Kanye, rapper candidato per conto del presidente

Con un comizio spettacolo, tutto musica, lacrime, promesse, Kanye West ha aperto la sua campagna per Usa 2020: davanti a centinaia di suoi fan, il rapper che è amico di Donald Trump e marito dell’influencer in capo Kim Kardashian, ha intrapreso a Charleston, South Carolina, il cammino che dovrebbe condurlo alla Casa Bianca il 3 novembre. È stato un discorso a tutto campo, sconclusionato e caotico come spesso i suoi eventi. Senza freni, il rapper ha spaziato dalla teologia al potere delle imprese, dai senza dimora all’aborto, tema su cui West ha avviato un lungo dibattito con uno spettatore, raccontandogli il ‘miracolo’ della sua nascita.

Toni e contenuti dell’evento, più mediatico che politico, più showbiz che programmi, alimentano e avallano i sospetti che la candidatura del rapper sia solo una trovata pubblicitaria per vendere album e fare merchandising, oltre che un favore al magnate presidente. La presenza in lista di West potrebbe, infatti, sottrarre al candidato democratico Joe Biden qualche suffragio afro-americano, anche se i primi sondaggi non hanno dato riscontri molto positivi. Parlando nella cittadina della South Carolina che fu una delle capitali del mercato degli schiavi e che nel 2016 è stata teatro di una strage compiuta da un suprematista bianco in una chiesa metodista della comunità nera, West ha detto che l’aborto “dovrebbe essere legale”, ma ha contestualmente proposto di dare un milione di dollari a ogni persona che decida di avere un bambino “un incentivo che potrebbe convincere molte donne a non abortire.” E il rapper, che indossava un giubbotto antiproiettile con la scritta 2020 e rasato in testa, ha pianto raccontando di essere nato solo per la forza di volontà della madre, che suo padre voleva abortisse. West s’è poi congedato sulle note di un gospel, non senza avere prima fatto riferimenti alla sua fede, al suo accordo con l’Adidas e al razzismo negli Usa. In un sondaggio della Redfield & Wilton Strategies di cui dà conto The Hill, foglio di Washington consacrato alla politica, West ha il favore del 2% degli elettori, proprio come la candidata libertaria Jo Jorgensen, che certo non gode del suo impatto mediatico, mentre Biden è in vantaggio su Trump 48 a 39%. In un altro sondaggio di Abc e Washington Post, Biden è al 55% e Trump al 40%, mentre West e gli altri candidati minori non sono censiti.

La candidatura del rapper, annunciata il 5 luglio, aveva subito destato sorpresa e suscita malignità e polemiche. Fa scandalo che West sia tra i beneficiari di fondi governativi destinati alle piccole e medie imprese nel pieno dell’epidemia di coronavirus. La sua azienda di moda Yeezy, che lui valuta 3 miliardi di dollari, ha ricevuto da 2 a 5 milioni di dollari, secondo la Cnbc.Trump e West in questi anni hanno spesso collaborato e il rapper ha sposato la causa del magnate fin dall’inizio”. In molte foto, West indossa il cappello da baseball rosso con lo slogan di Trump Make America Great Again. Il rapper, frequentatore dello Studio Ovale del magnate, aveva già ipotizzato di correre per la Casa Bianca, pensando però al 2024. Con un tweet ai suoi 29,4 milioni di follower, West li aveva così motivati: “Dobbiamo realizzare la promessa dell’America avendo fede in Dio, unificando la nostra visione, costruendo il nostro futuro. Corro per la presidenza degli Stati Uniti. #2020VISION”. e strisce con il tweet del marito.

A sostenere West sono pure Elon Musk, miliardario visionario ideatore della Tesla, e Mark Cuban, proprietario dei Dallas Mavericks nonché volto televisivo.

La Cina si compra l’Iran: costa “solo” 400 miliardi

A distanza di quasi un mese dalla rivelazione della esistenza di un patto strategico a lungo termine – ben 25 anni – tra Cina e Iran, non sono stati ancora resi noti ufficialmente i termini dell’accordo che deve ancora essere firmato. La notizia di questa intesa ha scatenato i timori non solo di buona parte dell’opinione pubblica, ma anche di un ampio gruppo tra legislatori e figure un tempo di spicco della repubblica islamica guidata dagli ayatollah.

È il caso dell’ex capo della teocrazia islamica, Mahmoud Ahmadinejad che ha esortato il governo a consultare il parlamento prima di formalizzare l’accordo. Pena nuove manifestazioni che si andrebbero ad aggiungere a quelle già in corso per la catastrofica gestione dell’emergenza Covid e per l’inflazione in continuo aumento. I funzionari del governo si sono tuttavia affrettati a denunciare le affermazioni dell’ex capo di Stato come false e a sostenere che non c’è nulla di segreto sull’accordo.

