La guerra delle tv. Berlino blocca RT, canale russo. Mosca ricambia il favore

La settimana settimana scorsa Berlino ha bloccato le trasmissioni in lingua tedesca dell’emittente Russia Today. La risposta del Cremlino non si è fatta aspettare. La sede moscovita di Duetsche Welle, l’emittente pubblica di notizie, è stata chiusa dalle autorità russe. Ai giornalisti è stato revocato l’accredito stampa a cui è legato il loro visto. La reprimenda era annunciata. Maria Zakharova, direttrice del dipartimento stampa del ministero Affari esteri russo, commentando la fine delle trasmissioni di Rt, aveva detto: “ci priva di qualsiasi altra scelta se non quella di iniziare ad adottare misure di ritorsione contro i media tedeschi accreditati in Russia”. Rt è parte di un gruppo di media, controllati direttamente dal governo russo, che ha aperto la redazione di coordinamento europeo a Berlino. Lo scorso anno Rt annunciò la volontà di iniziare le trasmissioni in tedesco. Non aveva i permessi per trasmettere, ma ha tentato di aggirare il problema ottenendo delle licenze in Serbia. Prima Youtube ha oscurato il canale RT.de e a dicembre un tribunale tedesco si è espresso per la chiusura dalla trasmissione satellitare. Tra le accuse tedesche nei confronti dei media russi non c’è solo la faziosità, ma anche lo spionaggio. In particolare riguardo alla degenza all’ospedale Charitè di Berlino del dissidente russo Alexei Navalny.

Altro che mediatore: il Sultano bombarda i curdi in Siria e Iraq

Mentre tenta di fare il mediatore nella crisi tra Mosca e Kiev allo scopo, a suo dire, di evitare che la Russia invada l’Ucraina, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha dato il via nei giorni scorsi all’ennesima operazione dell’aviazione militare contro le zone curde della Siria e dell’Iraq, due Paesi sovrani. Il pretesto per scatenare Winter eagle, “aquila d’inverno”, questo il nome dato all’operazione, è il solito: sgominare le cellule del Pkk. Molti guerriglieri del partito dei lavoratori curdi fondato da Abdullah Ocalan, dal Kurdistan turco hanno varcato le frontiere per stabilirsi nei due paesi confinanti a partire dal 2012 quando Erdogan e il leader curdo, da vent’anni in isolamento nel carcere di Imrali, avevano stabilito una tregua poi naufragata per colpa del Sultano. Da allora i guerriglieri di Ocalan sono rimasti nel nord-est della Siria, Rojava in lingua curda, e nel nord dell’Iraq per aiutare i fratelli curdi, tra cui quelli di religione yazida, a difendersi dagli attacchi dei tagliagole dell’Isis, unendo le forze con le milizie curdo siriane delle Unità di protezione, Ypg, che furono determinanti come fanteria degli Usa durante il conflitto per annichilire lo Stato Islamico.

Eppure per Washington, così come per Bruxelles e il resto dell’Occidente, il Pkk è ancora un’organizzazione terroristica mentre non lo è lo Ypg nonostante sia di fatto la stessa cosa, pur sul versante siriano. Per Ankara invece anche le Unità di protezione sono un coacervo di terroristi. Intanto due giorni fa il presidente Erdogan ha ricevuto nella capitale turca Nechirvan Barzani, il presidente del governo regionale della regione semi autonoma del Kurdistan iracheno (Krg). Il clan Barzani che guida da sempre la regione, è da tempo alleato di Erdogan, a cui vende petrolio e gas di cui la zona è ricchissima, al punto da accettare che colpisca i curdi che vivono nel resto del nord iracheno. La visita non era stata programmata.

Intanto “Winter Eagle” ha già colpito più di 80 obiettivi in varie località. In un discorso alla riunione di un gruppo di affari, Erdogan ha commentato: “Non riuscivano nemmeno a trovare un buco dove nascondersi”. Il Ministero della Difesa Nazionale turco ha rivelato che i bombardieri hanno colpito Sinjar, la città più nota all’opinione pubblica internazionale per il massacro degli yazidi compiuto dall’Isis quando, 8 anni fa, lo Stato Islamico stava raggiungendo la sua massima espansione.

