“Da quand’è finito il lockdown sempre più abusi sulle donne”

L’ultimo caso qualche giorno fa, una donna violentata nel parco del Monte Stella, a due passi da San Siro. “Quando arriviamo noi è già troppo tardi” esordisce il procuratore aggiunto di Milano Maria Letizia Mannella, capo del pool che si occupa dei reati contro i “soggetti deboli”. Con la fine del lockdown le violenze e i maltrattamenti sulle donne nel capoluogo lombardo e nel suo hinterland sono in aumento. “Nei soli ultimi 15 giorni abbiamo ricevuto fra 30 e 40 denunce da codice rosso, nella maggioranza sono donne. Un caso su 100 però riguarda anche donne che maltrattano mariti o compagni malati e deboli”.

Secondo lo Svsed (Soccorso violenza sessuale e domestica) dell’ospedale Mangiagalli, a Milano negli ultimi due mesi i casi di violenza sessuale sono stati 92 contro i 75 del medesimo periodo del 2019. La stessa tendenza per le violenze domestiche: a oggi 115 casi contro i 78 del 2019.

Le violenze per strada durante il lockdown erano ridotte al minimo. “Ma anche durante la chiusura ci sono stati episodi di aggressione connessi a situazioni di zone buie e senza passaggio di persone. Non sono state violenze efferate”. In compenso i “maltrattanti” hanno avuto vita facile, rinchiusi in casa con le loro vittime. “Ora la situazione è diversa – prosegue Mannella – perché le persone abusate cominciano timidamente a fare denuncia, anche se mancano quelle delle scuole con i bambini ancora più vittime anche per quanto riguarda la pedopornografia. Se prima il fenomeno era limitato allo scambio di immagini, ora chi fa circolare le fotografie nei siti dark cerca di monetizzare. Anche attraverso i bitcoin”.

Crescono anche i casi di violenze su genitori anziani. “La chiusura imposta dal lockdown dei centri di salute mentale o per le dipendenze come droga e alcool scatena il peggio dentro le mura domestiche”, osserva Mannella. Ogni giorno, in provincia di Milano, si contano 2-3 arresti sul fatto per reati codice rosso, tra gli altri maltrattamenti in famiglia, stalking, violenza sessuale. Le ultime due settimane di denunce a Milano, ripete il procuratore aggiunto, sono molto significative. Violenze più o meno efferate come l’aggressione avvenuta nel parco del Monte Stella: una donna di 45 anni che passeggiava con il cane è stata sorpresa alle spalle, bloccata, presa per i capelli, trascinata in un luogo appartato e violentata. Tutto è avvenuto intorno alle 17.50. È stata soccorsa da un runner.

“Stiamo registrando brutte violenze” ammette la pm. Il ruolo della prevenzione per Mannella resta comunque una priorità. A cominciare dal riconoscimento dei “segnali”. Al centro Mangiagalli di Milano li identificano con il “ciclo della violenza” secondo cui l’uomo diventa progressivamente violento nei confronti della donna e della famiglia e poi si pente. A seguire quello che chiamano “il ciclo della luna di miele”, sempre più breve: la finalità è indurre il senso di colpa della donna stessa che cerca di accontentare in tutto il proprio uomo tentando di sedare la rabbia non gestita che diventa violenza. Molto importante, secondo la pm che si rivolge alle donne, evitare l’abuso di alcolici la sera. “Nella mia casistica le ragazze violentate per la maggior parte dei casi hanno perso la lucidità e questo consente al predatore di approfittarne e nei casi di aggressori ‘usuali’ di mettere nel bicchiere la cosiddetta droga dello stupro che inibisce qualsiasi attività di difesa e reazione. Questo può portare anche a subire violenze di gruppo”.

Letizia Mannella guida il pool “soggetti deboli” da tre anni, cosa è cambiato? La pm non ha dubbi: “Il codice rosso ha cambiato l’ottica della polizia giudiziaria e dei magistrati dando un’impronta di urgenza a tutte queste ipotesi di reato: entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato la persona offesa deve essere sentita. Questo significa che l’attivazione e l’allerta è massima. È cambiata anche la mentalità”. Poi un aneddoto: “Cinque anni fa avevo processato un appartenente alle forze dell’ordine che conservava nel cassetto circa tremila denunce di reato non inviate all’autorità giudiziaria. Ce n’erano tantissime per maltrattamenti. Oggi non sarebbe più possibile”.

