Così la crisi diventa business, tra fondi pubblici e strozzini

Un immobile ogni 114 famiglie italiane va all’asta e viene aggiudicato a una media di 65 mila euro, appena un terzo del suo reale valore di mercato e a un importo decisamente più basso dei 115mila euro del 2018. Un dramma che con la crisi economica legata alla pandemia rischia di esplodere: alle due milioni di famiglie già sovraindebitate, se ne stanno aggiungendo altre 2 milioni che tra la fine della cassa integrazione Covid e del blocco dei licenziamenti rischiano di vedersi portare via la casa. Le associazioni e le fondazioni antiusura, sulla base di dati Bankitalia e Istat, certificano una crisi in cui ai debiti che superano ormai la ragionevole speranza di recuperarli col patrimonio o con il reddito, ora si aggiunge anche una perdita di risparmi fra mille e 5.000 euro. Si stima che nel mercato occidentale un quarto dei negozi indipendenti, metà degli affittuari dei centri commerciali e il 60% dei ristoranti non stia pagando il dovuto e che le insolvenze sui mutui hanno già superato quelle del 2008. Il peggio è che se l’emergenza è superabile, è l’uso a lungo termine degli immobili che solleva interrogativi. Nonostante l’apprezzamento bipartisan della proposta del senatore M5S Daniele Pesco, che propone di estendere il controllo sul flusso dei soldi anche alle aste immobiliari e fallimentari (uno dei canali principali di riciclaggio), l’emendamento non è stato inserito in nessuno dei decreti approvati per l’emergenza Covid. E, ancor più grave, la legge già votata sul sovraindebitamento, che sarebbe dovuta entrare in vigore entro Ferragosto, è stata rinviata a settembre 2021. A famiglie o micro imprese colpite dalla crisi non resta che svendere le loro proprietà immobiliari e commerciali con il rischio di finire in “mani forti”, dotate di liquidità, spesso derivante da attività criminali o evasione fiscale. Ma quello che per alcuni è crisi del debito per altri è business. La società immobiliare Borgosesia ne ha fatto uno slogan: “Trasformare gli Npl in cantieri”. Significa coinvolgere investitori per acquistare crediti garantiti da immobili ipotecati o direttamente in asta. E poi “valorizzarli” con interventi di ristrutturazione o completamento. Non è l’unica strategia. Cerved, big fra le società di analisi dati e di gestione crediti (45,8 miliardi) nata come infrastruttura tecnologica per le Camere di Commercio, ha lanciato il sito di annunci immobiliari “Bee the City”. Focus su Milano, design luccicante. Non vendono appartamenti pignorati perché non hanno l’autorizzazione ministeriale e allora creano una “narrazione” positiva del mattone. Il sito pubblica blog e guide, come parchi e giardini perfetti per un pic-nic o i migliori quartieri rinnovati.

Milano chiama, Roma risponde con la valorizzazione delle aeree abbandonate magari sfruttando finanziamenti pubblici. Così nasce il “welfare di comunità” di Santa Palomba, con investimento Cdp e il fondo immobiliare gestito da Dea Capital (De Agostini) per realizzare alloggi sociali. Lo strumento è già operativo nelle Marche, a Bari, in Toscana. A Ferrara, per recuperare il “Palaspecchi”, i soldi pubblici stanno salvando l’investimento andato male del costruttore Luca Parnasi. Si muovono i grandi ma anche gli “small”. “Un quarto dei lavoratori – dice Mirko Frigerio di Astasy – forse non tornerà in ufficio e cercherà case più grandi preferibilmente con giardino”. Stesso avviso per Mario Breglia di Scenari Immobiliari: “Aver vissuto per settimane in case vecchie o senza balconi cambierà le prospettive delle famiglia. Piuttosto che il nuovo suv, meglio una casa con una stanza in più”. Quindi? Vi sono investitori da 100mila a 2milioni di euro il cui scopo non è la speculazione sui portafogli ma l’acquisto delle case in asta e del debito per stralciarlo. “Nella nostra società il debitore è come il maiale, non si butta via niente. Va spolpato fino alla fine”, dice Giovanni Pastore tra i fondatori dell’associazione “Favor debitoris”.

L’Italia disperata che va all’asta. Il Covid stende pure il mattone

Effetto Covid, l’Italia va all’asta. Lockdown e pandemia portano 15,6 miliardi di euro di crediti deteriorati (Npl) in pancia alle banche, dice Nomisma nella ricerca “Dimensione del disagio abitativo pre e post emergenza Covid-19”, commissionata da Federcasa. Sofferenze e incagli bancari figli di mutui non pagati, affitti non riscossi su appartamenti gravati da debiti e procedure fallimentari. “Il coronavirus crea un pesante strascico legato ai default – spiega Mirko Frigerio, vicepresidente di Astasy, società leader di consulenza su aste ed esecuzioni immobiliari – ma è presto per un’analisi completa, servono 6-9 mesi”. Il pignoramento di una casa è “la morte civile”, lo definisce Bruno Cattoli, segretario milanese dell’Unione inquilini. Peggio di uno sfratto. Perché oltre a perdere l’immobile, dal momento dell’esecuzione si viene segnalati come “cattivi pagatori” alla Centrale rischi e non è più possibile accedere a forme di finanziamento o prestiti. Marchio d’infamia che rimane – da Codice civile – vita natural durante fino al sesto grado di parentela, con debiti ereditati fra generazioni. Inoltre le stime di Astasy dimostrano che, con l’immobile all’asta, si recupera in media il 56% del valore della casa. Non del mutuo. Che se è stato contratto in tempi di vacche grasse, quando il mercato immobiliare volava, può pesare ancora per anni sulle spalle del debitore. Perché “le società falliscono, le persone no”, dice Frigerio.

