E se persino Rutte giocasse pro Europa?

Come dice quel proverbio africano? Se vuoi andare veloce, corri da solo. Se vuoi arrivare lontano, corri insieme a qualcuno. Come tutti, nella difficile trattativa europea, Romano Prodi avrebbe preferito che a Bruxelles i 27 fossero andati, tutti insieme, veloci e lontano. Poiché, purtroppo, nella vita non si può sempre avere tutto e subito (anzi quasi mai) l’ex presidente della Commissione Ue ha messo sul tavolo la questione che l’Europa non può più eludere, quella che definisce “il vero problema di sostanza”. Ovvero: “Una qualsiasi istituzione politica non può definirsi democratica, e nello stesso tempo reggersi sulla regola dell’unanimità”. Perché, scrive Prodi sul Messaggero

parlando dei veti dell’Olanda, “con l’unanimità ogni nano si sente un gigante, e nel caso europeo un Paese di poche centinaia di migliaia di abitanti può bloccare il funzionamento di un’istituzione che comprende centinaia di milioni di cittadini”.

Siamo d’accordo, “le grandi decisioni del mondo sono ormai prese in tempi rapidissimi, frutto di istituzioni politiche fornite di poteri definiti e di strutture tecniche adeguate”, strumenti che il Consiglio europeo non possiede. Tuttavia, proprio perché, come sappiamo, la costruzione europea, solida nelle fondamenta non lo è altrettanto in alcuni mattoni pronti a sfaldarsi per scarso senso comunitario, non pensa il professor Prodi che la regola dell’unanimità, pur con le sue lungaggini e strettoie procedurali, sia di stimolo a quell’arte politica del compromesso, cemento della democrazia? Il cattivo esempio della Brexit, forse non il più calzante in quanto conseguenza soprattutto di dinamiche distruttive interne al Regno Unito, ha dimostrato che dall’Unione si può uscire sbattendo la porta.

Un eventuale voto a maggioranza su bilancio comunitario e sovvenzioni post-Covid avrebbe certamente sconfitto il fronte dei cosiddetti Paesi frugali – Olanda, Austria, Svezia, Danimarca –, ma a quale prezzo? Chi ci dice che il non simpaticissimo (a noi italiani) primo ministro Mark Rutte stia, a suo modo, giocando una partita europea? Che pur con le sue asprezze non rappresenti un argine a quelle spinte sovraniste arancioni che cercano solo l’occasione giusta per scatenarsi contro l’Europa sul modello Boris Johnson? Restare in gruppo con tutti gli altri, anche con chi non ti passa la borraccia, può rallentare la corsa (vero presidente Conte?). Però ti porta al traguardo.

“Lo Stato tradì mio padre come Borsellino”

“Dopo 24 anni di silenzio sulla storia di mio padre l’invito di Salvatore Borsellino a via D’Amelio mi ha ripagato di tante amarezze. L’emozione di quel momento sopperisce alla totale assenza dello Stato”. Il giorno dopo la commemorazione della strage di via D’Amelio, Luana Ilardo è un fiume in piena. Il fratello del magistrato ucciso insieme agli agenti di scorta il 19 luglio ’92, l’ha invitata sul palco.

“Lo Stato ha tradito Gino Ilardo come tradì Paolo Borsellino”. Gino Ilardo era un boss mafioso che saltò il fosso senza dirlo a nessuno. Un mafioso infiltrato nella mafia. Poco prima di uscire dal carcere entrò in contatto con Gianni De Gennaro, allora capo della Dia e lavorò quasi due anni sotto copertura, gomito a gomito col colonnello Michele Riccio. Non lo sapeva nessuno, neppure i suoi familiari. Il 31 gennaio 1995 si spinse oltre ogni limite immaginabile: in una masseria di Mezzojuso, poco lontano da Palermo, riuscì a farsi ricevere da Bernardo Provenzano, il grande capo di Cosa nostra dopo l’arresto di Totò Riina. Ma il superiore di Riccio (che intanto era passato al Ros dei carabinieri) impose di non intervenire. Quel superiore era il generale Mario Mori. Processato e assolto (anche) per quella mancata operazione: per i giudici una legittima scelta investigativa anche se con “più di un dubbio sulla correttezza dal punto di vista professionale” e con “diverse zone d’ombra”. Di sicuro c’è solo che il 10 maggio 1996 Ilardo fu ammazzato a Catania. E Provenzano rimase latitante per dieci anni ancora.

