Abbattere la barriera cultura-fabbrica ora è distopia

Non voglio fare la parte del vecchio impiccione nelle vertenze studentesche di questi giorni, con le quali solidarizzo assai. Ma una rievocazione concedetemela, per quanto antipatico possa risultare ai giovani il confronto coi tempi andati. Tanto più che il mio ricordo vuole giustificare in pieno la loro protesta.

L’Alternanza scuola-lavoro contro cui gli studenti stanno protestando merita di essere giudicata una vera e propria distopia, che poi sarebbe il capovolgimento, la mortificazione di una magnifica utopia. Quale? La riunificazione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, assumendo la cultura come levatrice indispensabile di eguaglianza e giustizia sociale.

Il celebre slogan “studenti, operai, uniti nella lotta!” esprimeva la volontà di stipulare un’alleanza fra chi, grazie alla scuola, avrebbe potuto sfuggire le fatiche del lavoro operaio e chi invece restava assoggettato al giogo della fatica fisica. Abbattere quell’odiosa barriera fra cultura e lavoro alienato, era davvero un’aspirazione comune. Quel principio nel 1973 trovò parziale, ma simbolica applicazione nel contratto nazionale dei metalmeccanici che introdusse nelle aziende la clausola delle “150 ore per il diritto allo studio”. A disposizione di tutti i dipendenti, all’interno dell’orario di lavoro.

Ebbene, le 150 ore erano l’esatto contrario dell’odierna Alternanza scuola-lavoro. Ai lavoratori doveva essere concesso, a spese delle aziende, il beneficio di una formazione culturale fin lì negata, se non nella mera forma dell’apprendistato.

Ora invece si pretende che siano gli studenti ad abituarsi per tempo alle regole del lavoro subordinato. E, tanto per cominciare, di farlo gratis, in aziende che solo di rado rispettano le normative di sicurezza. Dopo il diploma, naturalmente, ai giovani toccheranno altri stage gratuiti e il precariato.

Quanto alla massa crescente dei lavoratori poveri, be’, la cultura se la può anche scordare.

Tra lo stupore e il fastidio c’è l’imbarazzo

Imbarazzante: che crea imbarazzo, che mette a disagio, penoso. Nulla di grave per carità, ma è quando si preferisce distogliere lo sguardo, o si preferirebbe non aver sentito. Insomma, quel leggerissimo senso di fastidio che genera un brivido, un sorriso forzato, un pizzico di vergogna riflessa. Per esempio, come quando a Sanremo il bravo presentatore dedica Grande, grande, grande al rieletto Mattarella e l’orchestra attacca con gli archi.

Niente di grave per carità, era giusto omaggiare il nuovo Presidente (che poi è sempre lo stesso), eppure dallo sconfinato repertorio di Mina (di cui c’è stato detto che Mattarella è un antico fan) forse si potevano ricordare altri successi: che so, Tintarella di luna

o Se telefonando (a Draghi). Giusto per non dare l’impressione che fosse proprio una sviolinata.

O, per esempio, come quando a Montecitorio risuonano i 55 applausi (54 secondo la Questura). Mani che si spellano davanti a parole emozionanti e incisive come quella sugli anziani “che non possono essere lasciati alla solitudine privi di un ruolo che li coinvolga” (quale non è dato saperlo). O le frasi severe sull’informazione, “da assicurare ai cittadini libera e indipendente” (e non invece asservita a grandi gruppi finanziari, immobiliari, sanitari i cui organi di stampa, infatti, si sperticheranno in lodi).

Ovazioni provenienti da ogni lato dell’emiciclo e che sembrano condividere, come retropensiero, la convinzione che tanto il potere quirinalizio si condensa più che altro nelle tre emme: moniti, messaggi, moral suasion. Parole, parole, parole (sempre Mina). Scrutavamo il viso del Presidente mentre veniva interrotto “ogni 42 secondi” (calcolo di Libero). Una sfinge, anche se c’è parso di cogliere un’espressione come di un leggero disagio. Forse anche stupita e leggermente infastidita. Sì, imbarazzata.

