“Piagnone d’oro”. Una sfida a quattro: Sarri, Conte, Gasperini o Inzaghi?

D’accordo, il “Pallone d’Oro” esiste da più di mezzo secolo ed è famoso nel mondo: ma volete mettere il “Piagnone d’Oro” made in Italy giunto anche quest’anno alle battute conclusive con lo sprint lanciato tra i quattro fuoriclasse della specialità, guarda caso gli allenatori delle quattro squadre prime in classifica e cioè Maurizio Sarri (Juventus), Antonio Conte (Inter), Gian Piero Gasperini (Atalanta) e Simone Inzaghi (Lazio)? “Piagnóne: chi piange o si lamenta in continuazione”, recita il dizionario Treccani. Frignare. Piagnucolare. Gnaulare. A 4 giornate dalla fine, chi è il favorito per il “Piagnone d’Oro” 2020? Analizziamo i pretendenti uno ad uno.

Sarri (Juventus). Quand’era al Napoli e ancora faceva l’allenatore, nel senso che non era un sottoposto di Cristiano Ronaldo, inventò svariate litanie tra le quali si ricordano la litania del Fatturato (se il Napoli perdeva contro Juventus o M. City o Shakthar era perchè fatturava meno), quella della Non Contemporaneità (spesso la Juve anticipava mettendo in ambasce il suo Napoli), quella dei rigori generosamente assegnati ai club con maglie a righe (leggi Juventus). Oggi che sulla panchina di Madama siede lui, ma la Juve perde la Supercoppa contro la Lazio e la Coppa Italia contro il Napoli, la sua nuova litania è quella delle Fette di Prosciutto (sugli occhi): il Napoli, dice, ha vinto perchè ha tirato i rigori meglio di noi. Dimenticandosi due pali a portiere battuto, due palle gol fallite e le mostruose parate di Buffon. Negazionista.

Conte (Inter). Come già alla Juve quando voleva Aguero e gli compravano Matri, anche all’Inter ha messo in scena, sin dal giorno della presentazione, il suo famoso recital intitolato, alla Lina Wertmüller, “Allenatore bravo ma incompreso chiede buoni giocatori ma il club gli rifila solo pippe”. Se in campo non si discosta mai dal 3-5-2, in sala-stampa non cambia mai disco: se l’Inter ha vinto “stiamo lavorando bene”, se l’Inter ha perso “i giocatori sono quel che sono”, che sarebbe un po’ come dire armiamoci e partite. E che l’Inter si sia dissanguata per dargli Lukaku, Barella, Godin, Sanchez ed Eriksen conta zero: lui frigna comunque, e se domani gli comprano Messi, dopodomani frignerà più di prima. Incontentabile.

Gasperini (Atalanta). Se Fosbury rivoluzionò la specialità del salto in alto introducendo la tecnica del salto dorsale con cui si laureò campione olimpico a Mexico 68, Gasperini ha rivoluzionato la figura del “piangìna” mettendo a punto la tecnica del “pianto a giorni alterni”: e cioè, pur lagnandosi sempre, non stringendo la mano ai colleghi a fine match (Maran) e dolendosi per esoneri patiti anche a distanza di 10 anni (Inter), se è reduce da una sconfitta contro la Juventus, il club che sogna di allenare, lui sorride. E anche se ha perso per clamorosi torti arbitrali (vedi Rocchi nel match d’andata), va in tv e si scusa, contrito, per un rigore assegnato a favore. Mefistofelico.

S. Inzaghi (Lazio). Non capita spesso, ma il 15 gennaio 2017 durante Lazio-Atalanta 2-1, l’arbitro Pairetto jr. cacciò dal campo sia Gasperini (Atalanta), sia Inzaghi (Lazio). Rivale di Gasp nella specialità “pianto a giorni alterni” (evita il mugugno solo se a danneggiarlo è stata la Juventus, vedi Lazio-Juve 0-1 del 3 marzo 2018), Inzaghi vanta però prodezze difficilmente eguagliabili come la recente espulsione per reiterate protese al fischio finale di una partita vinta (Lazio-Fiorentina 2-1). Immaginatevi se avesse perso. Impenitente.

 

Omofobia.Il ddl Zan, la fake news sul papa “indagato” e la lotta sovranista alla “pederastia”

La fake news più suggestiva l’ha rilanciata Antonio Socci su Libero. Cioè: con l’approvazione del disegno di legge Zan contro l’omofobia persino il papa potrebbe essere inquisito qualora continuasse a sostenere che la famiglia naturale è basata sull’amore tra uomo e donna. C’è anche un precedente richiamato, aggiunto dalla propaganda dei clericali di destra: il vescovo spagnolo di Malaga indagato nel 2014 per aver detto che “la sessualità è finalizzata alla procreazione”.

Lasciamo perdere però la Spagna e parliamo dell’Italia. Il fatidico ddl Zan vuole punire duramente i reati misogini e omotransfobici ed è la sintesi di ben cinque testi, elaborati da esponenti di un ampio fronte parlamentare: lo stesso Alessandro Zan che è del Pd; il renziano Ivan Scalfarotto; Laura Boldrini, che ha lasciato Leu per i dem; il grillino Mario Perantoni; infine la forzista Giusi Bartolozzi. Il ddl è in commissione Giustizia alla Camera e domani scadranno i termini per esaminare gli emendamenti, di cui quasi mille presentati dalla Lega di Matteo Salvini e dai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.