Il numero delle vittime civili è in aumento dato che i bombardamenti sono ancora in corso. I curdi e le poche Ong rimaste nel Rojava, denunciano che il vero obiettivo dei droni turchi sono le prigioni e i campi profughi dove sono detenuti i membri dell’Isis e le loro famiglie. Ma non per annientarli, bensì per permettere loro di fuggire, come è avvenuto facendo sì che decine di terroristi riconquistassero la libertà. Lo dimostrerebbe anche il fatto che le bombe turche hanno distrutto chirurgicamente solo gli ingressi dei complessi carcerari e dei campi profughi. La Turchia e i suoi alleati islamisti ( quello che un tempo era chiamato esercito libero siriano) di Idlib, in Siria, hanno attaccato ieri con artiglieria e colpi di mortaio Tel Rifaat, cittadina dove risiede una base dell’ Sdf, una compagine armata di curdi e arabi siriani.

Xwededa Eliyas, co-presidente dell’Assemblea Sinune a Shingal in Iraq, ha affermato che lo scopo degli attacchi turchi è di “ripulire Shingal dagli yazidi”, per rimpiazzarli con le milizie islamiste alleate.

“Nessun attacco alla regione può essere svincolato dall’accordo dell’ottobre 2020 tra Erbil e Baghdad per “eliminare l’amministrazione yazida a Shingal”, ha sottolineato all’Agenzia della Mesopotamia. La co-presidente ha anche puntato il dito contro il primo ministro iracheno, Mustafa Al-Kadhimi, affermando che “cerca di far scoppiare una guerra civile a Shingal”.

I villaggi curdi di religione yazida, tra cui ŞIlo, Barî, Kurs e Çilmîra e il distretto di Khana Sor (Xanesor) sono stati presi di mira durante la sacra festa degli yazidi “Çila Zivistane”.

Il sito Roj News ha rivelato che gli attacchi aerei sono seguiti a un incontro tra Mustafa Al-Kadhimi, il primo ministro iracheno, e Ali Rıza Güney, l’ambasciatore della Turchia in Iraq.

Hawar News ha quindi riferito che due persone sono state uccise e dozzine sono rimaste ferite in un nuovo attacco turco contro il campo profughi di Makhmur nel Kurdistan iracheno, avvenuto contemporaneamente a quello contro la città simbolo dei curdi yazidi, Sinjar. Il campo profughi di Makhmur è stato costruito dalle Nazioni Unite e attualmente ospita migliaia di rifugiati curdi dalla Turchia che sono stati sfollati durante le operazioni militari turche che hanno costretto all’evacuazione gli abitanti di centinaia di villaggi nelle province a maggioranza curda della Turchia. Ankara dimostra, ancora una volta, di usare a proprio piacimento l’accusa di terrorismo.

Piano con le parole. C’è più dignità nel suicidio del capo dell’Isis

Durante il suo discorso di reincarnazione Sergio Mattarella ha pronunciato 18 volte la parola “dignità“ suscitando l’applauso entusiasta e la standing ovation di una platea che non ne aveva alcuna, come aveva abbondantemente dimostrato, se ce ne fosse stato bisogno, durante i giorni delle elezioni presidenziali.

Quando si insiste troppo su una parola vuol dire che questa ha perso il suo significato, e ciò è vero non solo per la politica partitocratica, ma per l’Italia intera, per i suoi cittadini che si son fatti ridurre a sudditi senza un lamento, indifferenti a tutto, indisponibili a rischiar nulla non solo sul piano etico ma anche, e forse soprattutto, quando c’è da mettere a repentaglio la propria persona fisica, come dimostrano le tante ragazze violentate nel pieno centro delle nostre città senza che nessuno avesse il coraggio di intervenire.

La dignitas latina comprendeva alcuni valori non negoziabili: il coraggio, fisico e morale, la lealtà, il rispetto della parola data, la protezione dei più deboli, il sacrificio di sé fino alle estreme conseguenze in nome dei propri ideali giusti o sbagliati che fossero (Catilina docet).

Nello stesso giorno del discorso di Mattarella i Navy Seal americani circondavano nel villaggio siriano di Atmeh un gruppo di terroristi, fra cui c’era il capo attuale dell’Isis Quraishi, intimando loro di arrendersi se volevano aver salva la pelle. Quraishi, un uomo di 45 anni, pur di non arrendersi ed esser catturato vivo si è fatto saltare in aria insieme alla moglie e ai due figli. Questa io la chiamo dignità.