Quella sera a raccogliere il corpo insanguinato di Ilardo, steso sul selciato, c’era Luana. Le ginocchia inzuppate del sangue di suo padre. Morto da mafioso perché ufficialmente non era ancora un pentito. Ammazzato dai mafiosi, così dicono le sentenze. Ma tradito da una talpa istituzionale di cui ancora oggi, a 24 anni di distanza, non si conosce il nome. Eppure erano davvero in pochi a conoscere l’identità della fonte “Oriente”. “Ero figlia di un mafioso, mi ritrovai di colpo figlia di un infame. Di certo non sono mai stata figlia di un assassino perché mio padre non si è mai macchiato di nessun delitto di sangue. Mio padre aveva scontato interamente la pena prima di iniziare a collaborare in segreto con lo Stato. Non ha avuto nessun beneficio. Tradire Cosa nostra fu soltanto una scelta d’amore: per noi figlie, per i gemelli nati dal suo secondo matrimonio con Concetta. Avevano appena nove mesi quando fu ucciso”.

Lo Stato però ha fatto in fretta a dimenticarsi di Ilardo, eccezion fatta per un pugno di investigatori e magistrati, tra cui Nino Di Matteo, che ha collegato l’omicidio dell’infiltrato alle trame della Trattativa con Cosa nostra, e Pasquale Pacifico, il pm che ha processato e fatto condannare mandanti ed esecutori del delitto. Ma se Ilardo è stato ucciso dai killer di Cosa nostra non dovrebbe essere vittima di mafia? Luana Ilardo è decisa: “Ho taciuto a lungo per paura, per tanti anni nessuno mi ha teso la mano. Dalle istituzioni non ho mai ricevuto neppure un telegramma di sterili condoglianze. Adesso so che porterò la mia battaglia fino in fondo, costi quel che costi. Lo Stato ha il dovere di riabilitare il nome di mio padre”.

Il giudice Franco: sulla condanna di B. “Niente di strano”

Fa ancora cilecca la pistola fumante invocata dai berluscones che, con la registrazione di un morto, il giudice Amedeo Franco, scomparso l’anno scorso, stanno riprovando a spacciare la storia del Silvio Berlusconi innocente, ma condannato in Cassazione da un “plotone di esecuzione”. Ed è una testimonianza dello stesso Franco che fuga ogni dubbio, ove mai qualcuno ne avesse, sulla correttezza dei giudici della sezione feriale della Cassazione che quel primo agosto del 2013 confermarono la condanna dell’ex premier per frode fiscale (processo Mediaset-diritti tv). Che tutto si sia svolto in punto di diritto, lo ha detto Franco, relatore e in parte estensore della sentenza Berlusconi, ai giudici disciplinari del Csm, sei anni fa. Bisogna fare attenzione non solo alle parole, ma anche alle date.

Prima di arrivare alla deposizione di Franco al Csm, ricordiamo in estrema sintesi quanto detto nel febbraio 2014 dall’allora giudice di Cassazione a Berlusconi, a palazzo Grazioli, accompagnato da Cosimo Ferri, toga in aspettativa e allora sottosegretario alla Giustizia del governo Letta, ora deputato renziano di Iv, sotto processo disciplinare, da oggi, per lo scandalo nomine.

Franco, tra le altre cose, disse a Berlusconi che quella fu “una vicenda guidata dall’alto”, che gli fu fatta “una porcheria”, che il presidente del collegio Antonio Esposito era “in malafede” e che lui era contro la condanna. A parte il fatto che poteva non firmare la sentenza e mettere per iscritto il suo dissenso in busta chiusa, il punto è che Franco nel febbraio del 2014, registrato, pare a sua insaputa, accusa di fronte a Berlusconi, il presidente Esposito e i suoi colleghi Ercole Aprile, Claudio D’Isa e Giuseppe De Marzo di essere dei giudici protagonisti di un complotto, ma dieci mesi dopo al Csm giura che si è trattato di una sentenza regolare.

