Il Vaticano cede alla crisi delle vocazioni: anche i laici celebreranno le nozze in chiesa

Matrimoni e funerali potranno anche essere affidati all’assistenza di fedeli laici “sotto la responsabilità dei parroci”. Una misura concessa “in via eccezionale”. Lo sottolinea la Congregazione per il Clero in un nuovo documento diffuso ieri.

Dunque la carenza di sacerdoti potrà portare, in via “eccezionale”, a far celebrare anche laici. “Il Vescovo, a suo prudente giudizio, potrà delegare ufficialmente alcuni incarichi ai diaconi, alle persone consacrate e ai fedeli laici, sotto la guida e la responsabilità del parroco”, si legge nell’Istruzione sulle parrocchie. Potranno presiedere la liturgia della Parola, dove non si può celebrare la messa per mancanza di sacerdoti; “non potranno invece in alcun caso tenere l’omelia durante la celebrazione dell’Eucaristia. Inoltre “dove mancano sacerdoti e diaconi, il Vescovo diocesano, previo il voto favorevole della Conferenza Episcopale e ottenuta la licenza dalla Santa Sede, può delegare dei laici perché assistano ai matrimoni”.

Lombardia Film Commission a vuoto: solo 2 bandi in 7 anni

I soldi per comprare il capannone di via Bergamo 7, a Cormano, sono arrivati dalla Regione tutti insieme e a tempo di record in poco più di un mese alla fine del 2015. I fondi che servono a fare cinema invece scarseggiano e, anzi, negli anni si sono ridotti. Sia quelli per far funzionare la struttura, che quelli destinati a “promuovere la realizzazione di film, fiction Tv, spot, documentari e di ogni altra forma di produzione audiovisiva per aumentare la visibilità del territorio lombardo”, si legge sul sito. Tanto che dal 2013 la “Lombardia Film Commission” ha lanciato soltanto due bandi per sostenere le produzioni realizzate nella regione. Ovvero per svolgere la funzione per la quale è stata creata.

Nel sistema delle Film Commission sono le Regioni che mettono a disposizione i fondi per i bandi. Il primo pubblicato dalla Lfc risale al 2013: quell’anno il budget del “Lombardia Film Fund” a disposizione dei registi che avessero voluto girare lungo e cortometraggi, serie tv o docufiction in terra lombarda era di 1,5 milioni. Il secondo era arrivato solo nel 2017: dimezzato (728mila euro). Poi più nulla, tanto che, sul sito, la voce “Bandi aperti” è desolatamente vuota. “Una miseria – conferma Marina Spada, regista e docente alla Civica Scuola di Cinema di Milano – oltre a quei due stanziamenti, miserrimi, la Regione non ha fatto un tubo. Eppure in Lombardia le aziende del comparto sono circa 1.200, in gran parte gestite da giovani”.

Il resto dei bandi della Lfc sono chiamate per incarichi esterni per consulenti contabili, direttori amministrativi e – l’unico del 2020 – per il rinnovo dell’Organismo di vigilanza in scadenza il 24 luglio. Verrà così sostituito l’avvocato Alessio Gennari, l’uomo che avrebbe dovuto vigilare sull’acquisto dell’immobile di Cormano al centro dell’inchiesta della Procura di Milano, ma che non si era accorto che Michele Scillieri, l’amministratore di fatto della società venditrice Andromeda, era in conflitto d’interessi, essendo anche consulente della fondazione stessa. Il commercialista Scillieri che per i pm sarebbe tra gli ideatori della vendita “gonfiata” ha con la Lfc un contratto da 25mila euro l’anno fino al 31 dicembre, si legge ancora sul sito.

A leggere i bilanci dell’ente, si scopre come anche i finanziamenti per il suo funzionamento si siano ridotti nel tempo. Sono passati dai 693mila euro del 2015 ai 515mila del 2017 (anno in cui Lfc acquistò il capannone a 800milaeuro da Andromeda che lo aveva a sua volta acquistato dalla Paloschi Srl per la metà), per poi risalire a 556milanel 2018, ultimo bilancio disponibile. Poco per la Lombardia, seconda regione per produzione audiovisiva dopo il Lazio. Ma il valore della produzione della “Roma-Lazio Film Commission”, nel 2018, ammontava a 910milaeuro. Quest’ultima, però, non fa bandi perché il Fondo Cinema è gestito da Regione e Lazio Innova e può contare su circa 23 milioni l’anno.

Capitale del cinema a parte, a dare un’idea basta il raffronto con la “Friuli Venezia-Giulia Film Commission”. La quale ogni anno pubblica tre bandi grazie agli 1,5 milioni messi a disposizione dalla Regione. “Tra il 2018 e il 2019 abbiamo investito 3,2 milioni perché l’ultimo stanziamento è stato di 1,7 milioni – spiega il presidente Federico Poillucci – per sostenere circa 30 produzioni tra cui serie tv come Il Commissario Montalbano, Volevo fare la rockstar e La porta rossa per la Rai e Il silenzio dell’acqua per Mediaset”. Un investimento che ha un ritorno: “Abbiamo avuto ricadute per 24 milioni sul territorio in termini di spesa diretta delle produzioni”. Con una differenza in più rispetto alla Lombardia: “Noi siamo un’associazione, non una fondazione – conclude Poillucci – io sono stato scelto non dalla Regione ma dall’assemblea”. A differenza di Alberto Di Rubba, revisore dei conti della Lega oggi indagato, che nel 2014 venne nominato alla guida di Lfc dal Pirellone. Che sulla Fondazione chiede un controllo ancor più stretto: lo scorso anno l’assessore regionale alla Cultura Stefano Bruno Galli aveva chiesto che la Fondazione fosse portata sotto l’edigia diretta del Pirellone. Per lui, le modalità di acquisto del capannone di Cormano è stata solo “un’imprudenza”.