 

L’interrogatorio. Il prestanome inizia a collaborare

Due ore scarse di interrogatorio davanti al gip Giulio Fanales e poi altre quattro ore con i pm Eugenio Fusco e Stefano Civardi. Luca Sostegni – uno degli indagati dell’inchiesta di Milano sulla compravendita dell’edificio di Cormano, sede della Lombardia Film Commission – ha collaborato. Si tratta di un interrogatorio importante che potrebbe aiutare i magistrati a ricostruire l’intera operazione immobiliare sull’acquisto da parte della Fondazione di un edificio pagato 800 mila euro. Chi vende è l’Immobiliare Andromeda, che aveva comprato l’edificio pochi mesi prima a 400 mila euro dalla Paloschi srl, di cui era liquidatore Sostegni. La Fondazione acquista l’immobile quando era presidente dell’ente Alberto Di Rubba, ex revisore contabile della Lega al Senato, ora indagato per peculato e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente. Stessi reati per i quali sono stati iscritti anche Andrea Manzoni, ex revisore dei conti del Carroccio alla Camera e Michele Scillieri, commercialista nel cui studio nel 2017 è stato domiciliato il movimento “Lega per Salvini premier”.

Ieri Sostegni – fermato mercoledì mentre, secondo l’accusa, stava tentando di fuggire in Brasile – ha anche chiarito i suoi rapporti con Scillieri e con gli altri professionisti nell’affare della compravendita. Oltre peculato, Sostegni è accusato di estorsione: secondo le accuse avrebbe chiesto 50 mila euro in cambio del suo silenzio con la stampa sui dettagli di tutte le operazioni a cui avrebbe partecipato. Ieri l’uomo ha spiegato che non fu estorsione, quei soldi, dice, gli spettavano. Intanto continuano le indagini. I pm puntano a individuare anche “chi abbia operato” sul “mandato fiduciario N1200” della fiduciaria Fidirev e vogliono chiarire pure “il ruolo” di Francesco Barachetti (non indagato), titolare della Barachetti Service srl che si occupò della ristrutturazione dell’edificio. Barachetti, scrivono i pm, “è molto legato a Di Rubba e Manzoni e più in generale al mondo della Lega”. “Non sono preoccupato. La Lega non c’entra nulla”, ha commentato Salvini.

I fondi e i contratti blindati: sulla Lfc, blitz della Regione

Non ci sono solo i commercialisti gravitanti nell’orbita verde a legare il Carroccio alla compravendita dell’immobile di Cormano, al centro dell’inchiesta della Procura di Milano. Tra il partito di Salvini e il capannone che, secondo i pm, è stato acquistato a “prezzi gonfiati” con soldi pubblici dalla Lombardia Film Commission c’è un filo che parte dal Pirellone. I fondi per l’acquisto della sede della LFC arrivano dalla Regione, guidata allora da Roberto Maroni, con una delibera di giunta. Gli 800mila con cui nel 2017 l’ente pubblico acquista l’immobile di via Bergamo 7 da Andromeda (che aveva acquistato lo stesso solo 10 mesi prima dalla Paloschi Srl) sono parte di un finanziamento accordato dal Pirellone – a tempo di record – nelle ultime settimane del 2015. Il 17 novembre il presidente di LFC Alberto Di Rubba scrive alla Regione per segnalare la necessità di “ricercare un immobile che soddisfi le esigenze della Fondazione”. Appena tre giorni dopo, la giunta Maroni vara la delibera X/4342 per assegnare “contributi straordinari” agli “enti dispettacolo partecipati dalla Regione”: e un milione va alla Lombardia Film Commission, che prima di allora mai aveva ricevuto tanto dal Pirellone. Poco più di un mese dopo, con una celerità inusuale, i soldi vengono quindi accreditati sul conto della Fondazione.