È il grande non detto delle politiche abitative e del mercato residenziale in Italia. Un terzo dell’immobiliare è fatto di esecuzioni e pignoramenti: 245 mila nel 2018 per 36,4 miliardi di euro su 579 mila compravendite classiche, secondo il colosso della consulenza PricewaterhouseCoopers (Pwc). Sono stati 204 mila i lotti messi all’asta nel corso del 2019. Se fare stime dell’effetto Covid è difficile, i dati storici non promettono bene. In media gli Npl (i primi 5 gruppi in Italia fanno utili per oltre mezzo miliardo) sono “garantiti” al 40% dal mattone. Il 70% di questi sono immobili residenziali-abitativi. La quasi totalità riconducibili a singole persone fisiche. Impossibile distinguere fra prime o seconde case messe a rendita in affitto, magari ai turisti. Basta farsi un giro nei centri storici di alcune località per capirlo. Alle Cinque Terre e La Spezia – fiore all’occhiello dell’Italia da cartolina – da 10 anni meta turistica di russi, inglesi, cinesi, americani con tanto di pubblicità delle “Five Lands” che svettano all’aeroporto Jfk di New York, è una strage di annunci per appartamenti in vendita. Per paradosso il 2020 segnerà il record negativo del settore. Perché il governo ha prorogato fino al 31 dicembre il blocco degli sfratti, e le prefetture non possono concedere l’uso della forza pubblica per qualsiasi esecuzione di sfratto.

Ma il 2021 sarà l’anno delle lacrime e del sangue. Entrerà a regime la nuova normativa voluta nel 2015 dal governo Renzi (legge 132) che ha velocizzato i tempi delle esecuzioni, comprimendo in 18 mesi una procedura per cui prima servivano 4 anni grazie alla presenza di un curatore (in genere un avvocato) che ha sostituito l’ufficiale giudiziario anche nei rapporti con le forze dell’ordine per liberare l’immobile. Un meccanismo che, al netto dei costi sociali rischia pure di non migliorare le performance e i valori di recupero. Che, anzi, con un meccanismo di aste basato su numerosi e rapidi ribassi del 25% può peggiorare il quadro. Così un immobile di 100 mila euro viene svenduto a 35 mila euro.

Ora il Covid ha esacerbato la situazione andando a innestarsi su un quadro macroeconomico che già prima della pandemia non prometteva bene. Chi lo dice? Per esempio DoValue, società controllata da Fortress Investement e SoftBank, che gestisce la più alta concentrazione di crediti deteriorati per conto del sistema bancario italiano, in particolare per Unicredit di cui un tempo era interna. Presieduta da Giovanni Castellaneta, ex ambasciatore in Usa e Iran ed ex vicepresidente di Finmeccanica, già nell’autunno 2019 DoValue scriveva che l’adeguamento a regole comuni europee per abbassare la quota di sofferenze in pancia alle banche, “la crescita dell’attività di recupero incentivata da modifiche normative e fiscali” e i “segnali di ciclo negativo in Italia” porteranno “a un ulteriore vento in poppa” alle loro attività nello Stivale.

I manager dell’immobiliare provano a mostrare sicurezza di fronte alla crisi e puntano a valorizzare gli asset sfruttando il Covid più o meno furbescamente. Gli studenti scappano dalle città universitarie? Per arginarli serve lo student housing , cioè residenze universitarie che vadano oltre il modello del classico dormitorio. Gli anziani si ammalano nelle Rsa? Ecco in arrivo il senior living, d’importazione Usa e francese, in cui si mettono a disposizione spazi per attività comuni e tutta una serie di servizi infermieristici. “La realtà – dice Luca Dondi, ad di Nomisma – è che si ripropongono vecchie formule o copiate dall’estero. Bisogna invece partire dalle funzioni che servono a un territorio e che può pagare invece di inseguire il valore di carico di immobili e terreni, magari con i cambi di destinazione per recuperare debiti e perdite”.