Morto ex pm Di Pisa, accusato (e assolto) su minacce a Falcone

La notte scorsa è morto a Palermo l’ex magistrato Alberto Di Pisa, aveva 78 anni. Ricoverato per una grave malattia, era stato dimesso due giorni fa. Di Pisa, che negli ultimi anni della sua carriera aveva guidato le Procure di Termini Imerese e Marsala, lasciando poi la toga per raggiunti limiti di età, fu componente del pool antimafia di Palermo che istruì il maxi-processo. Nell’estate del 1989 fu accusato di essere il “corvo” autore dei messaggi anonimi che presero di mira, tra gli altri, Giovanni Falcone: condannato in primo grado, fu poi assolto.

Alex Nannini a rischio processo: reati fiscali

Alessandro Nannini rischia il rinvio a giudizio a Roma per il fallimento di una società. L’ex pilota di Formula 1 e fratello della celebre cantante Gianna Nannini è stato chiamato in causa in relazione al crac risalente al 2019 della “Pasticcerie Nannini”. Gli inquirenti contestano mancate versamenti d’imposta per 1,2 milioni di euro. Il difensore di Nannini, spiega: “Il pm ha già chiesto il proscioglimento per una delle due accuse formulate e Nannini rivendica la propria estraneità. La società Pasticcerie Nannini era una piccola impresa ben distinta rispetto alla società Nannini che è quella storica di famiglia che ha sede a Siena ed è proprietaria, tra gli altri , anche del famoso bar Conca d’oro: dunque due soggetti giuridici ben diversi”.

Veneto Banca, Consoli condannato a 4 anni Ma l’ex Ad verrà salvato dalla prescrizione

Non solo la condanna a 4 anni di reclusione per i reati di ostacolo alla vigilanza e falso in prospetto, ma anche la confisca per equivalente di beni fino alla concorrenza di 221 milioni di euro. Soldi virtuali, perché Vincenzo Consoli, ex amministratore delegato di Veneto Banca, certamente non li possiede. Come rischia di diventare aleatoria anche la pena, per l’incombenza della prescrizione, che ha già fatto cancellare il reato di aggiotaggio. Dopo tre ore di camera di consiglio, il Tribunale di Treviso ha emesso la sentenza per lo sperpero del capitale di una banca che appariva florida, e che veniva indicata come un modello veneto dai leghisti, salvo poi afflosciarsi, con l’azzeramento del valore delle azioni. Decine di migliaia di risparmiatori erano finiti sul lastrico e l’istituto di credito era passato a Banca Intesa, lo stesso destino della Banca Popolare di Vicenza che ha portato un anno fa alla condanna del presidente Giovanni Zonin a 6 anni e sei mesi.

Consoli, invece, ha visto ridotta la pena rispetto ai 6 anni chiesti dall’accusa, grazie all’equivalenza delle attenuanti sulle aggravanti contestate. È così finito al primo capolinea uno dei tre filoni d’inchiesta, per i reati di falso in prospetto e ostacolo alla vigilanza. “Il falso in prospetto finirà in prescrizione a giorni, mentre per l’altro reato c’è tempo fino al 2024”, ha spiegato il procuratore reggente Massimo De Bortoli, lo stesso che aveva denunciato il fallimento della Stato per l’incapacità di sostenere con uomini e mezzi un’inchiesta molto complessa per un Tribunale di provincia. Il rischio che non si arrivi a una sentenza definitiva è quindi concretissimo per un iter giudiziario che è stato rallentato per un paio d’anni dalla trasmissione dei fascicoli a Roma, prima del loro ritorno per competenza a Treviso. È comunque passata la tesi secondo cui in Veneto Banca fosse un uomo solo a fare tutto, decidendo la linea che poi ha portato al suicidio della banca, visto che le azioni venivano comperate grazie a finanziamenti dello stesso istituto. Consoli era assente, ma non c’erano nemmeno i risparmiatori, ormai esausti da anni di lotte e proteste. “Questa sentenza serve a fare giustizia, ma non a riportare i soldi nelle tasche di chi li ha persi”, ha commentato l’avvocato di parte civile, Luigi Fadalti.