È il 2 dicembre 2014 quando Amedeo Franco viene chiamato a testimoniare da Esposito finito sotto procedimento disciplinare per un’intervista a Il Mattino, che, sarà provato, fu manipolata, subito dopo la sentenza di condanna per Berlusconi. La Procura generale accusò il presidente del collegio di aver anticipato le motivazioni del verdetto, i giudici del Csm, relatore Nicola Clivo, invece, hanno assolto Esposito e bacchettato la Procura generale perché “ha fondato la richiesta di condanna prescindendo totalmente dal contenuto dell’intervista”.

A ogni modo, a Franco, come agli altri suoi colleghi, che confermano la regolarità del processo, viene chiesto se quell’intervista, immediatamente smentita da Esposito, “non era stata percepita come un comportamento scorretto nei confronti dei componenti del collegio”, se influì sui rapporti tra Esposito e gli altri giudici e “sul lavoro congiuntamente svolto dopo la lettura del dispositivo e fino all’approvazione collegiale delle motivazioni”. La risposta di Amedeo Franco è netta quanto succinta. Senza possibilità di equivoci. Senza che possa far sorgere un dubbio sulla correttezza del collegio: “È vero (l’intervista, ndr) non ha avuto alcuna influenza, per me non ha avuto incidenza alcuna, non ha influito sul contributo in camera di consiglio, né è stata percepita, almeno da parte mia, come un qualche cosa di strano o qualche cosa che potesse arrecare fastidio”. Dunque, tutto bene.

Eppure Franco aveva la classica occasione servita su un piatto d’argento: era stato chiamato a deporre davanti ai giudici del Csm sulle motivazioni della sentenza Berlusconi e in aula c’era anche chi esercita l’azione disciplinare, in quel caso il sostituto procuratore generale Ignazio Patrone. Potrebbe con la sua testimonianza far aprire un’indagine contro chi, a suo dire, avrebbe deciso a tavolino la condanna di Berlusconi, ma testimonia, sotto giuramento, che tutto è filato liscio. Non evoca la “porcheria” contro il Cavaliere mentre in quello stesso anno, 10 mesi prima, si era stracciato le vesti con il suo ex imputato. Quell’audio carpito e mai depositato dalla difesa di Berlusconi quando il giudice, andato in pensione nel 2017, era ancora in vita, è stato depositato alla Corte dei diritti dell’Uomo di Strasburgo solo nell’aprile scorso, quando Franco non può più rispondere di quello che ha detto.

Dopo lo stop, Diasorin riparte

Diasorin ricomincerà a fornire test sierologici alla Regione Lombardia, terreno di una battaglia decisiva per il futuro dei rapporti tra pubblico e privato nel settore della ricerca scientifica. Ma andiamo con ordine. Ieri l’assessore al Welfare, Giulio Gallera, rispondendo a una domanda specifica, ha fatto capire che le forniture dell’azienda di Saluggia riprenderanno da dove si erano interrotte.

È la logica conseguenza del provvedimento del Consiglio di Stato che ha congelato la sentenza del Tar sfavorevole a Diasorin. Ai primi di giugno i magistrati amministrativi di primo grado avevano annullato l’accordo con la Fondazione San Matteo di Pavia per lo sviluppo di un test finalizzato alla ricerca degli anticorpi neutralizzanti al SarsCov 2, sotto la supervisione scientifica del professore Fausto Baldanti. Il primo mattone della casa del successivo affidamento diretto a Diasorin di mezzo milione di test alla Lombardia a 4 euro l’uno, deciso in piena pandemia. I primi 200mila test avrebbero dovuto essere completati entro il 30 maggio, al 5 giugno ne risultavano eseguiti circa 170mila.

