Si aggirava sereno e beato per le strade del quartiere più “in” di Berlino, il golpista argentino Luis Esteban Kyburg. Proprio come avevano fatto specularmente i suoi ispiratori nazisti, tra cui Josef Mengele e Adolf Eichmann, nelle vie delle città argentine dove avevano cercato di camuffarsi per tentare di sfuggire al giudizio della Storia. Kyburg, ex ufficiale della marina titolare anche di passaporto tedesco, è accusato di crimini per violazione dei diritti umani durante la sanguinosa dittatura argentina del 1976-83. Kyburg è tuttora oggetto di un mandato di arresto internazionale. A snidarlo sono stati i reporter del tabloid Bild che mai avrebbero pensato di scovarlo a Friedrichshain, uno dei quartieri più alla moda. Kyburg è stata una figura di spicco della dittatura fascista argentina e a un certo punto svolse la funzione di comandante di un’unità della marina ritenuta responsabile della morte di almeno 150 persone. Bild ha girato anche un video in cui l’ex ufficiale afferma: “Sto aspettando qui perché la Corte di riferimento per il mio caso è in Germania, non in Argentina. Sto aspettando tranquillo, senza nascondermi e senza paura perchè sono innocente”. Il presunto carnefice è fuggito a Berlino 7 anni fa dopo che alcuni membri della task force militare a cui apparteneva erano stati condannati dal tribunale di Buenos Aires. Si ritiene che circa 30.000 persone siano state assassinate dalla dittatura argentina, molte delle quali gettate vive da aerei militari nell’Atlantico meridionale. Anais Marocchi, sorella di una delle presunte vittime di Kyburg, ha chiesto alla Germania di consegnarlo alla giustizia. “Sono venuta in Germania in cerca di giustizia per mio fratello”, ha detto Marocchi in un video pubblicato venerdì dal Centro europeo per i diritti costituzionali e umani (ECCHR), un’organizzazione per i diritti umani con sede a Berlino. “In Argentina, Luis Kyburg, che condivide la responsabilità dell’omicidio di mio fratello, sarebbe stato condannato molto tempo fa. Spero che il sistema giudiziario tedesco lo punirá per i suoi crimini”. Gli inquirenti ritengono che Omar Marocchi sia stato ucciso nel 1976 nella città di Mar del Plata da un’unità navale il cui vice comandante all’epoca era Kyburg. Il giovane attivista è scomparso assieme alla sua compagna, Susana Valor, incinta di tre mesi. Le donne incinte venivano spesso tenute in vita fino al parto e quindi uccise mentre i loro bambini venivano generalmente consegnati alle famiglie dei militari per essere cresciuti secondo i precetti del nazismo in salsa sudamericana. La figlia di Valor è nella lista dei nipoti cercati dalle nonne di Plaza de Mayo, un’organizzazione di donne i cui figli sono desaparecidos così come i nipoti . Le “abuelas” finora sono riuscite a rintracciarne 130 .
Tutti spiati su Whatsapp. La Nso andrà in tribunale
Si chiama Phyllis Hamilton, è un giudice di una Corte distrettuale californiana, e ha stabilito che la causa intentata da Whatsapp e Facebook contro Nso Group, società israeliana che produce software di sorveglianza per telefonini, può procedere, respingendo la richiesta israeliana di archiviare. È una decisione dalle ripercussioni globali. Ecco perché.
Nel 2019 Facebook aveva fatto causa a Nso Group, accusandola di aver sfruttato una vulnerabilità di WhatsApp per installare il proprio programma Pegasus sui telefonini di 1.400 fra giornalisti, attivisti dei diritti umani, dissidenti politici e funzionari pubblici in paesi non democratici. Un volta installato, Pegasus ruba i dati personali dell’obiettivo, fra cui le su password, email, contatti telefonici, localizzazione, cronologia internet, messaggi di testo e chiamate tramite la app di messaggistica. Fornisce insomma, se siete un attivista osservato speciale del vostro governo, tutte le informazioni utili a trovarvi, identificare i vostri contatti, pedinarvi. Lo stesso succede se siete un terrorista o un narcotrafficante. Uno smacco per Facebook, che si è vista hackerare una app competitiva proprio perché promette privacy e sicurezza. Nso si è difesa dicendo di vendere la propria tecnologia a governi e servizi di sicurezza per attività anti-terrorismo e anti-criminalità, e di non essere responsabile di eventuali abusi contro i diritti umani.
