merkel conferma la disponibilità tedesca, ma i frugali alzano ancora di più il loro muro. Il summit è quindi interlocutorio rinviando tutto al 17-18 luglio in presenza fisica. Alla vigilia, Mark Rutte dichiara: “Vedo la possibilità di un accordo a meno del 50%”.

Conte dopo il vertice Dopo quattro giorni, la soddisfazione di Conte è evidente. Chi ha parlato con il premier sa che la svolta, a suo avviso, si è verificata dopo il discorso della “dignità dell’Italia” di domenica notte. Conte capisce di “aver spaccato i nordici”, con la premier danese, Mette Frederiksen e poi quella finlandese, Sanna Marin, che lo avvicinano per assicurare che “non sono contro l’Italia”. A quel punto l’austriaco Kurz e Mark Rutte, “rimangono soli”. Conte però non si ferma e fa modificare il documento sulla “governance” in termini più favorevoli all’Italia, “piegando il braccio” a chi voleva piegarlo all’Italia. Conte nelle trattative sembra divertirsi, anche quando nota che “Rutte è molto abile e astuto, attentissimo ai dettagli” o che la Merkel “pur stravolta, è una macchina da guerra in grado di stare fino alle 3 di notte a parlare senza mollare”.

Per il futuro, il premier sa che il carciofo dovrà essere sfogliato un po’ alla volta. Nei prestiti ottenuti, intanto, la differenza in più è esattamente identica ai fondi ottenibili dal Mes e questo dovrebbe far capire quali saranno le mosse del governo. Intanto a Palazzo Chigi ci sarà la “cabina di regia” per preparare un piano per settembre. La vera partita, come cioè spendere i soldi, inizia adesso.

Ora Conte può dire no al Pd sul fondo salva-Stati

Quello che non ti uccide ti fortifica, sosteneva un tedesco. E di certo oggi l’italianissimo Giuseppe Conte è molto più forte, dopo la maratona al tavolo europeo da cui poteva uscire devastato e invece no, è andata molto diversamente. Al punto che il presidente del Consiglio è pronto a dire apertamente no al Pd che torna a invocare compatto il Mes, con il puntuale sostegno di Confindustria (“Ora serve più che mai, hanno tagliato fondi per la ricerca”). Ma i 5Stelle fanno di nuovo muro, e Conte ha voglia di accontentarli: perché non ha mai creduto nel fondo salva Stati, e perché ha strappato alla Ue 36 miliardi di prestiti in più, cioè l’ammontare del Mes, come ricorda la viceministra all’Economia Laura Castelli: “Quei 36 miliardi sono più che una coincidenza”. D’altronde, dicono fonti di governo vicine al premier, “riceveremo già 120 miliardi di prestiti, non possiamo indebitarci all’infinito”.

Nell’attesa, oggi Conte potrebbe sfruttare il vento che tira dalla sua parte, convocando un Consiglio dei ministri per preparare la richiesta al Parlamento di un nuovo scostamento di bilancio da 20 miliardi, fondamentali in attesa dei miliardi del Recovery Fund. Può accelerare l’avvocato, che oggi riferirà in Parlamento sul Consiglio Ue: ieri quasi blindato da Sergio Mattarella, che lo ha ricevuto al Quirinale e poi ha fatto trapelare “apprezzamento e soddisfazione per l’esito del Consiglio europeo”. Invece da Palazzo Chigi diffondono tabelle da cui emerge come l’Italia sarà il Paese che riceverà di gran lunga più fondi dalla Ue, e fanno notare il post dell’estremista di destra olandese Geert Wilders, durissimo con il premier Mark Rutte: “Conte è molto soddisfatto, grazie alle ginocchia deboli di Rutte riceverà 82 milioni dei nostri soldi mentre gli italiani non pagano le tasse”. Ma al di là delle sciocchezze di Wilders e dei sorrisi restano i nodi. E il primo rimane il Pd che da 48 ore chiede a una sola voce il fondo salva stati, per il fastidio dei 5Stelle. Consapevoli che ora bisognerà discutere seriamente della grana, alimentata dalla voglia dei governatori uscenti dem di promettere risorse per la sanità in vista delle Regionali. Nel frattempo però bisognerà ragionare anche, e in fretta, di come utilizzare i miliardi del Recovery Fund. Il ministro agli Affari europei, il dem Enzo Amendola, lo dice a Sky Tg24: “La partecipazione dell’opposizione alla programmazione di come investire i fondi sarà importantissima”.

Ma i giallorosa devono innanzitutto organizzarsi tra loro, perché il tempo è poco (i progetti per investire i soldi del Recovery vanno presentati alla Ue a metà ottobre). “Serve una cabina di regia” insistono i 5Stelle, che qualche sera fa hanno tenuto a Palazzo Chigi una riunione sul tema. Mentre Conte promette “una task force” che gestirà i progetti per gli investimenti. “Il presidente – dicono da Chigi – si è impegnato con i leader europei garantendo che l’Italia non sprecherà queste risorse, ci ha messo la faccia”. Sempre lui, l’avvocato, fortissimo anche nel M5S. “Conte capo politico? Perché no, lo stimo molto” dice l’europarlamentare Laura Ferrara ad Agorà. E non è affatto l’unica a pensarla così, dentro i 5Stelle.