Il percorso di quell’accordo tra privato e Fondazione, secondo gli esposti e i ricorsi di un’azienda rivale, la Technogenetics, violava i principi della libera concorrenza perché concluso senza essere stato preceduto da una evidenza pubblica e senza consentire ad altre imprese di poter interloquire. Tesi sposata dal Tar, che lo aveva sospeso ritenendo che il soggetto pubblico del San Matteo aveva messo a disposizione di Diasorin il proprio know how per sviluppare un progetto ex novo, e non una semplice “validazione” di un prodotto già ultimato. Pochi giorni fa però il Cds ha sospeso il provvedimento del Tar: in questo momento, scrivono, l’interesse di proseguire una ricerca attraverso lo sviluppo e l’esecuzione di questi test è “maggiormente rilevante” rispetto a quello di garantire il libero mercato della diagnostica. Ma per dirimere la “complessa controversia” con una sentenza di merito, il Cds ha chiesto al Miur “più ampi elementi conoscitivi circa le prassi operative seguite dagli Ircs (Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, ndr) nell’applicazione dell’articolo 8, comma 5, del d.lgs. n. 288/2003, con particolare riferimento alla provenienza (privata/pubblica) della proposta delle linee di ricerca attivate”. Ed è questa la vera partita in gioco. “Non si ravvisano precedenti di questo – secondo il consigliere M5S, Massimo De Rosa – ed è importante che il ministero elabori apposite linee guida sugli Ircs. Diasorin non deve diventare il precedente per privatizzare la ricerca con l’elusione delle regole della concorrenza. Per essere certi che i risultati siano finalizzati al benessere della collettività e non all’interesse di chi finanzia”.

Vaccini: piccoli passi avanti Covid: sei sintomatologie

Il vaccino anti-Covid dell’Università di Oxford e la multinazionale britannico-svedese Astrazeneca testato su 1077 persone appare sufficientemente sicuro, mentre stimola una consistente produzione di anticorpi contro il SarsCov2 e di cellule dette linfociti T, globuli bianchi che aiutano a coadiuvare la risposta del sistema immunitario (sono in grado di individuare quali cellule del corpo sono state infettate da un virus e distruggerle e possono persistere per anni).

I risultati preliminari della fase due della sperimentazione sull’uomo del vaccino di Oxford sono appena stati pubblicati dalla rivista Lancet. I primi dati (lo studio è tuttora in corso) appaiono molto promettenti, ma è ancora presto per sapere se il vaccino è realmente in grado di garantire una protezione contro l’infezione da SarsCov2. L’obiettivo principale di questa seconda sperimentazione è quello della sicurezza, anche se i ricercatori hanno contemporaneamente osservato i primi risultati sull’efficacia. Lo studio non mostra se il vaccino può impedire alle persone di ammalarsi o anche solo di ridurre i sintomi di Covid-19 (questo, nel caso in cui si rivelasse capace di offrire una protezione solo parziale).

Il leader del gruppo di ricerca dello Jenner Institute dell’Università di Oxford, Andrew Pollard, a capo dello studio, ha dichiarato alla Bbc la piena soddisfazione per i risultati ottenuti fin qui: “Vediamo [che il vaccino stimola] sia anticorpi che linfociti T. La domanda cruciale cui tutti aspettano una risposta è: il vaccino funziona? Garantisce protezione? Per rispondere dobbiamo aspettare”, ha chiarito Pollard. Lo studio mostra che il 90% delle persone a cui è stato somministrato il vaccino ha sviluppato anticorpi dopo una sola dose. A dieci partecipanti sono state iniettate due dosi e tutti e dieci hanno sviluppato anticorpi. Al 56° giorno di osservazione, gli anticorpi sono ancora presenti. Ma come i ricercatori del King’s College di Londra hanno mostrato in uno studio pubblicato la scorsa settimana, gli anticorpi potrebbero svanire dopo pochi mesi, riducendo le chance dell’efficacia a lungo termine di un eventuale vaccino. Sulla questione della sicurezza, lo studio mostra che il 70% dei pazienti ha sviluppato effetti collaterali lievi o moderati, come mal di testa, spossatezza, febbre. Ma anche in questo caso, l’osservazione degli effetti collaterali si ferma ai primi 28 giorni dalla somministrazione della prima dose. Intanto parte la corsa all’accaparramento delle dosi e il governo britannico ha concluso accordi per assicurarsi 190 milioni di dosi di diversi vaccini, incluse 100 milioni di dosi del vaccino di Oxford.