Ma c’è di più: la delibera prevede che i fondi possano essere investiti esclusivamente in ambito immobiliare. Un “vincolo di destinazione a patrimonio” che aveva fatto storcere il naso alla consigliera Erminia Ferrara, la quale durante il Cda del 15 aprile 2016 espresse – si legge nel verbale della seduta – “la propria contrarietà circa le modalità di utilizzo (del contributo, ndr) a suo parere poco lineari”. Perplessità cadute nel vuoto. Il 4 dicembre 2017 Di Rubba, commercialista nominato dalla Regione presidente della Fondazione, sigla il contratto preliminare con l’Immobiliare Andromeda proprietaria del capannone (e di cui, secondo gli inquirenti, è “amministratore di fatto” un altro contabile vicino alla Lega: Michele Scillieri, nel cui studio milanese nel 2017 il Capitano aveva registrato il suo nuovo partito nazionale “Lega per Salvini premier”). Scillieri è anche consulente “in materia amministrativa e fiscale” della Fondazione con un contratto da 25milaeuro l’anno firmato nel 2015, sotto la presidenza Di Rubba.

Un coacervo di conflitti di interessi che, però, non vengono rilevati da chi avrebbe dovuto controllare. Ovvero l’Organismo di Vigilanza presieduto da Alessio Gennari, avvocato legato alla Fondazione da un contratto da 6.500 euro annui. Il quale era sì andato a verificare “il beneficiario economico ultimo della società cedente (Immobiliare Andromeda Srl)”, ma aveva concluso – si legge nella relazione presentata il 9 giugno dall’attuale presidente di LFC, Alberto Dall’Acqua – che non c’erano problemi. “Gennari – scrive dall’Acqua – ha individuato nel sig. Barbarossa Fabio Giuseppe il solo ed ultimo beneficiario”. L’operazione immobiliare poteva essere conclusa dalla Fondazione quindi “senza alcun conflitto di interessi né presente né futuro”. Non si era però accorto, Gennari, che Barbarossa, all’epoca amministratore di Andromeda, fosse il cognato di Scillieri. Gennari poi, annota la Finanza, “è legato da rapporti patrimoniali con società di cui Manzoni (Andrea, ex revisore dei conti della Lega, indagato) e Di Rubba sono amministratori/liquidatori/soci”.

Il controllore, quindi, è amico dei controllati. Altro problema che la Fondazione non si è posta. “Noi abbiamo ereditato questa situazione”, spiega al Fatto la consigliera Paola Dubini. Che lo scorso anno definiva, parlando con Business Insider, quelli di Di Rubba e Scillieri “contratti pluriennali che non siamo nelle condizioni di rescindere”. Tradotto: contratti blindati. Da chi, se non dalla Regione?

I (sei) soliti sospetti negli affari della lega

Il “drenaggio” di soldi pubblici ipotizzato dalla Procura di Milano ha nomi e cognomi. Quasi quanti gli 800 mila euro sborsati dalla Lombardia Film Commission per comprare nel 2017 un immobile a Cormano da una società che lo aveva pagato la metà, solo 11 mesi prima. La ragnatela societaria costruita per il presunto peculato è complessa, i bonifici centinaia, ma gli uomini che tirano i fili principali sono pochi. E sempre gli stessi. Le loro storie dimostrano che l’ultima inchiesta ambientata in Lombardia è solo una parte di quella più ampia sulle finanze leghiste ai tempi di Salvini. Un pezzo del puzzle dei 49 milioni di euro, che potrebbe spiegare meglio come ha fatto un partito senza soldi a restare in piedi finanziariamente per tutti questi anni.