I rosiconi Salvini&C.: per loro in Europa non è successo nulla

Dall’Italia “all’angolo” (copyright Repubblica) all’Italia “fregata”, è un attimo. Lo spazio di 24 ore: le stesse in cui Giuseppe Conte porta a casa da Bruxelles 209 miliardi, 82 di sussidi e 127 di prestiti. Ben 36 in più rispetto alla proposta originaria della Commissione. Ma, leggendo mezza stampa italiana e ascoltando le dichiarazioni di Salvini&C., verrebbe da farsi un’idea opposta a proposito del lungo negoziato andato in scena a Bruxelles, come se Conte fosse stato rimpatriato con foglio di via dopo averle “prese” sonoramente dal Frugale olandese Rutte.

La prima sintesi brutale è proprio di Salvini che lascia per un giorno la spiaggia e di mattina si presenta incravattato alla Camera insieme all’economista Alberto Bagnai: “È una super fregatura”. L’introduzione, forse ispirata ai fasti del Papeete, è molto sobria: “È stata un’eurosbornia”. Poi l’affondo: “È una resa mani e piedi alla Commissione, non c’è nessun regalo”, dice con fermezza.

Ma il leader della Lega non si ferma qui: quello che è stato approvato è “un Super Mes”. Qualunque cosa voglia dire. Salvini in testa ha una sola parola che ripete a macchinetta: “Prestito, prestito, prestito”. Che, ovviamente, “andrà restituito” a prezzo di “tagli e sacrifici”, ovvero “l’eliminazione di Quota 100” e una nuova “tassa sulla casa”. Ma – conclude Salvini, che non mette mai limiti alla provvidenza – “non lo permetteremo: la Lega sarà il santo protettore degli italiani”.

Al suo fianco il responsabile economico della Lega Bagnai che per tutta la giornata cannoneggia il governo, dipingendo Conte come il nuovo Leviatano che affama il popolo: “È una crudeltà nei confronti degli italiani – spiega – così si illudono che arriveranno 750 miliardi”. È lo stesso Bagnai che a metà maggio parlava, per la partita europea, di “somme irrisorie”, nella migliore delle ipotesi “30 miliardi per tre anni a partire dal prossimo” e comunque “non più di 100”, o è un omonimo? No, è proprio lui. A giugno, a Sono le Venti, Bagnai era lapidario: “Quando l’Europa inizierà a fare debito comune, lo ammetterò”. Ora che è successo, il senatore leghista non riesce a farsi una ragione dei 209 miliardi portati a casa dal governo: “Non è chiaro quanti soldi andranno all’Italia”, ripete smarrito per i corridoi di Palazzo Madama.

La stessa tesi era già stata anticipata in mattinata sui giornali vicini alla Lega. La Verità titola sul “governo da manicomio” e poi, più in piccolo, ammette i soldi in arrivo, ma con “un bel guinzaglio”. Libero invece, non tenta nemmeno la mediazione: “Vince l’Olanda. Giuseppe si è fatto fregare, diritto di veto sui soldi all’Italia”. Poi c’è la versione secondo cui sì, è una vittoria per l’Italia, ma il merito non è certo di Conte ma di Francia e Germania. In prima pagina su Repubblica campeggiano le pagelle: “Merkel e Conte battono Rutte”. E invece no, perché a pagina 4, il titolo diventa: “Vince l’asse tra Berlino e Parigi”. E Conte? Solo “un buon risultato”. Spassoso invece il titolo del Giornale di casa Berlusconi che, pur di non riconoscere i meriti del premier, arriva a “riabilitare” l’ex “culona” (copyright B.) Merkel e Macron che “salvano” addirittura l’Italia. Facciamo loro una statua in Largo Chigi. Probabilmente, in serata, il direttore non aveva fatto in tempo a sentire Berlusconi che all’ora di pranzo, ieri, sposava invece la linea del governo: “Accordo positivo per l’Italia”. Del resto, il leader di Forza Italia è divenuto ormai “opposizione responsabile”. Nel centrodestra, tre leader per tre posizioni diverse sul Recovery Fund: Salvini attacca a brutto muso, Berlusconi festeggia e Giorgia Meloni sta nel mezzo: “Conte è caduto in piedi, ma poteva andare meglio”. Un successo, quello del governo, che invece viene urlato ai quattro venti persino dai renziani: “Passaggio storico, il premier ha lavorato bene”, dice Matteo Renzi. Ma ad una condizione: “Adesso vanno spesi bene”.