La battaglia sovranista contro il ddl Zan in queste settimane è la priorità della veemente minoranza farisea dei cattolici. Veglie di preghiera per invocare l’aiuto divino; sit-in davanti Montecitorio; vibranti appelli sul network anti-bergogliano, comprese le accuse di mollezza ai vertici della Chiesa, colpevoli di subìre questo “attentato contro la libertà d’espressione” che vuole instaurare la dittatura dell’Anticristo relativista a favore dei matrimoni Lgbt e della teoria gender nelle scuole. E meloniani e salviniani fanno a gara per guidare questo piccolo esercito alla crociata filo-omofoba. Al Senato c’è il famigerato leghista Simone Pillon (nella foto) che paventa: “Chi critica matrimoni gay e teoria gender rischia da 18 mesi a 6 anni di carcere”. Ergo pure il papa, applicando a rigor di logica il ragionamento di Socci citato prima.

Alla Camera, invece, l’ex alfaniano Alessandro Pagano, transitato con Salvini, propone in un emendamento di non considerare “orientamenti sessuali la pedofilia e la pederastia”. Su quest’ultima c’è già una disputa semantica, ché se in origine questo vetusto e orrendo termine indicava un rapporto sessuale tra un adulto e un adolescente oggi è pacificamente assimilato all’omosessualità. Tre deputati di FdI, per continuare, chiedono: “In ogni caso non integra il reato la condotta fondata sul mero sentimento di generica antipatia, insofferenza o rifiuto riconducibile a motivazioni eventualmente anche attinenti alla razza, alla nazionalità, alla religione, al sesso o all’identità di genere”.

In realtà, come ha spiegato Zan in un’intervista ad Avvenire, la libertà d’espressione non corre alcun pericolo. L’oggetto della legge è il rischio della violenza. Basta leggere l’articolo 1 del ddl che riscrive l’articolo 604-bis del codice penale e specifica il reato: “Propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, istigazione a delinquere e atti discriminatori e violenti per motivi razziali, etnici, religiosi o fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”. Più chiaro di così.

 

Italia-Olanda, ormai si tratta di 2 idee diverse dell’Europa

Comunque finisca, sono rimasti in due: Conte e Rutte. Un duello italo-olandese finora inedito, frutto della situazione particolare in cui si trova l’Unione europea al bivio tra due possibili evoluzioni: una sua riduzione nei confini di un tardo Sacro Impero con la possibile rottura; oppure una evoluzione verso forme di solidarietà comune in grado di preservarne le radici.

Il continuo rilncio da parte dell’Olanda e dei “frugali” non è solo una trattativa spinta per strappare i migliori risultati possibili (anche questo, sia chiaro, viste le concessioni che Charles Michel sta mettendo sul tavolo) ma un’ipoteca sull’Europa tutta. Una questione di “potere” e non solo di soldi. Non è nemmeno un tentativo di umiliare l’Italia, ma di costringere il nocciolo reale di comando, quello franco-tedesco, a scegliere tra le due opzioni sopra menzionate. E in effetti, finora, la novità sta proprio nell’atteggiamento della Germania che, se non si producono fatti inediti dell’ultima ora, non ha mollato l’asse con l’Italia anche se non ha dato un deciso ultimatum all’Olanda. Segno delle frizioni e del dibattito che esistono anche in Germania. Rutte e i nordici stanno facendo di tutto per riportarla dove si è sempre collocata e se questo non accade l’Italia ha qualche chance per spuntarla.

Conte fino a ieri sera si è battuto come possibile dati i rapporti di forza esistenti sfruttando al massimo l’investimento fatto sulla presidente della Commissione europea oltre che su Parigi e Berlino. Se questo patto reggerà e le risorse saranno realmente “efficaci” (l’ultima ipotesi di una riduzione dei “grants” fino a 350 miliardi ma con i trasferimenti per l’Italia invariati andrà verificata) potrà dire di aver vinto. Non solo qui in Italia, ma anche a Bruxelles.

La sai l’ultima?

Svizzera Prende la multa in autostrada e lancia una molotov sull’autovelox

Fuoco all’autovelox. È la reazione composta e nient’affatto impulsiva di un automobilista colto in flagrante per eccesso di velocità sull’Autostrada A2 di Grancia, in Svizzera, nei pressi di Pazzallo, una piccola frazione di Lugano. Il lord al volante è stato colto da un impercettibile attacco d’ira dopo aver visto lampeggiare il flash dell’autovelox (la foto era scattata inequivocabilmente alla targa della sua macchina). È sceso dall’auto, ha fabbricato in perfetta solitudine una bomba molotov (a meno che non la portasse già con sé, e non sappiamo quale sia l’ipotesi più inquietante), è tornato sul luogo del delitto e ha lanciato la bottiglia esplosiva contro il povero autovelox. Missione compiuta: l’apparecchio ha preso fuoco subito e in modo abbondante. Il gioviale pilota incendiario ora ovviamente rischia grosso: come riporta il sito automoto.it, le autorità elvetiche stanno indagando per risalire alla sua identità. Forse valeva la pena pagare la multa.