Intitolato “Partenariato strategico globale tra I.R. Iran e P.R. Cina”, si articola in 18 pagine da cui emerge che la Cina, potenza mondiale seconda solo agli Stati Uniti, per ora, otterrà un accesso preferenziale a tutti i settori dell’economia iraniana. Secondo i pochi dettagli finora trapelati, il patto, una volta applicato, è destinato ad andare oltre la cooperazione economica. Includerebbe invece una collaborazione, per usare un eufemismo, senza precedenti nell’ambito dei trasporti e della logistica nei porti e nelle isole meridionali dell’Iran, nonché nei settori della difesa e della sicurezza del paese. Se, come sembra, il Dragone dovesse riuscire a “mangiarsi” le isole iraniane situate nel Golfo Persico, aumenterebbe il proprio peso specifico geopolitico anche in questa area cruciale per il commercio internazionale, specialmente di idrocarburi, e non più solo sul Pacifico.

Da anni su questo oceano la Cina sta dimostrando la propria capacità di espansione addirittura con la costruzione di isole artificiali che fungono da basi militari per controllarlo il più possibile a scapito del Giappone e di tutti gli alleati degli Stati Uniti nell’area. L’accordo sino-iraniano preoccupa molto anche l’India, oltre che gli Stati Uniti e, in primis, Israele ed Emirati Arabi Uniti. A partire dalla fine della presidenza di Hashemi Rafsanjani alla fine degli anni 90, Teheran si è costantemente orientata verso l’Asia. Il partenariato strategico tra Teheran e Pechino consentirebbe all’Iran non solo di evitare l’isolamento causato dalle sanzioni americane bensì di porre una seria sfida alla supremazia degli Stati Uniti in Medio Oriente. Il problema è che l’accordo aumenterebbe la dipendenza dell’Iran dalla Cina nella sua agenda estera, tradendo inoltre uno dei cardini della rivoluzione islamica di cui gli ayatollah si ritengono i protettori: “né ovest né est”. Su questa colonna si ergeva il desiderio di una politica estera indipendente. Di certo la capacità di Teheran di condurre una politica regionale indipendente svanirebbe in quanto dovrà tener conto delle priorità del suo mecenate. La rabbiosa reazione alle parole del portavoce del ministero della Sanità iraniano che si lamentava della gestione iniziale della Covid-19 da parte della Cina, ha obbligato Teheran a profondersi in scuse multiple e ufficiali con la nomenklatura della Repubblica Popolare. Si tratta di una chiara indicazione del probabile atteggiamento della Cina nei confronti dei suoi partner: l’obbedienza prima di tutto.

Molti, tra cui politici e analisti dentro e fuori l’Iran si sono spinti a definirlo “un contratto coloniale”, paragonandolo al Trattato di Turkmenchai del 1828 tra Iran e Russia in base al quale l’Iran (allora chiamato Persia) cedette il controllo di gran parte del suo territorio alla Russia. L’analista Reza Haqiqatnezhad ha scritto in un tweet recente: “Non ci sono cifre in questo documento. Non ci sono circa i 400 miliardi di dollari destinati all’Iran di cui si è parlato e non c’è nulla sulla cessione dell’isola di Kish. Ci sono solo 10 proposte fatte di sogni”.

L’amministrazione Rouhani aveva dichiarato che la Cina avrebbe fatto un investimento di 400 miliardi di dollari in Iran. I critici intanto continuano a sostenere che l’Iran consegnerà l’isola di Kish nel Golfo Persico ai cinesi consentendo lo spiegamento di forze militari cinesi lì e in altre parti del Paese. In questo modo la Cina potrà approvvigionarsi del petrolio iraniano e, allo stesso tempo, esercitare un controllo dirimente sul transito delle petroliere che attraverso lo Stretto di Hormuz portano il greggio nel mondo.

Solo lo scarto salva la bellezza

Lo storico dell’arte che legge il Manifesto per riabitare l’Italia prova insieme “grandissimo piacere … e grandissimo dolore”, per usare le celebri parole della lettera di Raffaello a Leone X (1519) sulla necessità di una tutela pubblica delle antichità.

Il dolore è dovuto alla consapevolezza che la storia dell’arte stessa si è messa al servizio di una pessima politica culturale sterilizzando le diversità culturali del Paese attraverso la sua concentrazione in pochi centri dunque afflitti da manifestazioni blockbuster (grandi mostre, turismo intensivo, espulsione dei residenti, sparizione dello spazio pubblico). Il piacere, invece, è dovuto al fatto che lo sguardo proposto dal Manifesto coincide con quello più autentico della storia dell’arte come disciplina scientifica.

