In lode del gattino tunisino, “rifugiato” a Lampedusa dopo aver attraversato il mare

La storia incomincia a Tunisi. Primi di giugno. Su una riva, c’era un barcone in partenza per l’Italia, portante i reietti verso una clandestina parvenza di speranza. Fra questi un ragazzo. Donde proveniva? Come si chiama?

Il ragazzo vede sulla spiaggia un cucciolo di gatto: abbandonato. Si toglie il cappello di paglia e ne fa una cuccia per il piccolino. La deposita ai piedi di un albero. Ma il gattino non vuole restare lì. Se n’esce dalla cuccia umana e segue il ragazzo. Questi allora recupera il cappello, ci rimette dentro il piccolo e lo porta con sé sul barcone. Sono arrivati insieme a Lampedusa, e solo lì separati per essere sottoposti a due diverse quarantene.

“Era stato abbandonato. Non potevo far sì che venisse abbandonato un’altra volta”. Così ha dichiarato questo giovane santo che vorrei conoscere per dirmi suo fratello.

Non so se la vicenda, oltre che narrata, sia stata da qualcuno commentata. A me, oltre che il sentimento del ragazzo, hanno fatto impressione il sentimento e l’intelligenza del gattino. Che i gatti siano intelligentissimi lo sanno tutti; che non abbiano alcuna vanità di mostrare la loro intelligenza, anche. Ma il cucciolo la sua intelligenza ha dovuto palesare, perché da palesare era la sua volontà. La volontà di non esser lasciato solo su quella spiaggia; e la volontà di restare con quel ragazzo, lui abbandonato, che s’era preso cura di lui.

Il ragazzo era un reietto quanto lui. Ma il cucciolo ha manifestato un’affettività che molti ai gatti non riconoscono, e che in quelli domestici è parte essenziale della loro personalità. Chi ne ha uno (una mia amica ne ha cinque che vivono sul suo letto) conosce, fra le loro manifestazioni d’amore, il loro desiderio d’infilarsi sotto le lenzuola per dormire insieme col corpo del padrone. È sì la ricerca ancestrale di una tana, di una grotta; ma è anche una manifestazione di affetto.

Il gattino tunisino, così piccolo, ha capito che il suo solo amico doveva partire (come ha fatto?), e ha voluto restare con lui, esponendo un inequivocabile atto di volontà. Purtroppo questa storia (a differenza di tante altre) non è stata conosciuta dal cantore delle gatte amate, Torquato Tasso, il quale l’avrebbe trasformata in una poesia.

Adesso Rai News 24 pubblica che il gattino, ora di sei mesi, è stato chiamato Pupi ed è risultato immune dalle patologie della rabbia. Dovrà solo trascorrere il periodo di quarantena. E una signora di Lampedusa l’ha adottato.

Questa vicenda mi commuove fino alle lacrime.

 

Lady Vendetta è nigeriana: uccide solo fidanzati freschi

Korede ha trent’anni, fa l’infermiera e vive con la sorella Ayoola e la madre a Lagos, in Nigeria. La sua vita è faticosa, e non per il suo mestiere, ma perché occupata principalmente da un unico dovere: coprire la sorella più giovane – bellissima, un po’ fatua e indifferente a tutto tranne che alle foto sui social dove pubblica compulsivamente –, evitandole un futuro in prigione. Ayoola, infatti, ha come strano hobby quello di uccidere i suoi fidanzati. E talvolta accade che Korede, dal cui punto di vista è scritto il libro, si debba occupare anche di gestire il cadavere e cancellarne ogni traccia.

Mia sorella è una serial killer (La nave di Teseo) è il titolo del romanzo noir della scrittrice nigeriana esordiente Oyinkan Braithwaite, pronto a diventare film e celebrato dalla critica di mezzo mondo. La sproporzione tra gli eventi e la scrittura, che nulla ha di tragico anzi, proprio come una delle protagoniste, è anch’essa leggera, ironica, frivola: produce esiti grotteschi e paradossali, come quando la sorella grande sente l’altra ascoltare nella sua stanza una musica assordante poco dopo aver fatto fuori un suo ex e pensa: “Sta ascoltando I Wanna Dance With Somebody di Whitney Houston. Sarebbe più consono ascoltare Brymo o Lorde, qualcosa di solenne o di struggente, anziché l’equivalente musicale di un pacchetto di M&M’s”.

Il viavàidi eventi macabri avviene, accentuando l’atmosfera surreale, sotto gli occhi della madre delle due, unicamente interessata a piazzare le figlie trovando loro un buon partito, nonostante lei un buon matrimonio non lo abbia avuto. Anzi, suo marito era solito picchiare le figlie con un bastone e proprio dal padre violento Ayaala ruba un coltello che poi userà contro alcuni dei suoi fidanzati. Senza mai perdere il suo aplomb, anche di fronte alla polizia, e anzi teorizzando con la sorella, con vera convinzione, che in fondo la sua è sempre stata legittima difesa.