Capo d’Orlando La signora che chiede l’elemosina ha una gobba finta e un coltello a serramanico di 6 cm
Che simpatica signora, con la gobba finta e il coltello in tasca. Una donna di 54 anni senza fissa dimora è stata denunciata a Capo d’Orlando per accattonaggio molesto e porto d’armi e oggetti atti ad offendere. Sulla povertà e sulla disperazione non si fa ironia, ma in questo caso la signora ha veramente esagerato. Come racconta Adnkronos, teneva un cuscino nascosto sotto i vestiti per simulare una gobba e racimolare qualche soldo in più puntando sulla compassione. E fin qui – per quanto sia riprovevole simulare una deformità fisica – niente di che. Ma oltre alla gobba finta, la gentildonna nascondeva nel vestito anche un coltellino affilato con una lama lunga 6 centimetri e mezzo. E questo non è cortese. È stata fermata nelle vie del centro mentre chiedeva l’elemosina ai passanti “con modalità vessatorie”. Condotta in commissariato, se non altro ha ritrovato rapidamente una postura corretta.

Rimini Medico in monopattino investito dall’ambulanza che aveva appena soccorso un altro ragazzo in monopattino
Sembra un quadro di Escher:non si capisce dove comincia e dove finisce. C’è un ragazzo in monopattino che fa un incidente, allora arriva un ambulanza a soccorrerlo, ma travolge un altro ragazzo in monopattino (e allora arriva un’altra ambulanza e… potrebbe andare avanti così in eterno). Ce lo racconta ancora Adnkronos: “Incidente in monopattino per un giovane medico in vacanza a Rimini che si è scontrato contro un’ambulanza che prestava servizio ad un ragazzo caduto da un monopattino”. Pare una barzelletta. Per somma beffa, il medico alla guida del secondo monopattino era ubriaco: “Gli agenti della Polizia locale, intervenuti su segnalazione dei sanitari, hanno riscontrato al giovane medico un tasso alcolemico di 1,86g/l, ovvero quasi il quadruplo del limite consentito dal Codice della Strada, che disciplina anche l’utilizzo dei mezzi elettrici su due ruote, tra cui rientrano anche i monopattini elettrici”. Non ne usciremo mai.

Il titolo della settimana La Stampa: “Assume farmaco contro la calvizie e rimane impotente, il caso in procura”
Per la preziosa rubrica “Il titolo della settimana”, questa volta raccogliamo una struggente testimonianza dalle colonne della Stampa, che ci racconta la storia piena di amarezza di un uomo che voleva risolvere un problema di capelli e si è ritrovato con un problema infinitamente più grande. Il titolo è davvero di livello: “Assume un farmaco contro la calvizie e rimane impotente, il caso in procura”. Uno potrebbe anche sorridere, ma dentro questa notizia ci sono un sacco di drammi. Quello dell’uomo, evidentemente, che “per otto anni ha assunto un farmaco contro la caduta dei capelli ed è rimasto impotente”. Ma pure quello della procura, che ha preso molto sul serio questa triste storia di capelli e disfunzioni erettili, ed ha aperto una monumentale indagine contro la casa farmaceutica. E infine ci sono i piccoli drammi del giornale che riporta la notizia, e del giornalista del Fatto che la infila in una rubrichetta satirica.

Sincerità Arisa ci teneva a condividere con i suoi fan questa informazione: “Rutto, scorreggio e amo il sole”
Da qualche giorno l’industria musicale italiana è scossa. La simpatica cantante Arisa, già vincitrice del festival di Sanremo, riteneva importante farci sapere con un post su Instagram che lei è spontanea, tanto spontanea. “Rutto, scorreggio e amo il sole”, ci comunica l’estrosa artista. Insomma Arisa è una di noi, il successo non le ha dato alla testa: è una donna come le altre (chissà che razza di donne frequenta Arisa, sinceramente non vogliamo nemmeno investigare). Però funziona: Rosalba Pippa – questo il suo nome all’anagrafe – ha costruito tutta una carriera sull’immagine eccentrica e naif; spontaneità, sinceritààà, occhialoni da nerd, ostentate crisi di nervi e sceneggiate alcoliche a X Factor. Alla gente piace, i giornali ne scrivono. Arisa voleva solo raccontare qualcosa di sé. Magari poteva essere altro, che so: “Rido, leggo le poesie e mi piacciono i gatti”. Oppure “gioco a sudoku, cucino la parmigiana di melanzane e apprezzo la letteratura postmoderna”. Invece no: lei rutta, scorreggia e ama il sole. E vabbè.

Uncinetto anti-Covid In Trentino un gruppo di signore lavora a maglia una coperta di 115 metri quadrati
Alla faccia dell’uncinetto: in Trentino una comunità di allegre signore locali ha lavorato a maglia una coperta di 115 metri quadrati. Non è l’ennesima boiata da guinness dei primati ma al contrario un’iniziativa nobile e romantica: la coperta è stata realizzata per abbracciare idealmente tutte le persone che hanno sofferto la solitudine, l’isolamento o la malattia durante i mesi del lockdown per l’emergenza sanitaria. A lavorare questo gigantesco gomitolo di lana sono state le donne trentine raccolte nell’associazione Vip (Vispe in pensione) di Tuenno. L’idea – racconta l’Ansa – è nata quasi per gioco: è bastato un giro di telefonate tra le dieci signore del paese trentino e subito è partito il progetto, chiamato “Il filo che ci unisce”. Alla fine sono state coinvolte donne di diversi paesi della provincia. Sia scafate nonne, depositarie da sempre dell’arte dei ferretti, che giovani mamme neofite erudite su YouTube. “Questo filo – dicono le Vip – ci ha unito e fatto compagnia, consentendoci di affrontare con spirito diverso le settimane della segregazione”.