Dal vocabolario della storia dell’arte (e della storia, più in generale) viene una parola-chiave, che vorrei idealmente aggiungere al Manifesto. Quella parola è: scarto. La sua polisemia è, per i linguisti, casuale. Ma, ai miei occhi, felicissima. Nella sua forma si trovano a confluire due storie etimologiche diverse. Lo scarto è ciò che si scarta, cioè che si butta via. La seconda scelta, che si lascia ai margini (e questo significato viene da scartare, nel gioco delle carte). Ma lo scarto è anche il movimento improvviso e imprevisto che riapre i giochi, e cambia paradigma (e questo significato viene invece dal latino exquartare, tramite il francese écarter: separare, dividere e dunque imboccare strade diverse). Dunque, la periferia (meglio: le aree interne, l’Italia dei vuoti, le Italie fragili, i margini) come scarto: nel duplice senso di ciò che è stato scartato e di ciò da cui potrebbe venire lo scarto, la mossa del cavallo che cambia il gioco. “Periferia come scarto” è il titolo di un paragrafo del classico saggio di Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg su Centro e periferia (nel primo volume della Storia dell’arte italiana Einaudi, 1979). Ecco, nel Manifesto ho ritrovato quello sguardo, questo vocabolario. L’idea forte che la soluzione di molti dei problemi che i centri non sanno risolvere possa venire da quell’“Italia municipale, non regionale, che è esistita per secoli, indomita, troppo vigorosa e aspra per essere selvaticamente paga di sé, per potersi chiudere nel suo guscio, ma troppo anche per accettare una docile subordinazione politica o letteraria alla regione, o alla nazione” (Carlo Dionisotti).

Un’Italia disposta a macchie di leopardo, e non riducibile nelle categorie del Sud o delle campagne, che invece insiste su tutto il territorio della Repubblica, penetrando nelle grandi periferie urbane. Luogo del pericolo, ma anche luogo di elaborazione di ciò che salva.

Dunque, condivido innanzitutto il discorso sullo sguardo: lo ‘sguardo da vicino’ evocato dal punto 8 del Manifesto. La storia dell’arte italiana nasce (con Luigi Lanzi, 1795) in lieve ritardo rispetto a quella della letteratura italiana (con Girolamo Tiraboschi, 1772) perché (lo ricordava sempre Dionisotti) gli storici dell’arte non possono lavorare in biblioteca, devono percorrere il territorio, con tutti i suoi accidenti, per conoscere le opere nei loro contesti. Lo sguardo da vicino è uno sguardo che si muove.

Mi è capitato spesso di ripetere che, mentre la storia dell’arte si adagiava (salvo poche e lodevoli eccezioni) a organizzare grandi mostre nei grandi centri, la logica dello sguardo mobile portava a vere rivoluzioni in altri ambiti, in verità assai prossimi. Come quella avviata da Luigi Veronelli, che parlava di “camminare le osterie”, “camminare le cantine”: e da lì “camminare la terra”, “camminare le campagne”.

Invertire lo sguardo (si veda il punto 9 del Manifesto) significa anche comprendere che nell’Italia dei margini e dei vuoti è possibile cogliere un diverso rapporto tra il presente e il passato. Mentre nel modello culturale dei grandi centri la rimozione della storia ci inchioda alle esigenze effimere della dittatura del presente, in quello dell’‘altra Italia’ la leggibilità della stratificazione storica genera consapevolezza dell’alterità del passato e dunque della possibilità di costruire un futuro diverso dal presente, ricostruendo così i nessi essenziali tra democrazia (cioè costruzione collettiva di un’alternativa al presente) e spazio pubblico.

Invertire lo sguardo significa guardare all’Appennino per capire le città di pianura: non pensare che in queste ultime si trovi la ‘cura’ per ‘salvare’ l’Appennino.

Così come cercare in un altro spazio, significa avere un’altra consapevolezza del tempo. Vedere, cioè, la nostra vita quotidiana più faticosa, anonima, grigia si snoda in uno spazio che è reso straordinario non solo dalla bellezza che vediamo, ma anche da quella che non vediamo, e che ci passa accanto come un angelo nascosto. È l’intreccio delle vite, delle parole, delle storie che aleggiano sul territorio ci troviamo ad attraversare: è quella che la teologia cristiana chiama “la comunione dei vivi e dei morti”. Solo la consapevolezza di questo intreccio rompe l’assedio del presente e permette di costruire il futuro: coltivare la nostra “naturale propensione per recuperare l’antico nel nuovo, per trovare nell’antico le vie di comprendere il nuovo” (sono parole di Jean Paul Sartre scritte per Carlo Levi). Questo, tra i molti, il dono di un’Italia ai margini, se solo fossimo capaci di posare su di essa uno sguardo diverso.

Le mappe che l’ultimo punto del Manifesto auspica e annuncia, mappe “sulle persone, sulle idee, sulle competenze e sulla forza aggregativa”, sono anche le mappe che la storia dell’arte, e più in generale una storia della cultura, elabora da secoli, e che gli ultimi trent’anni hanno imperiosamente ripiegato e dimenticato. Tornare ad aprirle, aggiornarle, riscriverle e discuterle collettivamente significa esattamente trovare nell’antico le vie di comprendere il nuovo: anzi, di costruirlo, insieme. Partendo dallo scarto: cioè da ciò che è stato scartato, e che invece può consentire quello scarto di cui abbiamo tutti disperatamente bisogno.

