Soldi, controlli, sconti e vincoli. Cosa c’è nella proposta finale

L’ accordo, almeno per le cifre finali, pare a un passo. Mentre andiamo in stampa il Consiglio europeo è ancora in corso. Ecco quel che sappiamo in base alla bozza predisposta dal presidente, il belga Charles Michel

I soldi. Il Fondo di recupero, che si chiama Next generation Ue, partiva dai 750 miliardi, 500 di sussidi 250 di prestiti, proposti dalla Commissione. Soldi da incassare in quattro anni e restituire dal 2028. La bozza conferma la cifra finale, ma rivede la composizione: i prestiti salgono di 110 miliardi e le sovvenzioni scendono in egual misura. La modifica non ha impatto sul cuore del piano, che si chiama Resilience and Recovery Facility, che ora vale 672 miliardi: di questi 312 i sono sussidi (dai 310 iniziali), e 360 prestiti (100 in più). A farne le spese sono stati i programmi complementari e con destinazione specifica, dove i sussidi passano da 190 a 77 miliardi: il programma sanitario, per dire, viene quasi azzerato; quello sulla ricerca (Horizon) perde 8,5 miliardi, il Fondo per la transizione ecologica almeno 20 (il maggior beneficiario era la Polonia, che infatti protesta) e via discorrendo. Secondo il governo italiano, a Roma sarebbe andato ben poco di queste risorse e quindi il risultato rispetto alla proposta della commissione non cambia: le sovvenzioni scendono a 85 a 81 miliardi, i prestiti addirittura salgono da 90 a 127. La cifra finale, sostengono, dovrebbe essere 209 miliardi. Per la parte sussidi il beneficio netto per l’Italia è intorno ai 25 miliardi. Il grosso dei fondi, però, arriverà tardi, nel 2022-2023.

Il controllo. È l’altro grande nodo: l’Italia e il blocco del Sud voleva tutto in mano alla Commissione, i Paesi “frugali” (Olanda, Danimarca, Svezia, Austria e Finlandia) tutto agli Stati, cioè ai governi. Il compromesso è col bilancino: i soldi verranno stanziati sulla base dei “recovery plans” che ogni anno gli Stati presenteranno a Bruxelles, approvati dal Consiglio a “maggioranza qualificata” su proposta della Commissione; sarà Bruxelles a vigilare sui pagamenti, in base ai target raggiunti dai singoli Paesi, e su questo si farà aiutare dal comitato dei tecnici dei ministeri dell’Economia dei 27 stati membri. Il potere di veto chiesto dai “Frugali” viene annacquato: ogni Paese potrà deferire i trasgressori al Consiglio, che poi si esprimerà entro tre mesi. Nel frattempo tutti i pagamenti saranno bloccati. I target saranno legati alle “raccomandazioni” che ogni anno la Commissione dà ai Paesi. Per l’Italia quelli del 2020 prevedevano di tornare su “un sentiero di riduzione del debito/Pil”. Il rischio è che venga richiesta una stretta fiscale una volta ripristinato il Patto di stabilità.

I “rebates”. Il Recovery fund è agganciato al bilancio Ue 2021-2027 (che vale 1.070 miliardi). L’ok dei frugali arriverà solo in cambio del mantenimento degli “sconti” sui contributi da versare e concessi a Germania, Olanda e altri Paesi nordici. Berlino rimane a quota 3,6 miliardi, per gli altri le cifre salgono: +100 milioni per la Danimarca,; +345 per i Paesi Bassi di Mark Rutte; +278 per l’Austria di Sebastian Kurz; +246 per la Svezia.

Gli altri vincoli. Francia e blocco nordico vogliono vincolare i fondi al rispetto “dei valori civili e sociali dell’Ue”, scelta che inguaierebbe l’Ungheria di Victor Orbán e la Polonia, che infatti minacciano il veto (la bozza prevede un generico “schema di condizionalità”). Varsavia è anche infuriata perché restano i target ambientali (che vincolano il 30% dei fondi), come la “neutralità climatica” entro il 2050.

Verso l’accordo Ue: meno sussidi. L’Italia: “Ma noi ci guadagniamo”

Alla fine pare che un’intesa ci sia su un pacchetto da 750 miliardi, 390 dei quali in trasferimenti. Il Recovery Fund ha richiesto trattative estenuanti e il più lungo Consiglio della pur breve storia della Ue (battuto pure quello sull’allargamento dell’Unione di vent’anni fa). Per i dettagli, che mai come in queste faccende sono sostanziali, su come l’Europa risponderà alla più grave recessione in tempo di pace bisognerà attendere oggi. Mentre andiamo in stampa, però, sappiamo che il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha approntato l’ennesima e probabilmente definitiva bozza di discussione: l’Ue dovrebbe mettere in campo 750 miliardi, 390dei quali in trasferimenti legati al budget Ue (quelli che non finiscono direttamente tra i debiti) e il resto in prestiti.

L’iniziale proposta spagnola, appoggiata dall’Italia, partiva mesi fa da 1.500 miliardi in titoli perpetui. La proposta di Bruxelles, come detto, si attestava sui 750 miliardi. Cifra confermata e la versione finale pare non scontentare Roma.

Fonti del governo italiano, ieri all’ora di cena, sottolineavano che rispetto al piano originale della Commissione Ue (500 miliardi in trasferimenti) non ci sono peggioramenti per l’Italia, anzi: i criteri di ripartizione (basati sull’impatto del Covid-19 sulle economie dei singoli Paesi) garantirebbero circa 81 miliardi in trasferimenti e addirittura poco più di 120 miliardi in prestiti (una modalità di finanziamento, questa, poco attraente per i molti Paesi che già pagano zero per piazzare i loro titoli ma vantaggiosa per l’Italia visti i bassi tassi di interesse, e questo dovrebbe rendere ancora più inutile il ricorso al famigerato Mes). Oltre ai debiti, l’Italia dovrà ripagare pro-quota anche i trasferimenti: se le proporzioni fossero quelle qui sopra, il beneficio netto si aggirerebbe attorno a 25 miliardi.

Com’è noto, comunque, quei soldi vanno spesi secondo le priorità e le raccomandazioni della Commissione Ue: l’asse del Nord avrebbe strappato però un meccanismo di controllo che lascerebbe la decisione – in caso uno o più Paesi avessero dubbi sui piani di riforma nazionali – proprio al Consiglio europeo, cioè alle trattative tra i governi nazionali, ma è saltata l’ipotesi che ci sia un vero potere di vet. Per dare il via libera a un accordo, infine, Olanda, Austria, Svezia e Danimarca hanno ottenuto un cospicuo aumento dei loro “sconti” (rebates) sui contributi da versare all’Unione: Vienna, addirittura, li raddoppia.