Messico L’udienza su Zoom finisce malissimo: l’avvocato sotto la camicia non porta i pantaloni
Con lo smartworking bisogna andarci piano. Da ogni angolo del mondo continuano a fioccare notizie e testimonianze di situazioni ignobili che capitano in video-conferenza, quando qualcuno dei convocati è convinto di non essere visto dal resto della platea. Bisognerebbe usare un po’ di attenzione e cautela. Quelle che sono clamorosamente venute meno a un avvocato messicano del tribunale di Tamaulipas, il quale si è presentato in udienza, letteralmente, in mutande. La seduta si svolgeva online a causa dell’emergenza Covid. Il nostro eroe, come nelle migliori tradizioni, si presentava in video con un’inquadratura a mezzo busto. Sopra indossava un’elegante camicia, ma sotto il tavolo – teoricamente al riparo da sguardi indiscreti – non c’era nulla. Tutto è filato liscio fino a quando l’avvocato non si è dovuto alzare dalla sedia. La mise del Saul Goodman messicano non è sfuggita alla giudice Maria del Carmen Cruz Marquina, che lo ha cazziato in diretta, senza pietà: “Avvocato, lei è senza pantaloni. Questa è un’udienza”.

Giulia Maria: i giornali, il Fai, l’impegno. E contro i pregiudizi sui radical chic

In morte di Giulia Maria Crespi –evento atteso, perché era assai vecchia e su di lei si era abbattuta di recente la perdita di un figlio- non mi limiterò a esprimere il rimpianto e l’ammirazione provati nei confronti di una persona a me cara.

Preferisco, nel suo ricordo, sfidare uno dei pregiudizi che, alimentato dall’ignoranza, in Italia va per la maggiore. E cioè il luogo comune secondo cui la borghesia progressista sarebbe soltanto un irritante capriccio della natura, un’escrescenza capricciosa, come tale meritevole di scherno da parte di chi non ne condivide la fortuna materiale.

Giulia Maria è stata per decenni additata come simbolo di un’impostura da smascherare: come si permetteva, la gran dama, erede di una dinastia del capitalismo tessile lombardo, di presentarsi in pubblico come simpatizzante dei movimenti di rivolta giovanile, dopo aver favorito, grazie alla direzione di Piero Ottone, l’apertura del suo Corriere della Sera alla cultura di sinistra?

Indro Montanelli, da lei detestato, la prese sistematicamente a bersaglio con il Giornale da lui fondato. Da parte degli antesignani delle fake news venne perfino accreditato un suo inverosimile flirt col leader del Movimento studentesco, Mario Capanna. Lei giustamente se ne infischiò, continuò a impegnarsi nella tutela del patrimonio architettonico e ambientale dando vita al Fai, e poi, fino all’ultimo si è dedicata alla promozione dell’agricoltura biodinamica. Tanto sontuosa è la sua abitazione di corso Venezia con appese alle pareti le vedute del Canaletto e altri capolavori d’arte, quanto spartana la tenuta agricola della Zelata dove amava rifugiarsi.

Ciò che riusciva incomprensibile a tanti signori dei dané che aizzarono contro di lei quello che Hannah Arendt ha definito il popolaccio – cioè il contrario di un popolo che si emancipa attraverso la cultura – è che Giulia Maria non si accontentasse di godersi il privilegio toccatole in sorte. Ed esprimesse una visione dell’interesse generale del paese che dovrebbe essere proprio delle classi dirigenti anche quando entra in contraddizione con le loro convenienze immediate. In Italia è sempre andato per la maggiore questa sorta di classismo all’incontrario: il buon gusto e il godimento della bellezza toccano ai ricchi separati dai poveri. Guai se i benestanti sconfinano nell’impegno civile o si battono per la riconversione ecologica. Diventano immediatamente sospettabili di fare un subdolo doppio gioco.

È figlia di una lunga storia questa visione gretta, imperante nel nostro capitalismo. Alimentata da una destra che riesce a mascherare con il gergo antiborghese la sua subalternità ai veri potenti. Ricordo il dispetto con cui veniva guardata a Torino la comparsa di una borghesia liberale di sinistra e antifascista, disposta anche a sposare la causa degli operai comunisti, di cui voglio indicare un nome per tutti: Franco Antonicelli. Era già stato arrestato due volte dal regime fascista quando negli anni Trenta divenne precettore di un ragazzino di nome Gianni Agnelli. Partigiano temerario, fu presidente del Cln torinese e poi editore (pubblicò Se questo è un uomo di Primo Levi che l’Einaudi aveva rifiutato). Da senatore della Sinistra indipendente appoggiava la rivolta giovanile e con la sua attività culturale propugnava l’idea di “un popolo che non rimane popolo, che non rimane massa e che si costruisce i suoi strumenti per diventare classe dirigente”. Sono parole che pronunciò nel 1967 inaugurando la biblioteca dei portuali di Livorno.

Giulia Maria Crespi non si è mai impegnata direttamente in politica come Antonicelli, ma con il Fai e con l’Associazione per l’agricoltura biodinamica ha impersonato l’apertura mentale di una borghesia illuminata milanese rimasta purtroppo minoritaria. Ce ne fossero di più, come lei, sarebbe un bene per l’Italia futura del dopo Covid.

C’è da scommettere che sui giornali odierni non mancherà chi, con scarsa fantasia, farà ricorso alla stantia definizione di radical chic. Si accomodino. Riscuoteranno il plauso di chi ha fatto del disprezzo della cultura la sua bandiera.

È vero, nel salone del palazzo di corso Venezia prima di Natale convocava gli amici per un raffinato concerto di musica classica. E prima, in quel lussuoso contesto, li spronava a battersi contro le ingiustizie sociali e il degrado ambientale. Ma nessuna barriera di classe le impediva di frequentare poi ambienti assai più umili. E quante volte siamo stati raggiunti dalle sue imperiose telefonate di reclutamento nelle cause di progresso che le stavano a cuore.