Italia beneficiaria netta dell’Ue. Cifre e condizioni dell’accordo

L’accordo al Consiglio europeo è stato raggiunto alle 5.30 del mattino, annunciato dal presidente Charles Michel. Il risultato è in primis simbolico: per la prima volta l’Unione sarà autorizzata a contrarre prestiti sui mercati per finanziare spese comuni, o meglio aiuti ai Paesi per far fronte alla crisi innescata dal Covid. Il vertice iniziato venerdì e finito all’alba di ieri (il più lungo della storia europea) ha visto ridimensionare le risorse finali, ma non per l’Italia, che evita anche il potere di veto in mano ai singoli Paesi. Il Consiglio europeo, cioè i governi, rafforza il suo ruolo a scapito della Commissione – vera sconfitta della partita – mentre i Paesi “frugali” ottengono altri sconti sul bilancio Ue. Restano alcuni nodi, a partire dai tempi di erogazione dei fondi, non brevi.

I soldi. Confermati i 750 miliardi del Recovery fund, che si chiama Next generation Ue: 390 miliardi di sussidi e 360 miliardi di prestiti. I primi sono sensibilmente calati rispetto ai 500 miliardi proposti da Berlino e Parigi a maggio. Il cuore del piano è il Recovery and Resilience Facility (Rrf), che sale da 310 a 312 miliardi, mentre la componente prestiti aumenta di 110 miliardi. L’Italia – in base alla proposta della Commissione – partiva da 85 miliardi di sussidi e 90 di prestiti: è riuscita – stando ai calcoli del governo – a mantenere invariati i primi e a far salire i secondi a 127 miliardi. Se le cifre saranno confermate, il beneficio netto della quota sussidi per l’Italia sarà intorno ai 25 miliardi, trasformando Roma da contributore netto a beneficiario netto del bilancio Ue. Il risparmio sui prestiti è dato invece dai tassi bassi e dalle lunghe scadenze.

I tempi. Il meccanismo si aggancia al budget europeo 2021-2017 (che vale 1.074 miliardi). I soldi andranno “impegnati” entro il 2023 (il 70% entro il 2022) e i pagamenti “entro il 2026”. I soldi vanno tutti rimborsati entro il 2058. Il vero problema è che non arriveranno subito, il grosso effettivo non prima del 2023. L’intesa però prevede un anticipo del 10% delle somme nel 2021 (per l’Italia circa 15-20 miliardi). Altro vantaggio: ammesse anche le spese retroattive sostenute dagli Stati a partire da febbraio 2020.

In vincoli. I soldi saranno erogati in base ai “Recovery plan triennali” dei singoli Paesi: li approverà il Consiglio europeo, cioè i governi, a maggioranza qualificata, su proposta della Commissione. Che a sua volta verifica il rispetto puntuale dei target per sbloccare i pagamenti sulla base dei tecnici dei ministeri finanziari dei 27 Paesi (cioè sempre i governi) che si esprimeranno “per consenso”. I Paesi “frugali” volevano anche un potere di veto. Il compromesso è il “freno di emergenza”: uno Stato membro può deferirne un altro in caso di “gravi scostamenti dai target” al Consiglio Ue che avrà tre mesi per discuterne “esaustivamente”. La parola finale spetta alla Commissione, ma il giudizio del Consiglio non si potrà eludere e nel frattempo i pagamenti sono bloccati. I target sono vincolati al rispetto delle “raccomandazioni” che ogni anno l’Ue invia ai Paesi. Quelle per l’Italia, nel 2019 auspicavano una riduzione del debito/Pil (una stretta fiscale).

La scure. La perdita di 110 miliardi di sussidi è tutta a carico dei progetti specifici che si aggiungevano ai bilancio Ue (passano da 190 a 77 miliardi): il fondo per aiutare le imprese in difficoltà viene azzerato; la ricerca (Horizon, di cui beneficiano soprattutto i Paesi del Nord) perde il 60% delle risorse; la salute il 100%; il fondo per la transizione ecologica l’80%; è stato cancellato anche lo strumento di “vicinato, sviluppo e cooperazione internazionale”; tagli anche a digitale e coesione. In pratica i governi hanno cancellato il programma di lavoro della Commissione. Von der Leyen ha definito la cosa “deplorevole”.

I regali. Per ottenere l’ok, ai Paesi “frugali” sono stati confermati e aumentati (tranne che per la Germania) i rebates gli sconti sul bilancio: Svezia (+62%); Danimarca (+120%); Austria (+274%) e Olanda (+25%), che però si vede alzare dal 20 al 25% la quota dei dazi doganali che riscuote per conto dell’Ue. A conti fatti uno sconto di 26 miliardi in 7 anni. I Paesi come Ungheria e Polonia ottengono invece la rinuncia a qualsiasi vera subordinazione dei fondi al rispetto dello “Stato di diritto”.

Ricoveri Fund

Un’ondata di suicidi a catena, assembramenti nelle terapie intensive (di nuovo piene, ma stavolta per fegati rosicchiati) e corse verso i ponti e i viadotti più alti viene segnalata nelle migliori redazioni. Sono quelli che l’avevano detto.

“Conte pronto a svendere l’Italia. Vuole ricorrere al Mes, una trappola che ci consegnerà alla Troika” (Verità, 26.3).