Salvini in Sicilia è già in crisi. Lo hanno mollato in 2 su 4

Nemmeno il tempo di scaldare i motori e tra i leghisti di Sicilia gli ingranaggi si sono già inceppati. Il tanto declamato storico gruppo parlamentare all’assemblea regionale, in meno di sette mesi, passa da quattro a due deputati, rischiando addirittura di scomparire definitivamente: un vero e proprio record.

L’ultima a salutare il Carroccio, sbattendo la porta, è stata Marianna Caronia. Poco in sintonia all’idea del senatore e commissario in Sicilia Stefano Candiani di abolire le preferenze per le elezioni regionali. “Dichiarazioni che non mi hanno stupita – dice Caronia –, perché sono la conferma e l’espressione di una cultura e di una visione non molto democratica della politica della Lega”. Tuttavia l’addio – adesso tornerà a iscriversi al gruppo Misto – era nell’aria dal 12 giugno, all’indomani dell’articolo con cui Il Fatto raccontò di una vecchia poesia usata dall’assessore regionale leghista Alberto Samonà per inneggiare alle SS di Hitler. In quell’occasione Caronia era stata l’unica, da dentro lo scacchiere del partito di Salvini, a invocare chiarimenti dai vertici. La deputata scelse anche di disertare il tour del segretario nell’isola.

Ora che l’intesa è finita, il senatore lombardo Candiani ha descritto la deputata – che lascia pure il gruppo Lega al Consiglio comunale di Palermo – come “una persona complicata”. Senza disdegnarle critiche per il suo eccessivo trasformismo: “Ha cambiato quattro gruppi in due anni e mezzo”, ha sottolineato. Durante la campagna acquisti per formare il nuovo gruppo, però, il passato politico dell’onorevole palermitana, a cavallo tra Forza Italia, Cantiere Popolare e Movimento per le autonomie, non aveva suscitato nessun imbarazzo nei salviniani. Così come nessuno aveva storto il naso per il coinvolgimento della stessa in una maxi-inchiesta su corruzione e trasporti marittimi della procura di Palermo.

E infatti era anche lei nella foto ricordo di metà gennaio, con cui i nuovi deputati della Lega brindavano al nuovo gruppo riuniti attorno a un tavolo. Per arrivare a quello scatto, si era ritagliato un ruolo di primo piano anche il parlamentare modicano Nino Minardo. Tessitore della trattativa romana che aveva dato il via libera alla scelta del governatore Musumeci di affidare ai salviniani un assessorato. Ma la luna di miele è durata poche settimane. Prima di Caronia i titoli di coda erano comparsi per accompagnare l’uscita dal gruppo all’Ars del democristiano Giovanni Bulla. Una toccata e fuga di appena quattro mesi la sua, terminata per un rapporto poco idilliaco tra l’ex Udc e i rampanti consoli di Salvini nell’isola.

Ma cosa succederà adesso? Secondo quanto previsto dal regolamento interno dell’Ars c’è bisogno di almeno quattro deputati per formare un gruppo parlamentare. Quando erano scesi a tre tutto era rimasto come prima ma solo grazie a una particolare deroga concessa dall’ufficio di presidenza. La stessa che adesso dovrebbero chiedere i due reduci: l’ex capogruppo di Fratelli d’Italia Antonio Catalfamo e l’ex Forza Italia Orazio Ragusa. In queste ore entrambi rimangono trincerati dietro un silenzio imbarazzato che potrebbe avere anche il sapore della resa definitiva.

Per la Lega, almeno per il momento, non prosegue meglio nemmeno l’ammiccamento con Diventerà Bellissima, il movimento politico creato dal governatore Musumeci. Non è un mistero che sul tavolo dei salviniani ci sia il progetto di federarsi con realtà regionali e autonomiste: sia in ottica elezioni nazionali ma anche in chiave ricandidatura dello stesso Musumeci per le regionali del 2022. C’è poi l’appuntamento con le amministrative di settembre. Il presidente della Regione dal canto suo continua a temporeggiare, forse preoccupato per il costante calo dell’appeal di Salvini in Sicilia. Il mini-tour del 12 giugno, che aprì la polemica con l’onorevole Caronia, si era concluso tra le contestazioni dei dissidenti di Barcellona Pozzo di Gotto, nonostante l’apertura del segretario al progetto del ponte sullo Stretto di Messina. “Parlerò con tutti. Con Meloni, Salvini e Berlusconi”, ha chiosato il governatore durante il congresso di Diventerà Bellissima a inizio luglio, mentre a febbraio aveva rivolto un invito a pranzo soltanto al leader del Carroccio. Intanto l’unica certezza è la linea della strategia della tensione adottata sul tema dei migranti. Da settimane il governatore si scaglia contro il governo Conte e il pericolo coronavirus. Per il matrimonio con Salvini c’è ancora un po’ di tempo.