Il silente Franco: Mps non è cosa sua

Ora dovrebbe essere chiaro: il ministro dell’Economia Daniele Franco – si presume su input dell’Altissimo (no, non quello, l’altro) – sta tentando di cacciare l’amministratore delegato di Mps Guido Bastianini. Ha gli strumenti e il potere per farlo, essendo il Tesoro il proprietario della banca al 64%. Quello che Franco e il suo staff (ricorderemo solo il dg Alessandro Rivera, che si occupa di banche fin dai successi di Etruria) non possono fare è cacciare un manager senza spiegare perché e per fare cosa, per di più mentre fanno circolare rumors di ogni genere. Leggendo i giornali si scopre che: “Si temono brutte sorprese dal bilancio Mps” per via di “alcune poste una tantum” (Avvenire, ma il collegio dei sindaci ha smentito via Ansa); “La sostituzione dell’ad sarebbe richiesta anche da Bruxelles” (La Stampa); pure la Bce, avendo “ritoccato al rialzo i requisiti prudenziali di capitale chiesti a Mps”, segnala che “non è mutato il giudizio di fragilità strutturale sulla banca” (Repubblica). Addirittura si spiega che alla fine Bastianini se ne andrà da solo e sennò dovrà cambiare mestiere: se resistesse, “dopo la vicenda Carige, dove nel 2017 è rimasto consigliere 4 mesi nonostante il cda gli avesse tolto le deleghe, per lui sarebbe la seconda volta. E ciò pregiudicherebbe il suo fit and proper, il giudizio di adeguatezza che la Bce esprime nella scelta dei capi azienda nelle banche, fermandogli la carriera” (Il Messaggero). Se ha questi o altri gravi timori, il ministro deve dirlo in pubblico, tanto più che mezzo Parlamento gli consiglia di andarci piano (ad ora però non si sa neanche quando sarà audito in Commissione Banche). Franco è un ministro pro-tempore di un presidente del Consiglio altrettanto pro-tempore: la banca, peraltro quotata, non è sua, non può decidere cosa farne insieme a due o tre funzionari, specie dopo il fallimento del frettoloso tentativo di annegarla, pagando, in UniCredit. Da ex alto dirigente di Banca d’Italia dovrebbe sapere, il ministro, quali danni causi l’opacità in scelte e rapporti alla corretta gestione di una banca: certo, non è che Bankitalia nell’ultimo quindicennio – sì sì, parliamo dell’Altissimo – su Mps abbia un record che lasci sperare in un’improvvisa resipiscenza.

Mail box

Il capo di Stato si è già scordato del Conticidio

Ho appena terminato di ascoltare il discorso di insediamento di Sergio Mattarella, il quale ha ribadito l’assoluta centralità del Parlamento nel contrasto alle forze economiche, che dall’esterno tentano di condizionarne scelte e operato. Non vi sembra curioso che tutto ciò venga invocato a un anno esatto dal Conticidio, della cui consumazione il Quirinale è stato fra i principali artefici?

Marcello Rossi

Sì.

M. Trav.

 

Discriminati pure quelli che hanno solo due dosi

Forse ho capito male, ma secondo l’ultimo decreto io, che ho avuto una forma acuta di Covid e poi mi sono fatto vaccinare due volte nonostante i tanti anticorpi, verrò discriminato rispetto a quelli che hanno avuto una forma lieve di infezione (causata da Omicron) dopo essersi vaccinati. Ma dov’è la logica di queste pensate? Draghi affoga forse le sue ultime delusioni nel fiaschetto del vino?

Roberto Censi

 

Caro Roberto, temo che sia lucidissimo. E questa è una aggravante.

M. Trav.

 

Le fantasie dei Radicali sul “Fatto Quotidiano”

L’altro giorno ho ascoltato “casualmente” una parte della rassegna stampa di Radio Radicale che, sappiamo, trasmette anche con i soldi nostri. Il giornalista ha letto il titolo del Fatto, dicendo una cosa del tipo che Travaglio avrebbe goduto solo se si fosse aperta una crisi di governo. Ma dove l’ha letto?

Giancarlo Lo bianco

Questi sono i famosi nemici delle “fake news”, per giunta pagati da noi.

M. Trav.

 

Il record di presidenza non è ancora di re Sergio

Vorrei ricordare a Gad Lerner, a proposito dell’articolo “Re Sergio il buono”, che il record di durata come capo di Stato repubblicano in Europa lo detiene Mitterrand che ha guidato la Francia per 14 anni. Seguono Chirac e De Gaulle, con dieci anni ciascuno.