Da discutere nella notte appena passata restava comunque ancora molto. Intanto quanto e come i fondi saranno legati al cosiddetto “rispetto dello Stato di diritto”, una formula che sottende penalizzazioni per l’Ungheria di Orbán. Tra questi, se la bozza di Charles Michel rimarrà invariata, la Polonia sembra il Paese ad aver perso di più: non solo infatti il nuovo piano europeo continua a battere molto sul rispetto degli obiettivi di contenimento delle emissioni inquinanti al 2030 e al 2050 (che Varsavia non ha firmato), ma il Just Transition Fund – che doveva accompagnare la riqualificazione del sistema produttivo soprattutto in Polonia – passa da 30 miliardi a dieci. Piccolo particolare nostrano: sarebbe il fondo da cui aspettavamo un po’ di soldi per l’Ilva green.

Folli Bergère

Di Stefano Folli, fin dai tempi in cui incensava B. e la Lega sul Corriere e sul Sole 24 Ore, non sospettando che un bel giorno sarebbe approdato a Repubblica (cosa peraltro insospettata anche dai giornalisti e dai lettori), ci hanno sempre colpito la prosa brillante quanto un contatore del gas e la logica stringente quanto una mutanda XXXL. Ma più ancora l’artistico riporto a torciglione, che un giorno definimmo “a nido di cinciallegra”, beccandoci dal titolare del medesimo una puntuta querela, purtroppo archiviata (avremmo pagato per poter esibire in un’aula di tribunale una perizia ornitologica sui punti di contatto fra quei due capolavori di scienza delle costruzioni). Mai come quando leggiamo i suoi scritti sepolcrali ci sale la nostalgia di Fortebraccio, immaginando che direbbe di Folli se fosse vivo: forse che il suo pensiero ricorda, come quello di Forlani, “una tanica vuota”. Forse che, come accadeva a Taviani, “ogni sera gli inservienti lo coprono con un telo sagomato per ripararlo dalla polvere, al pari delle altre poltrone”. Forse che, come Scalfaro, mostra “una frivolezza proverbiale” al cui confronto “il vescovo Lefebvre pare Brigitte Bardot”.

Ora però, dacché la Fca ha trasformato il fu organo della sinistra nel Circolo Ex Combattenti e Reduci de La Voce Repubblicana (Folli, Sambuca Molinari e Oscar Giannino, quello che millantava lauree mai conseguite e partecipazioni allo Zecchino d’oro mai sostenute), il nostro s’è ridestato dal mesto torpore di sempre e vive una seconda giovinezza. Ogni giorno, da quando il governo Conte2 è nato senza il suo permesso, ne annuncia la caduta: ora imminente, ora prossima, ora addirittura già avvenuta. Così, prima o poi, quando l’esecutivo avrà fine come ogni cosa umana, lui potrà vantarsi di averlo previsto. Martedì scorso, mentre il Cdm si riuniva sul caso Benetton-Autostrade, Folli si coricò con la ferma convinzione che Conte non avrebbe passato la notte. E l’indomani si svegliò con la notizia doppiamente ferale che i Benetton non c’erano più e Conte c’era ancora. Allora puntò tutto sul Consiglio europeo del Recovery Fund, dove gli amici “frugali” promettevano di farci un mazzo così e, alla sola idea, il riporto gli s’impennava con scappellamento a destra. Poi sapete com’è andata: Conte, che Repubblica voleva “all’angolo” isolato da tutti, s’è battuto strenuamente, ha fatto asse con Merkel, Macron, Sánchez, greci, portoghesi e persino Orbán, portando a casa un accordo tutt’altro che disprezzabile per l’Italia. Pare che ieri, al risveglio, Folli fosse intrattabile, anche perché Repubblica aveva avuto la malaugurata idea di commissionare un sondaggio sul premier.

E quel che è peggio di pubblicarne i risultati: “Il premier più popolare di sempre”, “Conte guida la classifica degli ultimi 24 anni”, “Il miglior premier dal 1994”. Figuratevi come dev’essersi sentito il povero Folli, che domenica sera, un attimo prima di planare tra le braccia di Morfeo pregustando una notte di tregenda con crisi di governo incorporata, aveva vergato la solita colonna carica di foschi presagi sugli “errori” e l’“inesperienza” di Conte, partito per Bruxelles senza neppure chiedergli un consiglio né “presentare il piano per le riforme” (che, non sapendo quanti soldi arriveranno, non l’ha presentato nessuno dei 27 Stati membri). Così, per colpa sua, “la coperta si è rattrappita” e “i miliardi si sono ridotti” a maggior gloria dell’Olanda, la nuova patria di Fca governata dall’ottimo Rutte, dipinto come “uomo nero” mentre è un fico pazzesco (“ha avuto campo libero”). Quindi ora avremo nefasti “riflessi in patria dello psicodramma” che non potranno non travolgere quel pirla del premier. Non subito, ma presto, prestissimo: “All’inizio prevarrà una certa solidarietà in chiave, diciamo così, nazionalista verso l’uomo che s’è battuto senza risparmio… Anzi, una sapiente regia mediatica (il solito Casalino, che com’è noto controlla tutti i giornali, nessuno escluso, ndr) può persino riuscire a incrementare a breve la popolarità del premier combattente sfortunato” (battutona). Insomma “oggi nessuno può volere una crisi di governo”, a parte lui. Ma lui – 24 ore prima dell’accordo – già sa che “la riduzione dei sussidi a fondo perduto lascia scoperta una quota tra i 20 e i 30 miliardi che a Roma si considerava già acquisita” (l’altra sera, per dire, da Checco er Carrettiere non si parlava d’altro). Dunque “ora il Mes torna d’attualità”, anzi “diventa una priorità”, e pure “urgente”.
A Bruxelles nessuno ne parla, perché nessuno lo vuole. Ma il Mes è il sogno erotico di Folli: il fatto che sia un prestito e non un sussidio e che i prestiti del Recovery fund aumentino col taglio dei sussidi, con meno rischi di quelli del Mes, e che nell’ultima bozza di accordo l’Italia perda solo 3,5 miliardi di sussidi e ne guadagni 38 di prestiti (pari a quelli del Mes), non lo sfiora. E neppure il fatto che, con quel che s’è visto dai “frugali”, il pericolo di ritrovarsi condizionalità ex post una volta presi i soldi del Mes è ancor più alto di prima. Ma lui somma le mele alle banane perché del Mes non gliene frega nulla: ciò che conta è che “il Pd è favorevole e i 5S contrari, ma dovranno rivedere la loro posizione e dividersi” e “per il Conte2 questo è il nuovo ostacolo”, che “dopo le elezioni di settembre potrebbe rivelarsi troppo alto”. E lì, finalmente, sarà l’apocalisse. Al solo pensiero, gli si rizza il riportino.