 

Mail box

 

Il Caimano ha fagocitato lo Stato di diritto

Non riesco affatto a stupirmi dell’amorevole abbraccio con cui i padri della sedicente sinistra accolgono Silvio, il loro figliol prodigo. Il Caimano, da ineleggibile, ha fagocitato lo Stato di diritto, con la complicità di tutti coloro che hanno anteposto miserabili interessi di bottega al bene comune. Ha sedotto il diffuso senso d’impunità che serpeggia nella collettività. Ha incarnato lo spirito levantino che alberga in ogni italiano. Ha rappresentato nella politica ciò che Sordi ha interpretato sulla scena: i vizi degli italiani (solo per rimanere alle condotte penalmente irrilevanti). Istrionico e accomodante, espansivo ed accattivante, “simpatico” e “fascinoso”, affarista e imbroglione, serpentino e scaltro, spietatamente interessato, scorretto e sleale, donnaiolo e fedifrago, bugiardo e millantatore, generoso e spregiudicato, anarchico e totalitario… Tutto questo gli è stato impunemente consentito, in particolare dai presunti oppositori politici. “Per una strana alchimia”, sembra naturale che “il Paese tutto conceda e tutto giustifichi al suo imperatore”, come scrisse l’ex moglie.

Carmelo Sant’Angelo

 

I giornaloni allo sbando sul caso Autostrade

A giudicare dalle contraddizioni dei giornali, così come descritti dal nostro direttore Travaglio, la scatoletta di tonno è stata aperta alla grande, ancora una volta con il caso Autostrade. Come in un film, affermano tutto e il contrario di tutto, sono allo sbando completo.

Biagio Stante

 

I potentati economici sempre contro i 5 Stelle

“Autostrade, Benetton cedono alle condizioni imposte da Conte”. Sembra un miracolo che l’interesse generale abbia preso il sopravvento su quello particolare e che la politica sia riuscita a svincolarsi dalla soggezione al potere economico. È un fatto così sorprendente che mette in discussione o fa vacillare la teoria elaborata da Marx più di 150 anni fa: “Nell’era del capitalismo, i governi non sono altro che comitati d’affari della borghesia”. Non facciamoci, però, illusioni. De Benedetti, qualche giorno fa, ha lanciato un accorato appello affinché si ricostituisca la santa alleanza dei “competenti”, compreso Berlusconi, per dare il benservito a Conte. I giornaloni faranno da cassa di risonanza al suo grido di dolore, mentre Salvini e Meloni forniranno le truppe cammellate necessarie per spazzare via Conte e i 5Stelle. Tuttavia, se i cittadini prendono coscienza dell’importanza della posta in gioco, potrebbero sventare le subdole manovre dei potentati economici e creare le condizioni affinché Davide possa ancora prevalere su Golia.

Maurizio Burattini

 

La competenza legale è basilare per un politico

La svolta sul problema Autostrade dimostra quanto può essere importante una competenza professionale per chi si trova a svolgere ruoli politici. Il presidente del Consiglio, per la sua esperienza di avvocato, dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha rigettato il ricorso contro la sua esclusione dall’appalto per la ricostruzione del ponte Morandi, ha compreso che a quel punto si trovava in una posizione di forza per portare la famiglia Benetton a più miti consigli e giungere pertanto a un accordo che, al di là dei dettagli operativi ancora da perfezionare, risolve il problema nel modo voluto dal Governo. Si è così evitato un lungo contenzioso che una revoca della concessione avrebbe potuto innescare anche a causa delle scellerate condizioni di favore che il governo Berlusconi aveva dispensato. Chi parla di resa di Conte o di esproprio ai danni dei Benetton non comprende evidentemente che è preferibile giungere a un buon accordo che dia immediate certezze economiche e giuridiche, piuttosto che instaurare una lunga e dispendiosa vertenza che paralizzi ogni possibilità di azione. Questo ha fatto Conte nell’interesse dei cittadini.

Loris Parpinel-Prata

 

DIRITTO DI REPLICA

In riferimento all’articolo comparso sul Fatto Quotidiano del 12 luglio 2020 dal titolo Lombardia, vita agra dei figli dei capimafia a firma di Davide Milosa in cui viene indicato il nome di Romeo Francesco come personaggio della nuova rete di relazioni e nuove figure, associandolo ai capimafia o ad alcune famiglie presenti sul territorio, con la presente in nome e per conto del signor Romeo Francesco, vi chiedo di procedere alla rettifica del Vostro articolo considerato che ad oggi, al signor Romeo non è stata contestata alcuna condotta e che lo stesso non è mai stato e non è affiliato a nessuno, quanto riportato nell’articolo con riferimento alla posizione del signor Romeo è lesivo e diffamatorio dell’immagine, del nome, della dignità e della riservatezza del mio assistito, con l’aggravante dell’uso del mezzo della stampa. Ciò posto, Vi invito a specificare che il signor Romeo Francesco non ha nulla a che vedere con quanto descritto nell’articolo, e a sospendere ogni attività lesiva. Si fa ulteriormente presente che ho già ricevuto mandato per adire le vie legali e tutelare in sede civile e penali i diritti del mio assistito, se la situazione in essere dovesse protrarsi.

Avv. Eleonora Amadori

Il signor Francesco Romeo, come si desume dall’articolo, non è indagato nell’operazione Quadrato bis. Il suo nome, però, compare nelle dichiarazioni del pentito Domenico Agresta, e viene citato nell’ordinanza d’arresto in relazione ai suoi rapporti con personaggi vicini alle cosche.

D.M.