Marche, ipotesi ticket giallorosa: contatti Pd-M5S

Dal Movimento 5 Stelle negano passi in avanti (“Al momento non c’è nulla” dice il “facilitatore” Giorgio Fede) ma la trattativa dei giallorosa per costruire un’alleanza organica anche nelle Marche è avviata. Siamo ancora ai blocchi di partenza ma in campo sono scesi i big nazionali: per la prima volta, nei giorni scorsi il capo politico del Movimento Vito Crimi non si è limitato a interloquire con il suo omologo del Pd, Nicola Zingaretti, ma ha telefonato direttamente al candidato dem, Maurizio Mangialardi. Almeno un paio di chiamate, dopo che il sindaco di Senigallia aveva già sentito via messaggio il candidato grillino, Gian Mario Mercorelli. Da entrambe le parti confermano il colloquio ma nessuno vuole esporsi sul contenuto delle telefonate: Crimi avrebbe riconfermato a Mangialardi la richiesta di “discontinuità” sui temi rispetto al governo di Luca Ceriscioli. Che non significa solo politiche nuove sulla sanità (meno privato, più pubblico), investimenti sulle piccole e medie infrastrutture, ma anche un cambio di approccio sui nomi: i grillini vorrebbero il ritiro di Mangialardi e l’accordo su un terzo nome ma, visto che questo non sarà possibile, potrebbero accontentarsi anche di un ticket Mangialardi-Mercorelli in funzione “anti-destra”. Su questa proposta c’è l’ok del candidato dem che pochi giorni fa, al Fatto, aveva parlato di “scelta ragionevole in caso di alleanza”, ma resta ancora poco digeribile per gli attivisti pentastellati.

Ieri pomeriggio, a smuovere lo stallo ci ha pensato il deputato marchigiano Roberto Cataldi secondo cui “è sciocco fare i fidanzati in casa, a livello nazionale, e non prendersi per mano sul territorio”. “È chiaro – ha continuato Cataldi all’AdnKronos – che ci sono vedute diverse, ma replicare il modello nazionale potrebbe garantirci un risultato migliore alle urne”. Un’idea che riflette l’ultimo sondaggio che circola nel Pd marchigiano: come candidato, Mangialardi avrebbe ben 10 punti di vantaggio sul suo sfidante Francesco Acquaroli (Fratelli d’Italia) ma, a livello di liste, il centrodestra ha un +8% sul centrosinistra. Per questo, il sindaco di Senigallia le sta provando tutte per costruire un’alleanza con il Movimento 5 Stelle, dato poco sotto al 10%. “Non escludiamo niente – dice il senatore Fede al Fatto – ma al momento le condizioni di un accordo sono molto difficili perché dal Pd non vediamo una vera discontinuità. Non solo il candidato ma anche tutto il gotha dem, che è sempre lo stesso”.

Nelle prossime ore il dialogo andrà avanti e a sbloccare la situazione potrebbe essere un’altra partita: l’accordo a Pomigliano D’Arco, feudo di Luigi Di Maio, dove i giallorosa potrebbero convergere su Dario De Falco, amico storico del ministro degli Esteri. Dopo la Liguria, la convergenza nella cittadina nel napoletano potrebbe sciogliere il nodo nelle Marche e, più difficile, in Puglia. Ad ogni modo, un’alleanza in queste due regioni dovrebbe passare da un voto su Rousseau. In caso contrario, resta il piano “B”, ovvero la desistenza in funzione “anti-Lega”: far votare la lista del M5S e i candidati del Pd, Emiliano e Mangialardi. E il toscano Eugenio Giani in caso di ballottaggio contro la leghista Ceccardi.

Nardella contro Lotti: l’ultima sfida tra i due orfani di Matteo

“Luca la deve smettere di fare il bello e il cattivo tempo. In Toscana il vento è cambiato” sibila da Palazzo Vecchio un fedelissimo di Dario Nardella. Il Luca in questione è Lotti, ex Gran Visir di Matteo Renzi rimasto a guidare la pattuglia degli ex renziani nel Pd. Il “lampadina” di Montelupo Fiorentino, chiamato così per i suoi ricci capelli biondi, per interposto esponente di “Base Riformista” risponde per le rime: “Dario ci attacca perché vuole diventare il prossimo leader del Pd. E il nostro Bonaccini lo preoccupa”. Dietro allo scambio di battute, raccolte sotto richiesta di anonimato, si cela la nuova guerra fratricida tra gli “orfani” del padre Matteo Renzi, che nel frattempo cannoneggia il Pd da fuori: da una parte il sindaco di Firenze Dario Nardella, dall’altra l’ex ministro dello Sport, Luca Lotti. Secondo i ben informati, i due ex amici non si sentono più da tempo e, anzi, ormai si fanno la guerra apertamente come se non appartenessero più allo stesso partito. Figuriamoci alla stessa corrente.