Taranto senza pace: sull’ex Ilva parte l’indagine sulle indagini

L’ex Ilva di Taranto continua ad avvelenare l’aria e il marcio non finisce mai di emergere: l’ultimo capitolo è l’indagine della procura di Potenza, retta da Francesco Curcio, sugli ex pm titolari dell’inchiesta sull’inquinamento dello stabilimento-mostro, a partire dall’ex procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo. L’indagine verte sulle indagini precedenti e su tre miliardi di un gigantesco appalto, quello su bonifica e riqualificazione dell’aresa, che faceva gola a diversi imprenditori e politici, come nella migliore tradizione. La notizia non è un fulmine a ciel sereno per Angelo Bonelli, storico leader dei Verdi, già candidato sindaco, sfiorò il ballottaggio per duemila voti, e consigliere comunale di Taranto dal 2012 al 2016: oggi stesso “invierò un esposto al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede affinché sia fatta luce su tutti gli interrogativi che pesano sulla vita dei cittadini e delle cittadine di Taranto, una città che paga un prezzo drammatico di vite per l’inquinamento. Era il 3 luglio 2019 – dice Bonelli – e pubblicamente chiedevo al Csm di valutare la sospensione dalle sue funzioni il procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo perché alle riunioni in Procura sulla richiesta di patteggiamento nel processo Ambiente Svenduto partecipava anche l’avvocato Piero Amara coinvolto nel processo Eni o sistema Siracusa, inchiesta che coinvolse il 2 luglio anche il procuratore Capristo. Nonostante le vicende giudiziarie di Amara fossero pubbliche, coinvolto nello scandalo delle sentenze pilotate del Consiglio di Stato, l’avvocato partecipò a delle riunioni in Procura insieme all’ufficio commissariale per analizzare la vicenda del patteggiamento su Ilva. Ma il Csm non intervenne mai e il procuratore Capristo rispose dopo poche ore alla mia richiesta al Csm affermando che l’avvocato Amara non era stato invitato dalla Procura ma dall’ufficio commissariale: perché una persona indagata per corruzione e poi arrestata poteva partecipare a riunioni negli uffici della Procura che riguardavano l’andamento del processo Ambiente Svenduto? Perché dopo l’arrivo dell’avviso di garanzia a Capristo, il 2 luglio 2019, per abuso d’ufficio nell’ambito dell’inchiesta Eni, la stessa inchiesta dove era coinvolto Amara, il Csm non adottò nessun provvedimento? Adesso lo chiediamo al ministro”.

Intanto il Comitato tarantino per la Salute e l’Ambiente scrive: “Noi vogliamo sapere se i provvedimenti salva-Ilva e la condotta dell’attuale governo abbiano consentito un eccesso di malati e morti attribuibili all’inquinamento industriale”.

“Recovery Fund, poca roba: la Ue del Covid non è il Mondo nuovo”

“Non sappiamo come finirà. Sappiamo però su cosa si ingaggia questa battaglia campale. Un fondo comune che è quasi sei volte in meno di quello degli Stati Uniti i cui abitanti sono un terzo in meno degli europei.

All’economista francese Jean Paul Fitoussi stupisce assai l’enfasi con cui il Recovery Fund viene descritto.

Non è il mondo nuovo delle relazioni e della solidarietà. Rappresenta – nella migliore delle ipotesi – un sostegno di circa mille euro pro capite per sostenere e superare una crisi invece epocale, così grande da essere fino a qualche mese fa inimmaginabile. Questi sono i fatti, da questa cifra bisogna partire per illustrare anche quel che di nuovo c’è.

Dica allora quel che approva delle azioni di Bruxelles.

Finalmente viene introdotto il principio di mutualità. È un grande passo avanti: riceve chi ne ha più bisogno, e invece dà chi sta meglio.

È un principio enorme visti i precedenti. È quasi una rivoluzione copernicana.

Dovrà passare del tempo per affermare se questo principio sia costituente, patrimonio politico della nuova Europa, oppure una pallottola sparata in aria una volta sola, tipo un fuoco d’artificio. Bisogna capire se questa sarà la regola o solo una provvisoria e già conclusa eccezione.

Non è affatto convinto che esista una nuova Europa.

E come potrei esserlo? A Bruxelles vige il principio dell’unanimità che è un ceppo messo di traverso sulla strada della democrazia. I governi nazionali hanno affermato una grande menzogna: ci hanno detto che stare insieme significasse avere più forza. Ma stare insieme in queste condizioni, come vediamo anche adesso dove le urgenze nazionali vengono scaricate sulla tenuta dell’Unione, significa essere molto più deboli, perché ognuno ha diritto di imporre il proprio veto, la propria condizione. Si è schiavi delle contingenze, schiavi del presente, schiavi del Rutte di turno che deve far vedere al suo Salvini di turno, oggi il populista olandese Geert Wilders (quello del “neanche un cent all’Italia”, ndr), che lui è capace di sfasciare tutto ancora meglio del suo competitore di primavera alla poltrona di primo ministro.

L’Olanda ostruisce, però nell’ostruzione avanza anche una osservazione non del tutto peregrina: l’Italia non ha dato in passato buona prova di saper mettere a frutto gli aiuti comunitari. È così irragionevole chiederle impegni concreti a fronte del contributo mutualistico?