Carocci indagato per calunnia verso il presunto stalker

Valerio Carocci è ancora indagato per calunnia nei confronti di Luca Ricci, l’attivista nel frattempo finito a processo per stalking proprio su denuncia di Carocci. Il gip ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dai pm, disponendo altri 6 mesi di indagini. Il patron del Piccolo Cinema America di Roma era stato denunciato da Ricci, il quale nega di averlo aggredito “tentando di strangolarlo” il 18 luglio 2020, in viale Trastevere, episodio finito nel più ampio fascicolo sullo stalking. La difesa di Ricci è riuscita a reperire un filmato proveniente dalle videocamere di sorveglianza di una farmacia. Dal video, descritto in anteprima dal Fatto, emerge – nonostante la “scarsa risoluzione” – che Ricci “per la quasi totalità del tempo abbia le braccia lungo i fianchi, rendendo dunque difficile il tentativo di strangolamento (…) ai danni dell’indagato”. Inoltre, vi sono, per il giudice “punti di discrepanza” tra la versione di Carocci e quella della sua testimone, S.T., sulla cui “effettiva presenza” sul posto il giudice nutre dei dubbi.

“Davigo disse ad Ardita: o voti Prestipino o stai con Ferri&C.”

La versione di Piercamillo Davigo è sempre stata netta: il pm di Milano Paolo Storari gli consegnò copia dei verbali di Piero Amara agli inizi di aprile 2020. Non prima. Il motivo: denunciare l’inerzia nelle iscrizioni nel registro degli indagati (da questa accusa l’ex procuratore di Milano Francesco Greco è stato archiviato). Davigo ha ribadito alla Procura di Brescia, dove è indagato per rivelazione del segreto d’ufficio, di aver chiuso i rapporti con il collega del Csm Sebastiano Ardita perché si era rotto il rapporto di fiducia quando si decise di votare il futuro capo della Procura di Roma e “prima di conoscere di queste cose…”. Ovvero prima di sapere che Ardita era stato tirato in ballo da Amara nei verbali sulla loggia Ungheria. C’è chi però nutre forti dubbi su questa ricostruzione: il pm antimafia e consigliere del Csm Nino Di Matteo. Il suo, in assenza di prove, resta ovviamente solo un dubbio, ma nei fatti – dinanzi al procuratore di Brescia, Francesco Prete, lo scorso maggio – mette sul tavolo l’ipotesi che i verbali di Amara già a febbraio 2020 possano avere condizionato la nomina del procuratore di Roma. Vediamo perché. “Per quello che è emerso sulla stampa”, dichiara Di Matteo, “la presunta consegna al consigliere Davigo dei verbali risalirebbe al mese di aprile 2020, ma già un paio di mesi prima (…) si era verificato un episodio che turbò molto i rapporti all’interno del gruppo di Autonomia e indipendenza”. Il riferimento è all’incontro che si tiene nella stanza di Davigo al Csm per decidere chi sostenere come futuro procuratore di Roma dopo lo scandalo legato a Luca Palamara e alle intercettazioni dell’hotel Champagne in cui, alla presenza di Luca Lotti e Cosimo Ferri, si decide di puntare su Marcello Viola (a sua insaputa). Dopo lo scandalo, entra in gioco Michele Prestipino, che sarà nominato epoi revocato dal Consiglio di Stato per carenza di titoli.

Di Matteo ricostruisce la riunione di fine febbraio 2020, alla quale, oltre lui e Ardita, partecipano i consiglieri Ilaria Pepe e Alessandro Pepe. “Davigo iniziò chiedendoci che posizione intendevamo assumere in vista della votazione del 4 marzo e, quando sia io che Ardita (…) manifestammo un orientamento in favore di un candidato diverso da Prestipino, la riunione assunse toni particolarmente accesi”. Di Matteo la definisce “una vera e propria aggressione verbale” nei confronti di Ardita. “Alzò la voce in maniera molto decisa contro Ardita, orientato semmai a votare Creazzo. Non criticò il mio orientamento, avendo io una posizione di indipendente all’interno del gruppo (…). Ebbe una reazione furibonda e con un tono di voce alterato disse chiaramente ad Ardita, ripetendolo più volte, che se avesse votato per Creazzo ‘sarebbe stato automaticamente fuori dal gruppo’ (…). Gli disse: ‘Se non voti per Prestipino vuol dire che stai con quelli dell’hotel Champagne’. Ardita, incredulo, chiedeva che cosa c’entrassero quelli dell’hotel Champagne che tra l’altro si erano già dimessi e Davigo replicò gridando più volte: ‘Tu mi nascondi qualcosa’. Ardita (…) lo invitò a essere più esplicito e Davigo replicò che casomai gliel’avrebbe detto riservatamente. Ardita insistette ma Davigo non volle esplicitare a cosa faceva riferimento limitandosi a ricordare che nei giorni successivi allo scandalo dell’hotel Champagne il dottore Ardita aveva ricevuto nella sua stanza il consigliere Lepre (anch’egli intercettato nella hall dell’hotel, poi sospeso dal Csm ma non indagato, ndr)”.