L’oggetto della contesa sono le elezioni regionali di settembre quando il candidato renziano Eugenio Giani dovrà resistere all’assalto della leghista Susanna Ceccardi. Il campo di battaglia, la città culla del renzismo: Firenze. Da qui tutto è partito e tutto ritorna: nell’immaginario dell’ex Giglio magico – sia vero o meno, conta poco – l’egemonia sul partito si stabilisce a Firenze. E così, alla prima occasione utile – le elezioni regionali, appunto – il collegio di Firenze 1 si trasforma in una guerra tra Nardella e Lotti a colpi di candidature. Strapaese e strapotere che si fondono in una miscela micidiale. Entrambi avrebbero voluto per sé il capolista, ma alla fine è intervenuto Nicola Zingaretti piazzandoci lo studente fondatore della onlus per disabili #vorreiprendereiltreno, Iacopo Melio. Quindi la partita tra i due si è fatta ancora più dura: Lotti ha già scelto la consigliera comunale Maria Federica Giuliani e l’ex assessore comunale della giunta Renzi, Massimo Mattei, scaricato dall’ex sindaco dopo lo scandalo “Sexgate” (estraneo alla vicenda) e tra i personaggi del caso Consip, in cui è indagato lo stesso Lotti: Mattei, a fine 2016, era tra i partecipanti al barbecue a Rignano con Tiziano Renzi e il generale Emanuele Saltalamacchia in cui, secondo i pm, quest’ultimo si sarebbe rivolto al padre dell’allora premier avvertendolo: “Non parlare con Alfredo Romeo”. Mattei, ascoltato dai pm napoletani e romani come testimone, ha sempre difeso Tiziano Renzi.

Nardella invece ha deciso addirittura di candidare tre assessori di peso della sua giunta a costo di fare un rimpasto dopo solo un anno di mandato: la vicesindaca Cristina Giachi, l’assessore al Sociale Andrea Vannucci mentre nella piana fiorentina correrà il responsabile al personale, Alessandro Martini. A rendere ancora più feroce la battaglia è la legge elettorale che prevede la doppia preferenza di genere e quindi le coppie di candidati dovranno andarsi a prendere i voti strada per strada.

Lo scontro però non è solo fiorentino: se vale l’assunto, ripetuto in coro dai renziani nel Pd, secondo cui qui “si stabiliscono gli equilibri nazionali”, le regionali sono solo il primo tempo di una lunga partita. Da una parte, sono note le aspirazioni di Nardella a livello nazionale: il sindaco di Firenze non ci sta più a essere il delfino sempre in attesa di realizzare le proprie ambizioni. Nel 2009, da buon violinista, voleva fare l’assessore alla Cultura e invece Renzi lo fece vicesindaco con delega allo Sviluppo economico. Nel 2014 voleva diventare il braccio destro del nuovo segretario con aspirazioni ministeriali e invece Renzi lo rimandò a Firenze a fargli da successore. Oggi che Nardella si è liberato dell’ombra del padre, vorrebbe raccogliere il testimone di Zingaretti e il primo nemico da combattere è proprio Lotti. Magari anche con l’aiuto della segretaria regionale Simona Bonafè, che ha bisogno di fare sponda politica con il sindaco per arginare lo strapotere dell’ex ministro in Toscana. Nel mezzo, alla finestra, ci sono gli zingarettiani che sperano in un ulteriore allontanamento di Lotti dal partito, dopo essersi già autosospeso: “Alla fine potrebbe rimanerne solo uno”, dicono a mezza bocca. Una speranza più che un fatto.

Ora si litiga sul rinvio (che non c’è)

Il mancato slittamento delle scadenze fiscali diventa un insidioso campo di battaglia politica. Con Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia che si battono a spada tratta per ottenere dal governo interventi d’urgenza a supporto di partite Iva, imprese e commercianti. Matteo Salvini sostiene lo sciopero fiscale. Lo scontro più violento sarà oggi alle 16, nella sala Nassirya al Senato: l’Associazione nazionale commercialisti ha organizzato una conferenza stampa per annunciare le misure di protesta alla mancata proroga delle scadenze fiscali del 20 luglio dei pagamenti di Irpef, Ires e Irap, contributi previdenziali e assistenziali, fatture elettroniche, per 4,5 milioni di contribuenti.

Con loro ci saranno anche otto sigle sindacali dei commercialisti e molti politici, soprattutto di centrodestra. Si rischia “un’emergenza sociale che in autunno potrebbe assumere aspetti preoccupanti – ha precisato l’Ordine dei commercialisti – Siamo pienamente consapevoli delle enormi difficoltà di bilancio che l’esecutivo si trova a gestire e del difficile contesto europeo e internazionale. Ma ci sembra paradossale che non si sia trovato il modo di disporre una proroga dei versamenti analoga a quella concessa lo scorso anno”.

Dal canto suo, l’esecutivo sa bene che lo spazio di manovra è stretto e 8,4 miliardi di tasse sono essenziali per far quadrare i conti e dimostrare affidabilità a Bruxelles. Inoltre, nonostante il pesante indebitamento, ormai a 2.500 miliardi, il governo ha tentato di reagire all’impatto economico del Covid-19 con interventi straordinari per circa 80 miliardi. Non senza difficoltà esecutive e polemiche sull’uso dei fondi da parte delle grandi imprese. Ora però “bisogna fare attenzione a tenere tutto in equilibrio, stiamo facendo un altro scostamento da 20 miliardi di euro, arriveremo a 100 miliardi” precisa a Radio1 il viceministro dell’Economia Laura Castelli.