Quando Kubrick faceva le poste a Sellers

Sono passati quaranta anni. L’infarto al Dorchester di Londra, il trasporto al Middlesex Hospital, dove spira poco dopo la mezzanotte del 24 luglio 1980.
Peter Sellers ha solo cinquantaquattro anni, la sua è una vita per il cinema, e una vita travagliata. Il destino nel nome: In arte Peter Sellers, come vuole l’unica biografia italiana, di Andrea Ciaffaroni per Sagoma Editore, o, dovremmo dire, “In morte Peter Sellers”. Quando viene alla luce, l’8 settembre del 1925 a Southsea, Portsmouth, i genitori Bill e Peg gli affibbiano due nomi, Richard Henry. Non ne useranno nessuno, però, preferendo chiamarlo Peter, come il primogenito morto alla nascita.
Peter dunque cresce con un nome non suo, per giunta, il nome di un defunto. Genio, della comicità e non solo, viziato ab origine, asfissiato dalla madre, assottigliato a immagine e somiglianza dei suoi personaggi, senza storia, sempre colti in medias res: “Sellers – osserva il critico Alberto Crespi nella prefazione – è un comico liscio come uno specchio. Non c’è alcuna profondità nelle sue maschere: c’è invece una straordinaria ricchezza di comportamenti, di tic fisici e linguistici, una labirintica costruzione del personaggio che non presuppone minimamente una persona”. Non è forse l’artificio, e il simulacro, la cifra delle sue interpretazioni, l’ispettore Clouseau ne La Pantera Rosa, l’improbabile Bakshi di Hollywood Party, l’equivoco commediografo Clare Quilty di Lolita e, ovviamente, il Dr. Strangelove dell’omonimo capolavoro di Stanley Kubrick, di cui il compianto Robin Williams avrebbe sentenziato “per quanto la comicità possa fare progressi, niente è ai livelli del Dr. Stranamore”? Deleuziana immagine-movimento, uguale e contraria a Buster Keaton, Sellers è cinetica impazienza, insoddisfazione smodata, insofferenza ad libitum: “Solo due cose riuscivano a tenerlo sul pezzo. La prima: riuscire a girare a ritmi serrati; questo lo aiutava a scacciare la noia. La seconda: essere a corto di soldi e alla disperata ricerca di un film erano fattori decisivi per tenerlo in qualche modo ‘a galla’ durante le riprese”.

Eppure, gli riesce quel che altri, tutti, si sognano: per esempio, farsi aspettare sotto casa da Kubrick, fumare erba con i Beatles, mandare a quel paese, ricambiato, Billy Wilder. La proverbiale sregolatezza lo marcò stretto per mezzo secolo, nondimeno, “sacrificando sé stesso e la propria identità, rivoluzionò l’umorismo britannico e riscrisse anche la parola ‘recitazione’, dandogli un significato ancora più ampio e radicale. Aprì le porte ad attori come Jim Carrey e Robin Williams; mostrò a loro e al pubblico, suo malgrado, come fosse possibile uscire dalla propria identità e diventare letteralmente qualcun altro”. Pericoloso, ma il gioco valeva la candela, Kubrick lo vuole in Lolita, lo rivuole in Dr. Stranamore, dove incassa tre personaggi e – fatto più unico che raro per Stanley – libertà creativa, e prima lo fa lungamente penare: “Fu costretto a pregarlo in ginocchio. Peter non voleva lasciare l’Inghilterra per seguire la produzione. (…) Così Kubrick cominciò ad appostarsi davanti alla sua casa di Hampstead, aspettandolo la sera tardi quando Sellers tornava dai suoi bagordi notturni”. Sul set, osserverà K., sperimenta “uno ‘stato di estasi comica’, prima che le energie lo lasciassero di nuovo nel silenzio e nella disperazione”, e si prova demiurgo: Stanley gli suggerisce un guanto nero, “che avrebbe avuto un effetto alquanto sinistro su un uomo in carrozzina”, Peter lo indossa, fa di quell’arto pensato inerte “un braccio ancora nazista”, lo alza in aria e gridando “Heil Hitler!” si consegna alla Storia. Con un altro mostro sacro, Wilder, gli va decisamente peggio: il cineasta, Dean Martin, Kim Novak, e Felicia Farr rispediscono al mittente il suo “perfide faine”; lui compra una pagina su Variety per sfatare l’immagine dell’“inglesuccio ingrato e infido che non aveva fatto altro che approfittare di Hollywood parlando alle sue spalle”; morale della favola, la wilderiana Vita privata di Sherlock Holmes non lo annovererà quale Watson.

Gavetta comica nelle trincee della Seconda Guerra Mondiale, battesimo di fuoco, insieme a Spike Milligan e Harry Secombe, nello storico show radiofonico The Goon Show (1951-1960), Sellers troverà la stima, se non l’idolatria, dei Monty Python, “i piatti scagliati contro il muro o le scenate negli alberghi di Roma”, l’hashish con John Lennon: “Ricordi quando ti ho passato quell’erba a Piccadilly? – Un trip allucinante, davvero. Acapulco gold, giusto? Fantastica”.

Quarant’anni dopo le sue maschere sono intatte, ma lui continua a sfuggire dal ritratto: associato in culla alla morte, s’è dato alla vita eterna dell’arte. Forte di un segreto, che il regista della Pantera Rosa Blake Edwards aveva mutuato dallo scopritore di Stanlio & Ollio Leo McCarey e gli aveva cucito addosso: “Tu hai quel dono che io chiamo la capacità di rompere la barriera del dolore. Ti va male, ne ridi e col tuo riso sei in grado di aiutare la gente”. Ma non sé stesso.