Di Matteo nota che l’asse all’interno del gruppo si sposta radicalmente: “Intuii che la consigliera Ilaria Pepe si stava schierando con Davigo, pur essendo stata fino a qualche giorno prima contraria alla nomina di Prestipino”. E aggiunge: “Contestai a Davigo la sua pretesa di condizionare opinioni e voti degli altri appartenenti al gruppo”.

La rottura tra Davigo e Ardita diviene ufficiale. “I rapporti rimasero del tutto compromessi all’interno del gruppo” e “il giorno della votazione Pepe e Marra si schierarono con Davigo votando Prestipino. Io e Ardita facemmo una scelta diversa”. Per Di Matteo quel giorno inizia l’isolamento di Ardita nel gruppo. E aggiunge: “Avere Davigo alluso a situazioni opache di Ardita mi lascia tuttora molto perplesso, così come l’aver sottolineato che potesse essere condizionato dai suoi rapporti con ‘quelli dell’hotel Champagne’ mi sembra incredibile”. E arriva al punto: “I ripetuti riferimenti che Davigo fece al fatto che Ardita ‘aveva qualcosa da nascondere’ e i toni rabbiosi del suo intervento, oggi, alla luce di tutto quanto è recentemente emerso, mi hanno suscitato il dubbio che già al tempo di quella riunione – fine febbraio 2020 – Davigo potesse essere stato messo a conoscenza di quanto dichiarato da Amara”. Ecco il motivo per cui Di Matteo ritiene importante questo episodio: pensa che forse Davigo conoscesse il contenuto dei verbali di Amara già a febbraio e quindi prima di qualsiasi inerzia nelle iscrizioni dei vertici della procura. “La rottura dei rapporti tra Davigo e Ardita”, dice Di Matteo, “non si verifica ad aprile 2020, ma risale alla fine di febbraio di quell’anno e quindi ancor prima della nomina del procuratore di Roma”.

“Siamo abbandonati da 2 anni. Fa paura il futuro, non l’esame”

Gli studenti dei licei italiani sono tornati in piazza in 40 città d’Italia. Il corteo principale, a Roma, si è fermato ai piedi del ministero dell’Istruzione, dove ha osservato un minuto di silenzio per Lorenzo Parelli, il diciottenne morto in fabbrica nell’ultimo giorno di stage per l’alternanza scuola-lavoro. Nessuno scontro con la polizia, stavolta. Le manifestazioni sono state convocate contro la reintroduzione delle due prove scritte (oltre a quella orale) nel prossimo esame di maturità. Ma in piazza gli studenti hanno portato sogni, inquietudini e frustrazioni dopo due anni e mezzo di pandemia e di vita sospesa. Abbiamo raccolto alcune delle loro voci.

Claudio Corsari, 18 anni, liceo classico. “Non è tanto per le due prove scritte che protestiamo, ma non è mai successo che ti cambiano l’esame di maturità quattro mesi prima di farlo. È come se volessero dire: ‘Ok, il problema del Covid è finito, voi avete perso due anni, ma è tutto come prima’. Siamo una generazione che già partiva con un disagio, ci dicevano che eravamo quelli chiusi in casa a giocare alla Playstation. Figuratevi ora. Che farò da grande? Non ho un’idea chiara. Il futuro non lo vedo tragico, perché credo in me. Ma non nel sistema che abbiamo intorno”.

Edoardo, 17 anni, classico. “Io scendo in piazza principalmente perché è morto un ragazzo. E poi per gli studenti più piccoli di me, quelli che hanno conosciuto il liceo solo con il Covid. Li hanno proiettati in un mondo sconosciuto, non hanno imparato nulla e non hanno stretto legami. Un salto nel vuoto di due anni. Come mi vedo da grande? Non lo so. Il presente è venire rimbalzati da una parte all’altra, senza un punto fisso. Vorrei diventare uno psicologo”.