Ma il giudice ha obiettato: l’attività di sorveglianza sarebbe partito dai server di Nso, non da quelli dei governi incriminati e si è detta convinta che il gruppo abbia avuto “un ruolo nel prendere di mira certi individui, anche se solo come esecutore delle direttive dei suoi clienti”. Quali clienti? Nel settembre del 2018 una inchiesta di Citizen Lab ha creato una mappa della diffusione di Pegasus: 45 i paesi, fra cui Messico, Marocco, Arabia Saudita e altri paesi del Golfo. Uno degli obiettivi sarebbe Omar Abdulaziz, molto vicino a Jamal Khashoggi, il giornalista del Washington Post massacrato nell’ottobre 2018 da un commando governativo nel consolato saudita in Turchia. Ma ci sono anche una decina di giornalisti indiani, attivisti marocchini, dissidenti ruandesi riparati in Europa e, come scoperto dal Guardian, anche figure importanti del movimento indipendentista catalano. E perfino Jeff Bezos, proprietario del Washington Post, a cui il programma di malware sarebbe stato inviato dal numero personale del principe saudita Mohammed bin Salman cinque mesi prima dell’omicidio Khashoggi. Il bottino sarebbe stato, fra l’altro, una serie di foto compromettenti con l’amante la cui pubblicazione ha provocato il divorzio miliardario di Bezos; una vicenda su cui indaga l’Fbi, con il sospetto che sia stato Salman a ricattare Bezos per mettere a tacere le inchieste del dissidente Kashoggi, prima di ricorrere alla soluzione definitiva di farlo sparire.
Nso Group ha dichiarato: “Il nostro team legale sta ancora valutando la decisione del giudice, e non siamo per il momento in grado di commentarla. La nostra tecnologia viene utilizzata per salvare vite e prevenire terrorismo e crimine in tutto il mondo, e restiamo convinti che il nostro operato sia legale”. È una bomba già così, ma il meglio deve ancora venire: ora che si va a processo Facebook puo richiedere documenti, prove, registrazioni, dati dai server Nso. C’è l’ipotesi di un accordo che eviti di far lavare i panni sporchi in pubblico: ma Facebook è piu potente di parecchi di quei governi e in un periodo in cui è sotto attacco da parte del movimento Black Lives Matter che lo accusa di non fare abbastanza per fermare il razzismo e per lo stesso motivo è oggetto del boicottaggio di alcune centinaia di società che hanno ritirato gli investimenti pubblicitari a luglio, è improbabile che si faccia sfuggire l’occasione di essere vista dalla parte delle vittime di abusi dei diritti umani.
Nantes e il falò delle polemiche
Ipotesi privilegiata dagli investigatori: qualcuno ha voluto dare fuoco alla cattedrale Saint-Pierre-et-Saint-Paul di Nantes. Per questo, si indaga per azione dolosa. L’incendio si è scatenato nella prima mattinata di ieri. Delle lingue di fuoco, poi un fitto fumo nero, sono usciti dal rosone, al centro dei due campanili. Ci sono volute tre ore per i pompieri, un centinaio, per contenere e spegnere l’incendio. Secondo il procuratore Pierre Sennès, che segue l’inchiesta, a scatenare l’incendio non sarebbe stato un incidente, ma un atto intenzionale. La pista criminale è privilegiata essenzialmente per un motivo: i primi rilievi hanno mostrato la presenza di tre focolai, uno a livello dell’antico organo, gli altri ai due lati della navata. Il fuoco è cioè partito da tre punti diversi: “Non può essere stato il frutto del caso”, ha detto il procuratore.
Le fiamme che uscivano dalla cattedrale di Nantes hanno fatto pensare naturalmente al drammatico incendio della cattedrale Notre-Dame, a Parigi, dell’aprile 2019. È stato lo stesso Emmanuel Macron a fare il legame: “Dopo Notre-Dame, la cattedrale di Saint-Pierre-et-Saint-Paul, nel cuore de Nantes, è in fiamme. Sosteniamo i nostri vigili del fuoco che prendono tanti rischi per salvare questo gioiello gotico della Città dei Duchi”, ha scritto il presidente su Twitter. Ma le circostanze sono diverse. Non c’è lo stesso impatto emotivo e, nel caso di Notre-Dame, l’inchiesta, ancora in corso un anno dopo, sembra privilegiare la causa accidentale, forse legata al cantiere di restauro della guglia che era appena iniziato. Si sa che nella cattedrale di Nantes non c’erano lavori in corso. I danni sono ingenti. La chiesa, dichiarata monumento storico dal 1862, è un edificio gotico di rilievo. Fu costruita in più di 400 anni, tra il 1434 e il 1891. Le perdite più gravi riguardano il grande organo barocco, che era nella chiesa dal Seicento e aveva resistito alla Rivoluzione e alla Seconda guerra mondiale, e le vetrate del XVI secolo. Il fumo ha anche danneggiato le opere d’arte conservate all’interno. Ma l’incendio, a differenza di Notre-Dame, non ha intaccato la struttura dell’edificio. Né ci sono stati danni al tetto: la capriata originale era già andata persa in un devastante incendio del 1972, ed era stata ricostruita in parte in cemento. Si sono salvate inoltre “per un soffio” le tombe rinascimentali del duca Francesco II di Bretagna e della moglie Margherita di Foix. Ieri a Nantes sono arrivati i periti del laboratorio scientifico di Parigi e starà a loro ricostruire l’origine e l’evoluzione dell’incendio. Gli inquirenti hanno a loro disposizione le immagini delle telecamere di video sorveglianza. Qualcuno di sospetto è entrato nella chiesa o si è aggirato nei suoi dintorni nelle ore che hanno preceduto il rogo? Padre Hubert Champenois, rettore della cattedrale, ha detto ieri che “tutto era in ordine” nella chiesa dopo “l’ispezione precisa” che svolge tutte le sere prima di chiudere, alle 19. La mattina riapre la chiesa alle 8. Le prime fiamme sono state viste alle 7:45 da alcuni passanti che hanno dato l’allarme e chiamato i pompieri. Qualcuno si è introdotto nell’orario di chiusura? Stando al procuratore non ci sono segni di effrazione. Allora qualcuno si è fatto chiudere dentro la sera prima? Non si può escludere. Nantes (nord-ovest) è una città dall’apparenza borghese, con le sue strade dai palazzi eleganti e il castello dei duchi di Bretagna, ma negli ultimi anni qui la delinquenza è cresciuta a un ritmo molto più importante che in altre città francesi. Non è Marsiglia, ma nel 2019, in 68 regolamenti di conti, su sfondo di traffici di droga, sono morte tre persone. Aumentano furti, aggressioni e rapine in pieno centro. Ma non si può escludere neanche che il fuoco sia partito dalle installazioni elettriche della cattedrale: una foto scattata dai vigili del fuoco ieri, dopo l’incendio, mostra un quadro elettrico completamente bruciato.