 

“Boia chi Molla” 1970: la rivolta che cambiò l’Italia e la ‘ndrangheta

Sono passati cinquant’anni dalla rivolta di Reggio Calabria. Un periodo più che sufficiente per guardare con distacco agli eventi e farli diventare Storia. Operazione impossibile in Italia, soprattutto quando gli eventi sono parte significativa della Storia oscura del Paese. I moti di Reggio furono l’espressione genuina di una rivolta popolare, oppure quelle giornate di barricate, esplosioni e sangue, furono il primo atto di una strategia eversiva che vedeva come protagonisti destra golpista, apparati dello Stato, massoneria e ‘ndrangheta? È difficile affermare una risposta unica. Non perché manchino documenti, libri e saggi. O le inchieste giudiziarie, che a Reggio Calabria come in altre procure italiane, si sono incaricate di delineare, con condanne e sentenze, il quadro delle complicità e degli interessi che stavano dietro e sopra le barricate a Sbarre e Santa Caterina. Le ragioni che rendono impossibile scrivere una memoria condivisa, sono molte. La prima è che molti dei protagonisti di quelle giornate di fuoco sono ancora vivi e vegeti. Hanno continuato ad incidere nella politica reggina e calabrese nei decenni successivi alla rivolta e fino ai giorni nostri.

È vivo Amedeo Matacena jr, figlio dell’armatore che fu tra i finanziatori della rivolta. È’ stato per anni l’uomo forte di Forza Italia a Reggio Calabria, da deputato all’inizio degli anni Novanta inondò il Parlamento di interrogazioni contro i pubblici ministeri che indagavano sulla ‘ndrangheta e i suoi rapporti con la politica. È vivo Paolo Romeo, da giovane militante di destra vicino a Pino Rauti, tra i protagonisti della rivolta. Da anziano avvocato ed ex parlamentare, si è guadagnato l’appellativo di “Salvo Lima dello Stretto” per la sua capacità di ordire trame e di manovrare la politica calabrese. I capi ‘ndrina dell’epoca sono passati a miglior vita, ammazzati nelle due guerre di mafia che sconvolsero la città tra il 1980 e il 1990, ma il potere delle loro “famiglie” è ancora intatto. Da Reggio, alla Piana di Gioia Tauro alla Jonica, sempre gli stessi nomi. Ma è l’indifferenza l’ostacolo più grande per una ricostruzione storica obiettiva. In questi giorni, l’Italia ha dimenticato la rivolta e i suoi morti, a Reggio Calabria qualche convegno e basta. Del resto non è neppure giusto pretendere di più da una città che ai giorni dei “Boia chi molla” ha eretto ben due monumenti. Quello a Ciccio Franco, il sindacalista di destra leader della Rivolta, fu inaugurato nel 2005 da Giuseppe Scopelliti, pupillo di Berlusconi in riva allo Stretto, sindaco della città e governatore della Calabria, prima di finire in un mare di guai giudiziari. Da dichiarato erede della tradizione dei “Boia chi molla”, Scopelliti benedisse quella stele sul lungomare per onorare Ciccio Franco e “gli ideali che ha rappresentato”. C’era anche un superprefetto, Luigi de Sena (anni dopo senatore del Pd), che lodò “la fermezza delle convinzioni” di Franco.

Andavano così le cose a Reggio Calabria. E guai a chi, oggi, si ostina a tentare di leggere quella vicenda con occhi indipendenti. Lo ha fatto nel suo romanzo Salutiamo amico, edito da Giunti”, l’inviato de L’Espresso Gianfrancesco Turano. I nostalgici non hanno gradito e nella sua città, Reggio, gli hanno dedicato uno striscione: “Turano pennivendolo. Chi per Reggio non è, peste lo colga”.

Turano non scrive un saggio, ma un’opera di finzione. Protagonisti due adolescenti che vivono la loro estate in quel luglio del 1970. Nunzio e Luciano si scambiano lettere e si comunicano le loro impressioni sui primi bagliori della rivolta. Vivono in famiglie della piccola borghesia reggina, quella che guardò con simpatia ai moti, e non fu indifferente alla risorse che arrivarono dallo Stato per sopire e placare. “La distanza tra borghesia e ‘ndrine – si legge – si riduce fino a sparire nella piazza dei Boia chi molla, dove la direzione tattica della guerriglia è in mano al blocco fascio-mafioso”.

Ha ragione Goffredo Fofi, il racconto di Turano “è un romanzo storico, una lezione di storia, documentata, studiata, scritta”. Con un giudizio netto sui moti: la rivolta per Reggio capoluogo “è, allo stesso tempo, la prova generale di un progetto eversivo, una Vandea di piazza, la data di nascita della ‘ndrangheta come la conosciamo oggi e, infine, l’oggetto di una rimozione colossale dell’analisi storica”. Di quei moti sappiamo tutto? La risposta è no. Ci sono misteri ancora irrisolti. Sulla presenza in quei mesi a Reggio di tanti studenti greci, abbondantemente fuori corso, all’Università di Messina (siamo negli anni della Grecia dei colonnelli). E sulla morte dei cinque giovani anarchici del circolo della Baracca. Avevano un dossier sulla rivolta con dentro i nomi di massoni, uomini degli apparati, golpisti e personaggi della destra eversiva. Partirono da Reggio Calabria per Roma, ma nella Capitale non arrivarono mai. Un camion schiacciò la loro Mini Minor all’altezza di Ferentino il 26 settembre 1970. Nessun colpevole. Tanti sospetti su un incidente programmato. Accanto ai misteri, Turano propone una certezza: la Rivolta fu uno dei momenti più importanti della trasformazione della ‘ndrangheta. I vecchi boss furono messi da parte, sullo scenario fecero la loro comparsa capi giovani, attenti al rapporto con la politica e lo Stato, padroni del territorio e protagonisti della modernità. Così alla vecchia mafia calabrese bastarono pochi decenni per conquistare i vertici della mafia mondiale.

Il Covid blocca i dottorati: colpo di grazia alla ricerca

Per mesi siamo rimasti appesi ad ogni parola che usciva dalle labbra di ricercatori e scienziati: ma non stiamo facendo nulla perché ricercatori e scienziati continuino ad esistere. Anzi, sembra che siamo ben decisi a scoraggiare chi sta provando a dedicare la propria vita alla ricerca: i dottorandi.