Marta Filippi, 18 anni, scientifico. “Questa dell’esame di maturità è solo l’ultima goccia, non ce la facciamo più e si vede da quanti ragazzi ci sono in piazza. Il futuro lo vedo con ansia. Non siamo stati istruiti, non siamo stati indirizzati verso il lavoro, non abbiamo potuto capire nemmeno cosa c’interessa davvero.”

Giulio Fraziano, 18 anni, liceo economico-sociale.

“L’alternanza scuola-lavoro è un progetto inutile. Non ha niente a che fare con il tuo percorso. La scuola ti costringe a raggiungere un pacchetto di ore, ma vieni preparato per uno specifico ambiente lavorativo, vai solo a fare la manodopera gratuita. Questi del Covid sono stati anni di distruzione psichica, l’ho vissuta davvero male, mi sono chiuso in me stesso. Ma è talmente ingiusta la nostra situazione, che mi ha dato la forza di scendere in piazza e dire basta, basta. Il futuro non mi mette paura, ma inquietudine. Non so cosa aspettarmi. L’abbiamo visto con la pandemia, le cose cambiano in maniera tragica da un momento all’altro. Il mio sogno è lavorare nel sociale. Ora ho il diritto di voto, ma non ho la più pallida idea di chi andare a votare”.

Eleonora, 17 anni, classico. “Sono aumentati i disturbi di ansia, facciamo sempre più fatica a uscire di casa e socializzare. Ho perso il senso di cosa vuol dire stare in gruppo, essere parte di una classe. Ho compagni che hanno sviluppato disturbi alimentari. La società per me è rotta. Non so se ho un futuro, ma ho un sogno: vorrei arrivare a lavorare in un’organizzazione internazionale come Fao o Unicef. Ma non ho idea di dove sarò tra cinque anni. Quale partito mi rappresenta? Assolutamente nessuno”.

Tommaso Mari, 18 anni, linguistico. “Pensano di farci fare un esame normale, come se tutto fosse a posto come prima. Come se questi due anni non avessero compromesso sia l’apprendimento che la socialità. Io ho sofferto di depressione, a volte nemmeno mi collegavo in Dad. Non ce la facevo più, non avevo stimoli. Poi mi sono dato una scossa, mi sono detto: o me ne vado, o cambio. Mi sono fatto eleggere rappresentante d’istituto e rappresentante di consulta, voglio provare a cambiare. Da grande mi piacerebbe fare politica. In senso ampio, contribuire a diffondere un pensiero. Ma non ho un partito di riferimento”.

Aurora, 19 anni, primo anno d’università. “Dal liceo ne sono uscita ‘viva’ ma non bene. La migliore ipotesi era stare chiusa in cameretta, se eri fortunata avevi un computer e una Rete che funzionava, per partecipare a lezioni senza interazione e non imparare niente. Tra 5 anni mi vedo ancora a studiare. Mi piace Psicologia. Ma non nascondo che ho paura”.

Simone, 18 anni, istituto tecnico. “Mancanza di prospettive, di futuro, di socialità, di normalità: la pandemia è stata questo. Ho ritrovato amici d’infanzia con disturbi, attacchi di panico, problemi emotivi. Ce ne ricorderemo da adulti, di come siamo stati trattati in questi due anni. Questo movimento studentesco deve portare avanti un livello di conflitto politico, su temi alti. Non dobbiamo cercare lo scontro con la polizia, ma le forze dell’ordine hanno una funzione specifica di mantenimento degli equilibri e dello status quo. Se vogliamo cambiare la società e farci sentire, lo scontro si genera da sé, sarà la polizia ad affrontarci. Faccio fatica a immaginarmi una prospettiva tra 5 anni. Sicuramente mi vedo ancora nelle piazze a lottare. Forse non sarà per lo studio, ma per il posto di lavoro.

Alle Regioni la pillola che può battere il Covid

È iniziata la distribuzione alle Regioni dei primi 11.200 trattamenti completi del nuovo antivirale Paxlovid di Pfizer. Ne sono previsti 600 mila, in totale, per il 2022. Allo Spallanzani di Roma è già stato curato il primo paziente in Italia con la pillola antivirale Paxlovid: un uomo di 54 anni, con malattia cardiovascolare e Covid-19, sintomatico da tre giorni. “È un farmaco che cambia le carte in tavola, è un game changer – spiega Antonio Cassone, già direttore di Malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità – questo è il primo vero farmaco orale, una pillolina, specifico contro SarsCov2. I dati parlano di una riduzione del 90% circa delle ospedalizzazioni”.