I media francesi hanno ricordato che il 30% degli incendi che si verificano ogni anno nelle cattedrali in Francia sono dovuti a impianti elettrici difettosi. Un “piano sicurezza cattedrale” era stato lanciato del resto lo scorso anno proprio dopo il dramma di Notre-Dame, dove è messo in questione il funzionamento del dispositivo anti-incendio, per verificare i sistemi di sicurezza delle 86 cattedrali di cui lo Stato francese è proprietario. Sono stati stanziati due milioni di euro per il 2020, che si aggiungono ai 40-45 milioni che ogni anno sono destinati alla conservazione delle cattedrali. Insufficiente per molti esperti. Dall’estrema destra invece emerge un’altra ipotesi: e se chi ha acceso il fuoco a Nantes avesse voluto compiere un atto anti-cristiano? “Non trovate che gli edifici cristiani stiano bruciando troppo in questi ultimi tempi?” ha scritto su Twitter il deputato Gilbert Collard. La questione era stata già sollevata anche lo scorso anno e anche prima dell’incendio di Notre-Dame, perché, nel mese di marzo, aveva preso fuoco anche la chiesa di Saint-Sulpice, sempre a Parigi. Il ministero degli Interni aveva rivelato all’epoca dei dati: più di mille “atti anticristiani”, essenzialmente profanazioni di chiese, vengono registrati ogni anno in Francia. Un tema su cui, secondo Nicolas Dupont-Aignan del partito di estrema destra Debout la France, sentito ieri da BFM tv, c’è “troppa omertà”.
Diluvia su Palermo e giugno è tra i più caldi di sempre
In Italia – Violenti temporali hanno costellato l’ultima settimana di variabilità. Nella notte tra venerdì 10 e sabato 11 luglio rovesci torrenziali in Alto Adige (51 mm a Vipiteno: in poche ore, metà della pioggia normale del mese), colata detritica a San Vigilio di Marebbe. Sabato 11 nel pomeriggio una tempesta con grandine e vento ha attraversato la Valpadana infuriando con inconsueta intensità a Brescia, tetti scoperchiati e strage di alberi per le raffiche a 130 km/h. Martedì 14 raro tornado estivo a Mineo (Catania), danni a edifici, poi mercoledì a Palermo un nubifragio eccezionale quanto localizzato e imprevisto ha rovesciato fino a 134 mm d’acqua in un paio d’ore al Parco Uditore, quantità che rappresenta un quinto della pioggia media annua e che supererebbe il record giornaliero storico di 120 mm del 10 ottobre 1857 all’osservatorio presso il Palazzo dei Normanni, distante 3 km (dati dal 1797), dove però stavolta sono caduti “solo” 74 mm. In ogni caso si tratta di un primato per luglio, mese solitamente secco in Sicilia. Una tale quantità d’acqua, con il concorso del suolo cementificato e privo di efficaci reti di drenaggio, ha causato un’alluvione urbana che ha sommerso decine di automobili, ma senza vittime. Il Cnr-Isac ha diramato le statistiche di un giugno di temperature finalmente normali nell’insieme del Paese, dopo dodici mesi consecutivi troppo caldi.