“Inizia il dopo Conte” ( Giornale, 4.6).

“Il governo punta al Mes. Lo chiederà a luglio con Spagna e Portogallo” (Repubblica,14.6).

“Conte prepara il sì al Mes” (Messaggero, 20.6).

“L’Europa fa cucù a Giuseppi” (Verità, 20.6).

“L’Ue sbugiarda Conte millantatore” (Giornale, 20.6).

“Conte pensava di avere già in tasca 200 miliardi. Peccato che mezzo continente lo detesti: debole e indebitato. I soldi ce li daranno con l’elastico” (Pietro Senaldi, Libero, 21.6).

“Il gelo Merkel-Conte” (Corriere della Sera, 27.6).

“Scontro Merkel-Conte” (Messaggero, 27.6).

“Il governo e la sindrome di Rumor. La strategia del rinvio sistematico” (Marcello Sorgi, Stampa, 3.7).

“Conte inizia il suo tour in Europa rimediando solo porte in faccia” (Verità, 9.7).

“Il principio di realtà rifiutato”, “Conte si sta appalesando come uno dei più straordinari illusionisti della nostra storia. Ipnotizzata la sua maggioranza, annuncia, dice, si contraddice, rinvia alla fine poi ricomincia riportandoci al punto di partenza” (Paolo Mieli, Corriere della Sera, 10.7).

“Giuseppi punta tutto sul Recovery Fund, ma Merkel gliel’ha già smontato. Saranno 500 miliardi e non 750. Germania e Olanda gongolano” (Verità, 10.7).

“Accattonaggio europeo. Conte chiede l’elemosina. Col cappello in mano” (Libero, 14.7).

“Una stagione al tramonto”, “Nell’ottobre 2011 un episodio ‘umiliante’ segnalò la perdita di credibilità di Silvio Berlusconi e del suo governo in Europa… I sorrisi ironici che Merkel e Sarkozy si scambiarono, seguiti dalle risate in sala, produssero sconcerto in Italia… Berlusconi fu indotto a dimettersi… A Berlino è accaduto qualcosa che sembra suggerire una certa analogia con quel lontano episodio… al termine del colloquio tra Merkel e Conte… Nessun sorrisetto, ma sembra prevalere di nuovo la sfiducia verso chi governa in Italia… la diffidenza e il sospetto… L’assetto politico di Roma suscita crescenti dubbi tra i nostri partner… Autostrade può essere l’incidente su cui il governo inciampa. Una stagione politica si sta concludendo… L’esaurimento del Conte2 è sotto gli occhi di chiunque voglia vedere” (Stefano Folli, Repubblica, 15.7).

“Sul ring europeo con le mani legate”, “L’Italia non potrebbe arrivare peggio preparata al vertice europeo… Governo e classe politica hanno fatto il possibile per danneggiare le nostre capacità di negoziare da una posizione di credibilità… La gran confusione sul Mes non ha migliorato la nostra attendibilità… La debolezza politica di Conte è un altro elemento di vulnerabilità per l’Italia. Qualsiasi impegno che il premier potrà pronunciare sarà sempre visto col beneficio del dubbio sulla durata del governo… Il sovranismo economico riscoperto da Conte è stato, forse, l’errore più grave di tutti. Alla Merkel che suggeriva di prendere in considerazione il Mes, il nostro premier ha risposto: i conti in Italia li faccio io. Sbagliato… È stato proprio questo atteggiamento che ha spinto tedeschi e francesi, che pure avevano proposto il Recovery Fund, a dare credito alla richiesta dei ‘frugali’ di lasciare ai governi, e non alla Commissione, l’esercizio della condizionalità sull’elargizione dei fondi” (Andrea Bonanni, Repubblica, 17.7).

“Ue, l’Italia all’angolo”, “Processo all’Italia. L’Olanda guida l’accusa: ‘Non ci fidiamo più’” (Repubblica, 18.7).

“Conte Dracula. In Europa rischiamo di restare a secco”, “A questo governo i soldi dell’Europa fanno schifo” (Alessandro Sallusti, Giornale, 18.7).

“L’Ue non dà i soldi perché non si fida di Conte. Voi al suo posto cosa fareste? Spaventano le politiche dei grillini: nazionalizzazioni e assistenzialismo a pioggia” (Libero, 18.7).

“La Merkel ci usa per giocare la sua partita. Viene descritta come la nostra paladina, ci concederà poche briciole” (Claudio Antonelli, Verità, 18.7).

“Cosa abbiamo fatto per meritarci questo? Dopo il Cazzaro verde, abbiamo il Cazzaro con la pochette! In pratica l’Ue ci ripresterebbe una parte del nostro contributo al budget Ue (15 mld l’anno)… per evitare il crack, Conte sarà costretto a chiedere all’Ue un prestito. E a quel punto l’Italia ha la troika in casa. Una vittoria di Pirro che il Conte Casalino proverà a rivenderla come un trionfo… (per finire nella merda)” (Dagospia, 20.7).