L’Olanda non è nella condizione di avanzare critiche visto il dumping fiscale che conduce ai danni dei suoi soci. È un gioco abbastanza sporco fregare i soldi delle tasse con trucchetti normativi che le fa perdere il diritto di imporre condizioni.

L’Europa prima del Recovery era una unione moribonda.

Politicamente l’Europa rimane così. Perché averla allargata senza aver approfondito il senso del legame, senza una politica fiscale comune, che senso ha avuto?.

Il Covid l’ha però destata dal sonno profondo.

Vero, si è svegliata, la Merkel ha capito che senza l’Europa la Germania sarebbe un Paese senza potere. Ma tenga sempre a mente la dimensione di questo nuovo attivismo: ogni cittadino europeo è destinatario di una somma pari a circa mille euro per ripartire, rinascere, ritrovare la strada dello sviluppo. Un cittadino americano ne riceverà settemila. Il rapporto di uno a sette illustra la condizione di fragilità dell’Unione che è la sintesi di un governo senza democrazia. L’obbligo dell’unanimità è l’arma del suicidio.

Lei è noto per sostenere lo Stato imprenditore.

Lo Stato deve intervenire, e ha un diritto superiore quando gli affari privati riguardano servizi pubblici.

Quindi approva l’iniziativa del governo italiano di acquisire il controllo di Autostrade?

Assolutamente sì. Il vero banco di prova però – per Giuseppe Conte come per gli altri leaders europei – è far pagare le tasse a Google e Apple che non sono più multinazionali ma Stati sovrani.

La Merkel, Macron e Conte: la strategia davanti a un drink

Il terzo giorno di vertice si apre con un nuovo incontro in nottata a formati variabili. Inizio e fine giornata di questo Consiglio europeo sfumano l’uno nell’altra senza soluzione di continuità, con un breve intermezzo tra le 3 di notte e le 9 mattina per riprendere fiato.

Fino a mezzanotte di sabato Merkel e Macron incontrano il premier olandese e i frugali. La cancelliera è infastidita dell’inflessibilità di Rutte. I Paesi del nord non si sono mossi di un centimetro nelle trattative. Anche Macron è innervosito da tanta intransigenza e allerta l’equipaggio in aeroporto per un ritorno anticipato, ma all’ultimo tutto rientra. Dopo l’incontro si torna in albergo. Ma non è finita. Li aspetta il premier Conte, che dopo l’ormai canonica conferenza di mezzanotte con la stampa italiana in cui sottolinea che “la partita è ancora aperta”, rifiata al bar. “O vincono tutti o non vince nessuno” dice il premier prima di lasciare i giornalisti. Per la seconda notte consecutiva si ripete lo stesso schema: di fronte a un drink riprendono i colloqui tra Merkel, Conte e Macron. Stavolta si aggiunge anche la presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Alle 2:30 il terzetto si scioglie e il presidente saluta la stampa con un paterno: “Andate a dormire che è tardi”. Alle 9 di mattina del terzo giorno, che tutti si augurano sia quello decisivo, Merkel riapre le danze con un nuovo statement, seguita da Macron. Entrambi si appellano alla buona volontà dei partecipanti. “Bisogna trovare dei buoni compromessi nelle prossime ore e credo sia ancora possibile, ma questi non si possono fare a spese dell’ambizione europea”, tuona retorico il presidente francese. Ma è un augurio. Quando a fine mattina circola un twitter che riferisce che lo staff di Rutte ha rinnovato le prenotazioni in albergo, le speranze si infrangono: la fine del vertice è tutt’altro che vicina. E infatti le trattative riprendono su tutti i dossier e in tutti i formati senza che trapelino passi avanti: il premier Conte e lo spagnolo Sanchez incontrano di nuovo ma ufficialmente Merkel, Macron e Von der leyen, poi è la volta di Conte insieme all’omologo greco Mitsotakis per confrontarsi con i capi di governo dei Frugali, in un classico match nord-sud, poi è il turno del confronto est-ovest, con il presidente del Consiglio europeo Michel e la presidente della Commissione Ue Von der Leyen che incontrano i 4 Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) e poi i tre Paesi Baltici. Sulla stampa tedesca trapela una frase del premier ungherese che avrebbe detto: “Perchè Rutte odia tanto l’Ungheria e me?”.

Un vertice a 27, che richiede una soluzione all’unanimità su fondi e bilancio settennale – e quindi mette le mani nel portafoglio di ciascun paese – è tutt’altro che una cena di gala. Dopo una riunione plenaria che inizia con diverse ore di ritardo, il motore dei negoziati sembra ripartire. Fonti di governo fanno sapere che Conte si sia rivolto direttamente a Rutte per dire che i nordici si stanno illudendo che la partita non li riguardi. Se lasciamo che il mercato unico venga distrutto, dice il premier rivolgendosi direttamente a Rutte “tu sarai forse l’eroe in patria per qualche giorno, ma dopo qualche settimana sarai chiamato a rispondere davanti ai cittadini europei per avere compromesso un’adeguata ed efficace reazione europea”. Ma le trattative vanno avanti ancora dopo cena, fino a notte. Quando il Fatto va in stampa non è ancora chiaro se domani ci sveglieremo con un accordo.