Nel mondo – Mentre gran parte d’Europa vive un’estate un po’ sotto tono, la calura avvampa nella penisola iberica. Venerdì temperature massime di 42,2 °C a Badajoz (Estremadura) e 43,9 °C a Santarém (Portogallo), e continua. Caldo intenso anche dal Sud-Ovest degli Usa (40-44 °C dal Nevada al Texas) al Canada. Buffalo (New York) per la prima volta in un secolo e mezzo ha rilevato più di 32 °C per 8 giorni consecutivi, e le acque dei Grandi Laghi hanno temperature da record, fino a 26 °C nel caso del Lago Erie, come i mari della Sicilia in questi giorni! Vasti incendi in Colorado e California. Alluvioni in Colombia e nello stato del Rio Grande do Sul (Brasile), ma è ancora l’Asia a essere tra le aree più funestate da inondazioni, in Pakistan, India, Bangladesh, Cina (38 milioni di evacuati da giugno!), Corea del Sud e Indonesia. Colpita inoltre la Turchia settentrionale in due episodi il 12-14 luglio (almeno 3 morti e svariati dispersi). L’agenzia meteo americana Noaa conferma che giugno 2020 è stato uno dei più caldi al mondo, al terzo posto in 140 anni di misure con 0,95 °C sopra media (dopo giugno 2016 e 2019). Il gruppo di ricerca World Weather Attribution ha stabilito che l’eccezionale anomalia calda che da sei mesi interessa la Siberia con oltre 5 °C sopra media, inclusi gli incredibili 38 °C misurati a Verkhojansk il 20 giugno, non sarebbero potuti avvenire in un clima normale, non alterato dai cambiamenti climatici di origine umana, come valutato anche per altri estremi recenti, dalle canicole del 2018 e 2019 in Europa agli incendi di fine 2019 in Australia. Intanto le nuove previsioni climatiche globali del Metoffice per i prossimi 5 anni dicono che saremo sempre più vicini a 1,5 °C di aumento termico dall’era preindustriale, soglia che l’Accordo di Parigi invocherebbe di non superare. È già troppo tardi? Non c’è da stare allegri, anche alla luce dei nuovi dati sul metano in atmosfera, secondo gas serra per importanza dopo la CO2 e responsabile di un quarto del riscaldamento globale osservato finora: una novantina di ricercatori, aggiornando il “Global Methan Budget”, hanno calcolato che le emissioni nel periodo 2008-2017 sono aumentate del 5% rispetto al decennio precedente, e la concentrazione ha toccato un nuovo record di oltre 1850 parti per miliardo, due volte e mezzo rispetto all’era preindustriale.
Il male va combattuto senza farsi prendere dal “furore” della purezza
Ogni storia ha il suo insegnamento. È il caso di questa parabola di Gesù: “Un uomo aveva seminato buon seme nel suo campo. Mentre dormiva, venne il suo nemico e seminò le zizzanie in mezzo al grano. Quando l’erba germogliò, apparvero anche le zizzanie. E i servi del padrone di casa vennero a dirgli: ‘Signore, non avevi seminato buon seme nel tuo campo? Come mai c’è della zizzania?’. Egli disse loro: ‘Un nemico ha fatto questo’. I servi gli dissero: ‘Vuoi che andiamo a coglierla?’. Ma egli rispose: ‘No, affinché cogliendo le zizzanie, non sradichiate insieme con esse il grano. Lasciate che tutti e due crescano insieme fino alla mietitura; e, al tempo della mietitura, dirò ai mietitori: Cogliete prima le zizzanie, e legatele in fasci per bruciarle; ma il grano, raccoglietelo nel mio granaio’” (Matteo).
L’insegnamento immediato è che non bisogna mai affrettare il giudizio (“Non giudicate anzitempo”, scrive l’apostolo Paolo in I Corinzi). Soprattutto non il giudizio di Dio perché il tempo del pentimento non è ancora scaduto (Luca). I giudizi affrettati molto spesso non fanno giustizia e provocano più danni di quelli che vogliono risolvere. C’è però un altro livello di insegnamento in questa parabola e riguarda un’obiezione che tutti conosciamo: se Dio esiste e ha creato il mondo, perché c’è il male? E se Gesù è venuto per sconfiggere il male, perché esso continua a scatenarsi come se nulla fosse? Il testo risponde così: il padrone del campo (Dio) non è all’origine del male, è il suo nemico che l’ha seminato. C’è un altro che si adopera per danneggiare la buona opera di Dio, altri sono all’origine del male e del peccato. E allora: chi è l’avversario? Chiunque si oppone alla buona semina, chiunque rovina e danneggia ciò che c’è di buona nel creato. Chiamatelo come volete: il Male o il Tentatore o Satana o semplicemente la natura umana, ciò che conta è che non alberga nella mente di Dio o nelle sue mani.
Il padrone del campo, inoltre, non vuole che i suoi servitori sradichino le zizzanie perché potrebbero danneggiare anche il grano. Se vi è una distruttività del male, vi è anche una distruttività nel combattere il male. Questo non significa che non ci si debba opporre al male, anzi, ma bisogna stare molto attenti a non farsi prendere dal sacro furore della purezza (come è accaduto e accade alle varie inquisizioni, religiose e politiche) che confonde il proprio giudizio con quello di Dio. Bisogna invece applicarsi – come ha fatto la cultura giuridica dell’umanità, anche in campo religioso (almeno in Occidente) – a contrastare il male con misure, procedure e criteri equi e ragionevoli. Possibilmente per guarire e non per distruggere.