“Conte viene gonfiato come una zampogna a Bruxelles” (Dagospia, 20.7).

“Grazie per gli spicci. Dopo aver calato le braghe davanti ai ‘frugali’, Conte esulta” (Dagospia, 21.7).

“Conte si fa fregare: invece di avere aiuti dall’Ue otterrà altri prestiti” (Libero, 21.7).

“Merkel e Macron salvano l’Italia. I soldi arrivano (200 miliardi), ma non è merito del governo: decisive le posizioni di Francia e Germania” (Alessandro Sallusti,Giornale, 21.7).

Dai, su, non fate così: andrà peggio la prossima volta.

“Non è un mestiere per algoritmi, il nostro”. Per rilanciare il settore, “Pillole di curiosità”

Segnali di rinascita dopo la lunga primavera invertita di senso. Impossibilitata ai seminari tecnici “in presenza”, la Uem (scuola per librai Umberto e Elisabetta Mauri) ha lanciato le “Pillole per librai curiosi”. Sei webinar, ossia lezioni in videoconferenza e gratuite sulle strategie da adottare per rilanciare un settore così complesso.

Tra i temi affrontati in questo ciclo di incontri virtuali, iniziato a fine maggio e conclusosi da poco, ricordiamo il volto dell’editoria italiana, la galassia dei tascabili, il servizio al cliente e la gestione economica e finanziaria delle librerie. “Abbiamo avuto quasi 600 iscritti ai corsi. Riscontri, quindi, molto positivi, anche se il confronto di persona, la normalità è un’altra cosa”, racconta Romano Montroni, docente della Uem e di certo tra i più conosciuti addetti ai lavori della nostra penisola (e non solo). Bolognese, classe 1939, è libraio da quasi sessant’anni, ne ha formati a centinaia e ha via via conosciuto un numero inestimabile di “romanzieri e poeti, editori, librai e magazzinieri, studenti e professori, cantanti e musicisti, politici e scienziati, professori e intellettuali, giornalisti e critici, comici e attori”. No, il suo non è un mestiere per algoritmi e oggi occorre più che mai uno “slancio per ricominciare”, come si intitolava il primo webinar.

“Io ho sempre pensato, anche se viviamo in un secolo diverso, che sia la qualità delle persone che fa la qualità del servizio, che a sua volta genera quella dell’assortimento. Quelli che hanno mostrato un atteggiamento positivo e hanno saputo mantenere un’anima, un’atmosfera pure sotto il lockdown, non l’hanno nemmeno avvertita la crisi. Ma purtroppo non tutti i librai possiedono e coltivano questa predisposizione, questa motivazione incrollabile, questa vivacità nel fare quotidiano, che si trasmette all’utenza”. Saper stare sul mercato o soccombere ad Amazon e alla grande distribuzione organizzata. “È come con gli skipper. Ci sono quelli bravi, che vanno bene anche con poco vento, e gli altri che aspettano il vento forte per uscire dai porti. I librai devono nutrire l’atteggiamento dei primi”. Anche perché “il nodo è sempre lo stesso: siamo un Paese in cui il 40 per cento delle famiglie non ha un libro in casa e nulla è cambiato a marzo o ad aprile. La lettura non è un fatto occasionale, o di segregazione domestica. È un preciso orientamento che va indicato ai cittadini, a cominciare dalle scuole dell’obbligo”. Un errore di impostazione, un difetto di sistema rinfocolato dalla pandemia: “Perché non hanno lasciato aperte le librerie nei mesi della quarantena? – conclude Montroni –. Vendono cibo per la mente. Poteva essere un modo per invogliare alla lettura di massa”.

Rubino, Morgan, Noemi & C. In mare per cantare (ancora)

“L’altra notte sono stato graziato”. Se l’è vista brutta, Renzo Rubino. “Sapevo di sbagliare, ma l’istinto primario non è stato di salvare la mia pelle, bensì lei, come se fosse una figlia”. Lei: ogni barca ha un’anima femminile, anche se il nome scritto a poppa è Tramari, ed è un gozzo di nove metri. “Tramari, perché l’approdo di questa avventura è tra il Mar Piccolo e il Mar Grande di Taranto”. Prima di arrivare sano e salvo in porto, il cantautore aveva navigato lungo ottocento chilometri di costa pugliese, con una tappa-chiave a Polignano.

“Ed è stato proprio poche ore dopo, durante il trasferimento dalla città di Modugno che, nel buio, si è alzato il maestrale. Le onde si sono ingrossate e il motore di Tramari ha subìto un’avaria. Mi sono spaventato lì fuori da solo. Ho temuto di inabissarmi, finché gli uomini della Guardia Costiera mi hanno soccorso. In quei momenti ho riflettuto su quanta umiltà occorra, sempre, per affrontare il mare: non puoi dargli del tu con arroganza o superficialità. Comanda lui, è una creatura sovrannaturale che disporrà del tuo destino assecondando i capricci del suo umore”.