In effetti mariti, padri e amanti non fanno bella mostra di sé in questo romanzo in cui le figure forti sono donne e in cui gli uomini sono o violenti oppure sottomessi ciecamente alla bellezza di Ayaala, di fronte alla quale sembrano perdere ogni dignità, poliziotti compresi (“L’hanno conosciuta. L’hanno guardata negli occhi e hanno fantasticato su di lei. Sono tutti uguali”). Eppure Mia sorella è una serial killer non è neanche un romanzo femminista, visto che di Ayaala Korede dice che ride per le cose stupide, presta più attenzione a Snapchat e al blush che ai cadaveri dei suoi uomini e che “non è chiaro persino se abbia sentimenti”. Più probabilmente, l’autrice Oyinkan Braithwaite ha voluto invece far emergere il legame inscindibile tra due sorelle, così forte che una delle due rinuncia alla propria vita anche sentimentale pur di proteggere l’altra, quasi questo compito le fosse stato assegnato da sempre. Di fronte a questo persino i cadaveri sono accessori, semplici simboli di ciò che un amore può arrivare a fare (e per questo forse Mia sorella è un serial killer non è neanche un noir): in primo piano c’è soprattutto il patto assoluto tra loro due, una donna brutta e devota al dovere e un’altra che passa da un uomo all’altro, spillando loro denaro, mentendo e uccidendo senza alcun rimorso.

Acclamato dai recensori come romanzo esilarante e comico, il libro racconta invece un destino da cui non ci si può liberare, quello della sorellanza. “Ayoola”, dice Korede, “ha bisogno di me più di quanto io abbia bisogno di mani pulite”. Persino se vanno lavate da sangue umano.

Da 40 anni lo so. Camilleri è

“È uno dei libri più belli che ha scritto”.

Silenzio.

“È un testamento meraviglioso”.

Silenzio più lungo.

“Si è messo in scena e alla fine mi sono commosso. Io ero suo amico”.

Antonio Manzini con Andrea Camilleri ha condiviso artisticamente, umanamente e socialmente quarant’anni di vita; lui il fumo delle sigarette del maestro l’ha visto e respirato davvero, all’Accademia di arte drammatica “Silvio D’amico” (“lui professore, io studente”), o in tournée in Sudamerica; o quando, entrambi scrittori, si trovavano per discutere di libri (“senza Montalbano non sarebbe esistito neanche il mio Rocco Schiavone”).

E quando parla di Camilleri, Manzini mantiene sempre un tono controllato, da chi scaccia la commozione e cerca di ritrovare il sorriso in ogni ricordo: “Poco sotto mio padre c’è lui”.


Riccardino lo aveva letto nel 2005?

Tanti anni fa Andrea mi aveva raccontato la trama, ma l’avevo dimenticata: forse fu un riflesso istintivo per allontanare l’idea del distacco da lui; (riflette) nelle ultime pagine mi sono proprio commosso. Speravo di leggerle il più tardi possibile.

E mentre sfogliava il libro?

Ho rivisto Andrea al lavoro, ho sentito la sua voce, soprattutto nelle battute: la telefonata tra il Montalbano personaggio e lui autore è un gioiello.

Nel libro Camilleri si racconta: “Sono considerato uno scrittore di genere di consumo”.

Quelli di Andrea sono libri difficili, capisco il linguaggio perché ho vissuto per due anni a Palermo: da sempre mi domando come lo possa comprendere uno di Vigevano. (Sorride) Tanti anni fa ho recitato Goldoni: ancora non ho capito cosa dicevo.

Camilleri ci è riuscito.

Sì, creando una lingua sua, il “vigatese”, costruita col passare degli anni. Anche negli ultimi tempi ha aggiornato Riccardino, grazie a Valentina.

Valentina Alferj nel tempo è diventata gli occhi e la mano del maestro…

È la più grande esperta di “vigatese”: Andrea dettava e lei era l’unica a conoscere la grafia di alcuni nomi dei protagonisti.

Si sentiva snobbato dall’intellighenzia?

(Ride) In realtà non je ne fregava una mazza; pensava ai libri, solo ai libri, e si divertiva come un bambino a scrivere, altrimenti uno non regge tutti quegli anni.

Ha mandato in crisi molti scrittori.

Nessuno lo sa, ma era in grado di realizzare tre Montalbano l’anno, e quando ancora ci vedeva, ai tre aggiungeva due romanzi storici; il problema per noi colleghi – per favore lo metta tra virgolette – era il livello: uno più bello dell’altro. Faceva paura.

Lo paragonano a Simenon.

Sicuramente sulla velocità di esecuzione, ma Simenon è più serio, più cupo, lui più ironico.

Il vostro primo incontro.

In Accademia e in teoria non avrei dovuto averlo come docente: insegnava ai registi, considerati la serie A, mentre noi attori la B, invece l’ho incontrato e ho capito che mi piaceva troppo; così gli ho rotto le scatole, tanto da partire insieme, destinazione Argentina, per il saggio finale su Majakovskij.

In viaggio con Camilleri.

(Sospira) Che meraviglia. Siamo andati in scena al Teatro Cervantes di Buenos Aires, in platea un ministro, già presente nel governo del dittatore Videla, e una pletora di militari; alla fine dello spettacolo mettiamo l’Internazionale e molti di quelli in divisa si alzano e se ne vanno, mentre dalla galleria iniziamo a sentire i ragazzi cantare in spagnolo.