Gli “avari” pretendono lo sconto. Conte a Rutte: “Ne risponderai”

Sul cammino irto di ostacoli del Consiglio Ue verso l’intesa sul Multiannual financial framework, il bilancio 2021-2027, e il Next Generation Eu, il fondo da 750 miliardi pensato per tenere a galla le economie più colpite dal Covid-19, i 27 hanno mosso passi in avanti. Con il Risiko giocato tra le sale di Palazzo Europa che si è protratto ancora una volta nella notte, anche ieri la partita centrale è stata quella della ripartizione dei fondi tra “grant” e “loan”. L’Italia e i paesi del Sud puntavano a tenere alta la quota dei primi, i finanziamenti a fondo perduto, e non scendere sotto quota 400 dei 750 miliardi disponibili, già in ribasso dai 500 di sabato. L’obiettivo dell’Olanda e dei Paesi “avari”, secondo la definizione della delegazione polacca, era quello di aumentare la frazione dei prestiti che, a differenza dei primi, dovranno essere restituiti e andranno ad aumentare il debito pubblico dei Paesi beneficiari. Al mattino le posizioni sono ancora lontane, così la plenaria fissata per le 12 slitta: si va avanti con i bilaterali. Alle 14,30, mentre il presidente Charles Michel lavora alla nuova bozza, la cifra che circola è di 420 miliardi ma per i Mark Rutte & C. è ancora troppo. Attorno alle 15.30 voci danno la mediazione raggiungibile a 375 miliardi, la metà dei 750 previsti, ma per i Paesi del Nord la parte a fondo perduto è ancora alta. È a quell’ora che i due schieramenti si affrontano: da un lato Italia, Grecia, Spagna e Portogallo; dall’altro Austria, Olanda, Svezia e Danimarca. Cui si aggiunge la Finlandia, ufficialmente non nella cerchia degli avari, ma parte del fronte Nord.

Alle 17.30 Giuseppe Conte e Rutte si trovano l’uno di fronte all’altro. Ora i frugali chiedono un Recovery Fund diviso a metà: 350 miliardi a fondo perduto, 350 in prestiti. “Vi state illudendo che la partita non vi riguardi o vi riguardi solo in parte”, è l’ammonimento del premier. “Se lasciamo che il mercato unico venga distrutto tu forse sarai eroe in patria per qualche giorno – aggiunge Conte – ma dopo qualche settimana sarai chiamato a rispondere pubblicamente per avere compromesso una adeguata ed efficace reazione europea”. La partita riprende nella plenaria che alle 19.30 assume la forma di una cena di lavoro. È la sede in cui l’embrione di un accordo comincia a formarsi: la cifra complessiva si attesta tra i 700 e i 720 miliardi, 360-370 sono “grants” e 350 “loans”. Il fattore da considerare, spiegano i tecnici nella notte, è la chiave di allocazione. Il primo dei due strumenti del Next Generation Ue, il Recovery Resilience fund, avrà in dotazione circa 310 miliardi, 60 dei quali dovrebbe andare a Roma. A questi si aggiungerebbero circa 15 miliardi previsti dal secondo fondo, il React EU. I prestiti, invece, salirebbero in totale a 350 miliardi e con la chiave di ripartizione attuale l’Italia ne avrebbe fino a 115.

L’altra trincea che divide Nord e Sud Europa è quella della governance. L’Italia puntava ad accedere ai fondi senza la spada di Damocle del ricatto di un paese (su 27) che decida di bloccarne l’erogazione con un veto. E in tarda serata il pericolo sembrava essere stato scongiurato. Sul tema la delegazione di Roma ha presentato una proposta informale e appoggia il meccanismo del “freno d’emergenza” proposto da Michel. Prevede che un Paese non convinto dell’esecuzione dei piani di riforma presentati dai singoli Stati possa chiedere entro 3 giorni una revisione dei finanziamenti. La domanda è: chi decide? Per Rutte dovrebbe farlo il Consiglio, che per come è regolato ab origine lo fa all’unanimità. In questo modo l’Olanda o chi per lei avrebbe il diritto di veto. Conte ha proposto, invece, che per bloccare l’erogazione serva una maggioranza qualificata. Una soluzione che consentirebbe di salvaguardare gli equilibri tra le istituzioni comunitarie, poiché è alla Commissione, e non al Consiglio, che i trattati assegnano il potere esecutivo e di controllo.

Sul tavolo c’è poi un’altra questione, che chiama in causa il blocco di Visegrad. Rutte (e diversi altri leader preoccupati per le riforme attuate in alcuni Stati dell’Est, Ungheria e Polonia in primis) vogliono condizionare l’erogazione dei fondi al rispetto del diritto e dei valori dell’Ue. Una condizione inaccettabile per Budapest e Varsavia. A metà pomeriggio Viktor Orban spiegava ai giornalisti di essere dalla parte dell’Italia e che “il tipo olandese” (Rutte) ce l’ha con lui, “e non so perché”.

È il tempo il 28° convitato ai tavoli dei leader, con i mercati di lunedì che attendono l’esito della lunga maratona negoziale. “È meglio concordare una struttura ambiziosa anche se richiede un po’ più di tempo”, si sbilancia in serata la presidente della Bce Christine Lagarde. Conte, trapela dalla delegazione, preferisce tenere aperta la negoziazione a oltranza mantenendo fermi i punti già fissati. Nel momento in cui siamo andati in stampa le trattative erano ancora in corso, con i cosidetti “frugali” che alzavano la posta in gioco e chiedevano sconti fino a 25 miliardi sui versamenti all’Ue.

Ma mi faccia il piacere

Avanzi di Gallera. “Il tempo è galantuomo” (Giulio Gallera, FI, assessore regionale della Lombardia al Welfare e Sanità, il Giornale, 15.7). Almeno lui.