L’allenatore nel pallone. Mister Antonio è avvezzo alle lacrime

 

Premesso, sono interista. Ma non capisco quest’intemerata di Conte contro il calendario: mi sembra una scusa per coprire il suo operato.

Giulio Spergi

 

Antonio Conte, talento precoce, cominciò a frignare e a piagnucolare fin nella culla. Nell’estate 2007, alla sua prima panchina in B ad Arezzo a 37 anni, dopo l’ultima partita inutilmente vinta a Treviso per 3-1 (l’Arezzo finì in Serie C) riuscì nell’impresa di denunciare, affranto, un biscotto organizzato a 400 km di distanza, per l’esattezza a Torino dove lo Spezia aveva battuto la Juventus 3-2 conservando un punto di vantaggio e salvandosi. Conte, che nella Juve (retrocessa in B per Calciopoli) aveva passato la vita, non mostrò dubbi: “Retrocedere così mi fa capire tante cose – disse –. Adesso sembrava che i cattivi fossero fuori (Moggi e Giraudo radiati, ndr) e che ci fosse un calcio pulito, evviva questo calcio pulito! Rispetto tanto i tifosi juventini, ma ho poco rispetto per la squadra”. Un pianto greco in piena regola: il primo di mille. Conte continua in B prima al Bari e poi al Siena, ottiene due promozioni in un’orgia di partite truccate che portano alla squalifica di 20 giocatori del Bari, di una decina di tesserati del Siena e dello stesso Conte (10 mesi, poi ridotti a 4) ma a prendersi le colpe di tutto è il suo vice Stellini, che patteggia una doppia maxi-squalifica: “Non doveva farlo, mi ha tradito!”, strepita Conte, che oggi però se lo è ripreso all’Inter (come mai?). Nella famosa filippica tramandata ai posteri come il “J’accuse agghiaggiande”, Conte si scaglia contro i giudici sportivi che in realtà – lui siede ora sulla panchina del club che tanto disprezza, la Juventus – lo graziano. Con la Juve vince lo scudetto e nella partita del famigerato gol di Muntari, Milan-Juve 1-1, litiga con Boban e arriva a sostenere che Tagliavento ha favorito il Milan (sic). Nell’estate 2014 dopo due giorni di ritiro lascia la Juve col broncio deluso dagli acquisti. Va al Chelsea, vince, mette il broncio e porta Abramovich in tribunale. Viene all’Inter, gli comprano di tutto, non vince e dice che i giocatori sono delle pippe e che l’Inter è penalizzata perché il calendario consente alla Juve di riposare di più. Ci sarebbe da ridere, altro che piangere

Paolo Ziliani

Conte: sottovalutato dai babbei, eppure amato dal popolo

Giuseppe Conte è da sempre sottovalutato, e dunque sottostimato, da larga parte dei media. Era così per il Salvimaio, è così per lo Zingamaio. Ciò accade per una serie di fattori. L’antipatia atavica che suscitano i 5Stelle (di cui Conte è espressione, per quanto non iscritto) su quasi tutti i giornalisti. Una naturale propensione babbea di tanti addetti ai lavori (gli stessi secondo i quali il M5S sarebbe morto subito, Renzi avrebbe emulato Churchill e Berlusconi mai avrebbe vinto le elezioni nel 1994, 2001 e 2008: complimenti, citrulli!). L’apprendistato politico inedito di Conte, fino a due anni fa sconosciuto ai più. Il suo esser passato con disinvoltura dalla Lega al Pd. E il suo non appartenere a lobby e conventicole. Da mesi, anzi anni, Conte è – stando ai sondaggi – il politico più stimato dagli italiani. Ma in tanti fanno finta di nulla, trattandolo come un minus habens e contrapponendogli statisti à la Salvini (avessi detto Adenauer!). L’astio di certi tromboni nei confronti dell’uomo di Volturara Appula è tale che, in questi giorni di trattativa campale europea, tanti dalle nostre parti tifino contro di lui (e quindi contro l’Italia) arrivando quasi a celebrare quell’incosciente scellerato di Rutte. Siamo un ben strano Paese, anche se per fortuna c’è ancora vita (cerebrale) sul pianeta Terra. Ieri Repubblica ha pubblicato (verosimilmente bestemmiando) un sondaggio di Demos curato dall’ottimo Ilvo Diamanti. La domanda, assai semplice, era questa: “Chi è stato il miglior presidente del Consiglio italiano dal 1994 a oggi?”. Ha vinto, per distacco, Giuseppe Conte. Un risultato che stupirà giusto quelli che vivono con la testa su Marte, e dunque sono adusi a sbagliare tutto dalla nascita. Giuggioloni senza speranza, privi di acume e ancor meno dotati di onestà intellettuale.