Torquato Cardilli

 

La ringrazio, in molti mi hanno fatto notare il mio errore. Mattarella può eguagliare Mitterrand, non superarlo. Da notare che subito dopo in Francia decisero di accorciare da sette a cinque anni il mandato presidenziale.

G. L.

 

L’Italia di oggi ricorda la Polonia degli anni 70

A Otto e mezzo ho sentito Monica Guerzoni del Corriere affermare che gli italiani sono felici, e che l’astensionismo alle urne c’era già da prima, e che inoltre non le sembrava il caso di delegittimare il governo criticandolo. Mi ha lasciato davvero di sasso: come si può arrivare a equivocare così la professione del giornalista? “Gli italiani sono felici” ripetuto a giornali unificati mi ricorda i racconti di mio padre del suo viaggio in Polonia negli anni Settanta, dove sui muri c’era scritto “Il popolo è felice”.

Gabriele Oliva

 

Come risolvere le file al Pronto soccorso

Davanti agli ospedali italiani si allungano le file di ambulanze con pazienti a bordo: colpa delle solite carenze, ma anche dei ritardi causati dai “filtri Covid” nei Pronto Soccorso, che finiscono per affollare i reparti, e chi ha necessità di essere soccorso aspetta a lungo per essere trasportato in ospedale. Per provare a tamponare il problema si potrebbero dotare le accettazioni ospedaliere di barelle: le ambulanze metterebbero i pazienti su questi lettini una volta arrivate in ospedale, sanificando la vettura e ripartendo per soccorrere altri cittadini bisognosi di ricovero ospedaliero. È così difficile da realizzare?

Vito Pindozzi

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’articolo di ieri a pagina 13 – “Adesso Sollecito fa lo scrittore. E finisce ospite a Casa Sanremo” – è stato impropriamente scritto che l’unico condannato per l’omicidio di Meredith Kercher è Patrick Lumumba, che invece è stato prosciolto da ogni accusa. L’unica condanna del processo ha riguardato Rudy Guede. Ci scusiamo dell’errore con il diretto interessato e con i lettori.

Fq

Sonetti per Sanremo “Drusilla tanto elegante. E Amadeus balbettante”

Tanto garbata ed elegante appare

Foer, la diva, quando ella entra in scena

ché tutto il resto s’intravede appena

ed Amadeus non può che balbettare.

E gli occhi non la smetton di guardare

questa divinità fatta terrena

che sia Drusilla, Zorro oppur sirena

o quando, a notte fonda, va a parlare

e ci spiega con garbo e convinzione

che le diversità sono inventate

dai nostri sguardi ciechi e benpensanti,

che le parole sono come amanti:

si gettino le vecchie e inflazionate

e “unicità” si prenda in adozione!

Tirando le somme, la prima serata

per questi momenti sarà ricordata:

Fiorello che bercia con gli occhi distorti

e l’Ornella Muti che parla di morti;

Orietta felice con veste spaziale,

Achille sul fonte battesimale;

Morandi che mischia duecento canzoni,

Ranieri risponde rompendo i maroni;

la Vispa Teresa (sì, lei, Ana Mena)

che al più, esagerando, ci suscita pena;

il duo di ragazzi che rabbrividisce

e che vincerà, come ognuno capisce;

la Rappresentante alla fine del mondo

saluta, fa ciao e prende il premio secondo;

Noemi e Ferreri da dimenticare

la solita solfa, di più non san fare.

Adesso concludo, l’elenco è finito

E dico per ultimo il mio preferito:

Fra nani, cantanti, showmen, ballerini

Il meglio di tutti è Matteo Berrettini.

Seconda puntata, si giocano gli assi:

c’è Checco Zalone coi suoi colpi bassi.

Si levan purtroppo non tremuli scricchi,

la capa-cicala è Iva Zanicchi.

C’è Emma di nero vestita, vedete?

Incede mostrandoci le calze a rete.

La Laura Pausini ha voce suadente

ma è inutile: il pezzo che canta è indecente.

Intanto si piange con la Cesarini

che suscita lacrime in grandi e piccini

ed in special modo ci lascia più affrante

se prova – tapina! – a far la cantante.

Elisa, vestita da celtica fata

conferma di essere alquanto intonata

e Fabrizio Moro fa il bel tenebroso,

peccato che sia così tanto noioso!

Potente, vibrante di alchemico ardore

è il duo scatenato di Dito e Rettore:

con grinta e carisma, del palco padrone,

sicure, dimostrano gran convinzione.

Concludo con quello che assai mi è garbato

persino nell’outfit assai trasandato.