 

MICHELE SCILLIERI

È il maestro di Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba, i commercialisti scelti per gestire le casse del partito. Nel suo studio è stata domiciliata all’inizio la Lega Salvini Premier. Era il 2017 e su Scillieri non si sapeva molto altro. La vicenda della Lombardia Film Commission spiega che questo professionista milanese classe ’63, specializzato in procedure fallimentari, con incarichi in una trentina di aziende, ha un legame molto solido con le alte sfere del partito che dura da quando nel suo studio da commercialista fece pratica Manzoni. Per la Procura di Milano, Scillieri è l’organizzatore, insieme a Manzoni e Di Rubba, del drenaggio dei soldi pubblici. Sarebbe stato lui a trovare l’immobile e le teste di legno (suo cognato Fabio Barbarossa e Luca Sostegni) necessarie per realizzare lo schema societario. Gli investigatori sono certi che Scillieri abbia giocato su entrambi i tavoli: prima come amministratore della società venditrice privata dell’immobile (Andromeda Srl), poi come consulente dell’acquirente pubblico, la Lombardia Film Commission. Nominato dal leghista Di Rubba in persona. Come se non fosse già abbastanza in conflitto di interesse, nello stesso periodo Scillieri si è fatto anche pagare privatamente dalla Lega Nord fatture per 90 mila euro.

 

ALBERTO DI RUBBA

Voluto dalla giunta regionale guidata al tempo da Roberto Maroni, è stato il presidente di Lombardia Film Commission all’epoca dell’acquisto dell’immobile di Cormano. Commercialista, classe ’79, Di Rubba è entrato nel cerchio magico quando Salvini è diventato segretario federale. Nato a Gazzaniga, Bergamo. Ha studiato all’università insieme al tesoriere della Lega, Giulio Centemero, con cui ha anche condiviso interessi societari prima che quest’ultimo diventasse parlamentare. Dopo l’arrivo dei salviniani al vertice del partito, nel 2015, è stato nominato nei cda delle controllate Radio Padania e Pontida Fin. E scelto come revisore contabile del gruppo Lega al Senato. La Procura di Milano lo ha iscritto nel registro degli indagati per la vicenda di LFC. L’accusa è di peculato e turbativa d’asta. Secondo la Guardia di finanza, degli 800 mila euro pubblici pagati per comprare l’immobile di Cormano, oltre la metà è finita sui conti suoi e su quelli di Manzoni.

 

ANDREA MANZONI

Fa coppia fissa con Di Rubba. Anche lui del ’79, bergamasco, commercialista, compagno di studi di Centemero. Negli ultimi anni ha accumulato decine di incarichi ben pagati in società a partecipazione pubblica (da Italgas a Metropolitane Milanesi), cui si aggiungono quelli in alcune controllate della Lega, e la poltrona da revisore contabile del gruppo alla Camera. Nella Lombardia Film Commission, però, Manzoni non ha ruoli ufficiali. La Procura di Milano lo ha iscritto fra gli indagati per aver “promosso e organizzato la cooperazione del reato” di peculato e turbativa d’asta. Obiettivo? Manzoni è accusato dai pm di essersi intascato, grazie al socio d’affari Di Rubba, 419 mila euro. Denaro arrivato sui conti dei commercialisti del partito dopo un lungo giro, quasi sempre un gioco di sponda con fornitori come Francesco Barachetti.

 

FRANCESCO BARACHETTI

Dall’insediamento del duo Salvini&Centemero, la Lega è diventata il suo cliente preferito. Solo tra il 2016 e il 2019 ha incassato almeno 1,5 milioni di euro dal partito, con la causale generica “saldo fattura”. Non male per un elettricista bergamasco che ha messo su un’impresa capace di fare un po’ tutto, dalla progettazione edile alla manutenzione del verde. Barachetti è nato a Gazzaniga, 5 mila anime in Val Seriana. Come Di Rubba. La sua azienda ha svolto i lavori di ristrutturazione – incassando 201mila euro – dell’immobile comprato dalla fondazione quando a presiederla era il suo compaesano. Ma non risulta indagato dalla procura di Milano. Nel decreto di fermo a carico di Luca Sostegni, i finanzieri scrivono di lui: “È personaggio molto legato a Di Rubba-Manzoni, e più in generale al mondo della Lega. Il suo ruolo, in questa vicenda, non è stato ancora del tutto chiarito”.