Conte ha vinto il sondaggio di Demos perché piace agli elettori 5Stelle, ma non solo: è stimato anche da buona parte dell’elettorato Pd, della sinistra radicale e (persino) da fasce del centrodestra. Certo beneficia della sensazione di “averci salvato la vita” durante il lockdown. E certo questo consenso potrebbe evaporare in un amen se il governo cadesse, magari (magari?) per il fallimento della trattativa europea. Già così ce n’è però abbastanza per avere nuovamente contezza di come, troppo spesso, la realtà sia da una parte e il giornalismo mainstream dall’altra. Quest’ultimo ha perso il fiuto, non ha il polso della situazione e ragiona per partito preso. Ecco perché tanti cittadini non sopportano i giornalisti: perché molti di loro si sono sputtanati da soli. Il sondaggio dice anche altre cose. Per esempio che al secondo posto tra i presidenti più amati degli ultimi 26 anni c’è Silvio Berlusconi, che figura però al contempo al primo posto tra i più odiati. Una conferma della sua natura oltremodo divisiva. Il terzo più amato è Prodi. Il podio dei peggiori, dopo Berlusconi, vede invece Monti e Renzi. E la cosa non stupisce, soprattutto nel caso di Renzi, da sempre espressione della politica più insipiente e caricaturale (infatti tanti giornaloni lo hanno riverito fino a ieri, e in cuor loro sperano di poter ricominciare presto a farlo). Come ha scritto Antonio Padellaro su queste pagine, la forza di Conte risiede anche in questa continua sottovalutazione del suo operato e in questo convincimento generale che egli sia prossimo a cadere. Può darsi eccome che cada, ma non per incapacità: casomai per l’ennesima congiura idiota di palazzo. Ovviamente benedetta da tante beccacce travestite da giornalisti.

 

La vera svolta, i bond europei. La vittoria italiana parte da lì

Il vertice più lungo nella storia del Consiglio europeo si spiega largamente con una frase: “The Commission shall be empowered in the Own Resources Decision to borrow funds on the capital markets on behalf of the Union up to the amount of euros 750 billion”. Vale a dire, la Commissione può prendere in prestito fondi sui mercati dei capitali per conto dell’Unione per un ammontare di 750 miliardi”.

Al di là della diatriba sulle cifre, sulle poste di bilancio spostate da sopra a sotto, dei presunti fallimenti italiani solo perché Conte aveva detto che il Recovery fund avrebbe avuto bisogno di più risorse (ci si attacca anche a questo), la svolta europea sta in questo passaggio che aiuta a capire la natura dello scontro degli scorsi giorni.

Prendere a prestito fondi sul mercato dei capitali equivale a emettere dei bond europei – che avranno la tripla AAA e presumibilmente andranno a ruba. Quando Francia e Germania hanno deciso che il grande passo si sarebbe potuto fare, hanno dato a questa Unione europea un significato diverso da quello avuto in passato. E l’Olanda, insieme ai Paesi che non hanno grande interesse a una dimensione solidale e “unionista”, si sono messi di traverso, cercando di bloccare una prospettiva ai loro occhi pericolosa. Loro molto più aderenti a un’idea di Europa à la carte, fatta di alleanze pragmatiche e occasionali, senza nessuna prospettiva più solida. “Oggi gli eurobond per il Covid, domani per chissà cos’altro”, devono essersi detti i “frugali” cercando di stoppare quella direzione di marcia.

Se nella notte non dovesse passare la mediazione della Commissione e del presidente Michel, in Italia si parlerà soprattutto della sconfitta di Conte, ma sarebbe soprattutto la sconfitta della scommessa fatta da Merkel e Macron certamente non per generosità d’animo. L’Unione europea non ha certamente ancora cambiato segno. Si tratta pur sempre di una costruzione in cui pesa il Patto di stabilità, i parametri di Maastricht, le esigenze tedesche sopra quelle di tutte. Ma proprio perché costruita su quest’ultime priorità, la natura della crisi ha fatto sì che Parigi e Berlino avessero pieno interesse a offrire all’Italia o alla Spagna una spalla per non distruggere le “catene del valore”, come le ha nitidamente definite Giuseppe Conte nel suo intervento dell’altra notte e come apertamente le descrive la stessa Merkel. Uniti in un destino produttivo comune per cui se si ferma l’economia italiana va in crisi anche quella germanica.

Che questa svolta ci sia stata e che sia così rilevante lo dimostra anche un piccolo prodotto dell’“astuzia della ragione”: nel documento presentato da Charles Michel l’aumento dei fondi in prestito disponibili per l’Italia nel quadro del Recovery fund equivale esattamente ai prestiti che sarebbero potuti venire dal Mes e di cui ora solo qualche “ultimo giapponese” – ad esempio Stefano Folli su Repubblica – reclama il bisogno. Il ricorso all’odioso strumento messo a punto dopo la crisi del 2008 per salvare (leggi: strozzare) la Grecia potrebbe venire superato dallo strumento dei bond europei. Un bello smacco.

La bozza Michel rappresenta per Conte (il condizionale è ancora d’obbligo visto che andiamo i stampa senza che il vertice sia concluso) un successo pieno. Il discorso che ha tenuto al tavolo dei 27 gli fa onore, ma soprattutto lo premia l’aver avuto una stella polare fissa: contributi europei raccolti sui mercati da destinare alla solidarietà comune. Alcuni mesi fa il Recovery fund era una chimera, ora quei fondi sembrano esserci in misura rilevante. Si tratterà però di spenderli bene. E alla fine il vero destino del governo Conte si giocherà su questo.