C’è infine un altro livello di insegnamento che riguarda il tempo del giudizio di Dio, giudizio che si suppone (e si spera) definitivo. La domanda è: perché tarda? Domanda antica: “Fino a quando gli empi, o Signore, trionferanno?” (Salmo). La risposta è delicata. Le parole vanno maneggiate con cura perché è altissimo il rischio di far danni con supposizioni basate sulla logica, anche teologica. Ci sono ambiti, infatti, che restano oscuri alla nostra ragione e sensibilità, come la mente umana e come la mente di Dio. Ma possiamo dire così: in questo tempo in cui il giudizio di Dio ci appare in ritardo c’è comunque la possibilità di convertirsi dal male al bene. Bisognerebbe concentrarsi su questo, sulla conversione, invece che sullo scandalo, comprensibile, che ciò che ci si aspetta debba accadere invece non accade o non sempre o non abbastanza in fretta.
* Già moderatore della Tavola Valdese
L’Italia riparte: va in Libia a fermare i migranti
Forse nelle aride pianure delle cinque Libie, che l’Italia di Mussolini credeva fossero la “quarta sponda” dell’impero, gira la leggenda della “maledizione di Gheddafi”. Racconta di una trappola che inghiotte l’Italia ogni volta che tenta un ritorno, e la riduce al livello degli assassini delle bande armate con cui va per sapere quante altre navi occorrono per catturare schiavi da rinchiudere in prigioni disumane.
Non so se c’è davvero la “maledizione di Gheddafi”, scardinato dal potere e dalla vita subito dopo il trionfale attendamento nella stessa villa di Mussolini. Ma ciò che accade in Libia spiega che non avremo mai una risposta per Regeni in Egitto – dove abbiamo piazzato un risoluto ambasciatore – e che persino ragazze sprovvedute come Silvia Romano, se vogliono tornare a casa, devono liberarsi da sole. La nostra immagine è sfuocata e poco distinguibile, in un mondo sconvolto da venti di guerra, crudeltà e sterminio. Non abbiamo mai un ruolo esemplare. Siamo strani compagni di strada che si associano nel sostenere comportamenti selvaggi e disumani in cambio di poco, salvo gli affari. Soprattutto siamo un Paese che non vede il mondo, non sa niente (e non vuole sapere niente) fuori dai territori delle elezioni regionali e comunali in Italia.
Dunque c’è una doppia sfuocatura. Noi non vediamo (o capiamo) niente di loro (in questo caso la ex Libia) e loro non vedono e non trovano ragioni per prestare attenzione a noi. Se vogliamo dar loro nuove motovedette dal costo, ciascuna, di una scuola di provincia o di un presidio sanitario, le prendono. Tutto fa comodo per uccidere. Ma i vari frammenti della ex Libia le vere armi le ricevono dalla Turchia, i mercenari sono a spese della Russia, il danaro, in misura adeguata, arriva dagli Emirati Arabi Uniti. Perché allora abbiamo mandato una signora per bene, che in Italia fa il ministro dell’Interno, a trattare una gravissima questione di politica estera senza dotarla di un progetto, di una strategia, di una visione, di una chiara e risoluta posizione italiana? Come si vede la politica estera italiana è una tela di sacco piena di buchi e il ministro degli Esteri preferisce non metterci mano. Rischia solo di parlare a leader di bassa lega, che restano sempre voltati dalla parte dei veri benefattori che garantiscono guerra e dominio del Mediterraneo: Erdogan (che parla trionfalmente di “Mezza Luna Blu” come simbolo del nuovo dominio del mare); la Russia, che non ha timidezze quanto a nuove armi e nuovi soldati tratti dal mercenariato internazionale; gli Emirati, che hanno capito dove accumulare l’immondizia delle guerre di cui sono partner silenziosi negli altri orrori del Medio Oriente.
Questo vuol dire che Governo e Parlamento italiano (più o meno tutti, come si è visto nella votazione alla Camera di mercoledì scorso) pensano che sia una buona idea far finta che la Corte costituzionale non abbia cancellato la ignobile “legge sicurezza” di Salvini. Vuol dire aver deciso (noi, il Paese degli italiani cristiani e buoni) che un problema come quello dei profughi (non importa se appena sfuggiti a strage di bombe) non si risolve nel mondo civile. Si risolve fermando fuori dal mondo civile, in Libia, ogni essere umano in cerca di salvezza. E pazienza se la sosta comporta quindici giorni di cadavere in acqua per chi si intestardisce a prendere il “taxi del mare”. Gli altri vedono e imparano.