Una missione che vede in prima fila da un po’ di anni operatori specializzati. Proprio come DoValue (131 miliardi di crediti gestiti, leader nel Sud Europa), la bad bank pubblica Amco che ha appena acquisito due miliardi dalla Popolare di Bari, Prelios (oltre 30 miliardi), Credito Fondiario (51 miliardi) e altri. Pronti per lavorare come provider di servizi per banche e assicurazioni. Magari innestandosi su scelte politiche nazionali. È il caso dell’housing sociale. Secondo il piano Colao è la freccia da scoccare per rilanciare le politiche abitative in Italia miste pubblico-private e rispondere alle 5 milioni di famiglie che faticano ad accedere a una casa sul mercato. Cifre destinate ad aumentare. Ma gli interessi dietro all’housing sociale sono tanti e riguardano anche la valorizzazione del patrimonio immobiliare o fondiario abbandonato che genera incagli. Basta guardare agli attori. Per esempio nel quartiere Barona di Milano c’è uno dei “gioielli” sponsorizzato dalla giunta Sala dove s’incrociano i destini di banche, costruttori e società di recupero crediti. Realizzato al 60% con soldi di Cassa depositi e prestiti, Pessina Costruzioni, il fondo immobiliare Fedora di Prelios e Torre Sgr, società controllata dal principale investitore di DoValue, Fortress Investment, e da Unicredit. Basta un’occhiata alle poltrone al vertice e nei collegi dei revisori contabili per trovare il classico valzer fra uomini del gruppo bancario guidato da Jean Pierre Mustier, la fondazione bancaria alle spalle Cariverona e la stessa DoValue. Il presidente di Torre sgr è l’avvocato Fausto Sinagra, storico dg di Cariverona. Nel cda di Torre Sgr c’è Francesco Colasanti che siede anche nel cda di DoValue.

Dall’altra parte il terreno del recupero crediti fa gola a molti. Inclusi i novelli del settore. È il caso della Illimity Bank di Corrado Passera, scesa in campo un anno fa. Che si occupa di gestione e commercializzazione di beni immobili e non provenienti da procedure concorsuali ed esecuzioni immobiliari. Lo fa attraverso un network di piattaforme e aste online oltre a una rete di professionisti dislocati sul territorio italiano. Così come Covisian, storico outsourcer per i big delle telecomunicazioni come Fastweb. Che il 4 maggio, con la fine del lockdown, ha annunciato la nascita di Covisian Credit Management S.p.a, evoluzione della CSS S.p.a acquisita nel 2016 e che nell’ultimo triennio ha gestito 6 miliardi di crediti. Perché un operatore della telefonia e gestore di call center si lancia nel business del recupero crediti? Le commesse delle Tlc diminuiscono e non offrono più grandi margini. Allora Covisian può giocare la sua partita nella gestione creditizia vantando già strutture fisiche, digitali e personale dedicato. Per recitare una parte su un palcoscenico destinato ad affollarsi di attori. Grande crisi significa grandi debiti. Qualcuno se ne deve occupare.

Guerra all’Anpal. Nuovo scontro nell’Agenzia. Così le politiche attive restano paralizzate

Tutti contro tutti e nessuno ne esce come vincitore. Anzi, nessuno riesce proprio a uscirne. È chiaro, però, chi ne esce sconfitto: le politiche attive del lavoro, che restano ferme al palo. Nonostante il piano industriale approvato a fatica il 9 luglio, l’Anpal è ancora in piena rissa istituzionale. L’agenzia ha il compito di coordinare le misure di ricollocazione dei disoccupati, ma non decolla. Mimmo Parisi, presidente voluto da Luigi Di Maio e chiamato dal Mississipi, è in rotta con le Regioni, che hanno votato contro il suo piano industriale, e non ha un gran feeling con la ministra del Lavoro Nunzia Catalfo. È contestato dai precari storici, in attesa di stabilizzazione, specie dal sindacato Clap. E ha un pessimo rapporto con il direttore generale dell’Anpal stessa, Paola Nicastro. L’ultimo screzio andato in scena proprio pochi giorni fa. L’8 luglio Nicastro ha infatti firmato un decreto in cui ha sospeso tre attività previste dal piano Anpal Servizi – la società per azioni controllata dall’agenzia lo aveva approvato a dicembre 2019 – poiché, recita il documento, manca “una chiara rappresentazione dei costi”.

Parisi ha reagito fermando la stabilizzazione dei precari storici, provocando l’ira dei sindacati. “Il decreto – ha scritto il presidente ai lavoratori – stravolge i piani di assunzione”. Venendo meno alcune attività, ritiene Parisi, si complica l’immissione di personale stabile. Nicastro scrive che “il personale e i collaboratori potranno svolgere attività nell’ambito delle altre linee del piano”, ma il numero uno dell’agenzia non concorda.

A parte questo botta e risposta a distanza, le cose comunque non girano. Il piano industriale approvato il 9 luglio ha sancito sì una tregua con il ministero del Lavoro, ma ha messo nero su bianco lo strappo con le Regioni, che in Italia hanno competenza nelle politiche attive del lavoro. Ci sono ancora passaggi del piano che non convincono. “Le risorse già assegnate – si legge – rendono possibile l’immediata assunzione di 550 precari”. Il bacino totale, però, ne conta oltre 650 e tra l’altro 260 sono in scadenza tra dieci giorni. “Nonostante il piano annunci la necessità immediata di affrontare la crisi derivata dall’emergenza sanitaria – dicono le Clap – non ritiene opportuno predisporre procedure di stabilizzazione tempestive e semplificate”. Sullo sfondo restano le contestazioni al progetto navigator, i tutor affiancati ai centri per l’impiego al fine di accompagnare al lavoro chi prende il reddito di cittadinanza. A fine maggio risultavano essere predisposti 113.623 piani personalizzati su oltre 900 mila beneficiari “attivabili”. Di questi, sono stati accolti 665.735, presi in carico 326.461. Le offerte di lavoro o le opportunità formative proposte sono 82.035. Numeri bassi, ma molto ha influito anche il lockdown, con i navigator costretti ad agire in remoto e a sospendere le attività in presenza. Resta inevasa la domanda più importante: quanti posti di lavoro sono stati creati grazie al reddito di cittadinanza? Finora non è ancora chiaro se il compito di fornire questo dato sia dell’Anpal o delle Regioni. Uno scaricabarile che non aiuta, ora che le politiche attive del lavoro saranno cruciali per fronteggiare l’emergenza occupazionale.