 

Csm, l’unica fedeltà è alla Costituzione

Il capo dello Stato ha definito di “modestia etica” i tempi che stiamo vivendo. Chiaro il riferimento anche alle traversie della magistratura. Va detto peraltro che pure prima del caso Palamara si erano registrati episodi sconcertanti, ancorché non riconducibili all’andazzo generalizzato e dilagante che emerge dall’inchiesta di Perugia. Mi limito ad alcuni esempi.

Primo. Il programma della loggia P2 – sciolta per legge nel 1982 – parlava di “una forza interna alla magistratura (la corrente di Magistratura indipendente) che raggruppa oltre il 40% dei magistrati italiani su posizioni moderate”. Sosteneva che “un raccordo sul piano morale e programmatico” insieme a “concreti aiuti materiali” avrebbe assicurato “un prezioso strumento già operativo all’interno del corpo”. Come si vede, la degenerazione delle correnti, pur nella sua gravità, non è assimilabile alle trame di “venerabili maestri” che assoldano magistrati. E non si tratta di semplici progetti, perché proprio per l’adesione alla P2 e i finanziamenti ricevuti, il Csm (intervenendo responsabilmente) ha radiato dall’ordine giudiziario, nel 1983, l’allora segretario della corrente in questione.

Secondo. L’impareggiabile professionalità di Giovanni Falcone fu sacrificata dal Csm (1988) sull’altare della maggiore anzianità, a vantaggio di un candidato (Antonino Meli) che di processi di mafia non ne aveva visti mai. Ed era lo stesso Csm che per la nomina dei dirigenti in terra di mafia si era dato la direttiva di valorizzare le attitudini specifiche. Direttiva applicata per la nomina di Borsellino a procuratore capo di Marsala, ma pochi mesi dopo aggirata con nonchalance per Falcone. Il “gioco” delle correnti fu smaccato, tanto che Borsellino parlerà di “giuda”. Come a dire che anche allora le regole potevano valere a intermittenza se c’erano certi obiettivi da raggiungere. Non solo la nomina di un dirigente, ma pure spalancare le porte a uno come Meli, convinto che il pool di Falcone fosse una infruttuosa inutilità da demolire, arretrando l’antimafia di una cinquantina d’anni. Rassicurando nel contempo chi di Falcone temeva il pericoloso “maccartismo”, in ragione della dichiarata propensione a occuparsi anche della “convergenza di interessi col potere mafioso […], che costituisce una delle cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa Nostra e della sua natura di contropotere” (1987, ordinanza-sentenza del “maxi ter”).

Terzo (un caso vissuto sulla mia pelle, ma che trascende il personale). Il concorso bandito dal Csm nel 2005 per la nomina del nuovo Procuratore nazionale antimafia (Pna) ha come principali candidati Piero Grasso e il sottoscritto. Contro di me si scatena una campagna con l’obiettivo esplicito di farmi “pagare” il processo Andreotti (sullo sfondo incombe pure Dell’Utri). Tal Luigi Bobbio, magistrato prestato alla politica, senatore di Alleanza nazionale, propone una leggina che impedisce di diventare Pna a chi sia over 66. Guarda caso, l’età che io avevo appena raggiunto per cui la leggina viene subito battezzata “anti Caselli”. Intanto al Csm la commissione competente vota: 3 per Grasso e 3 per me. Ma in plenum, al voto definitivo, arriva soltanto Grasso. Otto giorni dopo il pareggio in Commissione, viene approvata la leggina escogitata da Bobbio e io vengo “tagliato”. Grasso, rimasto solo, è il nuovo Pna. Il “gioco” delle correnti questa volta si manifesta col fatto che le componenti del Csm favorevoli a Grasso – invece di puntare i piedi in difesa della loro autonomia – volentieri accettano di essere espropriate dal potere legislativo con un’iniziativa palesemente incostituzionale. E prima ancora si sintonizzano supinamente con le aspettative della maggioranza politica, arrivando a scrivere cose assurde. Tipo che mi ero affacciato alle funzioni requirenti solo dal 1993 (anno del mio trasferimento a Palermo), cancellando con un colpo di mano anni di indagini sul terrorismo brigatista; liquidando poi la mia esperienza palermitana trascurandone i risultati ottenuti: dalla caterva di latitanti arrestati ai 650 ergastoli inflitti, ai 5,5 milioni di euro di beni confiscati. Come per Falcone (si parva licet…): correnti impegnate in un “gioco” che per nominare i dirigenti giudiziari si ispira anche all’immaginifico criterio del colpirne uno per educarne cento.

Conviene tenere a mente questi episodi anche oggi, perché la scelta dei componenti del Csm e dei dirigenti non è mai fine a se stessa, ma incide sulla capacità della magistratura tutta e dei singoli uffici di essere fedeli soltanto alla Costituzione: l’unica fedeltà (ammonisce il presidente Mattarella) richiesta ai servitori dello Stato a tutela della democrazia.