Da pelle d’oca.

Avevamo i brividi; è uno di quei momenti in cui pensi: “Non siamo ancora tutti morti”. Poi il ministro venne a salutarci: mi rifiutai di stringergli la mano, e gli altri come me.

E Camilleri?

(Ride a lungo) In un angolo. (Pausa) Ora vi spiego chi era Andrea: stavamo a Rio de Janeiro con altri colleghi e amici. Un giorno decidiamo di visitare il Cristo. Iniziamo le rampe di scale, tante scale, fino a quando Andrea si stufa, vede un bar, e decide: “Io resto qua”. “Manca solo una rampa!”. “Nun me ne fotte una minchia”. E così è stato: ha ordinato una birra e ci ha aspettato.

Quando le ha “presentato” Montalbano?

All’inizio non capivo nulla, avevo solo 27 anni…

Però.

Vado a casa sua e mi dà un manoscritto realizzato con la Lettera 22: “Dimmi cosa ne pensi”. “Sei matto? Sono troppo giovane, dallo ai tuoi amici”. “Sono tutti morti”.

Alla fine?

Dissi che era bello, che ero incuriosito dal siciliano e da un particolare: nessuna correzione, così da ignaro lo sottolineai. “Andre’, già lo sai il suo valore, questa è la bella copia”. “No, è uscito così”. Mi sono spaventato.

Perché?

Non è umano produrre 250 pagine, con la macchina da scrivere, senza sbagliare.

E quando gli ha rivelato la sua volontà di diventare scrittore?

Non è mai successo.

Mai?

Pubblicai il mio primo romanzo per caso, doveva essere solo un monologo teatrale: non avvertii Andrea, gli mandai il romanzo finito.

Come mai?

Era già famoso, pieno d’impegni, ci sentivamo di meno, non volevo disturbarlo; non ne abbiamo mai parlato, ma interpretò quel gesto come una disattenzione. Si offese.


A lungo?

Tempo dopo scrissi un libro con altri tre colleghi, tra cui Andrea: a una presentazione mi trattò con freddezza.

Come ha recuperato?

Chiamandolo e chiamandolo di nuovo, poi deve aver capito, perché un giorno Antonio Sellerio andò da lui e gli chiese: “Conosci un tale Antonio Manzini?”. Risposta: “Sì, è uno che non rompe i coglioni , e per fare questo spesso si è rovinato”.

Ha definito Camilleri “genio”.

Penso a una battuta di Troisi: “Sono nato e il mio dirimpettaio a sei anni suonava il pianoforte, sapeva già scrivere in italiano, faceva le tabelline. Io no. E tutti a casa mi dicevano: ‘Guarda quello quanto è bravo’. Ma dico io, un genio, proprio davanti a me doveva venire ad abitare?”. Ecco, ogni volta riflettevo: dobbiamo proprio condividere la casa editrice con un mostro del genere?

Ha aperto un mercato.

Prima i romanzi seriali appartenevano solo alla cultura anglosassone o francese, poi è arrivato lui, e non se n’è neanche reso conto: andammo a presentare uno spettacolo teatrale al Maurizio Costanzo Show, noi in platea, compreso Andrea. A un certo punto Costanzo gli dà la parola e resta folgorato da quello che dice.

E…

Esce Montalbano e torna ospite del programma. Prima di lui interviene una ragazza con la famiglia distrutta dalla mafia, e il tono della serata prosegue su pentiti e criminalità; alla fine Costanzo introduce Montalbano, e Andrea si sottrae: “Dopo queste storie vere, terribili, non me la sento di arrivare con questo libricino su un poliziotto”.

Solo lui…

Infatti Costanzo lo invitò di nuovo, innamorato del libro, e partì il successo; ripeto: Andrea non se ne rese conto.

E quando?

Un paio di settimane dopo ricevo una sua telefonata: “Anto’, sta succedendo qualcosa”. “Cosa?”. “Qualcosa di strano; vediamoci, ne dobbiamo parlare”. Così mi diede appuntamento in un bar, e il suo esordio fu: “La situazione mi sta sfuggendo di mano”.

Addirittura.

In quel periodo eravamo dei morti di fame, gente che la pizza se la divideva in quattro. Eravamo veri teatranti. (Sorride) Quel giorno mi spiegò tutto dell’editoria, stupito di aver venduto 150 mila copie in pochi giorni: “Che stronzo, a saperlo mi compravo casa”.

Serio…

Nel cassetto custodiva altri romanzi, e quando me li mostrò, aggiunse: “Questi sono di Mariolina, Andreina ed Elisabetta”, le tre figlie, amate alla follia. Per ognuna sognava di acquistare un appartamento. (Cambia tono) Uno immagina Camilleri e pensa al suo studio come un luogo vasto, pieno di libri, invece lavorava in sei o sette metri quadri. Un buco. Per se stesso non aveva velleità.

Come gestiva la fama.

Aveva messo dei filtri e non rispondeva mai al cellulare, però amava andare in giro a parlare con le persone.