Oltre al vaccino, un altro risultato importante arriva, ancora una volta, dal King’s College: uno studio, ancora da verificare, indicherebbe che i pazienti Covid non mostrano tutti la stessa sintomatologia, ma che esistono sei differenti cluster di sintomatologie, come a dire sei differenti espressioni cliniche del Covid. Sulla base del gruppo di sintomi mostrati dal paziente e della loro gravità si può prevedere, sostengono gli autori, l’andamento della malattia. Solo nell’1,5% dei pazienti del primo gruppo (influenza senza febbre, mal di testa, perdita dell’olfatto, dolori muscolari, tosse, mal di gola, dolori al petto) il decorso poi è quello del bisogno di supporto respiratorio, che nel giro di pochi giorni dai primi sintomi è necessario invece al 20% di quelli del gruppo 6 (mal di testa, perdita dell’olfatto, perdita di appetito, tosse, febbre, raucedine, mal di gola, eccetera).

Cantiere a Roma e Tirreno Power: tre operai morti. Tutti subappalti

Avevano l’imbracatura di sicurezza, ma il moschettone era attaccato alla loro stessa cintura. Non c’era alcuna corda ieri mattina, alle 10.30, a impedire il volo di 20 metri che ha ucciso Paolo Pasquali, 29 anni, e Stefano Fallone, 53 anni, due operai romani impegnati nella demolizione di una trave in un cantiere nel quartiere Vigna Murata di Roma. Quando la trave si è staccata, i loro dispositivi non erano ben allacciati. Questo quanto riferito dal responsabile per la sicurezza ai sindacati. La relazione finirà nel fascicolo per omicidio colposo aperto dalla Procura di Roma (pm Francesco Minisci). “Nessuno ha sorvegliato, urgono controlli e rispetto dei contratti”, affermano Agostino Calcagno e Salvatore Riga, della Feneal Uil. Pasquali era inquadrato come apprendista, Fallone come “muratore”. Verifiche in corso sullo svolgimento dei corsi di formazione. Nessun commento dalle ditte.

Gli operai lavoravano per la Nuova Tecnotagli di Cesano di Gianluca Mele, ex consigliere municipale del Pd. “Erano amici d’infanzia: famiglie distrutte e comunità in lutto”, raccontano nella frazione a nord di Roma. La ditta, specializzata in demolizioni e ricostruzioni di travi, era subappaltatrice in un appalto da 14 milioni di euro, commissionato dalla Ghetaldi Property alla Costruzioni Generali Lombarde, che orbita nella galassia della Statuto Lux Holding del noto immobiliarista Giuseppe Statuto. Ghetaldi e Costruzioni Generali risultano legate: hanno lo stesso amministratore attuale, Giuseppe Botta, ed ex, Massimo Negrini. Quest’ultimo fu arrestato nel 2018 con Statuto per bancarotta. Statuto è anche coinvolto in un filone d’inchiesta sullo stadio della Roma. Dei 14 milioni per realizzare di un centro commerciale e appartamenti, 378mila sono destinati agli oneri per la sicurezza.

Ieri, altra tragedia a Savona: un operaio di 54 anni è rimasto schiacciato nella centrale Tirreno Power. Il settimo decesso sul lavoro in 7 giorni.

“Detenuti torturati”, agenti verso il processo Accuse ai superiori e al direttore del carcere

Schiaffi dati coi guanti per non lasciare i segni. Detenuti obbligati a stare in piedi con la faccia contro il muro per 40 minuti consecutivi, mentre un agente urlava: “Pezzo di merda! Ora ripeti, sono un pezzo di merda”. A un carcerato che aveva osato denunciare i pestaggi subiti, i poliziotti minacciandolo dissero: “Ora scrivi alla Procura che ti sei inventato tutto”. Non è l’inferno, ma il reparto delle Vallette – carcere di Torino – dove sono detenuti i condannati per violenza sessuale e pedofilia. Qui 21 agenti di polizia penitenziaria avrebbero picchiato e insultato, più volte, almeno dieci carcerati. I vertici sarebbero stati a guardare e avrebbero coperto gli agenti. Ieri il pm Francesco Saverio Pelosi della Procura di Torino ha chiuso un’indagine avviata un anno e mezzo fa con l’arrivo di un esposto del Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma.