 

Intrigo mafia-Stato Storie mai raccontate sul patto mai concluso e un identikit inedito di Provenzano

Giampiero Calapà, collega su questo giornale, è un reporter di scuola nuova: lavora sulla precisione delle informazioni, sulla affidabilità di alcune fonti e sul racconto rapido e senza entusiasmi. No, la mafia non è finita e non è vicina a morire. Se mai si sta trasformando (molto più grande e molto meno visibile) e la lunga lotta non sta per chiudersi. A un passo da Provenzano, una storia nascosta nella trattativa Stato-mafia (Utet editore) è un racconto che porta in scena personaggi e vicende che conosciamo, illuminate o spiegate da altre scoperte altrove e raccontate poco o mai, prima d’ora, con personaggi “minori”, spesso emarginati o puniti, o sconosciuti, quasi sempre gli eroi della lunga contesa che dura intatta, mentre spesso si fa finta che si tratti di storia, di passato e anche di vittorie. L’idea dello Stato, racconta Calapà, è trascurare i protagonisti, anche se non sono sopravvissuti all’incarico ricevuto. E celebrare lo Stato come l’artefice del ritorno ormai realizzato alla legalità.

Il libro di Calapà paga molti debiti agli eroi quasi sconosciuti della ininterrotta e spesso non trionfante lotta alla mafia, ma non registra entusiasmi e non proclama vittorie. La guerra continua. Di questa guerra l’autore ci offre un catalogo accurato di tempi, luoghi, personaggi e intrighi, mostrando l’intenso attraversare le fila, da un lato i pentiti e i loro immensi rischi e le loro incurabili ambiguità, e dall’altro quando, dove, in che modo lo Stato (anche lo Stato) tratta o tradisce. Il racconto-ricerca di Calapà contiene tra grandi cerchi. Uno, forse il più grande perchè tuttora in gran parte ignoto, la mafia.

Un secondo, lo Stato con i suoi personaggi, dai generali che diventano eroi ai poliziotti che anche da eroi vengano fatti restare in commissariato o ignorati nelle celebrazioni, se non lasciati morire. Un terzo è il Paese Italia, che ha pagato a questa guerra un grande tributo, ma non sembra liberato dalla infiltrazione, che continua a mostrarsi presente, in una continua attività di corruzione, nelle fondamenta giuridiche, istituzionali e anche private dello Stato e del Paese. Calapà racconta, soprattutto attraverso le vicende di un bravo poliziotto – autore nel ’97 di un identikit finora inedito di Provenzano – tenuto a bada da altri poliziotti oltre che dalla mafia.

Nel suo racconto si vede che il male che corrompe l’Italia resta radicato e sa ancora espandersi. Ciò che segue non lo dice l’autore, ma, dopo avere letto il suo libro-documento, diventa inevitabile rivelazione. Uno di questi giorni Mattia Messina Denaro finirà la sua leggendaria latitanza. Ma, come nel dopo Riina, non finirà niente. Per questo è bene leggere con attenzione una storia-chiave come A un passo da Provenzano.

Venezuela. Una crisi su cui pesano gli interessi dell’Eni

Vuole una leggenda cara ai cronisti politici che il solitario ‘neutralismo’ italiano rispetto alla crisi venezuelana sia imposto dai 5stelle, o meglio da quei pentastellati che si dichiarano né con Maduro nè con Guaidò. Pur nella crescente pochezza dello Stato, ancora non siamo al punto che a determinare la nostra politica estera siano i pensierini di Tizio e di Caio.

Sono semmai preponderanti le preoccupazioni dell’Eni, che vanta col Venezuela un credito di quasi 800 milioni e si fa pagare le rate in petrolio, finora senza incorrere nelle sanzioni minacciate dagli Usa a chi viola un embargo peraltro non funzionale agli obiettivi politici dichiarati. Inoltre il Venezuela vanta imponenti riserve di idrocarburi e le ultime due compagnie occidentali rimaste sulla piazza, Eni e la spagnola Repsol, possono sperare di ottenere in futuro quanto non ancora prenotato dalla Cina. Ora: non si può onorare in Mattei colui che sfidò le majors del petrolio, e allo stesso tempo lamentare analoga spregiudicatezza quando l’Eni osa. Però neppure è produttivo ridurre la politica estera alla tutela dei nostri interessi petroliferi. All’inizio della crisi, di fronte al rischio di uno scontro armato tra i bolivarianos e la destra, parve prudente la decisione italiana di non riconoscere in Guaidò il legittimo presidente. Ma i negoziati sui quali l’Europa confidava non sono mai decollati e lo stallo ha indebolito l’opposizione democratica, quella che aveva confidato in Chavez fin quando il bolivarismo non è diventato la facciata di uno stato di polizia oggi aggressivo (significativo che a confermarne le violenze sia l’Alto commissario Onu per i diritti umani Michelle Bachelet, sopravvissuta ai centri di tortura di Pinochet). E mentre fingevamo di non vedere, consorterie ‘bolivariane’ depredavano proprietà e macchinari di imprese italiane, soprattutto nelle costruzioni. Avvicinandosi elezioni che il regime truccherà (in dicembre) sarebbe saggio e onorevole dotarsi di una politica più larga degli interessi dell’Eni e più incisiva di quanto sia stata finora.