Ci siamo tutti (comprensibilmente) preoccupati del funzionamento di ristoranti e stabilimenti balneari, ma forse non abbiamo pensato che, tra le infinite cose che si sono dovute fermare a marzo, ce n’è una che si chiama ricerca. Una cosa che, a differenza di quasi tutte le altre, non è ancora ripartita: perché senza poter accedere a laboratori, biblioteche, archivi, missioni all’estero, attività sul campo, la ricerca semplicemente non si fa. Ci si può chiedere perché non si possano ancora riaprire, per esempio, biblioteche ed archivi: ma il lettore di questa rubrica conosce già la risposta, che sta nei dissennati tagli al personale di questi santuari della conoscenza perpetrati da governi di ogni colore. E ora la pandemia ha sferrato il colpo di grazia.

Ma mentre per i professionisti della ricerca assunti a tempo indeterminato (all’università o al Cnr, per esempio) ciò è “solo” motivo di grande frustrazione, per i dottorandi di ricerca si traduce nell’impossibilità di finire la tesi nei tempi stabiliti, e quindi in un lungo periodo di ricerca non retribuito per terminarla quando sarà possibile farlo, e ormai la borsa sarà esaurita. Per questo i dottorandi della più grande università italiana, la Sapienza di Roma, hanno chiesto al governo: “L’estensione della proroga facoltativa retribuita con fondi pubblici a sei mesi e a tutti e tre i cicli (33°, 34° e 35°) nel caso dei dottorandi borsisti, e chiediamo altresì il riconoscimento ai dottorandi ex art. 5 e 6 e senza borsa di una proroga anch’essa di sei mesi, sollecitando il governo a prevedere misure di tutela e sostegno economico specifiche per questa ultima categoria già discriminata dalla normativa vigente. Riteniamo inoltre che tali misure di sostegno da parte del governo non debbano avere ricadute negative sulla valutazione dei singoli dottorandi e dei programmi di dottorato a cui afferiscono. Infine, convinti della necessità di democratizzare il sistema della ricerca e di liberarlo da logiche di tipo aziendalistico, proponiamo la sospensione della Vqr 2015-2019. Consideriamo infatti un grave errore la scelta da parte del Mur e dell’Anvur di non riconoscere l’attuale, oggettiva impossibilità al normale funzionamento del sistema universitario e, conseguentemente, al normale svolgimento dell’attività di ricerca al suo interno”.

Come appare chiaro, e come accade in moltissimi altri campi, il Covid non ha fatto che portare alla luce l’estrema fragilità del nostro sistema di formazione dei ricercatori. Una fragilità che, invece di curare, incrementiamo: nel Decreto Semplificazioni appena approvato dal governo Conte, per esempio, viene introdotta la possibilità di ridurre il numero dei mesi degli assegni di ricerca, in un’ulteriore flessibilizzazione che si tradurrà puntualmente in maggior precarizzazione, insicurezza, sfruttamento.

Che idea ha del proprio futuro una società che dice di voler farsi orientare dalla scienza e poi distrugge il futuro della scienza stessa? Eppure, nel progetto della nostra convivenza civile, la Costituzione, la ricerca ha un ruolo straordinariamente importante. In uno dei dodici principi fondamentali (il profetico articolo 9) si legge che “la Repubblica promuove … la ricerca scientifica e tecnica”: cioè quella di base e quella applicata. I costituenti avevano ben chiara l’utilità materiale e spirituale della ricerca, come si capisce dal decisivo intervento del deputato (e professore di ingegneria a Napoli) Giuseppe Firrao: “Assicurate, onorevoli colleghi, strumenti come questi all’intelletto della nostra gente e voi darete un reale apporto all’incremento di ricchezza del nostro Paese; voi offrirete mezzi sicuri per concorrere, in modo efficace, alla nostra rinascita economica, e per mantenere, ancora accesa, da questo Paese, una fiaccola di alta civiltà nel mondo”.

Come farlo? C’è un solo modo, spianare la strada a chi vuol fare ricerca: “Il doloroso andarsene degli scienziati italiani, onorevoli colleghi – disse il deputato, e fisico, Antonio Pignedoli – è un altro punto che voglio richiamare all’Assemblea Costituente italiana. Gli scienziati se ne vanno dall’Italia per ragioni di trattamento, per ragioni proprio inerenti alla possibilità di vivere. … Gli scienziati se ne vanno, ma il doloroso calvario degli scienziati, che se ne vanno all’estero e che la Patria perde, dovrà essere finito una volta per sempre. La Repubblica democratica italiana dovrà provvedere ai suoi ricercatori, dovrà provvedere a questi suoi lavoratori della mente; dovrà provvedere a questi suoi figli più eletti”.

Era l’aprile del 1947: settantatré anni dopo, non l’abbiamo ancora capito.

 

Ricostruzione e fondi, c’è del marcio a Notre-Dame

Nel suo rapporto provvisorio sul cantiere di restauro di Notre-Dame, un documento ancora confidenziale a cui Mediapart ha avuto accesso, la Corte dei conti fa un primo bilancio sui fondi raccolti per la cattedrale e sul loro utilizzo. Secondo la Corte, a fine 2019, più di 330 mila privati e 6.000 aziende si sono mobilitate per Notre-Dame, per un totale di 824,8 milioni di euro di donazioni. Una somma senza precedenti, che non include nemmeno i finanziamenti promessi dalla città di Parigi e dalla regione Ile-de-France. In confronto, lo tsunami che ha colpito l’Asia nel 2004 aveva raccolto solo 328 milioni di euro. Al 31 dicembre 2019, di questi 824,8 milioni, ne erano stati versati 184,4, di cui il 35% da privati, il 56% da aziende e l’8% da collettività locali. Il 16% dei doni inoltre proviene dall’estero. Il 2 luglio scorso, convocato dai deputati, Jean-Louis Georgelin, presidente dell’ente pubblico per la ricostruzione di Notre-Dame, ha aggiornato i dati: i doni sono saliti a 833 milioni di euro e i fondi già versati a 190,4 milioni.

Quasi 640 milioni di euro sono quindi ancora allo stadio di “promesse”, come i 300 milioni promessi da Bernard Arnault e François Pinault, e i 200 milioni di L’Oréal. Georgelin non ha dubbi che le somme saranno versate quando ce ne sarà bisogno e questo malgrado la crisi attuale. Ma i doni avranno un costo per lo Stato. La legge ha stabilito infatti sgravi fiscali del 75% per le donazioni fino a mille euro, del 66% oltre questa somma. Sui 65 milioni di euro ricevuti da privati nel 2019, la spesa fiscale potrebbe dunque ammontare a 48 milioni di euro. Arnault e Pinault hanno deciso di non usufruire degli sgravi fiscali, ma questo non vale per altri mecenati. Emmanuel Macron ha fissato la fine dei lavori alla primavera 2024. Il costo complessivo del restauro però non è ancora noto. Ma alcuni si interrogano: l’ammontare delle donazioni è eccessivo?