Era diventato un guru, santificato.

Gli veniva da ridere, ma parliamo dell’uomo più colto che abbia mai conosciuto. Lui sapeva. E tra noi c’era una gara: andavo da lui con dei nomi di scrittori semi sconosciuti, magari un poeta minore del romanticismo tedesco, e mi fregava: “Sì, è morto ad Heidelberg”.

Nei suoi libri ci sono pagine alte…

Uno non deve prendere Catarella o Montalbano, quello è teatro, ma le parti dedicate alle storie d’amore, soprattutto nei romanzi storici: Il re di Girgenti andrebbe letto a scuola.

Non ha vinto lo Strega.

Non ha neanche concorso.

In Riccardino spiega che Montalbano si appalesa e quasi lo obbliga a scrivere.

Ma l’aveva confidato anni fa, ma non avevo capito. Invece è vero. E mi capita lo stesso con Rocco Schiavone: il tuo personaggio diventa un amico ingombrante, ma dipende sempre da te.

Camilleri viene descritto come un grande oratore.

Stava ore a raccontare, e ho il rammarico di non aver registrato i suoi ricordi dei tempi del fascismo, della guerra, o del teatro. Uno dei più belli è legato a Porto Empedocle, lui ragazzo: “Sai quando ho capito che gli americani avrebbero vinto la guerra? Non con i carri armati o l’esercito, ma quando hanno sbarcato le poltrone da dentista: quelli si occupavano pure delle carie dei soldati. E noi tutti a farci i denti belli”.

Il teatro.

Anche qui, i suoi racconti sul periodo d’aiuto-regista di Orazio Costa erano meravigliosi; lo descriveva come un grande direttore ma una specie di frate, un monaco: “Lui e il sesso non si incontravano mai, viveva in una specie di cella francescana”. L’opposto di Andrea.

Una fortuna averlo incontrato.

E quando mi ricapita… nessuno lo sa, ma è stato Camilleri ad aver portato Beckett in Italia.

Le dava consigli di scrittura?

Mai, mi ripeteva solo “non pigliamoci troppo sul serio”; (ride) con lui organizzavamo gare di retorica: ci ritrovavamo a casa sua e ognuno portava due o tre libri con alcuni passaggi sottolineati. Li leggevamo a voce alta. Vinceva chi aveva scovato la pagina più carica. Ci uscivano le lacrime dal ridere.

Se le chiedessero di proseguire la saga di Montalbano?

Primo: non sarei in grado, per scrivere come lui devi essere siciliano, colto e aver vissuto in maniera intensa. Secondo: neanche sotto tortura.

Appena si è sentito male è corso in ospedale da lui.

Ho mio padre nel cuore, ma lui sta subito lì vicino.

Ve lo siete detto?

Mai. (Rallenta) Quando stava male e lo vedovo sul letto, pensavo: “Non se lo merita”, e ho immaginato un incontro tra Camilleri e Dio, se esiste.

Come andrebbe?

Andrea negherebbe la sua esistenza anche se ci parlasse.

Immaginiamo il dialogo tra i due.

“Andrea stai parlando con me!”.

“Questo lo dice lei…”.

Maresco difende il suo film “La Rai censura, faccio causa”

Il capo dello Stato Sergio Mattarella, cinefilo in gioventù, non si è mai lamentato, ma a prendere le distanze dal film di Franco Maresco “La mafia non è più quella di una volta’’, vincitore a Venezia del Gran premio della Giuria lo scorso anno, è stata la Rai: Rai Cinema ha ravvisato “elementi non condivisi che seminavano dubbi e illazioni potenzialmente offensivi nei confronti del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella’’ e per questo ha tolto il proprio logo dal film, prendendone le distanze. E ieri il regista, in una conferenza stampa in streaming insieme al proprio legale, l’avvocato Antonio Ingroia, e alla fotografa Letizia Battaglia ha denunciato l’intervento “tecnicamente censorio’’ della televisione di Stato, rivolgendo un appello al presidente della Repubblica “pietra involontaria dello scandalo, garante della Costituzione, perché vigili sull’applicazione dell’art. 21’’ che tutela la libertà di espressione.