Più duro l’intervento del collega Pd, Antonio Misiani, secondo cui “in questo Paese bisogna iniziare a dire che le imposte vanno pagate perché servono a finanziare i servizi essenziali. E non credo che le partite Iva stiano peggio degli altri”. In un’intervista a La Stampa Misiani ha spiegato che il governo ha “già concesso rinvii, aiuti e sgravi, dunque presentarci come arcigni nemici dei contribuenti è una caricatura”. Anche perché, ricorda, è possibile far slittare i versamenti di un altro mese (fino al 30 agosto) pagando una penale dello 0,4% sull’importo da versare. Ma la situazione è davvero critica come testimonia il fatto che secondo Bruxelles il Pil italiano 2020 crollerà di oltre l’11%, il peggior dato dell’Unione.

Castelli, i ristoratori e le mistificazioni ridicole della destra

La tempesta piovuta addosso a Laura Castelli è un caso di studio sulle dinamiche (spesso) deliranti del ciclo politico-mediatico.

Riassumiamo. Venerdì la viceministra all’Economia grillina è ospite del Tg2 Post, approfondimento a margine del notiziario. In collegamento c’è Roberto Galli, ristoratore e presidente di un’associazione di commercianti. Elenca i numeri della crisi del suo settore. In chiusura di trasmissione, la replica di Castelli: “Questa crisi ha spostato la domanda e l’offerta, le persone hanno cambiato il modo di vivere e bisogna tenerne conto. Bisogna aiutare gli imprenditori creativi a muoversi sui nuovi business. Se una persona decide di non andare più al ristorante, bisogna aiutare l’imprenditore a fare, magari, un’altra attività, a non perdere l’occupazione. Va sostenuto nella sua creatività”.

In trasmissione c’è anche il direttore del Tempo, Franco Bechis. Il giorno dopo il quotidiano romano apre con questo titolo a tutta pagina: “Attacco ai ristoratori”. Nel catenaccio scrive: “La viceministra grillina Castelli si permette pure di prenderli in giro: ‘Non avete più clienti? Cambiate mestiere’”.

La traduzione del Tempo – ripresa dagli altri giornali di destra – deforma le parole di Castelli e le restituisce distorte agli altri media. Lo chef Gianfranco Vissani lancia un appello anti-Castelli firmato da migliaia di esercenti. I soliti noti cavalcano la mistificazione e la rimasticano con le parole della propaganda. Giorgia Meloni: “L’ultima trovata del governo giallorosso arriva dalla grillina Castelli: i ristoratori che non hanno più clienti devono cambiare lavoro. Non ho più parole”. Matteo Salvini: “I ristoratori mi dicono che la Castelli è una cretina. Hanno ragione”.

Poi la polemica infuria sui social network. Questi sono alcuni commenti sul profilo Facebook della Cinque Stelle: “Puttana”, “Vacca”, “Troia schifosa puzzona”, “Lurida zecca rossa da marciapiede”, “Scimmia, presto ti si rimanda in Africa”. Ieri, infine, una piccola manifestazione in piazza Montecitorio di un’associazione di ristoratori. Una trentina di persone con gli striscioni: “Castelli chieda scusa”.

La grillina può non piacere: non è difficile riconoscere una certa attitudine all’inciampo mediatico (si ricorda un’improvvida uscita con l’ex ministro Pier Carlo Padoan). Ma stavolta la polemica è una montatura completa.

Il senso lo riassume Massimo Tonelli, direttore del sito del Gambero rosso (storico punto di riferimento della ristorazione italiana): “Aiutare gli imprenditori creativi a muoversi sui nuovi business – scrive – non è giusto: è giustissimo. Ovviamente non va contro ai ristoratori anzi a loro favore. In particolar modo a favore di quelli tra loro – e sono tanti – che hanno esercitato la loro creatività durante i mesi dell’emergenza sanitaria”. Magari puntando sulla ristorazione d’asporto, oppure – come ha detto il cuoco stellato e volto di Masterchef, Giorgio Locatelli – valorizzando aspetti diversi della propria attività (come i ristoranti convertiti in vinerie).

Castelli non ha detto che i ristoratori devono cambiare mestiere, al contrario: lo Stato dovrà aiutarli a innovare per non chiudere.

“L’Italia ha fatto sacrifici Rutte & C. dicono bugie”

Paul De Grauwe è un’economista belga e insegna alla London School of Economics. Esperto di economia internazionale, è fra i maggiori studiosi di unioni monetarie ed è un acuto osservatore della realtà economico-politica europea.

Cosa ci dice il dibattito al Consiglio europeo riguardo ai rapporti di potere in Europa?

C’è un grande squilibrio. Si poteva pensare che Paesi come la Germania e la Francia, insieme ad altri come Italia e Spagna, si sarebbero accordati e avrebbero portato a casa ciò che volevano. Ma non sembra essere questo il caso. Questo è il risultato di un certo tipo di populismo che si sta formando nei piccoli Paesi del nord. Il governo olandese da almeno due decenni dice ai suoi cittadini che l’Olanda paga troppo all’Unione europea e che gli italiani sono pigri. Queste idee sono diventate una forza politica in Olanda, che perciò non vuole fare compromessi. È un pericolo molto grave per il futuro dell’Ue.