Molti temono che questi soldi vengano utilizzati a altri scopi e non solo per ricostruire Notre-Dame. Per rassicurare i donatori, l’articolo 2 della legge del 29 luglio 2019 è molto chiaro: “I fondi raccolti nell’ambito della sottoscrizione nazionale sono destinati esclusivamente a finanziare i lavori di conservazione e restauro della cattedrale Notre-Dame de Paris e del suo mobilio, di proprietà dello Stato, nonché la formazione iniziale e continua dei professionisti che dispongono delle competenze specifiche necessarie per questi lavori”. Ma per la Corte dei conti lo Stato non sta rispettando la legge. Innanzitutto, nell’organizzazione della colletta. Cinque sono gli enti autorizzati a raccogliere i fondi: il Tesoro pubblico, il Centro dei monumenti nazionali, la Fondazione di Francia, la Fondazione del Patrimonio e la Fondazione Notre-Dame. Ma negli accordi firmati con il ministero della Cultura, le tre fondazioni sono state autorizzate a prelevare dai doni delle spese di gestione. Una violazione al principio di finanziamento esclusivo dei lavori a cui il governo si è impegnato davanti al Consiglio di Stato. Inoltre ogni fondazione può prelevare percentuali diverse. Come mai? La Fondazione Notre-Dame può prelevare per le spese fino al 3% dell’importo totale delle donazioni. La Fondazione di Francia fino all’1,5%. La Fondazione del Patrimonio fino all’1,5% del totale delle donazioni delle aziende, che superano il milione di euro.

Da notare anche che non è più il ministero della Cultura a seguire i lavori. Macron li ha affidati a un ente pubblico speciale, creato appositamente per legge e che dovrebbe contare 39 agenti. Alla sua testa è stato messo Jean-Louis Georgelin, generale in pensione, cattolico, noto per la sua franchezza. Consultato a monte sul progetto di decreto per la creazione del nuovo ente, il Consiglio di Stato ha constatato però, a suo grande sconcerto, che tutti i poteri sarebbero stati concentrati nelle mani del futuro presidente, infrangendo così il diritto comune. Ha raccomandato quindi che al presidente venga tolta la prerogativa, prevista dalla legge, di proporre i nomi dei membri del cda, del consiglio scientifico e persino del comitato di controllo interno. Ma il governo ha respinto la raccomandazione e Georgelin disporrà dunque di pieni poteri. Il 2 luglio scorso, davanti ai deputati, il generale ha precisato l’ammontare della sua retribuzione, che dovrebbe poter cumulare con la pensione dell’Esercito. La somma, ancora da validare, sarebbe di 4.800 euro al mese (più una parte variabile del 25%). È meno degli stipendi, a volte deliranti, corrisposti ai direttori di certi enti culturali statali. La Corte ha evidenziato anche un problema nella dotazione finanziaria dell’ente: il governo ha deciso infatti di finanziarne il budget di gestione con le donazioni. Ma per la Corte, se si rispetta la legge, i fondi raccolti dovrebbero finanziare solo il cantiere e non i 5 milioni di euro annui di gestione dell’ente. Queste spese dovrebbero rientrare nel bilancio dello Stato, che deve farsi carico delle spese di gestione dei suoi enti. Nell’elaborare questa legge il governo ha dato prova di creatività. Ha stabilito anche di far pagare un affitto all’ente pubblico, la cui sede, di 236 metri quadrati, si trova al 2 bis della cité Martignac, nel settimo arrondissement di Parigi. Ma gli enti pubblici in genere non pagano l’affitto allo Stato. In questo caso, invece, l’ente per la ricostruzione di Notre-Dame dovrà versare ogni anno 213.000 euro, presi dai doni, per l’affitto dei locali, più 50.000 euro di spese. Per la Corte la misura è “discutibile”. Se la gestione del cantiere è affidata all’ente pubblico, i lavori sono sotto la responsabilità dei capo architetti dei monumenti storici. Dal 2013, il responsabile di Notre-Dame è l’architetto Philippe Villeneuve. Era lui a seguire il cantiere della cattedrale al momento dell’incendio dell’aprile 2019. Un programma di restauro per 58 milioni di euro su 10 anni era stato approvato nel 2016 per restaurare tra le altre cose la guglia. La Corte si è interessata a questo cantiere e ha rilevato dei problemi nella gara d’appalto, suddivisa in sette lotti: in un primo tempo, solo due lotti sono stati attribuiti, poiché le offerte per gli altri cinque erano di gran lunga superiori alle previsioni (un lotto ha persino superato del 228% la stima iniziale dell’appaltatore). Alla fine sono stati attribuiti 4,2 milioni di euro di lavori. Un lotto non è stato assegnato: quello relativo alla sorveglianza del cantiere.

Sulla gestione di quel cantiere la responsabilità di Philippe Villeneuve non è stata messa in causa. Ma la Corte si chiede: perché, oltre all’inchiesta giudiziaria, il ministero non ha aperto anche un’indagine amministrativa per determinare le eventuali falle nella direzione del cantiere? La Corte ha rilevato un’altra mancanza: nel gennaio 2019, la Direzione regionale degli affari culturali (Drac) non ha rilanciato a tempo la gara pubblica sulla sicurezza anti-incendi. Eppure la scadenza era nota dal 2014. Alla fine è stato prorogato l’appalto precedente, affidato alla società Elytis, passando però per dei moduli d’ordine e non per una gara normale. Una soluzione di ripiego poco consona alla situazione. Oggi i lavori di ricostruzione sono ancora nella fase della messa in sicurezza. Una fase stimata nel luglio 2019 a 85 milioni di euro. Ma, secondo il generale Georgelin il conto ammonta già a 165 milioni di euro per vari motivi: il prolungamento di questa fase fino all’estate 2021 (32 milioni), la rivalutazione dei costi di certi servizi (27 milioni) e le spese per la bonifica dal piombo (21 milioni). La Corte dei conti è stata infine anche infastidita dalle richieste di Villeneuve di alzare del 60% le sue indennità, per via delle complessità del cantiere dovute ai vincoli legati al piombo. Georgelin ha di recente chiarito che la remunerazione dell’architetto per questa prima fase del progetto era stata alla fine negoziata sotto forma di una somma forfettaria, ma non ha precisato i numeri.