La riduzione della pressione sulle strutture ospedaliere “dovrebbe essere molto significativa – secondo Lorenzo Moretta, immunologo dell’Ospedale Bambino Gesù, membro dell’Accademia dei Lincei – ma vorrei vedere anche trial accademici, e circoscrivere la tempistica di somministrazione e i soggetti a rischio, come i non-vaccinati, i fragili e chi non ha risposto al vaccino”. Paxlovid è un farmaco curativo-precoce, va somministrato entro 5 giorni dalla comparsa dei sintomi. Il fattore tempo è determinante per la cura, conferma Cassone: “Paxlovid fa parte di una famiglia di farmaci che conosciamo da anni, niente di nuovo. Ha un meccanismo che inibisce la proteasi virale se usato correttamente. Il problema è che va dato subito, entro 72-96 ore. Molte persone hanno sintomi, aspettano e aspettano, magari non riescono a fare subito il tampone, e se prendono il farmaco troppo tardi l’efficacia si riduce. È decisiva la precocità”. In questo quadro è centrale il rapporto con il medico di famiglia e le risorse che lo stesso ha a disposizione. “Se il medico di famiglia è attrezzato e messo in condizione di operare bene, allora fa il tampone subito. Ma se il paziente non sa dove andare, non trova il medico che è oberato di lavoro o non c’è, fa il tampone dopo sette giorni, allora cambia tutto: il virus ha fatto già la sua parte”.

Un farmaco, insomma, che ha bisogno di tutta la struttura sanitaria territoriale per funzionare. Questo farmaco “sarà particolarmente efficace con Omicron e altre variabili”, secondo il professor Moretta. La pensa così anche Cassone: “Questo farmaco agisce sulla proteasi, che è sempre uguale per Alpha, Delta, Omicron, Omicron 2, e le altre varianti; funziona così: questo farmaco blocca la proteasi del virus che è un enzima che il virus produce appena infetta le cellule, è fondamentale per lui; se si blocca, il virus non può formare i suoi pezzi costitutivi assemblarsi e replicarsi, è come se gli togliessi il macchinario per auto-costruirsi, non si sa più assemblare per mancanza dei suoi vari pezzi”. In termini molto semplici “questo farmaco interferisce con la replicazione del virus – conferma Moretta –, questa classe di farmaci ha salvato la vita a molte persone in altre malattie virali, come l’Aids”. Il trattamento dura cinque giorni.

‘Omicidio colposo’ Indagato il medico che vaccinò donna morta dopo AZ

C’è un indagato per il decesso della docente Cinzia Pennino, spentasi a 46 anni lo scorso 28 marzo 2021, 17 giorni dopo la somministrazione di AstraZeneca. Il medico vaccinatore Vincenzo Fazio è accusato dalla Procura di Palermo di omicidio colposo. Nella denuncia presentata dai legali della famiglia Pennino, si chiedeva di accertare la possibile correlazione tra la morte dell’insegnante e l’inoculazione, e di verificare che l’anamnesi sulla paziente, fatta prima del vaccino, fosse stata eseguita correttamente.

La docente si era presentata una prima volta all’hub di Palermo il 7 marzo 2021, per ricevere la dose del vaccino, ma in quella circostanza il medico la rimanda a casa. “Per il primo medico che la visitò era in sovrappeso e quindi potevano esserci controindicazioni, sollecitò la Pennisi a chiamare il call center – spiegano i legali Alessandro Palmigiano e Luigi Miceli –. Dal centro però le venne detto che poteva ripresentarsi, e il secondo medico non sollevò obiezioni”. Dieci giorni dopo l’inoculazione, si acutizzano i dolori addominali, accompagnati da vomito. La Tac fatta al pronto soccorso mostra “una trombosi addominale in atto”, e per questo è trasferita d’urgenza al Policlinico, ricoverata in terapia intensiva a causa di una “disfunzione multiorgano”. Si spegne il 28 marzo.

La Procura ha disposto una consulenza tecnica, attesa per la prossima settimana, per accertare se gli episodi trombotici, che avrebbero provocato il decesso, sono riconducibili alla somministrazione del vaccino.