 

Guerra dentro confindustria: il mise usato come pedina

Mentre il Paese affronta una crisi epocale, col rischio di milioni di disoccupati, la Confindustria ci illustra quali sono le vere priorità. L’associazione degli industriali che fu presieduta da Guido Carli, spompata da inchieste e fallimenti, è ormai solo un terreno di scontro di guerre di bottega per interessi personali. Il neo presidente, il lombardo Carlo Bonomi, si è appena insediato facendo fuori il direttore generale Marcella Panucci, da 25 anni in associazione, difesa dai suoi grandi sponsor, il costruttore Francesco Caltagirone e l’ex ministro Paola Severino. Era talmente una priorità che Bonomi non si è neanche premurato di avere in mano un successore. Serviva dare un segnale al mondo confindustriale romano con l’arrivo dell’ex numero uno di Assolombarda. I romani si vogliono consolare imponendo al ministro 5Stelle dello Sviluppo Stefano Patuanelli la nomina di Panucci come nuovo segretario generale del ministero, con la benedizione del Pd. Non è mai successo che al dicastero che gestisce milioni di incentivi per le imprese arrivi il direttore generale dell’associazione delle imprese, ma tant’è. Al Mise sostituirà Salvatore Barca, amico dell’ex ministro Luigi Di Maio, originario anche lui di Pomigliano d’Arco, premiato per il suo biennio incolore col vertice della Consap, l’assicuratore pubblico.

Che il Mise diventi pedina di scambio per quietare la vecchia guardia di Confindustria sventrata dall’uomo del Nord, non deve stupire: la politica è disfatta e Confindustria è questa roba qui. Bonomi passa i giorni ad attaccare il governo ma in realtà è impegnato anima e corpo nelle guerre di bottega. A Roma, col supporto delle partecipate Statali (desiderose di ingraziarsi il governo), vogliono candidargli un presidente di Unindustria che gli faccia la guerra. I suoi danti causa premono. Luigi Abete, per dire, gli ha chiesto la presidenza del Sole 24 Ore, dove ha regnato nel cda negli anni in cui il quotidiano è quasi fallito. Gianfelice Rocca e Marco Tronchetti Proverà vogliono il posto per il fedele Antonio Calabrò. Ai grandi industriali l’interesse generale non importa, importa solo piegare ai loro interessi la forza lobbistica di Confindustria.

Camilleri se n’è andato ma sono i lettori a non sentirsi tanto bene

 

PROMOSSI

Ama, il bis. Si sapeva da mesi, ma la conferma si è avuta alla presentazione dei palinsesti Rai, mai bizzarra come quest’anno per tempi e modi (a metà luglio, da remoto). Amadeus e Fiorello tornano davvero all’Ariston, insieme, contro ogni previsione (e pure dichiarazione, se dobbiamo tornare alle interviste di Fiorello di febbraio scorso, subito dopo il Festival). “Sanremo 2021 sarà di nuovo affidato al direttore artistico Amadeus, persona misurata, garbata, ma anche grande intrattenitore, che ha fatto un gran lavoro di selezione delle canzoni. Insieme a lui ci sarà il grande Fiorello. Sarà un Sanremo che riaprirà la nostra normalità: viva Sanremo”. Lo ha spiegato Stefano Coletta, direttore di RaiUno, nei cui panni non avremmo voluto trovarci in questi pazzi mesi a viale Mazzini, tra palinsesti rivoluzionati, trasmissioni senza pubblico e virologi in mondovisione. Sanremo 2020 è stato l’ultimo grande evento prima della catastrofe: se ci ripensiamo nella sala stampa del roof, con centinaia di colleghi stipati come sardine, sembra un’altra epoca. Un mondo senza gel, mascherine e distanziamento fisico. Ma oltre all’augurio di un ritorno reale alla normalità c’è di più: il settore della musica, come in generale tutto lo spettacolo, è stato letteralmente travolto dalla Corona-crisi. E dunque può darsi che i grandi della musica, in astinenza da palco, tornino all’Ariston. Magari perfino in gara, perché Sanremo è Sanremo (mai come adesso).

 

 

Camilleri sono. Morto, non scomparso. Lo ha scritto Pietrangelo Buttafuoco sul sito della rivista “Civiltà delle macchine”, raccontando il primo anno senza Andrea Camilleri che ci ha lasciati il 17 luglio del 2019. È così vero che lo riportiamo qui, ed è vero non solo perché è appena uscito l’ultimo, attesissimo, Montalbano (“Riccardino” – recensito qualche giorno fa sul “Fatto” proprio da Buttafuoco – in libreria naturalmente con Sellerio). Camilleri ha lasciato un’eredità che ha così profondamente penetrato il tessuto sociale – grazie anche alla tv, ma una tv di qualità – che la sua meravigliosa lingua inventata è entrata nel lessico (i cabbasisi, le ammazzatine e le sciarratine), i suoi personaggi sono diventati nostri amici. Non solo Montalbano: se avete una incontenibile nostalgia, sotto l’ombrellone vi potete portare “Il nipote del Negus” o “La rivoluzione della luna”, due gioielli di bella scrittura e ironia.