 

 

Il ritorno al Patto di Stabilità ucciderebbe il Recovery fund

Il coronavirus ha sbloccato alcuni meccanismi arrugginiti della grande macchina europea. Mentre la Bce è intervenuta con decisione sui mercati, il dibattito intorno alle misure da adottare si è riacceso. Vecchie logiche convivono con nuove proposte. “Grande è la confusione sotto il cielo”, avrebbe detto Mao.

Il Mes “pandemico” presenta vantaggi economici limitati, a fronte di insidie rilevanti come la “sorveglianza” sulle politiche di bilancio complessive dei paesi debitori, in base a norme richiamate nel documento che definisce i termini del prestito. Il Recovery fund ha una componente limitata, per l’Italia, di risorse a fondo perduto. I vantaggi non stanno dunque nella presenza di “trasferimenti fiscali”. I punti positivi della proposta sono la restituzione molto dilazionata nel tempo dei fondi spesi e i bassi tassi di interesse. È vantaggiosa anche la rimozione temporanea dei vincoli di spesa in alcuni ambiti, senza che i disavanzi vadano a gravare sul debito pubblico (una sorta di golden rule temporanea).

Il contributo della Commissione sta quindi nel mettere a disposizione l’emissione di debito comunitario. Ciò permetterebbe di superare temporaneamente le regole fiscali europee, che dovrebbero comunque essere modificate in quanto altamente disfunzionali. Un eventuale ripristino del Patto di stabilità e crescita così com’era prima della crisi vanificherebbe tutti gli sforzi e renderebbe inutile il Recovery fund stesso.

Ma per capire a fondo questi strumenti dobbiamo fare un passo indietro. È in atto uno scontro culturale fra chi ancora sostiene la tesi della cosiddetta “austerità espansiva” e chi invece la rifiuta. Molti studi hanno mostrato che l’austerità ha effetti sul Pil persistenti e sempre negativi e può provocare un aumento del rapporto debito-Pil. Invece, politiche fiscali espansive possono perfino ridurlo. Queste idee si sono fatte un po’ di strada persino nelle istituzioni europee. Le troviamo infatti nel documento tecnico della Commissione sul Recovery fund, dove si afferma che grazie agli investimenti pubblici finanziati dal fondo il rapporto debito-Pil sarà più basso di quanto sarebbe in loro assenza.

Dobbiamo quindi smettere di pensare in automatico che più deficit significa più debito-Pil: gli effetti macroeconomici sono più complessi. Questo si riflette nelle risposte fiscali dei vari Paesi alla crisi, ovunque fortemente espansive. Ma attenzione: nell’eurozona spendono di più i Paesi del centro, meno colpiti dalla pandemia. Spendono meno i Paesi periferici anche quando più colpiti (Spagna e Italia) e questo accentuerà i processi di divergenza.

In questo contesto incerto, l’Italia deve fare i conti col suo elevato rapporto debito-Pil, che trent’anni di avanzi primari non sono riusciti ad abbattere. Nonostante il nostro Paese abbia alcuni punti di forza come il basso indebitamento e l’elevata ricchezza del settore privato, e un debito netto con l’estero prossimo a zero, l’elevato debito-Pil è un problema nel quadro delle regole europee. Purtroppo, modificarle è difficile.

L’unica strada per l’Italia è mantenere per lunghi periodi il tasso di interesse sul debito pubblico al di sotto del tasso di crescita nominale del Pil. La soluzione ideale sarebbe la trasformazione in titoli perpetui o a lunghissima maturità dei bond detenuti dalla Banca d’Italia. Un’idea che però non è all’ordine del giorno. In assenza di ciò, è necessaria almeno la garanzia del riacquisto del debito e di bassi tassi di interesse nei prossimi anni attraverso l’essenziale intervento della Bce, in linea con quanto sostiene anche Fabio Panetta del board della banca centrale.

L’altra variabile cruciale è il tasso di crescita dell’economia: le “riforme” possono essere utili o dannose, ma in ogni caso non hanno effetti sensibili sulla crescita. Per far crescere il Paese c’è bisogno di sostegno alle esportazioni e di politiche di bilancio con elevato impatto sul Pil. Nella pratica, ciò significa che l’Italia dovrebbe spendere su componenti ad elevato moltiplicatore sul Pil: investimenti pubblici e crescita dell’occupazione qualificata nel settore pubblico, attualmente molto sottodimensionato rispetto ad altri Paesi europei.

Proposte come il Recovery fund potrebbero facilitare questo processo. Al contrario, un aumento dei tassi di interesse, o il tentativo di ridurre il debito-Pil attraverso politiche di austerità e il ritorno delle logiche del Patto di stabilità avrebbe effetti drammatici sulla crescita e sul rapporto debito-PIL (che aumenterebbe). Ne risulterebbe un circolo vizioso che porterebbe il Paese a dover scegliere tra Italexit da un lato o default, crisi bancaria e commissariamento da parte della Troika dall’altro.

Tasse. Nessun nuovo rinvio: fino a fine luglio 142 versamenti

Da oggi ripartono i versamenti di imposte e contributi relativi alle dichiarazioni fiscali per partite Iva, professionisti e imprese. Non ci sarà nessuna proroga delle scadenze perché costerebbe troppo, fino a 8,4 miliardi di euro. E le sospensione già accordate nei mesi del lockdown hanno già fatto crollare di oltre 22 miliardi le entrate tributarie e contributive su base annua, calcolando che per quest’anno è già stato cancellato definitivamente il saldo e acconto dell’Irap. Un nuovo slittamento, ha spiegato il sottosegretario all’Economia Alessio Villarosa, “avrebbe inciso sull’elaborazione delle previsioni delle imposte auto-liquidate della Nota di aggiornamento al Def che va presentato al Parlamento entro la fine di settembre”. È, quindi, rimasto inascoltato l’appello dei commercialisti per un ulteriore rinvio dei versamenti al 30 settembre. Una decisione che innesca così una mole di scadenze che creeranno un ingorgo senza precedenti e che rischia di mettere in ginocchio 4,5 milioni di partite Iva che, tra saldi e acconti, si ritroveranno a dover nelle prossime due settimane ben 246 adempimenti che erano già stati rinviati a causa della pandemia dal 30 giungo al 20 luglio (o fino al 20 agosto con la maggiorazione dello 0,4%). Si tratta, in particolare dell’acconto 2020 e saldo 2019 dell’Iva, dell’Irpef e dell’Ires. Poi c’è il versamento delle imposte e dei contributi previdenziali e assistenziali sulla base della dichiarazione dei redditi per titolari di partita Iva e per i soci di società. Ma anche il pagamento del diritto annuale alla Camera di Commercio, l’imposta di bollo sulle fatture elettroniche emesse nel secondo trimestre per importi superiori a 1.000 euro, la presentazione del modello per il rimborso Iva trimestrale e quello per le operazioni effettuate con l’estero nel secondo trimestre 2020.