Rubino ha deciso di affrontarlo per andare a caccia di mostri. “Due. Il mostro dell’inquinamento, intanto. Lungo la rotta ho avuto il privilegio di vedermi accompagnare da un branco di delfini. E ho provato pena per la plastica che soffoca queste creature e devasta l’ecosistema. E poi quel mostro enorme e fumante che vedo qui a Taranto. L’Ilva”. L’idea di quest’impresa al timone è balenata nella testa di Renzo già da tempo. “Prima che la pandemia distogliesse l’attenzione dall’emergenza migranti, alcuni politici pretendevano che i porti restassero chiusi. Ma è un osceno controsenso, oltre che una mancanza di umanità: da millenni la salvezza e l’accoglienza sono a terra. Quando ero in difficoltà, lì fuori nelle tenebre, mi angosciava non scorgere neppure la luce di un faro. Quella che offre speranza a chi tenta la sorte su certe carrette”.

Così è nata l’iniziativa di “Porto Rubino”. Che a fine estate diventerà un documentario per Sky, ma intanto si è materializzata in due concerti sui generis, dove le tolde di un paio di imbarcazioni sono diventate palchi per Renzo e i suoi amici. “Non Tramari, che ho utilizzato solo per il viaggio, ma un peschereccio e un veliero”. Sul primo, un 13 metri battezzato Leonardo, giovedì scorso Rubino ha cantato con Paola Turci e Bugo nella polignanese Cala Ponte. Ieri sera, a bordo del 20 metri Fortuna, l’altro evento al molo tarantino Sant’Eligio, in compagnia di Morgan (“il pirata della musica”, sogghigna il Nostro), un genio tirrenico come Bobo Rondelli (“testimone della sua Livorno operosa”), i Selton e Priestess con le loro suggestioni brasiliane, Vasco Brondi, la talentuosa cantautrice-scrittrice barlettana Erica Mou, l’agguerrita Gabriella Martinelli e Noemi (“che ha la patente nautica, hai visto mai”). Altri sodali, impossibilitati a partecipare ai due live, si sono però prestati alle riprese per il documentario.

“Tra questi, anche ex contrabbandieri. Quanto agli artisti, non figurano nei panni di loro stessi. Diodato incarna un guerriero del Mar Jonio, in lotta per la salvezza delle sue radici, mentre Giuliano Sangiorgi è la reincarnazione di Thot, un dio egizio protettore degli scribi, la cui statuetta fu ripescata quasi novant’anni fa al largo di Porto Cesareo. Ritroveremo Noemi che sarà Leucasia, la sirena che abita da tempo immemore a Capo Santa Maria di Leuca, mentre la Turci si cimenterà nel ruolo della Seduzione Lussuriosa, chiamata a tentare un monaco del 700 dopo Cristo che secondo una leggenda si era ritirato, per salvarsi l’anima, sullo Scoglio dell’Eremita davanti Polignano”.

Il navigatore solitario Rubino ha trovato storie e compagnia per la sua missione socio-ecologista. E quanto alla musica “ci siamo concentrati sulle canzoni dei grandi intercettatori della natura insondabile del mare, che nasconde la verità della nostra psiche, come insegnano Dalla o Capossela. Mi sono convinto che certi capolavori siano stati suggeriti ai nostri Maestri proprio dal signore delle acque. La voce è la sua. Bisogna imparare ad ascoltarne i segreti. Io prima o poi mi dedicherò a un album a tema. Per ora mi sono limitato a comporre un brano-sigla, Porto Rubino, che sottolinea la nostra necessità di trovare riparo e conforto in questi tempi bui, come la notte in cui mi sono sentito perduto. La musica può aiutarci, con la stessa leggerezza di una brezza dolce dopo la tempesta”.

Katherine, che caro Diario

Guido Morselli, il romanziere diventato famoso solo dopo il suo suicidio, ha scritto di amare i Diari di Katherine Mansfield (Wellington, 1888-Fontainebleau, 1923) per “la transizione continua dalla notazione autobiografica alla creazione fantastica” e per quella capacità di “invenzione poetica” che nasceva dal “resoconto delle vicende quotidiane”.

Alla Mansfield e ai suoi bellissimi ineguagliabili racconti, del resto, aveva reso omaggio Virginia Woolf in modo inequivocabile, confessando: “Ero gelosa di come scriveva. L’unico modo di scrivere di cui fossi mai stata gelosa”.

Il Journal di Kathleen Beauchamp, questo il vero nome della grande narratrice neozelandese morta a 34 anni di tubercolosi, ritorna finalmente dopo tanto tempo in una versione italiana accurata, grazie alla nuova traduzione di Serena Trisoglio. Il volume dei Diari 1910-1922 è appena uscito per la Biblioteca del Vascello-Robin, con un saggio di Marco Catucci intitolato Un prequel dei Diari: Katherine Mansfield vista da Mario Praz.

Pubblicato qualche anno dopo la scomparsa di Katherine dal marito e critico letterario John Middleton Murry, il Journal ebbe due edizioni gloriose nel nostro Paese, nel 1933 con Corbaccio e nel 1949 per Dall’Oglio, per poi essere ristampato proprio da Robin tra gli anni Novanta e il 2000.