“Sono pronto ad andare fino in fondo con un’azione legale – dice Maresco –. Si consente a Bruno Vespa di intervistare il figlio di Totò Riina facendolo parlare con commozione del papà e al mio film tolgono il riconoscimento nonostante, ad oggi, nessuna lamentela sia mai arrivata dal capo dello Stato. Del Brocco (ad di Rai Cinema, ndr) ha avuto paura, temeva di perdere il posto, non so darmi altra spiegazione’’. “Un artista deve essere libero di esprimersi’’, ha aggiunto Letizia Battaglia. “In qualsiasi altra parte del mondo – ha detto Antonio Ingroia – sarebbe impensabile quello che è accaduto. Ci sarebbero state delle reazioni a questo intervento tecnicamente censorio. La Rai si comporta come una madre che non vuole riconoscere il figlio”. Neanche dopo che il regista ha aderito ai tagli che Rai Cinema gli ha proposto, due scene con al centro “l’amicizia’’ tra la famiglia del capo dello Stato e quella del protagonista, Ciccio Mira, filo conduttore dell’ultima parte del film che racconta in chiave satirica come le commemorazioni di Falcone e Borsellino, uccisi 28 anni fa, annegano a Palermo in un oceano di retorica antimafia, fra feste di piazza e cantanti neomelodici. “Discutevano se allungare i pantaloncini del giovane Sergio Mattarella e di suo padre Bernardo nell’infografica animata che avevamo realizzato’’, ha denunciato Maresco. Per Rai Cinema che accetta, forse paga (“sono aspetti della produzione’’) e poi disconosce il film, rivendicando il diritto di “esprimere dissenso rispetto a contenuti non condivisi a priori’’, è risibile parlare di censura con “una produzione di oltre 60 film e documentari antimafia’’ che Maresco, citando solo Pif, senza giri di parole definisce “cagate pazzesche’’: “Ancora una volta – chiosano i dirigenti Rai – per lui vale solo la sua opinione’’.

Nel film il regista palermitano chiede a Letizia Battaglia di commentare il silenzio del capo dello Stato nel giorno della sentenza del processo sulla Trattativa Stato-Mafia, provocando la reazione del Quirinale che il 6 settembre dello scorso anno, precisò in una nota che “il Presidente della Repubblica non commenta le sentenze’’: “Non ero d’accordo sul silenzio del Presidente e l’ho scritto – ha detto ieri Ingroia, ‘padre’ dell’inchiesta – ma è un’opinione legittima. Qui il problema è la Rai: all’attore Ivano Marescotti, che ho difeso, Rai Cinema chiese di non candidarsi nella lista Per Tsipras perché la sua sola presenza in una fiction infrangeva la par condicio in periodo elettorale. E per il solo fatto di avere protestato la sua parte venne tagliata e Marescotti non ha più lavorato in Rai’’. È la stessa sorte che prefigura per sé Maresco: “Non c’è più la libertà intellettuale di Angelo Guglielmi, so che non lavorerò più con la Rai – ha detto –. Siamo adulti e sappiamo come funziona il mondo; non lo scopriamo adesso che è uno dei posti più lottizzati e sbranati dalla politica. Nomi? Ne faccio uno: Marzullo, era di Avellino e il suo sponsor era De Mita’’.

Ora si attende la risposta di Rai Cinema, a cui Maresco e Ingroia hanno chiesto di riprogrammare il film: “Chiediamo che abbiano il coraggio di riconoscere questo figlio illegittimo, e con il rispetto dovuto agli spettatori lo inseriscano nelle reti’’. Se ciò, com’è prevedibile non dovesse accadere, sono pronti gli avvocati da entrambe le parti, con esposti alla commissione di vigilanza e denunce civili e penali. Il film, intanto, è stato richiesto a Trapani dalla locale sezione dell’Associazione nazionale magistrati che lo proietta oggi in occasione della commemorazione della strage di via D’Amelio.

Ambiguità e coscienza. È dal nostro cervello che iniziamo a ridere

Mi piace questo nuovo Papa. È così differente. Non credo neanche sia cristiano. – Alingon Mitra

La coscienza, ovvero ciò che scompare quando ci addormentiamo e ricompare quando ci svegliamo, è il risultato di processi neurali particolari; e dell’interazione fra cervello, corpo, altre persone, mondo. Ridiamo perché siamo consapevoli, cioè abbiamo coscienza di avere coscienza; e perché, fin dalla nascita, interagiamo con le regole delle strutture sociali, che sono espressione del cervello delle generazioni che ci hanno preceduto. Per capire come funziona la prassi divertente occorre conoscere la struttura e il funzionamento del cervello, e come il cervello crea la coscienza.

Anatomia funzionale del cervello. Una delle realtà più affascinanti dell’universo è il modo con cui il cervello umano crea la coscienza. Ce lo spiegano Edelman & Tononi (2000). Allacciate le cinture.

Il cervello è formato da 100 miliardi di neuroni, di cui 30 nella corteccia, dove sono interconnessi da un milione di miliardi di sinapsi. In biologia, la morfologia è la via regia alla funzione. Tre strutture cerebrali partecipano alla creazione della coscienza: 1) corteccia e talamo (sistema talamo-corticale); 2) appendici corticali (gangli della base, cervelletto, ippocampo); 3) tronco encefalico (sistemi proiettivi valoriali).

Le aree corticali e i nuclei talamici sono tutti connessi reciprocamente da vie bidirezionali (rientri): questo permette l’integrazione (coordinamento spazio-temporale) dell’attività cerebrale. Ogni stato di coscienza è un pattern, ovvero l’integrazione di gruppi neuronali appartementi a zone cerebrali diverse. Come l’illusione di un film è creata dalla successione rapida di fotogrammi singoli, così l’illusione della coscienza è creata da una successione rapida di singoli pattern di coscienza.

Corteccia e appendici sono connesse da circuiti ad anello unidirezionali e paralleli, segregati l’uno dall’altro: questo permette l’esecuzione rapida e precisa di complesse routine motorie e cognitive (sbagliare un atto è, da sempre, una fonte di comicità, come dimostra ogni gag di Stanlio & Ollio).