 

GIULIO CENTEMERO

È uno degli uomini più vicini al capo. Matteo Salvini lo ha scelto prima come assistente parlamentare a Bruxelles e poi, una volta arrivato al vertice del potere leghista, come tesoriere del partito. È stato lui a puntare tutto su Di Rubba e Manzoni, amici da una vita. È stato lui a spostare il baricentro delle finanze padane da via Bellerio a Bergamo, nello studio privato dei suoi colleghi commercialisti. Centemero non è sotto inchiesta per la vicenda dell’immobile di Cormano. I suoi problemi giudiziari al momento sono altri. È indagato dalle Procure di Milano e Roma per finanziamento illecito. I magistrati lo accusano di aver incassato fondi privati destinati al partito, senza dichiararli. Quasi 300 mila euro donati dal costruttore Luca Parnasi e da Esselunga attraverso un’associazione ufficialmente votata al “pluralismo dell’informazione”: Più Voci. A fondarla, oltre a Centemero, c’erano Di Rubba e Manzoni. Proprio nel loro studio di Bergamo.

 

STEFANO BRUNO GALLI

Assessore alla Cultura in Regione Lombardia, docente di Dottrine politiche alla Statale, pressato dalla richieste dell’opposizione non ha trovato migliori parole che definire le modalità di acquisto dell’immobile di Cormano “un’imprudenza”. Concludendo che, però, tutto è stato svolto in modo “formalmente corretto”. Galli non ha avuto ruoli in questa carissima compravendita, ma secondo la Procura di Genova avrebbe invece partecipato attivamente all’altro filone d’inchiesta sulle finanze leghiste: quello del riciclaggio dei 49 milioni. Da presidente dell’Associazione Maroni Presidente, una lista a sostegno dell’ex governatore leghista, Galli avrebbe ripulito 450 mila euro sottraendoli al sequestro. Denaro che dalla Lega sarebbe tornato alla Lega, triangolando sui conti dell’associazione guidata da Galli. Tutto questo negli anni in cui l’inchiesta sulla truffa di Bossi e Belsito avanzava, e le casse del Carroccio si prosciugavano.

La storia continua.

Tre “bastardi” per la poltrona di Merola

La data non c’è ancora, ma i pretendenti a Bologna non mancano, anzi: tre “semplici bastardi”, un’avvocata pop, un inossidabile e l’incognita di un civico a destra. Nel 2021 scade il secondo mandato del sindaco Virginio Merola, eletto con larga maggioranza dopo lo scandalo del suo predecessore Flavio Delbono, travolto dai rimborsi spese per alcuni viaggi con una fidanzata.

Per vincere le elezioni, secondo Merola, serve “una coalizione dei semplici, bastardi fuori dai giri e dai soliti veti, capaci di soluzioni ed esperimenti”. Un riferimento alla sua giunta, in particolare ai tre quarantenni cresciuti all’interno del “Partito” e oggi pronti a prendere il suo posto. Per scegliere il candidato migliore le primarie sarebbero la strada sovrana, ma non per forza la più sicura: il Pd, stretto tra le correnti e un possibile futuro con il M5S potrebbe uscire indebolito da una competizione interna tra i suoi golden boys. Matteo Lepore è il predestinato, forse troppo. Assessore alla Cultura, 40 anni, con una formazione in Legacoop: ex bersaniano, ex renziano, ex orlandiano, ora zingarettiano, come molti in Emilia. Sostenitore del parco del cibo di Oscar Farinetti, Fico, ha varato la tassa di soggiorno che nel 2019 ha fatto incassare al Comune 11 milioni di euro.

Un altro candidato è Alberto Aitini, un passato da segretario della Sinistra Universitaria, ex Ds. Da assessore 36enne alla Sicurezza decide di non trattare con chi occupa ispirandosi forse al sindaco sceriffo Sergio Cofferati, mai dimenticato grazie alle sue frasi cult: “È mio dovere quale pubblico amministratore difendere i cittadini anche da loro stessi”. Sempre dalla giunta anche Marco Lombardo, ex civatiano poi ex renziano, all’ultimo congresso insieme al potente deputato Andrea De Maria ha sostenuto la corsa, infelice, di Maurizio Martina. Da assessore al Lavoro ha presentato “la carta di Bologna” per promuovere e difendere i diritti dei rider mentre con la curia del cardinale Matteo Zuppi porta avanti il progetto “Insieme per il lavoro”.