Ora questa versione in italiano lo ripropone felicemente ai lettori vecchi e nuovi, anche in virtù dell’ottimo apparato critico di Catucci e delle fotografie di Katherine e del suo mondo, e peraltro anticipa il centenario nel 2023 della morte dell’autrice di Bliss e di The Garden Party.

Nei taccuini c’è tutta la Mansfield, donna e letterata troppo presto strappata alla vita e alla letteratura, tra annotazioni di vita quotidiana, letture, passioni, viaggi (dall’Italia a Parigi) e naturalmente la battaglia contro il male che la martoriava. E c’è, come appunta Catucci, “del tutto privo di pathos e misticismo, il lieve, incantevole e disincantato tributo di Katherine alla grazia del sense of humour e alla divina indifferenza”.

Come scrisse nelle ultime pagine del diario, nell’ottobre del 1922: “L’entusiasmo folle o la serietà troppo grave non vanno bene. L’uno e l’altro passano. Si deve conservare sempre il senso dello humour. Quanto vediamo o sentiamo o comprendiamo, dipende interamente da noi stessi. Ma ho provato che il senso dello humour mi è stato di grande utilità in ogni occasione della mia vita. Ora forse tu comprenderai che cosa significhi la parola ‘indifferente’. Significa imparare a non soffrire e a non mostrare il proprio pensiero”. Un anno prima aveva scritto: “Chi fallisce nelle piccole cose, non riuscirà nelle grandi. Persino la mia scrittura… da questo momento deve cambiare. Dopo cena, devo riprendere il mio diario e continuarlo giorno per giorno. Ma riesco a essere onesta? Se mento non vale la pena di scriverlo”.

Guido Morselli aveva compreso benissimo il segreto del diario della scrittrice neozelandese, un’opera perfetta quanto le sue raccolte di racconti.

Lo testimonia un brano del Journal, intitolato Malvagità, in cui Katherine compone un ritratto – o una memoria – di se stessa, che è nello stesso tempo un vero racconto compiuto. “La baciai”, scriveva. “Sentii la sua guancia fredda, bianca, leggermente umida. Era come se avessi baciato un cero in chiesa. La guardai nel profondo degli occhi: erano smorti, ma illuminati, di tanto in tanto, da una luce vaga e lontana. Odorava leggermente di incenso. La sua veste era sgualcita alle ginocchia. ‘Ma come avete potuto parlare così della Madonna?’ mi chiese. ‘Dovete aver dato un gran dolore alla Vergine Benedetta’. E io vidi la Madonna gettar via la sua copia del mio racconto Je ne parle pas Français dicendo: ‘Questa K. M. è veramente come mi è stata descritta dalle sue amiche’”.

Il gelato dell’Urss conquista la Russia (ma ora è Nestlé)

In Russia c’è una marca di gelati che riproduce i gusti dei “bei vecchi tempi”, quando almeno scorreva molto latte per tutti se non l’arcadico latte e miele. Si chiama “48 kopeek” (“48 kopeki”) perché tanto costava allora il gelato più buono. Allora cioè al tempo in cui i prezzi erano fissi e impressi sulle confezioni se non direttamente sul prodotto, in ogni caso non volatili come oggi, e la Fabbrica n. 8 di Mosca sfornava 125 tonnellate di gelato al giorno.

La produzione di massa del gelato in Urss inizia con l’eskimo negli anni Trenta, secondo una ricetta importata dall’America. L’eskimo nasce in Iowa nel 1920, quando un ragazzino entra nel negozio dell’immigrato danese Christian Nelson ed è indeciso se comprare un gelato o una barretta di cioccolato. L’anno successivo Nelson registra quell’ibrido di desideri dolciari e avvia la vendita, presto imitato in tutto il mondo e favorito dal diffondersi del frigorifero. L’eskimo americano si produce ancora, ma è stato annunciato che cambierà nome perché considerato dai popoli artici come offensivo. Al contrario la Russia lo riscopre in chiave quasi sovranista e nostalgica, se volessimo trovare una sfumatura politica, o semplicemente patriottica. Una strategia di marketing più che altro: “48 kopeek” appartiene infatti alla multinazionale Nestlè.

Nel gelido e famelico ottobre 1944, Winston Churchill partecipò a una conferenza a Mosca con Stalin per decidere le sorti dell’Europa dell’Est dopo la ritirata nazista. Mentre andava in auto al ministero degli Esteri vide una fila di gente sferzata dal freddo. Quando apprese che erano in coda per un gelato disse: “Non potremo mai vincere una nazione che fa la coda per il gelato con questo freddo!”. Quel gelato era l’eskimo.