Quali sono le ragioni dei Paesi “frugali”?

Da tempo agli olandesi, agli austriaci e ad altri viene detto che sono virtuosi, che pagano troppo all’Unione europea e che Paesi come Italia, Spagna e Grecia non sono degni di fiducia. Ma mai nessuno parla loro dei benefici che ottengono dall’Ue. C’è un blocco irrigidito in queste convinzioni, che pensa che aiutare italiani e spagnoli sia orribile. In realtà, secondo una recente indagine, fra olandesi e tedeschi molti sarebbero disposti a creare strutture di solidarietà. Ma c’è bisogno di leader che dicano alla propria gente: “È un buon investimento”. L’unica persona che l’ha fatto finora è Angela Merkel. Ma gli olandesi non vogliono e perciò non possono fare nessuna mossa: Rutte ha gettato i semi di una narrativa che rende impossibile giungere a un compromesso.

Una parte di questa narrativa riguarda le pensioni. I frugali dicono che in Italia i pensionati sono trattati molto generosamente. Cosa c’è di vero?

Non è vero se si guarda alle statistiche. Gran parte di questa narrativa è basata su notizie false, come quella secondo cui gli italiani lavorano di meno e vanno in pensione prima. O anche l’idea per cui l’Italia non ha voluto fare austerità: quando guardi ai dati, però, l’Italia ne ha fatta almeno quanto gli olandesi. Anzi, ha da anni un avanzo primario che supera quello olandese. Certo, l’Italia porta il peso del grande debito del passato, ma la narrativa dei frugali è finzione. Il populismo non si basa sui fatti, ma su narrative fabbricate. Purtroppo, i fatti non convincono anche alcuni economisti olandesi che conosco, perché la questione è diventata emotiva: “Noi siamo virtuosi, abbiamo lavorato duro, tu no, e quindi non puoi ricevere i nostri soldi, a meno che non li impieghi come ti diciamo noi olandesi”. Se ogni nazione crea una narrativa simile, non c’è futuro per l’Ue: nessun compromesso è possibile, perché l’altro è visto come nemico.

Lei ha parlato dell’importanza della narrativa entro cui si racconta la realtà. Il Recovery fund è uno strumento efficace per affrontare la crisi o ha più un valore simbolico?

In larga misura è simbolico, soprattutto se guardi ai numeri e alle tempistiche. Anche se si raggiungesse un accordo, tutto partirebbe dall’anno prossimo e a piccoli passi, mentre ne abbiamo bisogno oggi. Il suo impatto sull’economia sarà minimo. Ma a volte i simboli possono essere importanti. Il Recovery fund darebbe il segnale agli italiani e ai politici in generale che hanno investito nell’idea europea che esiste una qualche solidarietà. Se questi politici tornassero a casa senza niente, si aprirebbero spazi per gli estremisti in Italia. Quindi, anche se è simbolico, è politicamente importante.

L’atteggiamento verso le politiche di austerità sta cambiando in Europa?

Spendere oggi renderà il rapporto debito/Pil più piccolo domani. Sappiamo che il moltiplicatore fiscale (l’impatto di un euro in più di spesa sul Pil, ndr) tende a essere più alto in una recessione. Di conseguenza, anche se più spesa aumenta il debito, l’effetto positivo sul Pil è proporzionalmente più grande: ciò fa scendere il debito/Pil. Sempre più economisti sono convinti che questo è il paradigma giusto. Stiamo riscoprendo Keynes. Lo avevamo dimenticato e cacciato via dai libri di testo. Gli economisti sono davvero incredibili: hanno scordato collettivamente ciò che si sapeva già ottant’anni fa. Ora i fatti forzano i governi ad agire in maniera keynesiana e a mettere da parte i loro dogmi: se ti tieni i tuoi dogmi, sei distrutto.

È possibile un’Europa keynesiana?

Ce l’abbiamo. Guardate cosa sta succedendo ai bilanci: i deficit stanno esplodendo. I governi hanno scoperto che è l’unica cosa che possono fare. È come nel Borghese gentiluomo di Molière, dove Monsieur Jourdain scopre che parlava in prosa senza saperlo. E ora i governi sono come Monsieur Jourdain: senza saperlo, hanno riscoperto Keynes.

Pensioni? I veri “frugali” siamo noi

Secondo la vulgata dei cosiddetti Paesi “frugali” l’Italia sarebbe la cicala del welfare pensionistico in Europa mentre Olanda, Austria, Svezia, Finlandia e Danimarca sarebbero le formiche. Una favola datata e falsa, come affermano Istat, Eurostat e Ocse. Con un’accelerazione impressionante dopo la crisi del 2008, il governo di Roma ha introdotto riforme previdenziali tra le più draconiane al mondo e nemmeno “quota 100” ha scalfito questo rigore di fondo. Invece tra i censori del preteso lassismo italiano c’è chi, zitto zitto, ha fatto la stessa cosa.