I nuclei valoriali del tronco encefalico, infine, irradiano le loro fibre a tutto il cervello: distinti in base al mediatore chimico (noradrenalina, serotonina, dopamina, acetilcolina, istamina), si attivano quando accade qualcosa di intenso e di improvviso (rumore, luce, dolore &c.); per esempio, i neuroni noradrenergici del locus coeruleus scaricano ogni volta che accade qualcosa di inatteso, o entriamo in un nuovo ambiente (la sorpresa è l’elemento-chiave di una gag). I nuclei valoriali segnalano la salienza di un evento (la paura favorisce la risata), o lo rendono piacevole/spiacevole (la risata è piacevole), influenzando sia il funzionamento che la plasticità (modifiche sinaptiche) del resto del cervello. La loro attività si riduce fino allo zero durante il sonno, e riprende alla veglia.

Categorizzazione. L’interconnessione sincrona di diverse aree funzionali del cervello integra i processi percettivi e motori; e crea le categorie percettive, cioè permette di discriminare un oggetto o un evento rispetto a uno sfondo. La categorizzazione facilita l’adattamento all’ambiente. (L’elemento incongruo in uno schema è, da sempre, una fonte di comicità).

Automatismi. La pratica rende automatiche le procedure apprese: l’automatismo le fa sparire dalla coscienza, e riduce il numero di regioni cerebrali coinvolte nella procedura (aumenta l’efficienza, diminuisce il consumo metabolico). Parlare, ascoltare, leggere, scrivere, ricordare sono esempi di routine automatiche. L’automatizzazione permette di selezionare/aggiungere grandi unità di comportamento in modo rapido ed efficace. (L’automatismo inceppato è, da sempre, una fonte di comicità: ne è un esempio John Cleese con il suo impiegato del ministero delle camminate strambe).

Coerenza. La coscienza emerge quando gruppi di neuroni interagiscono creando un pattern di attività diverso dagli altri. Il fenomeno è detto coerenza. Riusciamo a percepire solo l’una o l’altra delle due immagini presenti nelle figure ambigue (cubo di Necker, la giovane e la vecchia, & c.) perché uno stato di coscienza ne impedisce altri simultanei. Allo stesso modo, siamo consapevoli o dell’uno o dell’altro significato di una parola ambigua. (L’ambiguità è, da sempre, una fonte di comicità: “La signora rimprovera il macellaio: ‘Non me lo dà il resto?’ E il macellaio: ‘Sì, se trova qualcuno che mi tenga il negozio.’”)

Gli stati di coscienza. Uno stato di coscienza è una discriminazione soggettiva, e si può manifestare come percezione, immagine, pensiero, discorso interiore, emozione, sentimento (volontà, sé, familiarità, soddisfazione, errore &c.). Uno stato di coscienza può essere indotto da stimoli esterni, dalla memoria, dall’immaginazione e dai sogni. (Proust scoprì questo fenomeno assaggiando la madeleine.)

Due caratteristiche fondamentali degli stati di coscienza. Ogni stato di coscienza è integrato (non è scomponibile in sottounità) ed è differenziato da tutti gli altri. Nello stato di coscienza, neurobiologia e fenomenologia convergono. La complessità del sistema neurale è data dalla co-occorrenza di integrazione e differenziazione, ovvero dalla quantità di pattern. (Un gas non è complesso poiché i suoi elementi non sono integrati; un cristallo non è complesso poiché i suoi elementi non sono differenziati.) In ogni momento, la coscienza è occupata da un solo stato di coscienza, selezionato fra miliardi di pattern compresenti. Questa riduzione dell’incertezza fra alternative è detta informazione.

Quando sogniamo, il sistema talamo-corticale è disconnesso funzionalmente dal mondo esterno, ma veglia e sogno sono due stati coscienti poiché in essi i pattern cambiano in continuazione (differenziazione). Senza differenziazione continua fra stati di coscienza, la coscienza scompare. Il sonno senza sogni, infatti, non è cosciente, poiché tutto il cervello è sincronizzato (riduzione della complessità cerebrale).

Complessità. Ogni sistema complesso è costante e mutevole, stabile e instabile. Ne sono un esempio i sistemi biologici: la cellula, il cervello, l’organismo, la società.

Coscienza primaria. La coscienza primaria è la capacità di costruire nel presente una scena mentale: vi interagiscono la percezione attuale (il presente) e le memorie (il passato). È la coscienza che accomuna tutti gli animali che hanno un cervello.

La memoria. Non c’è coscienza senza memoria; ma la memoria non è rappresentazione. La rappresentazione implica l’attività simbolica che fonda la competenza linguistica (sintattica, semantica e pragmatica), l’immaginazione, e il senso del sé; e che ci rende coscienti di avere una coscienza. Questa coscienza superiore ci differenzia da tutti gli altri animali, che non ne hanno la base anatomica.