Sono 25 gli indagato, di cui 21 poliziotti: alla maggior parte di loro la Procura contesta il reato di tortura. Rispondono invece di favoreggiamento il comandante della polizia penitenziaria, Giovanni Battista Alberotanza e il direttore della casa circondariale “Lorusso e Cutugno”, Domenico Minervini (a cui si contesta anche l’omessa denuncia). I due – assistiti rispettivamente dagli avvocati Michela Malerba ed Antonio Genovese – avrebbero saputo che nel carcere sarebbero avvenute violenze, ma non avrebbero informato l’autorità giudiziaria. Il direttore, secondo quanto accertato dal nucleo investigativo regionale della polizia penitenziaria, dopo essere stato avvisato “in numerose occasioni” dalla Garante dei detenuti torinese, Monica Gallo, “ometteva di denunciare gli episodi di violenza e di vessazioni all’autorità giudiziaria”. Alberotanza, “informato di quanto accaduto” avrebbe aiutato “alcuni indagati, eludendo le investigazioni, omettendo di denunciare i pestaggi, conducendo un’istruttoria interna in cui ricostruì l’accaduto in maniera non veritiera e denunciando per diffamazione due detenuti che avevano sporto denuncia”. Gli agenti indagati avrebbero procurato “accuse e sofferenze fisiche” ai carcerati, ma anche verbali, come: “Te la faremo pagare, ti faremo passare la voglia”. “Pedofilo pezzo di merda”. Condotte, per la procura, che “comportavano un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona detenuta”. A un carcerato che chiedeva aiuto nella propria cella che stava prendendo fuoco, i poliziotti dissero: “Hai appiccato il fuoco tu”. Poi lo colpirono con calci alle gambe e ai fianchi facendolo cadere a terra. Non tutti gli agenti picchiavano i detenuti. Alcuni di loro hanno indagato per mesi, in silenzio, sulle violenze messe in atto dai colleghi, per mettere la parola fine pratiche perverse che sarebbero durate da anni.

“Psico-setta” e abusi sessuali anche su minori

Si faceva chiamare “dottore” o semplicemente “lui” il 77enne ritenuto a capo di una pericolosa “psico-setta” e indagato con altre 25 persone nell’inchiesta “Dioniso”. La psico-setta era operativa da circa 30 anni, con base nella provincia di Novara e diramazioni a Milano e nel pavese. Tra adepti e vittime ha avvicinato decine di persone, compiendo torture sessuali anche su minorenni. Il “dottore” si avvaleva della complicità di un gruppo di donne, alcune psicologhe, che lo aiutavano a individuare le sue “ancelle”: persone indotte a lasciare amici e famiglia, quando non erano gli stessi famigliari a portarle nel gruppo, con la convinzione di entrare a far parte di un “mondo magico”. Chi provava a disobbedire, o sollevava, veniva minacciata, punita e isolata. L’indagine, coordinata dalla Procura di Torino, è iniziata due anni fa con la denuncia alla Squadra mobile di Novara di una giovane donna, entrata nella setta a soli otto anni. Per stringere il legame in alcuni casi alle vittime veniva anche offerto un lavoro in una delle molteplici attività collegate, secondo l’accusa, all’organizzazione. Tra queste due scuole di danza, diverse erboristerie, una bottega di artigianato e una casa editrice. Il “dottore” decideva tutto; alle schiave psicologiche non era concesso neppure nominare il suo nome. Le “prescelte”, giovanissime spesso di ambienti facoltosi e avvicinate tramite psicologhe, venivano indottrinate con pratiche magiche e sessuali spesso estreme e dolorose, vere e proprie torture per “annullare l’io pensante e isolarle”.