Ne son più che certa, il mio istinto non sbaglia

se affermo che è un cantautore di vaglia.

Il nome, ordinario, è Truppi Giovanni

e ne sentiremo parlare per anni.

 

Questa partitocrazia si merita anche un Mattarellum-bis

“Vi supplico di non montare il quadrato alla proporzionale qual è attualmente: è una trincea che non si può difendere più” .

(dall’intervento di Indro Montanelli alla Consulta liberale, 1987 – su Youtube)

 

Il Maestro Andrea Camilleri avrebbe scritto proprio così: “cabasisi”, eufemismo per dire attributi maschili. Ma il concetto è chiaro. Non si può tirare come un elastico la legge elettorale, la “madre di tutte le leggi”, a seconda dei calcoli di parte o di partito e in base alle contingenze. Un illustre politologo come Vanni Sartori insegnava che non esiste una legge elettorale ideale, valida in ogni Paese in tutti i tempi. E, da par suo, spiegava anche che la stabilità e la governabilità possono essere prodotte indifferentemente dal sistema proporzionale o da quello maggioritario, in rapporto alla cultura politica delle forze che rappresentano la volontà popolare. Già, ma qual è oggi la cultura politica dei nostri partiti? Quella del Pd, per esempio, un ircocervo, cattocomunista o cattolaico, “un amalgama mal riuscito” come sentenziava a suo tempo Massimo D’Alema? O quella del M5S, già populista e anti-establishment, ormai integrato fin troppo nel sistema? Oppure, quella dell’ex centrodestra ridotto ormai in pezzi, più o meno nazionalista, sovranista o tendenzialmente autoritario? Quale riforma elettorale potranno mai concepire i “signori della partitocrazia”?

Abbiamo visto che cosa sono stati capaci di fare durante l’ultima kermesse per il Quirinale. Votare scheda bianca o astenersi. Annunciare, smentire, lanciare candidature come volantini elettorali. Salvo poi aggrapparsi a un presidente riluttante, più per istinto di sopravvivenza che per convinzione, pur di congelare il governo, evitare la crisi e le elezioni anticipate per non perdere il seggio e l’agognata pensione. Ma allora, se questo Parlamento “balcanizzato” non è stato in grado di eleggere un nuovo presidente della Repubblica, invocando con 759 voti la conferma di Sergio Mattarella come un esorcismo e applaudendo 55 volte il suo discorso d’investitura, perché non si riprende anche il “Mattarellum”, più maggioritario (75%) che proporzionale (25%), una legge che ha già regolato tre tornate elettorali (1994, 1996 e 2001), facendo vincere prima Berlusconi, poi Prodi e ancora Berlusconi? Questa “dieta di Varsavia”, divisa al suo interno fra partiti e fazioni, non sarà capace di congegnare un sistema migliore, idoneo a garantire una legittima rappresentanza popolare e nello stesso tempo la necessaria stabilità e governabilità. Né tantomeno l’alternanza e il ricambio alla guida del Paese.

È inutile, a questo punto, disquisire sull’alternativa fra proporzionale e maggioritario. Proporzionale “puro” o semi-maggioritario. Modello tedesco con lo sbarramento al 5% o al 3% oppure doppio turno alla francese. Sarebbe un esercizio vano finché la stella polare rimarrà la maggiore o minore convenienza, di questo o quel partito, gruppo o gruppuscolo, invece dell’interesse generale della collettività.

Sarà pure un altro “usato sicuro”, il Mattarellum. Ma meglio una riforma-bis che ha già dimostrato di funzionare piuttosto che una non-riforma, o peggio ancora una controriforma. Sappiamo bene che l’ultima legge elettorale, chiamata Rosatellum dal nome del suo artefice, Ettore Rosato, coordinatore di Italia Viva, è stata progettata per non far vincere nessuno. E un eventuale ripristino del proporzionale non potrebbe che frammentare ulteriormente lo schieramento parlamentare, alimentando la “proliferazione atomica” delle liste e delle forze politiche. Sarebbe un ritorno all’immobilismo della Prima Repubblica, con le “maggioranze variabili” e con i partitini e i “cespugli” a farla da padroni, a colpi di veti incrociati o di ricatti.