Insomma, un calendario pesantissimo per una categoria che più delle altre ha subito la crisi economica. E alla quale ora si chiede di versare soldi che potrebbe non avere, tuonano il Consiglio nazionale e tutte le sigle sindacali dei commercialisti che minacciano “azioni concrete di protesta della categoria, tra le quali non escludiamo lo sciopero”. Il governo sta comunque ragionando se riprogrammare le scadenze fiscali di settembre.

Ma intanto la maratona per la maxi scadenza fiscale iniziata oggi è iniziata.

 

Truffa dei diamanti, ora mancano fondi per decine di milioni

Dopo oltre tre anni e mezzo, volge al termine l’inchiesta condotta dalla pm milanese Grazia Colacicco sulla vendita di diamanti a prezzi gonfiati attraverso le banche da parte dei broker Intermarket Diamond Business e Diamond Private Investment. Per l’accusa si è trattato di una maxi truffa da 2 miliardi durata un quindicennio ai danni di migliaia di risparmiatori. L’accusa contesta a vario titolo a diversi soggetti i reati di truffa aggravata, riciclaggio, autoriciclaggio e corruzione tra privati. Grazie alle pietre vendute a prezzi superiori a quelli di mercato negli anni Idb ha realizzato utili per almeno 149,2 milioni, Banco Bpm 83,8 milioni e UniCredit 32,7 milioni, mentre Dpi per almeno 165,5 milioni, Mps di 35,5 milioni e Intesa Sanpaolo di 11,1. A febbraio 2019 l’indagine a carico di 87 persone fisiche, di Idb e Dpi insieme a Banca Aletti, Banco Bpm, Mps, Intesa Sanpaolo e UniCredit, aveva portato a sequestri per oltre 700 milioni e a gennaio 2020 di quote societarie per altri 34 milioni. Il fallimento di Idb e l’amministrazione giudiziale di Dpi che hanno portato alla luce molti segreti delle due società. Ma i conti non tornano.

Il 25 giugno la Guardia di Finanza di Milano ha arrestato per riciclaggio il consulente Nicolò Maria Pesce. Il 3 luglio è stata la volta di Maurizio Sacchi, amministratore delegato di Dpi ritenuto proprietario occulto della sua controllante, la holding Magifin. Pesce è stato rimesso in libertà venerdì scorso da San Vittore per un vizio di forma (difetto di valutazione autonoma delle esigenze cautelari) dell’ordinanza del giudice per le indagini preliminari rilevata d’ufficio dal Riesame. Sacchi invece resta detenuto a Civitavecchia. Sacchi e Pesce l’8 ottobre 2018 avevano stretto un contratto di associazione in partecipazione: tra giugno 2018 e aprile 2019 il patron di Dpi e la compagna Giuliana Zazzarini, a capo di Magifin Immobiliare, hanno trasferito almeno 20,5 milioni dai conti bancari del gruppo alla Kamet Advisory di Pesce e alla sua controllante Grenade. Sacchi avrebbe girato a Pesce a titolo personale anche altri 4 milioni. Secondo l’accusa, però, Sacchi in concorso con la figlia Eleonora, Zazzarini e altre persone dal 2016 avrebbe “travasato” 99,4 milioni da Dpi in operazioni di autoriciclaggio, oltre a investire 2,5 milioni per comprare una villa con piscina a Porto Recanati, sequestrata, e altri 7 per regolarizzare la sua posizione fiscale con il “ravvedimento operoso”.

Secondo le indagini Pesce avrebbe “riciclato e reinvestito i propri guadagni illeciti in fondi gestiti da una società d’investimento lussemburghese” e finanziato “numerose imprese” a lui riconducibili tra le quali un ristorante a Forte dei Marmi, una cava di marmo, una sartoria, una concessionaria di auto, due società di recupero crediti e intermediazione immobiliare. A Pesce sono stati sequestrati 17 milioni ma dalle carte sequestrate emerge che Magifin e Magifin Immobiliare gliene avrebbero versati in realtà ben 42,7. Non a caso dalle carte emergono tracce che portano in Serbia, Bulgaria, Albania, Romania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Grecia, Turchia, Regno Unito ed Estonia. Tra i documenti che sequestrati a Sacchi sono invece emersi studi sulla possibilità di “esportare” la vendita di diamanti in Austria.

Pesce il 17 dicembre 2019 aveva ammesso di aver trasferito milioni per conto di Sacchi. Tra le società usate c’era la Fugen Private Sim: costituita a inizio 2018, aveva come azionisti suo padre Giovanni e sua moglie Carlotta Bax ed era stata attiva in Lussemburgo con un’omonima Sicav. Autorizzata a operare in Italia da Consob il 19 giugno 2019, a gennaio scorso ha visto le dimissioni dei consiglieri, tra i quali l’ex generale della Guardia di Finanza Umberto Rapetto, ex consulente strategico di Telecom ed ex docente di molti atenei tra cui la Link Campus, ed è stata messa in liquidazione ufficialmente per “divergenze tra i soci”.

Ma dalle carte emergono altri collegamenti. Tra il 28 gennaio e il 20 febbraio 2019 Pesce viene intercettato con l’avvocato catanzarese Giancarlo Pittelli, legale di Sacchi. Il 19 febbraio 2019 Pittelli “informava” Pesce: “Dpi sequestrata questa mattina, un gran casino. C’è anche il riciclaggio, quindi fai attenzione. La questione di Sacchi è molto molto seria e lui non capisce nulla”. Pesce replicava: “Lui deve stare fermo e zitto adesso”. Pittelli, avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia, il 19 dicembre scorso è stato arrestato con altre 300 persone nell’inchiesta Rinascita-Scott della procura antimafia di Catanzaro con l’accusa di concorso in associazione mafiosa ed è detenuto nel carcere di Nuoro. Questa settimana gli inquirenti hanno in programma gli ultimi interrogatori. La caccia al tesoro dei diamanti continua.