L’operazione di marketing serve anche per contrastare l’invasione di gelaterie italiane o pseudo italiane che sono ovunque o addirittura il gelato bielorusso che gode di una certa fama perché il dittatore Aleskander Lukašenko avrà tanti difetti, ma da agronomo di formazione passa per uno che tiene alla salubrità del cibo. Iniziata con Putin e con il ritorno al vecchio inno nazionale nel 2000, rottamando quello eltsiniano che nemmeno gli atleti sapevano cantare alle Olimpiadi di Sydney di quell’anno, la rivalutazione del tempo sovietico è ormai ampiamente sdoganata… È già tanto che la statua di Feliks Dzeržinskij non torni davanti alla Lubjanka, la sede del vecchio Kgb.

Dopo avere perso la guerra fredda, anche sul fronte del gelato, i russi, almeno i più anziani, vivono per certi aspetti un “Tempo di seconda mano”, come spiega il titolo del grande libro di Svetlana Aleksievic, un’epoca con valori e regole scelte da altri, ma il passato non solo non si deve buttare, si può in parte riciclare, magari abbellendo un po’. “Le confezioni di gelato sovietico non erano così belle” ricorda Mikhailo Alandarenko, giornalista cresciuto a Mosca che oggi vive a Kiev.

Nell’offerta di 48 kopeek ci sono gusti particolari come “eskimo di Leningrado” e il “tomatnoe” cioè pomodoro, che sembrano anticipare le più eccentriche combinazioni del gelato gourmet e non esistevano. “Se uno trovava del succo di pomodoro in Russia lo usava per metterci la vodka e fare il cocktail Krovovaja Maša, il bloody Mary socialista” ironizza Gian Piero Piretto, autore di diversi studi sulla cultura popolare sovietica, tra cui La vita privata degli oggetti sovietici, dove un capitolo è dedicato al gelato. “Ricordo ai magazzini Gum, sulla piazza Rossa, l’apparizione di una venditrice con la cassetta dei gelati al collo” dice Piretto. “Non aveva neanche bisogno di urlare come il carretto nella canzone di Battisti. In un attimo si era già formata la fila. Io prendevo il batončik ricoperto di nocciole e lo ricordo come una delizia. C’erano poi le caffetterie-gelaterie ma non si trovava facilmente posto. Negli anni 90, dopo la dissoluzione dell’Urss, sono apparse le prime gelaterie pseudo italiane con nomi improbabili tipo Gino Ginelli a San Pietroburgo”.

“48 kopeek” propone un altro classico, come il “plombir”, che si ispira alla ricetta francese raccontata da Balzac in Splendore e miserie delle cortigiane (tipo Malaga per intenderci). Va da sé che “48 kopeek” sia solo un nome perché, se un rublo vale un centesimo di euro, un centesimo di rublo non vale niente. A meno che non siano kopeki storici e risalgano all’anno di fondazione dell’Urss con la scritta: “Proletari di tutto il mondo unitevi”. Nel nome della Nestlè.

Libé, il direttore vuol riattivare la gauche, la redazione insorge

Laurent Joffrin dirigeva il quotidiano Libération dal 2014. Qualche giorno fa ha dato le dimissioni e ieri ha creato un nuovo movimento politico – Les Engagés – che punta a riunire la gauche francese in vista delle Presidenziali del 2022. “Passare dal giornalismo alla politica è diventata cosa comune, fondare un partito quando si è direttori di un giornale lo è di meno”, ha scritto Le Monde. La decisione ha colto di sorpresa la redazione del giornale francese, notoriamente a sinistra. Ma a indignare i giornalisti è stato il fatto che Joffrin intende continuare a scrivere sulle pagine del giornale la sua “lettera politica quotidiana”, degli editoriali, come fa da anni, che costituiscono anche il materiale di un volume che uscirà in autunno, dal titolo molto esplicito Anti-Macron. Il collettivo di giornalisti di Libé, la SJPL (Società dei giornalisti e del personale di Libération), ha posto il veto: “Laurent Joffrin vuole fare politica, noi facciamo informazione. Di fronte al fatto compiuto – hanno scritto su Twitter – constatiamo che questo nuovo impegno personale è incompatibile con il mantenimento dell’attività editoriale”. Il quotidiano francese è in piena trasformazione in questo momento, poiché di recente Altice France, la holding che fa capo al miliardario Patrick Drahi, ha annunciato di trasferire la proprietà a una società senza scopro di lucro. La redazione non accetta che l’ex direttore, ormai impegnato in politica, sieda nel futuro cda del giornale e annuncia anzi di lavorare a una “carta etica” che garantisca la totale indipendenza. “Les Engagés”, il nuovo movimento di Joffrin, 68 anni, di cui è nota l’amicizia con l’ex presidente socialista François Hollande, ha raccolto le adesioni di 140 personalità, come il sociologo Michel Wieviorka e il medico Patrick Pelloux, ex firma di Charlie Hebdo, oltre che di popolari cantanti e attori. Dopo aver visto la gauche resuscitare alle recenti elezioni municipali, l’ambizione di Joffrin è di ricomporre tutta la “sinistra storica”, oggi spezzettata in diversi partiti e movimenti, e che venga scelto entro un anno un candidato comune che possa sfidare Emmanuel Macron e Marine Le Pen.