 

Dopo B. e Renzi, è l’ora di Salvini: una saga satirica del disonore

Che fatica e, in qualche modo, anche che sfortuna mettere giù versi, cercare rime di satira e assieme di leggerezza per raccontare ancora una volta la politica italiana più brutta. Lo dichiara subito Carlo Cornaglia, e senza nascondersi: “Ritorno alla fatica di narrare falsi trionfi e sconfitte amare dei potenti cialtroni che il Paese han rovinato con le loro imprese”. Ma perché sfortuna? Ecco, in breve, la spiegazione: vorrei vedere, infatti, ciascuno di noi chiamato a trovare lo stesso coraggio e un uguale disincanto per usare la poesia (e parlare, con essa, di politica) in quegli stessi mesi durante i quali l’Italia celebrava la memoria del suo intellettuale più grande e del “padre” della propria lingua unitaria: il Sommo Poeta Dante che nella Divina Commedia mise tantissime cose, ma soprattutto la condanna e la narrazione più implacabile dei peggiori potenti di quell’epoca (e dei loro vizi capitali). Con un’aggravante, verrebbe voglia di dire, di certo con un condizionamento in più per Cornaglia, che quella similitudine con l’Alighieri se l’era bruciata già cinque anni fa, quando anniversari e celebrazioni erano ancora assai lontani, ma lui dava già alle stampe La Renziana Commedia per raccontare “la biliosa vita del Bomba, Matteo Renzi da Rignano”.

Non si inaridiscono, però, l’ispirazione e la voglia di Carlo di farci sorridere e di divertirci nello stesso momento, in cui ritroviamo nei suoi versi, fresche di qualche settimana o già lontane in un tempo che ce le aveva fatte quasi dimenticare, le peggiori nefandezze di quei personaggi: “I peggiori”, i “nostri peggiori”. Sorridere e divertirci per placare, in qualche modo, la rabbia e l’indignazione che ogni rima, ogni aneddoto non smettono di alimentare.

È giunta, dunque, l’ora della Salvineide: perché a chi altri mai poteva essere dedicata l’opera nuova, l’atto terzo, di questa saga satirica del disonore? Rifà il verso, Cornaglia, al suo esordio: a quella Berlusconeide dedicata al bersaglio originario e più paradigmatico regalatoci dalla Seconda Repubblica, “l’abbietto Cavaliere… che col suo far da astuto delinquente, è stato un tipo quasi divertente”. Un divertimento conclamato, quasi rivendicato, per Berlusconi come per Renzi: “Mi sono divertito, non lo nego, poiché è un vulcano il tosco fanfarone, nello sparar scemenze nell’agone…”. L’autore, però, sa che questa volta l’impresa è più cupa, più disperata, tetra e ripetitiva come quella milanesità molto “bauscia” usata per mascherare la rabbia sull’immigrazione, le pensate e le azioni di Destra, il nulla degli argomenti. L’uomo-Salvini è quello che è: più volgare e meno accattivante di quel “maestro” di Arcore che ha in comune con l’altro Matteo. Ed è anche diverso da quest’ultimo, il “tosco fanfarone”, che aveva offerto invece a Carlo il destro per afferrare e mettere alla berlina ogni “baggianata di quell’eccezionale super ego…”. Passi per Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, dunque, “che sono sollazzevoli cialtroni, ma con Salvini è tutta un’altra cosa, è scherzar con la nitrocellulosa…”.

Così Cornaglia si avvia lento, pessimista, quasi scusandosi con i suoi ispiratori di una volta, il Decimo Giulio Giovenale delle Satire e la musa Talia che presiede alla media e alla poesia bucolica: è fin troppo consapevole che adesso l’avventura si farà ardua. “Non si sollazzerà certo la gente, poiché non è per nulla divertente: con il caimano e il fanfaron sghignazzi, ma con il verde Capitan t’incazzi…”. È solo, questa volta, l’ingegnere-poeta che usa le chiavi antiche della metrica per aprire i mondi della prosaica (e laida) politica del nuovo secolo.

(Tratto dalla Prefazione a “Salvineide. In rime il mito di Capitan Mojito” di Carlo Cornaglia)

 

Perché siamo un paese di vecchi senza più figli

Finalmente comincia a venire alla luce (ed è proprio il caso di dirlo, vedremo in seguito perché) il problema della denatalità. Se n’è accorto persino Federico Fubini in un editoriale, seppur molto arzigogolato, sul Corriere del 17 gennaio.