Spesa giù pure con “quota 100”

Secondo l’Istat, nel 2019 in Italia il settore pubblico ha destinato al welfare (previdenza, sanità, assistenza) quasi 479 miliardi. Alle pensioni è andato il 66,3% di questa somma pari a 317,5 miliardi, il 39,2% della spesa corrente, ma negli anni 90 la previdenza pesava per il 71%. Per finanziare il welfare pubblico nel 2019 sono stati erogati quasi 500 miliardi, per il 52% pagati dalle imposte e per il resto dai contributi. È vero che dal 1995 la spesa per prestazioni sociali è più che raddoppiata e che nel 2019 è stata pari a 2,3 volte quella del 1995, ma dopo la corsa degli anni 1995-2008 (+5% di media annua) nel 2009-19 ha frenato (+1,9%). La previdenza è la prima voce di spesa pubblica ma nel 2019 il suo peso è calato del 4% rispetto al 1995. Alle pensioni, sul totale della spesa previdenziale, l’anno scorso è andato l’86,6% (275,1 miliardi) rispetto al massimo del 90,7% del 2002. Nonostante la spesa aggiuntiva per “Quota 100” (circa 2,1 miliardi per le pensioni più altri 600 milioni per il Tfr) le pensioni nel 2019 sono costate in percentuale allo Stato meno che nel 1995.

Il confronto con l’Europa: chi sono i “frugali”?

Secondo i dati Eurostat al 2017, gli ultimi comparabili, nell’Unione Europea ogni abitante riceveva in media 8.070 euro l’anno per prestazioni sociali. In Italia il welfare valeva 8.041 euro pro-capite a fronte dei 20.514 del Lussemburgo, dei 15.616 della Danimarca, degli oltre 13mila della Svezia e dei più di 12mila di Olanda, Austria e Finlandia. Ma fino al 2008 la spesa pro-capite era di 6.488 euro in Europa e di 7.073 in Italia: dunque in Italia la spesa è aumentata meno della media Ue. Se poi si confronta la spesa per il welfare col Pil, il Lussemburgo diventa il 15esimo Paese Ue mentre l’Italia passa dalla 12esima alla settima posizione (28% del Pil) ed è di poco superiore alla media europea (26,8%) ma inferiore alla Francia, prima con il 31,7%. Più dell’Italia in confronto al Pil costa anche il welfare di Danimarca, Finlandia, Austria e Svezia, mentre quello dell’Olanda è di poco inferiore a quello italiano. Ma l’Olanda, insieme a Germania e Lussemburgo, è tra i Paesi che trattano peggio le donne nelle pensioni: all’Aja gli assegni delle lavoratrici sono inferiori di oltre il 42% rispetto ai loro colleghi.

Italia seconda al mondo per età pensionabile

Secondo i dati Ocse del 2019 sulle pensioni future degli uomini che iniziano a lavorare a 22 anni, quando l’anno prossimo scadrà “quota 100” l’età pensionabile di 67 anni in Italia sarà superiore a quella dell’Olanda e della media dei Paesi Ocse (66 anni): non solo alla media attuale, ma anche a quella che si otterrà con l’innalzamento previsto da riforme già varate negli altri Paesi. Anche quando la loro età pensionabile si alzerà, gli olandesi andranno in pensione qualche mese prima degli italiani. L’Italia sarà il secondo Paese al mondo in cui si andrà in pensione più tardi (oltre i 71 anni) dopo la Danimarca (con eta pensionabile attuale di 65 anni e prospettica di 74) e prima dell’Olanda, della Finlandia (a 68 anni dai 65 attuali) e di Austria e Svezia (ferme a 64 anni). Tra tutti i Paesi Ue, in base alle leggi in vigore, proprio l’Italia con le “frugali” Danimarca, Estonia, Finlandia e Olanda, sarà la nazione in cui i cittadini vedranno calare gli anni che potranno passare in pensione anche tenuto conto dell’aumento della vita media.

Non tutti gli anni di lavoro “pesano” allo stesso modo

Sempre secondo i dati Ocse aggiornati al 2019, nei 32 anni che oggi in Italia servono per andare in pensione con “quota 100” un italiano lavora in media 55mila ore (1.718 ore l’anno). Nello stesso periodo, un danese lavora 44.160 ore (1.380 ore l’anno, il 24,5% in meno di un italiano), un olandese ne lavora meno di 46mila (1.434 ore l’anno, il 19,8% in meno), uno svedese poco meno di 46.500 (1.452 ore l’anno, -18,3%), un austriaco poco più di 48mila (1.501 ore l’anno, -14,5%) e un finlandese quasi 49.300 (1.540 ore l’anno, -11,6%). Dunque un anno di lavoro di un italiano vale un anno e tre mesi di un danese, oltre un anno e due mesi di un olandese e di uno svedese, eccetera.

L’Italia penalizzata dal Fisco, le bombe sociali

Secondo Felice Roberto Pizzuti, ordinario di Politica economica ed economia e politica del welfare state alla Sapienza di Roma, “nei confronti internazionali i dati italiani sul rapporto spesa pensionistica/Pil sono falsati da due fattori: per l’Italia Eurostat vi include gli accantonamenti al Tfr che valgono l’1,5% del Pil. Ma il Tfr non è spesa pensionistica. Inoltre nei diversi Paesi la spesa pensionistica è calcolata al lordo del fisco: in Italia però la pensione è tassata con le stesse aliquote dei redditi da lavoro, all’estero molto meno e così da noi è sopravvalutata ben più di 2 punti di Pil. Se poi dalla spesa italiana si scorporano i prepensionamenti, che altri Paesi computano tra le voci di politica industriale, la differenza aumenta ancora”. Il problema però “è che più della metà di chi ha iniziato a lavorare negli anni 90, a causa della precarietà, otterrà pensioni inferiori alla soglia di povertà: è questa, non ‘quota 100’, la bomba sociale di cui non si parla abbastanza”.