 

BOCCIATI

Santi, poeti e navigatori… Lettori no. La notizia è davvero molto preoccupante. Durante i mesi di confino causa pandemia, pensavamo che gli italiani si fossero avvicinati agli scaffali della libreria per riprendere in mano un libro. E invece no: c’è stato un forte calo dei lettori di libri ed è scesa la domanda di acquisto. Voi direte: le librerie erano chiuse, ma il guaio è che il calo della domanda riguarda soprattutto chi, prima della crisi, leggeva più di 12 libri l’anno. È lo sconsolante quadro che emerge dall’indagine del Centro per il libro e la lettura con l’Associazione Italiana Editori (Aie). Più in dettaglio: a maggio 2020 la percentuale di italiani, dai 15 ai 74 anni, che dichiarava di aver letto negli ultimi 12 mesi almeno un libro (compresi eBook e i nostri amati audiolibri) è in calo di 15 punti percentuali rispetto a marzo 2019 e si attesta al 58%. Il valore scende di altri 8 punti percentuali (50%) se si considerano solo le letture di marzo e aprile. Chi non ha letto libri in quei due fatidici mesi è il 50% della popolazione, mentre su base annua questa stessa percentuale è del 42%. Tra chi ha dichiarato di non aver letto durante il lockdown, la maggioranza (il 47%) ha spiegato che il motivo è stato – sedetevi, perché questa è stupenda – “la mancanza di tempo”. Domanda: ma non vi siete rotti le palle di spulciare i social network degli pseudovip e di guardare Games of Thrones?

 

Speranza, la politica che si lava le mani e le travi made in Italy

 

PROMOSSI

Ponzio Pilato Rule. Roberto Speranza ha dato prova di coscienza e serietà dal principio dell’emergenza, ha optato da subito per una linea prudenziale che ha messo l’Italia a riparo da scenari ben peggiori, in cui sarebbe potuta incorrere se non si fosse agito per tempo, e soprattutto non ha mutato continuamente opinione sul da farsi in base a cosa in quel momento la maggioranza degli italiani preferisse sentirsi dire. La buona gestione dell’emergenza sanitaria non l’ha spinto a fare continua esibizione di sé nel tentativo di lucrare consenso, ma anzi ha continuato a lavorare alacremente tenendo sempre il profilo basso, mentre buona parte della politica, quasi priva di responsabilità concreta, si dilettava in prese di posizione ideologiche. Sarà per questo che sentirlo riferire in Parlamento, pregando i colleghi di evitare di trasformare in una battaglia di propaganda anche quelle regole elementari che tutti abbiamo imparato a conoscere, aveva in sé qualcosa di grottesco e commovente insieme: “Nel mondo i contagiati hanno superato la soglia dei 13 milioni e i deceduti sono oramai più di mezzo milione. È del tutto evidente che non possiamo abbassare la guardia. Non dividiamoci su questo, vi prego, anche nella comunità scientifica si dibatte ma nessuno dice che non bisogna mettere le mascherine, mantenere le distanze o lavarsi le mani”. Di molte questioni la politica si lava le mani, che almeno abbia il buonsenso di farlo l’unica volta in cui è necessario..
voto8

Nessun dorma. Ma la vera star della settimana è indubbiamente Angela Merkel, dalle capacità di mediazione della quale dipenderà l’intera partita sul Next Generation Eu. L’idea che la Cancelliera riesca a mettere in scacco una pletora di leader irremovibili e supponenti semplicemente privandoli del sonno, ovvero costringendoli a resistere svegli tutte le ore che resiste lei, vale già il prezzo del biglietto.
voto7

BOCCIATI

Travi made in Italy Chi consuma solo italiano scagli la prima pietra. In un mondo globalizzato dove schivare il consumo di prodotti stranieri è un’impresa da “Mission Impossible”, accusare qualcuno di esterofilia perché non mangia-beve-guida-lava-telefona e chi più ne ha più ne metta italiano è inevitabilmente un boomerang. Lo sa bene Daniela Santanchè che in un video ha puntato il dito contro il governo proprio per questa ragione: “Mentre noi di Fratelli d’Italia diciamo da mesi di sostenere il commercio e il cibo italiano quelli del governo cosa fanno?! Mangiano cibo di un fast food americano!! A voi sembra normale amici?”. E la Rete non perdona: “La carne degli hamburger è italiana. Il personale che vi lavora è italiano. Le tasse le pagano in Italia. Dov’è il problema?”, centra il punto un utente; “No, non mi sembra normale. Ma, a me, non sembra normale neppure comprare la borsa di Hermes e la macchina della Mercedes per sostenere il commercio ed il made in Italy. Avrei apprezzato di più se le avesse dette con una borsa di Armani e una auto Ferrari”, infierisce un altro. Per criticare la pagliuzza altrui, nell’occhio bisogna avere una trave di legno rigorosamente italiano.