È triste che di una persona seria e professionalmente capace come la ministra dell’Interno si dica che “è stata mandata per concordare il controllo del flusso migratorio”, che vuol dire morte, cattura e prigione a vita, dotata dei servizi di tortura e di stupro. Ovvero si fa ricominciare la storia nel punto in cui la Corte costituzionale l’aveva sdegnosamente dichiarata del tutto fuori dalla Costituzione. Si saranno alzati un po’ i prezzi dei mercanti di morte libici. Ma nel frattempo abbiamo avuto occasione di constatare che, se chiamati dai telefoni di gente che affoga o di gente che cerca di salvare, i centralini della Guardia costiera italiana non rispondono più. Per l’uomo che è morto legato al relitto di una barca affondata non hanno risposto per quindici giorni. Nonostante ciò, siamo certi che l’incredibile incontro con i leader libici si sarà concluso con una dotazione di più soldi e più motovedette armate, ma anche con una raccomandazione calda e umana per i catturati dai libici dotati di navi italiana: “Mi raccomando, me li tratti bene”. I libici non ridono quando si tratta di business, e se il cliente italiano insiste vuol dire che va bene così. Sarà felice o infelice Salvini nel constatare che il suo lavoro, interrotto dalle sue strane dimissioni, si sta finalmente realizzando, anche se tocca a un’altra maggioranza dichiarare che “la pacchia adesso è davvero finita”?
Sansa c’è, ora però va appoggiato
“È il meno peggio”.
Beppe Grillo sulla candidatura di Ferruccio Sansa in Liguria
Premessa uno.Considero Ferruccio Sansa un eccellente giornalista, una persona molto per bene, un amico vero. Premessa due. Quando Ferruccio mi parlava della candidatura che gli veniva offerta, non ero contento. Non provavo a dissuaderlo (ho troppo rispetto per lui) però gli consigliavo molta attenzione. Facciamo il mestiere più bello del mondo, dicevo, nel giornale orgogliosamente libero che abbiamo contribuito a creare. La politica è un’altra cosa, la conosco bene perché cerco di raccontarla, nel bene e nel male, da tempo immemorabile. È un mondo con logiche e regole che poco hanno a che fare, per esempio, con la gioia un po’ ribalda di quando ci mettiamo a scrivere di certi papaveri al potere. Perché, se accetti di candidarti, da domani con molti di quei papaveri sarai costretto a fare i conti, e forse non ti piacerà perché tu sei e resterai diverso da essi. Tutte cose che Ferruccio conosce benissimo ma che non gli hanno impedito di andare avanti malgrado tutto e tutti (e i miei consigli non richiesti). Con il coraggio e la generosità che probabilmente non mi appartiene, preso come sono da quel narcisismo comune a tanti di noi, di chi le partite preferisce descriverle piuttosto che giocarle. Ma adesso che Ferruccio è sceso in campo definirlo “il meno peggio”, per dirla con Fouché, è peggio di un delitto e tre volte un errore. Primo, perché Sansa è di gran lunga il migliore candidato possibile del fronte progressista in Liguria. Il solo in grado di tenere insieme un arco di forze che vanno dai 5 Stelle alla sinistra passando per i tanti, diversi Pd in guerra permanente. Secondo, perché Sansa conosce come pochi il territorio che, come speriamo, presto sarà chiamato a governare. Un profilo di competenza e passione civile costruito nel tempo attraverso le centinaia di articoli a sua firma e (un titolo tra tanti) con il libro: “Il partito del cemento” (scritto con Marco Preve). Terzo, perché chiamato a competere con il temibile candidato del centrodestra, Giovanni Toti, che negli anni della sua presidenza ha organizzato una formidabile macchina da guerra clientelare (per non dire altro), Sansa ha bisogno di tutto il sostegno possibile. Senza se e senza ma. Oltre a spianare la strada a Toti (come la volta scorsa quando le divisioni del centrosinistra lo videro vincitore contro ogni pronostico), la politica del braccino corto rischia di compromettere soprattutto una speranza collettiva. E non soltanto in Liguria. Giocare a perdere questa volta sarebbe davvero imperdonabile.
Antonio Padellaro
Mail Box
Tradito da Scalfari e Prodi, mi fido di Conte
Trovo quanto mai opportuno il comunicato di Giustizie e Libertà, che avete pubblicato qualche giorno fa. Mi sono a suo tempo sentito tradito da Scalfari. A maggior ragione tradito da Prodi, avendo creduto e militato nella fase iniziale dell’Ulivo, mentre in Giuseppe Conte ritrovo un leader che può ridarci prestigio e dignità.
Enrico Carabelli
Quando i ricchi piangono tutti porgono fazzoletti
Le autostrade potrebbero tornare ai Benetton, se il governo torna alla destra. E il governo potrebbe tornare alla destra, se alle elezioni regionali di settembre Salvini, Meloni e Berlusconi ottenessero una vittoria in Liguria e in Puglia, le due Regioni più in bilico. Magari con l’aiutino di Renzi, che candida Scalfarotto, come Jep Gambardella, non per vincere, ma per far fallire Emiliano. Quindi la “partita” con la casata di Ponzano Veneto non è ancora terminata. E le lobby non stanno a guardare. Anzi, con i loro giornali, hanno già iniziato l’opera di restauro della reputazione dei Benetton. Lo si vede in interviste che hanno lo sfacciato intento di farli apparire vittime del crollo del ponte di Genova, dopo che non lo hanno impedito, lesinando in manutenzione per incassare dividendi esorbitanti. Ma si sa, quando i ricchi piangono, è tutta una corsa a porgere fazzoletti. Poi, dopo aver tamponato le prime lacrime, entrano in azione i riabilitatori professionali. Ne abbiamo di validissimi, capaci anche di rimettere a nuovo un para-mafioso, frodatore, in avanzato stato di corruzione. Rimaniamo vigili.
