“È uno dei libri più belli che ha scritto”.
Silenzio.
“È un testamento meraviglioso”.
Silenzio più lungo.
“Si è messo in scena e alla fine mi sono commosso. Io ero suo amico”.
Antonio Manzini con Andrea Camilleri ha condiviso artisticamente, umanamente e socialmente quarant’anni di vita; lui il fumo delle sigarette del maestro l’ha visto e respirato davvero, all’Accademia di arte drammatica “Silvio D’amico” (“lui professore, io studente”), o in tournée in Sudamerica; o quando, entrambi scrittori, si trovavano per discutere di libri (“senza Montalbano non sarebbe esistito neanche il mio Rocco Schiavone”).
E quando parla di Camilleri, Manzini mantiene sempre un tono controllato, da chi scaccia la commozione e cerca di ritrovare il sorriso in ogni ricordo: “Poco sotto mio padre c’è lui”.
Riccardino lo aveva letto nel 2005?
Tanti anni fa Andrea mi aveva raccontato la trama, ma l’avevo dimenticata: forse fu un riflesso istintivo per allontanare l’idea del distacco da lui; (riflette) nelle ultime pagine mi sono proprio commosso. Speravo di leggerle il più tardi possibile.
E mentre sfogliava il libro?
Ho rivisto Andrea al lavoro, ho sentito la sua voce, soprattutto nelle battute: la telefonata tra il Montalbano personaggio e lui autore è un gioiello.
Nel libro Camilleri si racconta: “Sono considerato uno scrittore di genere di consumo”.
Quelli di Andrea sono libri difficili, capisco il linguaggio perché ho vissuto per due anni a Palermo: da sempre mi domando come lo possa comprendere uno di Vigevano. (Sorride) Tanti anni fa ho recitato Goldoni: ancora non ho capito cosa dicevo.
Camilleri ci è riuscito.
Sì, creando una lingua sua, il “vigatese”, costruita col passare degli anni. Anche negli ultimi tempi ha aggiornato Riccardino, grazie a Valentina.
Valentina Alferj nel tempo è diventata gli occhi e la mano del maestro…
È la più grande esperta di “vigatese”: Andrea dettava e lei era l’unica a conoscere la grafia di alcuni nomi dei protagonisti.
Si sentiva snobbato dall’intellighenzia?
(Ride) In realtà non je ne fregava una mazza; pensava ai libri, solo ai libri, e si divertiva come un bambino a scrivere, altrimenti uno non regge tutti quegli anni.
Ha mandato in crisi molti scrittori.
Nessuno lo sa, ma era in grado di realizzare tre Montalbano l’anno, e quando ancora ci vedeva, ai tre aggiungeva due romanzi storici; il problema per noi colleghi – per favore lo metta tra virgolette – era il livello: uno più bello dell’altro. Faceva paura.
Lo paragonano a Simenon.
Sicuramente sulla velocità di esecuzione, ma Simenon è più serio, più cupo, lui più ironico.
Il vostro primo incontro.
In Accademia e in teoria non avrei dovuto averlo come docente: insegnava ai registi, considerati la serie A, mentre noi attori la B, invece l’ho incontrato e ho capito che mi piaceva troppo; così gli ho rotto le scatole, tanto da partire insieme, destinazione Argentina, per il saggio finale su Majakovskij.
In viaggio con Camilleri.
(Sospira) Che meraviglia. Siamo andati in scena al Teatro Cervantes di Buenos Aires, in platea un ministro, già presente nel governo del dittatore Videla, e una pletora di militari; alla fine dello spettacolo mettiamo l’Internazionale e molti di quelli in divisa si alzano e se ne vanno, mentre dalla galleria iniziamo a sentire i ragazzi cantare in spagnolo.
Da pelle d’oca.
Avevamo i brividi; è uno di quei momenti in cui pensi: “Non siamo ancora tutti morti”. Poi il ministro venne a salutarci: mi rifiutai di stringergli la mano, e gli altri come me.