voto 4

Il professore Aldo Montagna, calabrese sovversivo: sessantottino e antimafioso

Chi è “Francesca di Bologna?”. Lo schermo dell’iPhone non parla subito al lettore. La memoria gioca a mosca cieca con la vita. Poi il guizzo. Forse Francesca la compagna di Aldo? È lei, dopo quasi vent’anni: Aldo non c’è più. Si abbassa un’altra saracinesca. Aldo era stato un leader anomalo del movimento studentesco del ’68, Università Bocconi. Non famoso, difficilmente si troverebbe un cenno su di lui nei giornali di allora. Ma silenzioso, modesto. Conosciuto e autorevole. Si sapeva che leggeva tanto, tantissimo, di tutto. Era tra i più anziani, nel senso che aveva 24-25 anni. E in quel guazzabuglio che era diventato il mondo giovanile stava come un pascià. Si librava sulla contestazione, a volte con durezza dottrinaria, molto più spesso con un’ironia tagliente che dissacrava la qualunque. E se l’ideologia debordava era pronto a consigliare al ragazzo delle scuole superiori che veniva ad abbeverarsene di leggersi piuttosto un bel romanzo o i prodigi di Asterix.

Affezionato soprattutto ai più giovani, influente, appariva una sorta di grande saggio anche quando giocava a pallone o a pallavolo. I colletti robespierriani, la chioma che vi si allungava sopra ma non troppo, facevano tutt’uno con l’inconfondibile accento calabrese jonico (i calabresi pullulavano in quel movimento, che grazie a loro preferì i mari del sud a Santa Margherita, Viareggio o Riccione). Tra un’occupazione e l’altra fu sindacalista eccezionale e fantasioso dei diritti studenteschi, estenuando in baruffe infinite Salvatore Grillo, il direttore dell’Opera universitaria, che finì per volergli bene. Ci feci un campeggio all’Elba, dormimmo a Capraia sotto le stelle. Poi le strade si separarono senza intenzione.

Mi cercò negli anni Ottanta quando stava nascendo un nuovo movimento, quello antimafia. Lui che per un decennio si era occupato di fabbriche e popoli lontani senza dire una parola su quel che la sua Calabria stava allevando, si gettò da insegnante nel nuovo crogiuolo di speranze. Si mise di nuovo ad appassionare i giovani a valori in grado di cambiar loro la vita. A Bologna, dove si era trasferito e dove aveva messo su famiglia. Non aveva dietro né partiti né associazioni. Ma la più grande manifestazione al chiuso di quei tempi in tutta Italia la organizzò lui, Aldo Montagna, praticamente da solo, mettendo a frutto le qualità rivoluzionarie accumulate nella temperie del ’68. Nel 1986, al Palasport, 12mila studenti per il maxiprocesso, con Franca Rame. E l’anno dopo fece il bis. I tipici colpi d’ala che consentono a un movimento di farsi grande e nazionale. Vi è traccia di quello sforzo titanico in un rapporto del ministero dell’Istruzione sulla storia dell’educazione alla legalità nella scuola italiana. Lui si guardava, di nuovo felice come un pascià, le gradinate con i ragazzi assiepati e i loro striscioni contro la mafia. Era perfetto a quel punto, nella sua calabresità sovversiva: sessantottino e antimafioso, che più? Gli chiesi perché non scrivesse nulla di quel che aveva fatto. Annuiva sul bisogno, ma per quel genere di cose era pigro. Mi chiese, con la solita ironia, “ma vuoi passare alla storia?”. Molti altri anni in mezzo e ci ritrovammo per un viaggio con un gruppo bolognese in un’isola greca. Con Francesca, appunto. Di nuovo libri. Sempre tanti, sempre di tutto. Ma la vita non ti fa mai incontrare più di tre volte, questo l’ho imparato. Dopo un malvagio miscuglio di dolori ha chiesto di diventare cenere. Di essere sparso nelle acque di Itaca. Di finire il suo viaggio nelle acque del più leggendario viaggiatore di ogni tempo. Mi fa solo male pensare che nel movimento antimafia di oggi nessuno sappia chi sia stato il professor Aldo Montagna di Bologna. A volte si conoscono i bruscolini, ma non i giganti. Poi però mi rivedo quella sua risata beffarda: “ma vuoi passare alla storia?”.

 

Sessisti per caso. Dal piccolo schermo al putiferio per un post su Facebook

Cancel culture, “rimproverato per un consiglio al collega gay”