Massimo Marnetto
Il Maestro Camilleri mio “compagno” di liceo
Con affetto e gratitudine voglio ricordare il “nostro” Camilleri, che tanto ci ha dato con le sue parole, regalandoci a ogni scritto una nuova prospettiva per cercare di capire l’essere umano, nel senso nobile del termine. Ho vent’anni e i suoi libri mi accompagnano dal Liceo. Ovunque tu sia, Maestro, un abbraccio.
Giovanni
Dal Morandi al Covid, i danni dei privati
Il coronavirus nella sua negatività ha qualche positività: ha squarciato il velo del racconto fasullo e interessato di chi da anni convince un popolo credulone che solo dal privato si hanno i servizi migliori e più efficienti. Là dove la sanità è stata spinta verso una fortissima privatizzazione, come in Lombardia, la cittadinanza è divenuta martire e ha tardivamente capito l’inganno del racconto politico. La tragedia del ponte Morandi ha messo crudamente a nudo la falsa propaganda che l’efficienza arrivava dal privato e che bisognava accettare, in nome di essa, tariffe annuali sempre più alte. Conclusione: i privati interessati al proprio personale lucro hanno mangiato a sbafo a nostre spese lasciandoci i rottami di una rete stradale inefficiente.
Barbara Cinel
Le vere riforme che servono al Paese
Sul dibattito europeo sul Recovery Fund apprendo che i Paesi “frugali” in cambio chiedono piani di riforma. Non ho capito però di quali riforme si tratti. Forse, ad esempio, quella del processo civile, che tanto disincentiva a investire in Italia? Forse del processo penale o della prescrizione, che tanto favoriscono i reati dei colletti bianchi? Forse una riforma che impedisca ai partiti di occupare le Istituzioni? Forse una riforma sul conflitto di interessi? O sulle concessioni pubbliche? O a tutela dell’ambiente e del territorio contro la cementificazione e gli abusi edilizi? O una riforma che impedisca condoni fiscali? Se si trattasse di riforme di questo tipo, vorrei abbracciarli e ringraziare questi Paesi “frugali”. Temo però che non sia nulla di tutto questo, ma che si pretendano solo i soliti tagli alla scuola, alla sanità, alle pensioni eccetera. In sostanza temo che ciò che interessa siano solo i meri numeri dei bilanci, stile Troika.
Alfonso Di Domenico
L’ultima pagliacciata di Trump con i fagioli
Non si era mai visto e non era nemmeno immaginabile: il presidente degli Stati Uniti, “l’uomo più potente del mondo”, seduto alla scrivania della Stanza Ovale della Casa Bianca fa la réclame di una marca di fagioli in barattolo. Da decenni si parla, a volte a sproposito, del “declino dell’Impero americano”: credo che l’immagine di Trump con i fagioli segni un punto di caduta dal quale sarà difficile riprendersi. Come abbia potuto, un essere del genere, rozzo oltre ogni plausibile tolleranza, diventantare il capo della maggiore potenza mondiale è “la domanda delle domande”. Gli Stati Uniti possono ancora essere considerati il “faro” del mondo occidentale? L’Europa, con tutti i problemi e le divisioni che la affliggono, farebbe bene a smarcarsi il più possibile da un “alleato” che sta dimostrando sempre meno amicizia e praticamente nessuna affidabilità.
Mauro Chiostri
Molte donne scambiano l’istrionismo con l’amore: così vanno con gli stronzi
Dalle fiabe apocrife di Cao Xueqin. Due rane caddero in un grande recipiente pieno di latte. Dopo qualche tentativo di uscirne, una disse: “Le pareti sono troppo lisce, la forza di propulsione delle mie zampe moltiplicata per il logaritmo di…”; e fatti dei calcoli complicatissimi che la convinsero dell’inutilità di ogni tentativo di salvezza, si lasciò morire. L’altra rana non fece calcoli, ma si agitò di qua, di là, in ogni senso, come una forsennata, facendo i movimenti più assurdi, violando ogni legge matematica. E a furia di fare movimenti disordinati, il latte si condensò, e lei si trovò su un panetto di burro, da cui le fu facile spiccare un balzo fuori.
Dai bloc-notes apocrifi di Raffaello Matarazzo. In una famiglia sottoproletaria, il medico diagnostica a una bimba la difterite e sta per praticarle la laringotomia che potrebbe salvarla. Mentre sta per incidere la gola, salta la luce e la stanza piomba nel buio. Manca la corrente. Passano cinque minuti, la bimba muore. Dopo mezz’ora rientra il padre, un esaltato, che dice alla moglie: “Abbiamo buttato una bomba contro la centrale elettrica! La città è al buio!” E la moglie: “Lo so. Hai anche ucciso tua figlia.”