E Camilleri?
(Ride a lungo) In un angolo. (Pausa) Ora vi spiego chi era Andrea: stavamo a Rio de Janeiro con altri colleghi e amici. Un giorno decidiamo di visitare il Cristo. Iniziamo le rampe di scale, tante scale, fino a quando Andrea si stufa, vede un bar, e decide: “Io resto qua”. “Manca solo una rampa!”. “Nun me ne fotte una minchia”. E così è stato: ha ordinato una birra e ci ha aspettato.
Quando le ha “presentato” Montalbano?
All’inizio non capivo nulla, avevo solo 27 anni…
Però.
Vado a casa sua e mi dà un manoscritto realizzato con la Lettera 22: “Dimmi cosa ne pensi”. “Sei matto? Sono troppo giovane, dallo ai tuoi amici”. “Sono tutti morti”.
Alla fine?
Dissi che era bello, che ero incuriosito dal siciliano e da un particolare: nessuna correzione, così da ignaro lo sottolineai. “Andre’, già lo sai il suo valore, questa è la bella copia”. “No, è uscito così”. Mi sono spaventato.
Perché?
Non è umano produrre 250 pagine, con la macchina da scrivere, senza sbagliare.
E quando gli ha rivelato la sua volontà di diventare scrittore?
Non è mai successo.
Mai?
Pubblicai il mio primo romanzo per caso, doveva essere solo un monologo teatrale: non avvertii Andrea, gli mandai il romanzo finito.
Come mai?
Era già famoso, pieno d’impegni, ci sentivamo di meno, non volevo disturbarlo; non ne abbiamo mai parlato, ma interpretò quel gesto come una disattenzione. Si offese.
A lungo?
Tempo dopo scrissi un libro con altri tre colleghi, tra cui Andrea: a una presentazione mi trattò con freddezza.
Come ha recuperato?
Chiamandolo e chiamandolo di nuovo, poi deve aver capito, perché un giorno Antonio Sellerio andò da lui e gli chiese: “Conosci un tale Antonio Manzini?”. Risposta: “Sì, è uno che non rompe i coglioni , e per fare questo spesso si è rovinato”.
Ha definito Camilleri “genio”.
Penso a una battuta di Troisi: “Sono nato e il mio dirimpettaio a sei anni suonava il pianoforte, sapeva già scrivere in italiano, faceva le tabelline. Io no. E tutti a casa mi dicevano: ‘Guarda quello quanto è bravo’. Ma dico io, un genio, proprio davanti a me doveva venire ad abitare?”. Ecco, ogni volta riflettevo: dobbiamo proprio condividere la casa editrice con un mostro del genere?
Ha aperto un mercato.
Prima i romanzi seriali appartenevano solo alla cultura anglosassone o francese, poi è arrivato lui, e non se n’è neanche reso conto: andammo a presentare uno spettacolo teatrale al Maurizio Costanzo Show, noi in platea, compreso Andrea. A un certo punto Costanzo gli dà la parola e resta folgorato da quello che dice.
E…
Esce Montalbano e torna ospite del programma. Prima di lui interviene una ragazza con la famiglia distrutta dalla mafia, e il tono della serata prosegue su pentiti e criminalità; alla fine Costanzo introduce Montalbano, e Andrea si sottrae: “Dopo queste storie vere, terribili, non me la sento di arrivare con questo libricino su un poliziotto”.
Solo lui…
Infatti Costanzo lo invitò di nuovo, innamorato del libro, e partì il successo; ripeto: Andrea non se ne rese conto.
E quando?
Un paio di settimane dopo ricevo una sua telefonata: “Anto’, sta succedendo qualcosa”. “Cosa?”. “Qualcosa di strano; vediamoci, ne dobbiamo parlare”. Così mi diede appuntamento in un bar, e il suo esordio fu: “La situazione mi sta sfuggendo di mano”.
Addirittura.