 

Dai costi del programma al compenso: Quello che… ”Fabiofazio” non dice

La recente intervista del Messaggero a Paolo Bassetti, ad di Banijay, il più grande colosso produttivo tv europeo, dimostra che l’arte tutta italiana di non fare la seconda domanda si sposa felicemente con quella di non rispondere sul punto. Bassetti, ma questo l’intervista non lo dice, è pure presidente di Officina, la società che produce il programma di Fabiofazio (azionista al 50%, con Magnolia, cioè Banijay, che detiene l’altro 50%).

MESSAGGERO Due milioni e 200mila euro a Fabio Fazio sono troppi?

PAOLO BASSETTI Fazio è una risorsa. “Che tempo che fa” è la sintesi perfetta di servizio pubblico e intrattenimento, ottimi ascolti e raccolta pubblicitaria. Su Rai1 dalle 20.30 a mezzanotte costava solo 400mila euro a puntata: la rete, per coprire le tre fasce, oggi spende tre volte tanto. Si autoproduce? Nel mondo lo fanno tutti i grandi showmen. Ed è vergognoso cambiare in corsa le regole.

La giornalista, a questo punto, passa ad altro, invece di replicare: “Bassetti, non ha risposto alla domanda. Due milioni e rotti di compenso, con due milioni di ascoltatori (su Rai2), sono 1 euro a spettatore, quando il compenso di altri big va da 20 a 30 centesimi a spettatore. Quanto al costare meno, la domenica, per coprire le tre fasce dalla prima serata a mezzanotte, Rai1 spende tre volte tanto perché si tratta di fiction: non solo fanno ascolti maggiori di Fabiofazio (La vita promessa 2 a febbraio faceva 4 milioni e mezzo di spettatori, 19,5% di share), ma possono essere vendute all’estero più volte, a differenza del talk-show di Fabiofazio. Oggi sono in onda le repliche di Non dirlo al mio capo: il costo è addirittura zero. In coda alle fiction, c’è uno Speciale Tg1, che non ha certo i costi di una produzione esterna. Quanto al cambiare in corsa le regole, non è vergognoso farlo, dopo una pandemia che ha cambiato in peggio tutti i dati economici, compresi gli investimenti pubblicitari, imponendo una nuova austerità. Del resto, se non si potessero cambiare in corsa le regole, questa pratica vergognosa, buuu, nel passaggio a Rai1 Fazio non avrebbe ottenuto che la produzione del programma fosse assegnata a una sua società personale, creata appositamente al momento del rinnovo del contratto, con l’appalto posto come condizione per la firma; cosa che Michele Anzaldi (Commissione di Vigilanza Rai) definì “un abuso senza precedenti” (dicembre 2018)”. Visto quante cose si potevano replicare all’oste Bassetti, volendo?

Non pago, Fabiofazio ripete poi su Repubblica, anche lui incontrastato, la manfrina che il suo programma “costa la metà di qualsiasi varietà. E non lo dico io, ma la Corte dei conti”. La giornalista avrebbe dovuto replicare: “No, la Corte dei conti scrive che costa meno della metà dei ‘programmi di intrattenimento del servizio pubblico’, sulla base di dati Rai. La Rai però considera intrattenimento anche le fiction: hanno costi notevolmente superiori a un talk-show, che in paragone sembra regalato”. E alla domanda sulle accuse di Salvini (giudicava eccessivo il suo compenso), Fabiofazio risponde: “Una cosa inusuale: un rappresentante delle istituzioni contro un conduttore”. Inusuale? C’è chi, dopo un editto bulgaro, non può tornare in Rai da 19 anni, altro che spostamenti da una rete all’altra. Faceva un talk-show identico, con sette milioni e mezzo di audience. Era pagato 0,06 centesimi a spettatore. Ma faceva anche satira. In Rai. Che coglione! Meno male che l’hanno subito rimpiazzato con Fabiofazio.

 

La cosmesi di B. responsabile da sempre

Non conosce pausa la cosmesi di B. Non la sua personale – l’ex Cavaliere di lifting, trapianti e ritocchi ne ha conosciuti molti – ma quella a opera della grande stampa italiana, sempre più sensibile al fascino dell’ottuagenario, benché pregiudicato e “utilizzatore finale” in tanti scandali della nostra Repubblica.

Ieri è toccato a La Stampa e alla penna del professor Orsina in un editoriale dal titolo: “Se il Paese corteggia Berlusconi”.

Scrive Orsina: “Che Silvio Berlusconi sia l’uomo politico più corteggiato dell’estate 2020, alla sua non più tenera età e ventisei anni dopo la discesa in campo, è per certi versi incredibile”. Si tratta di una figura retorica, perché Orsina ci crede eccome. E sentenzia: “Nell’ultimo quarto di secolo Berlusconi ha svolto una funzione politica essenziale”. Quale? È stato un populista che ha normalizzato i populisti.
Il prof. d’altra parte ci aveva visto lungo: “Scoprire oggi che il berlusconismo ha una componente ‘responsabile’ è un po’ la scoperta dell’acqua calda: quella componente c’è sempre stata”. Come quando lanciava proclami eversivi contro la magistratura. B. praticamente è un padre della patria, è il posto che gli spetta nei libri di storia. Altrui.