“Quota 100” all’olandese

Secondo l’ultimo libro bianco dell’Ocse, in Olanda a giugno 2019 sindacati e datori di lavoro hanno siglato un accordo che ha fermato temporaneamente l’aumento dell’età pensionabile: fino al 2021 questa rimarrà a 66 anni e 4 mesi e salirà a 67 anni nel 2024 anziché nel 2021 come previsto. Anche dopo il 2024 l’età pensionabile potrebbe aumentare più lentamente rispetto alle norme precedenti: è la versione olandese di “quota 100”.

“C’è un limite, devo onorare i nostri morti”

“C’è un limite anche per un Paese come il mio, che è in gravi condizioni, che conta migliaia e migliaia di morti sulle spalle. Io questi morti li devo onorare, con dignità”.

È mezzanotte quando Giuseppe Conte pronuncia forse il discorso più difficile della sua vita politica, peraltro breve. Lo fa davanti ai 26 colleghi del Consiglio europeo, in un clima teso dalle estenuanti trattative di tre giorni, la sera tra domenica e lunedì. “Nonostante il mio sia uno dei Paesi più duramente colpiti dalla pandemia – spiega – dico fermiamoci un attimo. Assumiamoci le nostre responsabilità. Qualcuno pensa di acquisire nell’immediato maggiore consenso sul piano interno. Il che è possibile, e io gli faccio gli auguri. Però invito anche a considerare che non solo la storia ci chiederà conto delle decisioni che abbiamo assunto questa sera, 19 luglio 2020. Forse anche quegli stessi cittadini che per una reazione immediata emotiva applaudiranno, dopo un po’ si renderanno conto che quella che sembrava una grande vittoria, nasce da una decisione non accorta, non lungimirante, perché è una decisione che ha contribuito ad affossare il mercato unico, i valori e gli interessi europei, e, infine, la libertà di sognare delle nuove generazioni.”

Le frasi, scelte anche per catturare l’emotività, concludono un discorso in cui si ribadisce tutto il percorso fatto per arrivare a questo vertice: “Siamo stati noi, come Consiglio europeo, a chiedere alla Commissione di lavorare a questo progetto”. In realtà, aggiunge, “a me sembra che le conseguenze socio-economiche che ci apparivano già gravi il 26 marzo, siano oggi ancora più gravi. Quindi se in quel periodo abbiamo fatto quella valutazione, e sempre che qualcuno non l’abbia sottoscritta distrattamente, la valutazione di oggi deve registrare un evidente peggioramento”.

Ma, chiede Conte, “la risposta della Commissione, lo strumento che ci viene proposto è adeguato?”. Ovviamente no, fosse per lui avrebbe messo più soldi sul tavolo perché “le stime economiche sono molto peggiori di quelle di marzo”. La caduta del Pil “è drammatica” ma “dai ragionamenti che ascolto ho però l’impressione che stiamo perdendo di vista la gravità della intera situazione”.

Conte chiama allo scoperto i suoi avversari: “A me non sembra che qualcuno di noi abbia messo sul piatto una proposta alternativa”. Quindi, la difesa dei grants che “non sono elargizioni liberamente disponibili, ma risorse finanziarie che verranno impiegate per investimenti e riforme strutturali, con approvazione degli organi comunitari e verifiche e controlli”. Tutto questo servirà “non certo ad arricchire qualche Paese a scapito di altri, ma per garantire quel level playing field che riguarda tutti. Se poi qualcuno non è interessato a recuperare questo level playing field e a proteggere i nostri valori dovrebbe cortesemente alzarsi e allontanarsi”.

Poi l’affondo sul modo di condurre il negoziato “in cui sembra che un paese come l’Italia, la Spagna e tanti altri debbano essere messi in ginocchio – c’è una espressione inglese: arm twisting – col braccio piegati per accettare un punto di caduta che peraltro dopo tre giorni di negoziato non ancora si capisce quale sia. Questa è una impostazione negoziale scorretta, che non intendo accettare”. E per quanto riguarda la governance, “vi immaginate un Consiglio europeo che anziché occuparsi di questioni politiche, di priorità e di indirizzi generali, si mette a controllare gli stati di avanzamento nella realizzazione di un’autostrada”. Ce n’è anche per i rebates, gli sconti che i frugali riescono a ottenere e che “azzoppano la solidarietà, la contrastano, la limitano, mentre il Recovery plan realizza invece lo spirito di solidarietà che noi stessi abbiamo dichiarato di voler perseguire”. Eccole le due idee di Europa che si mettono l’una contro l’altra. A mezzanotte e dieci, Conte dice allora: “Fermiamoci un attimo: a questo punto la proposta sul tavolo la ritengo ultimativa”. Si apre l’ultimo miglio della trattativa.