Strategia della pensione. “Tutti in pensione più vecchi per mantenere chi non lavora. È inutile dare la colpa all’Europa. L’Inps è in rosso e per prestarci i soldi la Ue ci chiede di tirare la carretta fino a tarda età. Potremmo evitarcelo se non spendessimo in assistenza cento miliardi l’nano di contributi” (Libero, 17.7). Basta prendere esempio da Vittorio Feltri, che andò in pensione nel 1997 a 53 anni, con un modico vitalizio di 179 mila euro all’anno. Tié.

Dieta ferrea. “Pm e grillini hanno creato un’Italia degna della Ddr” (Carlo Calenda, Il Riformista, 9.6). Mi sa che, oltre a magnare, Carletto ha cominciato pure a bere.

Curriculum/1. “60 anni dopo il luglio di Pertini, la sinistra sparisce dalla Liguria. Il Pd appoggia il candidato di Travaglio, Ferruccio Sansa. Il giornalista, figlio di un magistrato, sfida Toti alle regionali: due destre, l’una contro l’altra” (Piero Sansonetti, Il Riformista, 17.7). Figlio di un magistrato anziché di un delinquente, ma vi rendete conto? Dove andremo a finire, signora mia.

Curriculum/2. “In cella per usura ed estorsione il fratello della senatrice Cirinnà” (Corriere della sera, 8.7). “Roma, sindaco cercasi. Ora nel Pd c’è chi dice: candidiamo Monica Cirinnà” (Il Foglio, 9.7). Che le manca? Adesso è proprio perfetta.

Nostalgia canaglia/1. “Berlusconi, altolà a Conte: ‘Rispetti la Costituzione’” (La Stampa, prima pagina, 12.7). Altrimenti gli manda una tessera onoraria di Forza Italia.

Nostalgia canaglia/2. “Conte governa con i decreti, come nel Ventennio” (Ignazio La Russa, deputato FdI, La Verità, 5.7). Tessera onoraria anche di Fratelli d’Italia.

Pierbobo. “Berlusconi almeno il senso dello Stato ce l’ha, è nel Ppe, ha dei valori. E certamente rispetto ai 5 Stelle è un gigante. E forse tutti abbiamo sbagliato nell’attaccarlo sempre su questioni personali, extrapolitiche, abbiamo lasciato che la magistratura facesse il lavoro sporco per noi… Nel ’92 abbiamo consegnato l’Italia ai magistrati… Abbiamo dato credito a Davigo, uno dei danni peggiori che potevano capitare all’Italia” (Sergio Staino, Libero, 13.7). Uno che non ha mai comprato giudici, sentenze, finanzieri, testimoni, premier, senatori, minorenni, nè frodato il fisco, nè falsato bilanci: il peggio del peggio.

Libero mercato. “Gianni Mion, il manager richiamato l’anno scorso al vertice della holding del gruppo, ha sottolineato come le istituzioni abbiano chiamato i Benetton a entrare in diverse società” (Corriere della sera, 16.7). Le istituzioni che chiamavano i Benetton con una telefonata al posto di una gara. É il libero mercato, bellezza.

Colpa di Virginia/1. “I 150 anni dimenticati di Roma, “Questo è l’anno del 150esimo anniversario della Capitale. Chi se n’è accorto? Il Covid non può giustificare tutto” (Giuseppe Pullara, Corriere della sera-Roma, 13.7). A dire il vero il 3 febbraio la sindaca Raggi ha inaugurato i festeggiamenti della ricorrenza al Teatro dell’Opera con i presidenti della Repubblica, della Camera e del Senato. Chi non se n’è accorto, a parte il Corriere?

Colpa di Virginia/2. “Gli incidenti gravi di monopattini sono avvenuti a Milano, perchè in Italia tutto comincia a Milano… Non sono mezzi di trasporto, ma un gioco pericoloso, anche dove l’asfalto non fosse catastrofico come nella disgraziata Roma della Raggi” (Francesco Merlo, Repubblica, 19.7). Quindi, se gli incidenti gravi sono a Milano, l’asfalto catastrofico non è di Sala: è della Raggi.

Colpa di Lucia. “Azzolina criticata perchè donna? No, è inetta, le sue uscite ci fanno sembrare tutte incapaci come lei” (Daniela Santanché, FdI, Libero, 19.7). Anzichè capaci come la Santanché.

Minacce/1. “Tocca a me parlarvi dei prossimi vent’anni. Libero ci sarà anche nel 2040 perchè continueremo sempre a non aver paura di dire le cose come stanno” (Pietro Senaldi per i 20 anni di Libero, 18.7). Una promessa o una minaccia?

Minacce/2. “Il virologo Clementi: ‘Se il governo proroga lo stato d’emergenza scendo in piazza’” (La Verità, 14.7). Il distanziamento sociale non sarà un problema.

Minacce/3. “Il quadro europeo favorisce l’ingresso di Berlusconi in maggioranza” (Gugliemo Epifani, ex segretario Cgil e Pd, Il Foglio, 10.7). E questa è la sinistra del Pd. Poi c’è la destra.

Il titolo della settimana/2. “Ue, l’Italia all’angolo” (Repubblica, 18.7). Pare di vederlo, Conte, stretto all’angolo con Merkel, Macron, Sanchez e i capi di governo di altri 19 Stati membri dell’Ue dall’olandese Karl Rutte in compagnia di se stesso. Che strilla: “Ehi, sono qui, ho fatto 23 prigionieri!”. E Orbàn: “Bravo, allora portali qui!”. E lui: “Non posso, non mi lasciano venire!”.