Scuola, il bando c’è: occhi puntati sui costi dei banchi

Il Commissario straordinario per il contrasto al Covid-19 (e per la riapertura delle scuole) Domenico Arcuri ha indetto la gara pubblica europea per l’acquisto di un massimo di 3 milioni di banchi scolastici. La gara prevede la fornitura fino a 1,5 milioni di banchi monouso tradizionali e fino a 1,5 milioni di banchi di tipo più innovativo. La scadenza per il bando, richiesto dalla ministra Lucia Azzolina, è prevista tra dieci giorni, per il 30 di luglio. I contratti dovranno essere firmati entro il 7 agosto e l’azienda che si aggiudicherà la gara dovrà assicurare la consegna dei banchi entro il 31 agosto. Le scuole, in queste settimane, hanno avanzato le proprie richieste di fabbisogno.

Ma non si placano le polemiche, soprattutto sui costi (le prime stime prevedono che ogni singolo banco costi fino a 300 euro, ma ancora naturalmente non si conosce l’importo previsto, essendosi la gara appena aperta), con promesse di interrogazioni parlamentari e con un esposto alla magistratura contabile che il Codacons ha annunciato.

La ministra Azzolina, a margine della sua visita all’istituto comprensivo Riccardo Massa di Milano, ha detto che “i banchi sono singoli e al momento sono quelli che ci garantiranno maggiore distanziamento ma in futuro permetteranno l’avvicinamento, cioè di avere una innovazione didattica che permette agli studenti di lavorare in gruppo”.

Quanti ne servono? “Stiamo facendo le rilevazioni, le abbiamo fatte prima con l’ufficio scolastico regionale. E adesso anche con i dirigenti scolastici. Stiamo distinguendo per la scuola primaria, secondaria di primo grado e di secondo grado”, ha concluso Azzolina. Poi ha ribadito: “Le lezioni inizieranno il 14 settembre, si farà assolutamente in tempo, voglio rassicurare le famiglie. Qualche criticità è legata al nodo trasporti ma la ministra De Micheli ci sta lavorando”. E ai sindacati ha detto: “Basta toni apocalittici. Vorrei si evitassero gli allarmismi”.

Dirigenti esterni, la Regione Lazio rischia 10 milioni

Il Consiglio di Stato ha dichiarato illegittimi 48 dirigenti esterni della Regione Lazio, sottolineando anche che 27 sono in eccesso rispetto a quanto stabilito dalle norme nazionali e regionali. La sentenza conferma quella del Tar del 2015, inerente gli incarichi dirigenziali assegnati ad esterni dall’estate del 2013 in poi. Successivamente la Regione Lazio ha presentato appello per difetto di giurisdizione, ottenendo il diniego dalla Cassazione, e poi il Consiglio di Stato il 17 luglio ha confermato la sentenza del Tar, ribadendo le illegittimità denunciate circa sette anni fa dalla Fedirets DirerLazio, sindacato dei dirigenti regionali.

Dalla Regione Lazio sottolineano che “le questioni sollevate nel 2015 dal Tar sono state recepite dall’amministrazione e gli incarichi censurati dal Tribunale amministrativo sono ormai cessati”.

Il sindacato però prepara un esposto alla Corte dei Conti per presunto danno erariale. “Oltre ai 48 incarichi illegittimi – spiega Roberta Bernardeschi, segretario regionale della Fedirets – che seppur parzialmente cessati comunque non erano regolari, vi sono gli incarichi successivi al 2015 che sono stati dati con le stesse modalità censurate dai giudici amministrativi in primo e secondo grado. Ovviamente sarà la magistratura contabile a stabilire l’entità dell’eventuale danno erariale ma, secondo i nostri calcoli parliamo di almeno 10 milioni di euro”. Una stima in difetto del sindacato calcolando che ogni anno in Regione ci sono circa “60 dirigenti esterni reclutati con modalità non conformi alla legge, lo dimostra il fatto che la Regione ha presentato appello alla sentenza del Tar, non condividendo quindi le prescrizioni dei giudici del 2015”. “Altra conseguenza – conclude la Bernardeschi – saranno le eventuali richieste di risarcimento danni da parte dei dirigenti interni e quadri esclusi in questi anni, parliamo di decine di persone”.