13 – continua

I No Tav tornano in Val di Susa: sassi e petardi, un agente ferito

Tornano le manifestazioni contro il Tav. Ma anche sassi, petardi, bombe carta, fiammate e lacrimogeni. La “Tre giorni di lotta” annunciata dai No Tav in Valle di Susa è cominciata così, con due ondate, la prima nella tarda serata di venerdì e la seconda nel pomeriggio di ieri, verso l’odiato cantiere del supertreno ad alta velocità Torino-Lione. Fino a ieri sera si registrava un poliziotto ferito in maniera non grave e ventidue manifestanti identificati (saranno denunciati nelle prossime ore).

In piazza, come ogni estate, gli attivisti valsusini e i simpatizzanti dell’area autonoma che gravita intorno al centro sociale torinese Askatasuna. Scorribande nei boschi e un presidio in cui sono organizzati convegni, dibattiti, momenti di musica e spettacolo. Rispetto al passato lo scenario è leggermente cambiato perché il perimetro del cantiere è stato esteso e un gruppo di No Tav staziona da alcune settimane nella zona chiamata “dei Mulini”.

Venerdì sera il primo corteo, circa 150 persone di cui alcune travisate, ha cercato di un forzare uno degli ingressi al cantiere. Ieri i manifestanti sono saliti a trecento, il livello della tensione si è alzato. I No Tav hanno concentrato le loro mosse in tre punti diversi tra cui il sentiero gallo-romano, dove hanno cercato di forzare la pesante cancellata che sbarra il passo verso il cantiere di Chiomonte, e l’area che corre sotto il viadotto dell’autostrada del Frejus. Le forze dell’ordine hanno conteggiato non meno di cento bombe carta – oltre ai sassi e ai fuochi artificiali – scagliate verso di loro. Per disperdere i dimostranti hanno lanciato numerosi lacrimogeni.

Con la ripresa delle manifestazioni contro il Tav ricominciano anche le prese di posizione politica. Fratelli d’Italia e Forza Italia chiedono al governo di nominare un commissario per portare a termine la contestata opera ferroviaria. Dal Pd chiedono di rafforzare il presidio di polizia.

Covid, l’ozono per “sanificare” il Senato Per il ministero della Salute è una “bufala”

Chi frequenta la sala Garibaldi, elegante ambiente conviviale del Senato, avrà notato alcuni cartelli apparsi di recente: “Locale sanificato con l’ozono”, vi si legge a grandi caratteri verdi. La rassicurante spiegazione: “Questi locali vengono regolarmente sanificati con l’ozono per eliminare agenti patogeni e cattivi odori, per la tutela della salute dei nostri clienti”. Seguono certificazione, data e timbro dell’azienda. Suona benissimo, in tempi come questi. A patto di non leggere l’elenco delle fake news sul Covid che il ministero della Salute aggiorna periodicamente. Qui, accanto a bufale conclamate quali “Bere latte cura l’infezione” e “Mangiare peperoncino protegge dal virus” si legge: “L’ozono sterilizza l’aria e gli ambienti e non mi fa infettare dal nuovo coronavirus”. “Falso!”, avverte il ministero. “L’ozono non ha proprietà sterilizzanti propriamente dette. Le sue proprietà non sono al momento sufficienti a garantirne l’adeguatezza come disinfettante, in quanto deve essere sottoposto a prove di efficacia e di sicurezza”.

Ma a palazzo Madama, si vede, non lo sanno: tanto da aver affidato, in piena emergenza, a una ditta di Padova (la Sanity System Srl) una commessa apposita per la sanificazione con ozono, consentendole peraltro di farsi pubblicità nelle sale più prestigiose delle istituzioni (“privilegio” non concesso alle comuni ditte di pulizia). Eppure le Raccomandazioni dell’Istituto superiore di sanità sulla sanificazione sono chiare: “Non esistono informazioni specifiche” sull’efficacia del gas contro il SarsCov2. Così anche la circolare del ministero del 22 maggio 2020: ozono, cloro e perossido d’idrogeno “non sono autorizzate come disinfettanti e quindi attualmente non possono essere utilizzate in attività di disinfezione”. “La realtà ci dice che, secondo il ministero, l’ozono può essere utilizzato per la sanificazione, intesa in questo caso come il complesso di procedimenti atti a rendere sani determinati ambienti mediante la pulizia”, rispondono dall’ufficio stampa del Senato.

Il dato però resta: un’istituzione si affida a un metodo bollato come fake dall’istituzione competente. E ci crede tanto da farne oggetto di un appalto da varie migliaia di euro. Tanto più assurdo se si pensa che il consulente sanitario di palazzo Madama, nominato a febbraio dalla presidente Casellati, è Giuseppe Ippolito, il direttore scientifico dello Spallanzani, membro del Comitato tecnico-scientifico che consiglia il ministero. Interpellato dal Fatto sulla commessa all’ozono, è colto di sorpresa: “Non ne so niente, di certo non è iniziativa mia. Mi pare chiaro che a far fede è quanto scritto sul sito del ministero: non si tratta di un disinfettante approvato”. A che servono i consulenti se non li si ascolta?