In quel periodo eravamo dei morti di fame, gente che la pizza se la divideva in quattro. Eravamo veri teatranti. (Sorride) Quel giorno mi spiegò tutto dell’editoria, stupito di aver venduto 150 mila copie in pochi giorni: “Che stronzo, a saperlo mi compravo casa”.
Serio…
Nel cassetto custodiva altri romanzi, e quando me li mostrò, aggiunse: “Questi sono di Mariolina, Andreina ed Elisabetta”, le tre figlie, amate alla follia. Per ognuna sognava di acquistare un appartamento. (Cambia tono) Uno immagina Camilleri e pensa al suo studio come un luogo vasto, pieno di libri, invece lavorava in sei o sette metri quadri. Un buco. Per se stesso non aveva velleità.
Come gestiva la fama.
Aveva messo dei filtri e non rispondeva mai al cellulare, però amava andare in giro a parlare con le persone.
Era diventato un guru, santificato.
Gli veniva da ridere, ma parliamo dell’uomo più colto che abbia mai conosciuto. Lui sapeva. E tra noi c’era una gara: andavo da lui con dei nomi di scrittori semi sconosciuti, magari un poeta minore del romanticismo tedesco, e mi fregava: “Sì, è morto ad Heidelberg”.
Nei suoi libri ci sono pagine alte…
Uno non deve prendere Catarella o Montalbano, quello è teatro, ma le parti dedicate alle storie d’amore, soprattutto nei romanzi storici: Il re di Girgenti andrebbe letto a scuola.
Non ha vinto lo Strega.
Non ha neanche concorso.
In Riccardino spiega che Montalbano si appalesa e quasi lo obbliga a scrivere.
Ma l’aveva confidato anni fa, ma non avevo capito. Invece è vero. E mi capita lo stesso con Rocco Schiavone: il tuo personaggio diventa un amico ingombrante, ma dipende sempre da te.
Camilleri viene descritto come un grande oratore.
Stava ore a raccontare, e ho il rammarico di non aver registrato i suoi ricordi dei tempi del fascismo, della guerra, o del teatro. Uno dei più belli è legato a Porto Empedocle, lui ragazzo: “Sai quando ho capito che gli americani avrebbero vinto la guerra? Non con i carri armati o l’esercito, ma quando hanno sbarcato le poltrone da dentista: quelli si occupavano pure delle carie dei soldati. E noi tutti a farci i denti belli”.
Il teatro.
Anche qui, i suoi racconti sul periodo d’aiuto-regista di Orazio Costa erano meravigliosi; lo descriveva come un grande direttore ma una specie di frate, un monaco: “Lui e il sesso non si incontravano mai, viveva in una specie di cella francescana”. L’opposto di Andrea.
Una fortuna averlo incontrato.
E quando mi ricapita… nessuno lo sa, ma è stato Camilleri ad aver portato Beckett in Italia.
Le dava consigli di scrittura?
Mai, mi ripeteva solo “non pigliamoci troppo sul serio”; (ride) con lui organizzavamo gare di retorica: ci ritrovavamo a casa sua e ognuno portava due o tre libri con alcuni passaggi sottolineati. Li leggevamo a voce alta. Vinceva chi aveva scovato la pagina più carica. Ci uscivano le lacrime dal ridere.
Se le chiedessero di proseguire la saga di Montalbano?
Primo: non sarei in grado, per scrivere come lui devi essere siciliano, colto e aver vissuto in maniera intensa. Secondo: neanche sotto tortura.
Appena si è sentito male è corso in ospedale da lui.
Ho mio padre nel cuore, ma lui sta subito lì vicino.
Ve lo siete detto?
Mai. (Rallenta) Quando stava male e lo vedovo sul letto, pensavo: “Non se lo merita”, e ho immaginato un incontro tra Camilleri e Dio, se esiste.
Come andrebbe?
Andrea negherebbe la sua esistenza anche se ci parlasse.
Immaginiamo il dialogo tra i due.
“Andrea stai parlando con me!”.
“Questo lo dice lei…”.