In Italia il tasso di fertilità per donna è di 1,3 (per arrivare a un pareggio demografico dovrebbe essere di 2, e qualcosina in più perché nel frattempo qualcuno, grazie a dio, muore). Siamo il Paese più vecchio al mondo dopo il Giappone (dati Istat). Ma il problema, oserei dire il dramma, della denatalità e dell’invecchiamento non riguarda solo l’Italia ma tutto il mondo occidentale. Andando avanti di questo passo il mondo occidentale scomparirà a petto di quello mediorientale, arabo, islamico dove la fertilità per donna è del 2,5 o di quello nero africano dove le donne, nonostante tutte le difficoltà, continuano a fare figli (il tasso di fertilità è del 5).

All’origine di questo fenomeno di costante invecchiamento delle nostre società, che dovrebbe preoccupare un po’ più del Covid (anzi il Covid ha cercato, generosamente, di dare una mano) ci sono motivazioni culturali, sociali, economiche.

La prima è culturale. La donna di cultura occidentale pare essersi dimenticata di quella che è, antropologicamente, la prima delle sue funzioni: fare i figli. Nella grande storia antropologica dell’umanità (ma anche delle specie animali) la protagonista è la donna, proprio perché dà la vita, mentre l’uomo è solo un inseminatore transeunte. Lo dimostra anche una comparazione con il mondo animale. Il fuco più forte riesce a reggere la competizione con l’Ape Regina che lo porta ad altezze per lui insostenibili, la feconda, e poi muore perché la sua funzione finisce qui: l’Ape Regina è fecondata e piena di uova. La mantide religiosa subito dopo l’amplesso uccide, senza pietà, il suo amante perché il maschio ha esaurito la sua funzione: fecondarla.

Nella tradizione kabbalistica, e peraltro anche in Platone, l’Essere primigenio è androgino. Con la caduta si scinde in due: la Donna, che viene chiamata “la Vita” o “la Vivente”, e l’Uomo, che è colui che “è escluso dall’Albero della Vita”. Insomma, antropologicamente parlando, la donna è la vita, l’uomo se non la morte qualcosa che gli assomiglia molto e che alimenta il suo profondo istinto di morte come dimostra la propensione maschile alla guerra, totalmente estranea alla donna che, poiché vitale, non comprende il senso di questa carneficina.

Nella modernità la donna ha perso il senso profondo della sua funzione antropologica a favore dei diritti civili che pure le competono: parità con l’uomo, diritto al lavoro, diritto alla carriera e più in generale diritto all’autorealizzazione. Tutti questi diritti sono oggi incontestabili. Ma la conseguenza è una progressiva rinuncia della donna a figliare o comunque a ritardarne il più possibile il momento a favore di quella che grossolanamente e per semplificare chiameremo carriera. Non che la donna di oggi, almeno in linea generale, non voglia avere figli. Ma aspetta, aspetta il momento più favorevole. Ma aspettando aspettando il momento favorevole passa senza che uno nemmeno se ne accorga. In questo la donna è stata ingannata dalla medicina moderna che le ha fatto credere che si possano avere figli a qualunque età. Ma la Natura non la si inganna. L’età di massima fertilità per la donna sono i 27 anni, poi va lentamente a discendere. Certo si possono fare tranquillamente figli a trent’anni, a 33, a 35 ma quando ci si avvicina ai 40, o addirittura li si oltrepassa, le cose si complicano maledettamente. È esperienza comune di coppie che a quarant’anni decidono che è venuto il momento, ma benché lei sia sana e lui pure non riescono ad avere il figlio a quel punto molto desiderato.

Tecnicamente la questione riguarda lei, l’uomo può essere fertile anche a età molto elevate (per fare un esempio famoso, ma è solo uno dei tanti, Charlie Chaplin ebbe l’ultimo dei suoi numerosi figli a 73 anni, ma la moglie Oona O’Neill ne aveva 37).

Poi c’è la motivazione economica. Oggi si esita a fare figli nel timore di non riuscire a mantenerli o comunque a mantenerli in modo adeguato. Ma basta risalire solo a due o tre generazioni fa e vediamo che le coppie, anche quelle in male arnese, facevano cinque, sei a volte dieci figli. È pure vero che nel mondo contadino, almeno quello che ha resistito a lungo alla Rivoluzione industriale, i figli erano una risorsa anche economica. In un reportage fatto per Pagina (“La Puglia dei miracoli”) che è del 1982 – non siamo quindi nel Plestocene – si considerava una fortuna aver avuto molti figli, soprattutto maschi in questo caso, perché davano una mano nel lavoro sui campi mentre la madre si esauriva nelle gestazioni.