Ciao Selvaggia, vorrei parlarti di cancel culture, ne approfitto perché è di moda e forse è il momento in cui qualcuno potrebbe trovare interessante la mia storia (scusa se modificherò qualcosa rispetto alla realtà ma non voglio ripiombare nell’incubo che pare finito da mesi). Circa un anno fa è successo un fatto sgradevole nel mio ufficio. Un ufficio in cui le dipendenti sono tutte donne a parte me, due colleghi eterosessuali e un altro omosessuale. Un gay che ama arrivare sempre con look appariscenti, dalle gonne pareo alle magliette stile top. Noi lavoriamo in un ufficio, ripeto, e poi ci alterniamo a rotazione per una mansione che invece è a contatto con il pubblico. Un pubblico abbastanza in su con gli anni e conservatore, visto quello che “vendiamo” (non posso aggiungere indizi, scusa). Fatto sta che un giorno, quando era il turno del collega omosessuale, lui aveva delle unghie finte lunghissime, ad artiglio, e io ho storto un po’ il naso. Di solito, quando era il suo giorno, adottava look più sobri per non destabilizzare (eventualmente) alcuni dei clienti più bigotti. Tutti abbiamo fatto finta di niente, ma abbiamo commentato la cosa un po’ sbigottiti della serie: forse non è il caso. La sera stessa torno a casa e scrivo un post su Facebook senza pensarci troppo. Era un post in cui dicevo che a volte l’abito gusto è quello del buonsenso e che certe volte bisognerebbe anteporre il bene di un’azienda al gusto per la trasgressione a tutti i costi. Non facevo nomi. Poche ore dopo mi è arrivato un messaggio piccato del collega gay sul tono di “omofobo”, “Potevi dirmelo in faccia”, nonché “Io trovo più sconvenienti le tue t-shirt lise sul collo quando vai a parlare con i clienti, delle mie unghie finte”. Cancello il post e mi scuso, aggiungendo che tutti comunque avevamo trovato fuori luogo quelle unghie e non perché ce ne freghi qualcosa di come si agghinda ma perché poi i clienti bacchettoni potrebbero essere a disagio. Penso sia tutto finito lì e invece manco per nulla. Il giorno dopo in ufficio vengo convocato dal capo venuto appositamente da un paese a 45 km per parlarmi. “Lei non può scrivere certe cose altrimenti mi costringe a sospenderla, ho ricevuto una mail dal suo collega firmata da tutto l’ufficio per solidarietà a seguito del suo post su fb”. Ho risposto che mi sembrava una follia e che io ho tutto il diritto di trovare inadeguate quelle unghie e che mi rimproverava perché pensavo al bene dell’azienda, cosa me ne frega delle unghie del collega, e alla fine sai cosa è successo? Che il capo, a mezza bocca, mi ha detto: “Senta, io sarei anche d’accordo con lei e sono molto a disagio nel doverle dire tutto questo, ma lei capisce che se le do ragione qui mi piantano una grana che non finisce più, mi arrivano quelli delle associazioni, i sindacati, finisco sui giornali, mi assaltano i social dell’azienda come quando licenziai il tunisino anche se rubava, per carità, mi faccia il favore di stare buono”. Mi è dispiaciuto ma l’ho compreso. Non posso dire che un omosessuale talvolta dovrebbe scegliere la strada della sobrietà, così come io non posso presentarmi al lavoro con i pantaloncini da jogging. E ho compreso cosa significhi cancel culture, sulla mia pelle.

V.

 

Io la lascerei libero di scrivere quel che vuole, nei limiti del rispetto. È vero però che la strada della libertà passa anche attraverso il lasciare che il vecchietto mugugni un po’ per delle favolose unghie finte su mani pelosissime.

 

Donne insultate in tv, quella serie “smaccatamente sessista”

Cara Selvaggia, in Tv sono incappata nell’ultima puntata di Temptation Island, un programma “sui sentimenti”, e ho assistito a una scena incredibile. C’erano un tizio e la sua fidanzata seduti sul tronco dopo che la loro “storia d’amore” era andata in brandelli. Il tizio ha cominciato a scagliarsi con violenza, anche se solo verbale (come se poi costituisse un’attenuante), contro la donna che aveva a fianco, accusando di “far schifo”, di “non avere una dignità di donna”, di “essere piccola così”, di dover “girare a testa bassa” per tutta una serie di comportamenti che, evidentemente, costituiscono un pregresso a me ignoto ma sicuramente noto allo spettatore che ha assistito al resto della puntata. Ecco il problema: io ho provato una grande repulsione, mentre immagino che invece lo spettatore, conoscendo (che poi, cosa pensi di conoscere di una persona guardando un reality in tv?) il contesto, abbia potuto avere una reazione diversa, quasi di “comprensione” nei confronti del poveretto la cui fidanzata doveva avergliene fatte passare di cotte e di crude. E infatti, sui social, il giudizio non era stato così netto. Non voglio farti un discorso generale, perchè sappiamo tutti di che tipo di umanità stiamo parlando in questi contesti, ma uno molto specifico. In America le reti televisive, sull’onda del “Black Lives Matter”, stanno inserendo in tantissimi film del passato dei disclaimer, degli annunci che aiutino lo spettatore moderno a contestualizzare, e spesso a condannare, comportamenti che non possono più essere accettati (come il fatto di possedere schiavi, in Via col Vento). Io propongo di inserirlo anche in queste trasmissioni, qualcosa del genere “Attenzione, il comportamento a cui state assistendo è smaccatamente sessista, violento e non può essere giustificato da nessuna delle scene che avete visto in precedenza o che vedrete in seguito”. Scene che possono sdoganare il concetto che la violenza verbale (per fortuna, almeno stavolta, non fisica, o non ancora) possa trovare le sue ragioni nelle dinamiche di una coppia. Invece non la trova mai, mai, mai.

Sabrina

 

Cara Sabrina, va detto che il conduttore è stato pronto a condannare. Sempre meglio dell’ormai noto “a volte lo fanno per troppo amore” di dursiana memoria. (ad una tizia quasi uccisa dal fidanzato).