Dal diario apocrifo di Curzio Malaparte. Antica favola persiana: “La giovane principessa era al circo, nel palco d’onore, in compagnia del fidanzato, un giovane cavaliere aitante e intrepido che era reduce da tutte le battaglie. Il giorno delle nozze era imminente. Stavano assistendo a un combattimento fra tigri e leoni, quando, d’un tratto, la bella principessa chiede al fidanzato una prova d’amore: si sfila un guanto bianco, che le arriva fino all’ascella, e lo butta nella gabbia fra le belve. Il giovanotto, senza indugio, scavalca il parapetto, balza fra le fiere, raccoglie il guanto e lo riporta alla ragazza, mentre echeggiano gli applausi del pubblico pagante, terrorizzato e in visibilio. La principessa gli sorride, ma il giovane temerario, dopo un inchino profondo, esce dignitosamente dal palco rinculando, e appena fuori gira sui tacchi, infila le scale e si dilegua per sempre. Aveva avuto la certezza che la principessa era una perfetta cretina”. Le donne scambiano spesso l’istrionismo con l’amore. Per questo finiscono sempre con degli stronzi clamorosi. Non c’è divo del cinema o della canzone che riceva tante offerte di matrimonio quanto il tipo che è finito sui giornali perché ha ucciso qualcuno. Credono tutte che l’amore sia tanto più grande quando più è assurdo: quando Didone non sopravvive alla partenza di Enea; quando Catullo non può staccarsi da Lesbia malgrado le corna; quando Artemisia, sconvolta dal dolore per la morte del marito, che era anche suo fratello, ne beve le ceneri, mescolandole in un bicchiere come fossero bicarbonato; quando uno studente si trafigge il cuore con un pugnale dinanzi al Ritratto di signora dipinto da Boldini per la disperazione di non poter avere quella donna morta da un secolo e mezzo. Per loro, l’amore vero non è l’amore-perché, ma l’amore-sebbene, quello che va contro ciò che il buonsenso, l’esperienza e l’opportunità raccomandano. Per noi, invece, l’ingrediente-base che fa spumeggiare il citrato dell’amore è l’avventura. Rimpiangiamo la donna conosciuta in albergo, che se ne è subito andata nella direzione opposta, non la donna attaccaticcia, che avrebbe potuto essere una bella pagina e ha voluto essere una Treccani in 10 volumi. In amore, la sola cosa piacevole è cominciare. Dunque, quando è ora, ricomincio.
Gli amici italiani di Rutte stanno aspettando conte al varco
Una trattativa fatta di ricatti e menzogne la dice lunga su questa Unione europea che andrebbe semplicemente azzerata. Il fiato sospeso fino a notte dopo due giorni in cui un paese di 17 milioni di abitanti tiene in ostaggio gli altri 500, dimostra come la scatola europea non sia adatta al contenuto per il quale si dice sia stata creata: solidarietà e crescita economica.
Già si sentono i primi commenti rimproverare a Conte di non aver portato a casa quanto promesso non tanto per incapacità ma per mancanza di affidabilità. Nel panorama italiano fatto di “liberisti de noantri” esiste un partitino piccolo ma influente che in fondo tifa per l’Olanda, chiedendo al governo di turno di dimostrare proprio coraggio nel fare le riforme più antisociali come quelle delle pensioni. Quelli che a Rutte l’abolizione di quota 100 o le Autostrade ai Benetton le consegnerebbero chiavi in mano. Ci saranno poi quelli che diranno, anzi lo stanno già dicendo, “allora è meglio il Mes” e via di seguito con un europeismo farlocco del tutto funzionale a interessi di bottega: chi per un nuovo governo, chi semplicemente per arraffare quanti più fondi europei possibile tanto il debito lo si paga con le tasse, quindi con i soldi dei lavoratori.
Se questo è il quadro, la soluzione individuata nel pomeriggio, nella seconda mediazione di Charles Michel, sembrava limitare i danni per l’Italia garantendo un flusso di risorse certe, fuori dal perimetro del debito, in una logica di impegno sovranazionale. Eurobond pasticciati, ma eurobond. E non sarebbero stati 50 miliardi in meno di “grants” a modificare la sostanza. Non a caso sembra ancora che i “frugali” (mai nome è stato meno appropriato) abbiano rilanciato ancora per tagliare l’entità del “Recovery Fund”.
Il punto resta però il grado di condizionalità a cui il ricorso ai fondi sarà sottoposto. Gli “amici di Rutte”, ovviamente sostengono che se prendiamo dei soldi dobbiamo renderne conto. Certo, ma non a una “troika” in salsa olandese e con i parametri fasulli dei trattati stampati sul petto. Se l’Italia ha dovuto presentare un documento che accetta di sottostare a decisioni del Consiglio europeo, e non della Commissione, “a maggioranza qualificata rafforzata”, si capisce quanto la partita sia delicata.
Vedremo oggi come se ne uscirà. I punti su cui valutare saranno comunque questi: risorse disponibili sul serio – che la situazione è seria – è una autonomia nazionale di sostanza. Ma sul tavolo, nel medio periodo, c’è anche la necessità di rivedere questa Ue. Dei vari Rutte se ne farebbe volentieri a meno.