Sui monopattini tre incidenti in 24 ore “Rendere obbligatorio l’uso del casco”

La mobilità del futuro fa i conti con una realtà durissima: i troppi incidenti, oltre 40, avvenuti nel 2020 sui monopattini, di cui la maggior parte dopo la fine del lockdown e gli ultimi tre nelle ultime 48 ore, con una ragazza in prognosi riservata al Niguarda di Milano. Ma c’è già anche la prima vittima in Italia. Lo scorso 16 giugno è morto un uomo investito da un’auto la cui conducente è indagata per omicidio stradale. “Per un parco circolante di 60 mila monopattini sono numeri che devono far riflettere. Che succederà quando ne circoleranno 500.000 complice i numerosi operatori che li offrono in condivisione e il bonus mobilità da 500 euro? ”, si chiede il presidente dell’associazione Amici e sostenitori della polizia stradale (Asaps), Giordano Biserni. Veicoli che dallo scorso marzo sono stati equiparati alle biciclette e, quindi, non sono soggetti a targa e assicurazione. Gli unici requisiti sono legati ai limiti di velocità (25 km/h sulla carreggiata e 6 nelle aree pedonali). L’Asaps continua a richiedere che venga reso almeno obbligatorio l’uso del casco.

Nei lidi vip, lettini e ombrelloni più cari fino al 25%

A oltre un mese e mezzo dall’avvio della stagione balneare, l’annosa questione su quanto sia ragionevole aumentare le tariffe degli stabilimenti per rifarsi dei costi di sanificazioni e di distanziamento sembra evidente: sono i lidi “vip”, quelli dove già si spendevano oltre 100 euro al giorno per due lettini e un ombrellone, ad aver ritoccato al rialzo i prezzi con aumenti che oscillano fra il 10% e il 25%. A fare i conti per i bagnanti è l’Istituto ricerche sul consumo ambiente e formazione (Ircaf) su una 50 stabilimenti nelle due settimane centrali luglio e agosto delle località più rinomate.

Così, se per la maggior parte degli stabilimenti si registrano aumenti medi del 4/5% in queste settimane e fino al 10% ad agosto, con una spesa media di 26,77 euro, è in una decina di strutture che gli aumenti sono esorbitanti. Per un giornaliero si va dai 120 euro a Porto Cervo in agosto, agli 80 euro di Punta Ala, ai 50 euro di Alghero e ad Amalfi e ai 40 euro di Milano Marittima. Si tratta degli stabilimenti che per oltre 4 mila metri quadrati di superficie, e fatturati milionari, pagano meno di 15 mila euro l’anno di canone demaniale allo Stato grazie all’affossamento della direttiva Bolkestein. L’ultimo aiuto della politica è arrivato con il dl Rilancio nelle scorse settimane che, nonostante i dubbi della Ragioneria dello Stato, ha confermato la proroga al 2033 delle concessioni.

Sono gli stabilmenti che si trovano sul mare Adriatico/Ionio a proporre tariffe di 20 euro al giorno, contro i lidi della costa tirrenica/ligure che praticano prezzi significativamente più elevati: 31,62 euro medi giornalieri e 213 euro settimanali, con punte del 60% in più per il giornaliero e dell’83% per il settimanale.

Insomma, restano enormi introiti per i proprietari degli stabilimenti, spese sempre più alte per gli utenti e briciole per lo Stato.

Il filonazi Samonà scivola sulla copia e sul capitello

Due comunicati entusiasti, il primo per festeggiare “l’eccezionale ritrovamento” di un capitello greco a Gela, durante i lavori di sistemazione della rete elettrica, il secondo per annunciare il restauro del Telamone, antico gigante in pietra realizzato dai greci, ospitato ad Agrigento nel tempio di Zeus rischiano di arricchire la collezione di gaffe del neo assessore alla Cultura e all’Identità siciliana Alberto Samonà, sottoposto ai rilievi di archeologi e docenti universitari a un mese dalle polemiche provocate dalle sue poesie inneggianti le Ss di Hitler.

Il capitello, secondo il presidente di Italia Nostra Sicilia Leandro Janni, è solo “un mediocre manufatto che risale al secolo scorso, modulo e plastica si discostano nettamente dai modelli greci’’. Per restaurare quel Telamone, informava una nota del Parco Archeologico della Valle dei Templi, oggi la Sicilia spende mezzo milione di euro: “Peccato – ha scritto su Facebook il ricercatore catanese Dario Stazzone, che di Samonà ha chiesto le dimissioni – che il Telamone è una copia degli anni Sessanta e l’originale si trovi già, in posizione eretta, nella sala Cavallari del Museo Archeologico Regionale Pietro Griffo’’.

La vicenda è finita in un’interrogazione parlamentare del deputato regionale grillino Giovanni Di Caro, cui Samonà ha risposto accusandolo di diffondere fake news, subito dopo la correzione del comunicato da parte della sovrintendenza di Agrigento: l’intervento non riguarda la copia ma “più di 90 frammenti che, per dimensioni e forma, appartengono chiaramente alle sculture del tempio, tra cui blocchi provenienti da almeno otto diversi telamoni’’. Un restauro che “ha contorni peggiori di quello che si era appreso in un primo momento”, ha commentato su Facebook Stazzone, parlando di “modello disneyano’’ di turismo archeologico.