Un altro motivo è anch’esso culturale, sia pur di portata minore rispetto a quello antropologico che ho richiamato all’inizio. L’aggressività della donna di oggi, libera, economicamente autonoma, ha spaventato il maschio. Di qui l’aumento esponenziale dell’omosessualità maschile e, in corrispondenza, di quella femminile, più nascosta come più nascosto è il sesso della donna.

Ho inoltre il sospetto che i giovani facciano meno sesso di un tempo. Perché appagati, o invece disgustati, dalla pornografia dilagante offerta dagli infiniti siti specializzati. Ma i figli non si fanno né con le macchine né con le fantasie masturbatorie. Se così non fosse non si capirebbe come mai abbiano tanto spazio anche vecchie ciabatte come me.

 

Il discorso di Mattarella, i tatuaggi di Achille Lauro e la destra con Zalone

E ora, per la serie “È intellegibile ciò che ha rapporti plausibili con le sue circostanze”, la posta della settimana.

Caro Daniele, sto guardando Sanremo. Mahmood e Blanco, Achille Lauro, Rkomi, Aka7even, Highsnob e Hu: ho scoperto che non me ne frega niente della musica di oggi. Dove sono i miei vecchi 45 giri di Nicola di Bari e Fred Bongusto, quando la musica era ancora musica? Quelle sì che erano canzoni. E che cantanti! Capivi tutte le parole! (Gianni Benelli, Vicenza)

Capita a ogni generazione. Arrivi a una certa età, e di colpo tutta la musica nuova ti sembra robaccia. Mio zio, per esempio, ha 80 anni e non ascolta niente che sia stato inciso dopo l’Equipe 84. Se vuoi ti spiega anche perché Saragat era un politico brillante.

Che spettacolo i tatuaggi di Achille Lauro! (Alberta Bruno, Roma)

Sono opera di grandi maestri. Dicono abbia un Canaletto su ogni chiappa.

Dopo Sanremo, Zalone ha ricevuto gli elogi di Adinolfi, Meloni e il Giornale. Perché Zalone e Pio & Amedeo piacciono a destra? (Antonio Coco, Bari)

Perché le loro gag, al di là delle intenzioni dichiarate dopo ogni polemica, perpetuano stereotipi denigratori, una modalità comica che incoraggia chi li condivide. Lo sketch di Zalone sulla Cenerentola trans, per esempio, reiterava lo stereotipo della donna trans come inganno (pomo d’Adamo, scarpe n. 48, nome maschile, rima in -azzo), uno stereotipo pericoloso poiché la violenza contro le donne trans origina spesso da quel pregiudizio. Deridere le persone trans non combatte lo stereotipo e nega la legittimità dei loro diritti: questo mette a rischio la loro incolumità. Inoltre, lo stigma sociale perpetuato nei media non è certo un toccasana per il benessere psicologico delle vittime, specie se giovani. Sono temi troppo complessi per quel genere di comici, ancora fermi agli anni 50. (Iva Zanicchi: “Lei ha qualcosa che io non ho” Drusilla Foer: “La cultura”. Altra classe, altro livello). Purtroppo, il discorso irresponsabile a base di stereotipi denigratori (che un palco come Sanremo rende ambiente, banalizzandoli) sta facendo proseliti anche da noi, complici le destre che se ne servono per la loro propaganda tossica, contraria ai tempi che cambiano. E stanno davvero cambiando. Una ragazza di Verona mi ha detto che nel suo quartiere, negli anni 70, c’era una sola famiglia meridionale, ma ora l’integrazione ha fatto grandi passi: il comune ha deciso che l’appartamento di quella famiglia meridionale diventerà un museo.

Riesci a dire una cosa positiva su Enrico Letta? (Catia Rabagliati, Novara)

Enrico Letta è come un mobile Ikea: pratico, ma non eccitante. I nomi dei mobili Ikea però sono eccitantissimi: hanno un suono così esotico! Anche Enrico Letta sarebbe eccitante, se si chiamasse Utdrag Toftbo Klammig. Che nome imperioso! Il nome di un condottiero vichingo! Utdrag Toftbo Klammig: cappa aspirante, tappeto per bagno, bavaglino. Il massimo che si può dire di lui è che almeno non ti rende nostalgico del clown precedente.

Hai visto il discorso di Mattarella? (Annalisa Frassini, Como)

Bello. È stato interrotto da 55 applausi. Mi ha ricordato la prima volta che ho fatto l’amore.