Un affollamento che il governatore Stefano Bonaccini non apprezza. Ospite di Isabella Conti, sindaca renziana di San Lazzaro, Bonaccini non le ha mandate a dire: “Primarie o non primarie si vedrà, ci vuole la responsabilità e la consapevolezza di non mettere il proprio destino scriteriatamente davanti al progetto”. Dichiarazioni che in tanti hanno interpretato come uno stop a Lepore, troppo convinto forse di essere quello giusto.

A intimorire è anche la candidatura di Cathy La Torre, miglior avvocata pro bono in Ue nel 2019, fondatrice di “Odiare ti costa”, difende Carola Rackete e su Instagram ha più di 130 mila follower. La Torre è pop ma con un passato a sinistra in Sel. Sarà un caso ma nel libro scritto da Bonaccini, La Torre è citata mentre Lepore no. Un altro candidato che si è fatto avanti è Alessandro Alberani, ex segretario Cisl e attuale dirigente di Acer (case popolari) rappresenta l’ala cattolica del centrosinistra ma molti gli preferirebbero Gian Luca Galletti, sempre in bilico se candidarsi o meno. A destra tutto tace. Dopo tre elezioni perse in 10 anni con la stessa candidata, Lucia Borgonzoni, la Lega sa di dover cedere il passo ma il civico capace di compiere il miracolo di Giorgio Guazzaloca, unico a battere la sinistra in città, ancora non è spuntato.

B. s’insedia a Villa Certosa: tampone per tutti gli ospiti

Pareva impossibile fino a qualche mese fa e invece è successo. Veronica Lario è sbarcata a Villa Certosa, la maison sarda di Silvio Berlusconi, per trascorrere una serata in famiglia per il compleanno di uno dei nipotini, insieme alle figlie Eleonora e Barbara (l’altro è Luigi), ma pure all’ex marito e alla sua nuova fiamma, Marta Fascina, la deputata trentenne che ha preso il posto di Francesca Pascale e che da circa un anno frequenta il leader di Forza Italia. È con lei che Silvio ha trascorso il lungo periodo in Provenza, nella villa della figlia Marina, mentre in Italia c’era il lockdown. È sempre con Fascina che poi è tornato ad Arcore verso la fine di giugno.

Con lei è andato a fare degli accertamenti al San Raffaele per poi volare in Sardegna, qualche giorno fa, come dimostrano le foto pubblicate dal settimanale Gente. Dove si vedono Berlusconi e Fascina, entrambi con la mascherina, scendere dall’aereo a Olbia. Ma si vede pure, su un altro volo privato, Veronica Lario, diretta a Villa Certosa. Segno che da quando, nel febbraio scorso, è stato raggiunto l’accordo economico sull’assegno di mantenimento “decurtato”, i rapporti tra gli ex coniugi sono molto migliorati.

Veronica, raccontano, è già ripartita, ma in Sardegna ha trascorso almeno un paio di giorni, cenando con tutta la famiglia. E facendo la conoscenza della nuova fiamma dell’ex marito. “Con Francesca Pascale non era mai successo: le due non si sono mai incrociate e mai sarebbe accaduto che Veronica potesse essere invitata a un consesso familiare alla presenza di Francesca”, racconta una fonte che ben conosce le vicende della famiglia.

Ma sulla Pascale torneremo poi. Berlusconi, nel frattempo, è ancora in Sardegna dove si tratterrà per un po’: l’agosto lo dividerà tra la magione sarda e la Provenza, dove si è trovato benissimo. Il fatto è che l’ex Cavaliere è ancora terrorizzato dal Covid. Tanto che ha imposto a tutti quelli che vogliono andare a trovarlo di sottoporsi al tampone. “Se non ti sei appena fatto il tampone, è inutile chiedergli udienza”, conferma un parlamentare.

Forse è anche per questo che Villa Certosa è stranamente vuota: manca la solita corte di parlamentari e peones. Il Covid fin qui ha avuto il merito di preservarlo dagli scocciatori. Una cosa che lo accomuna al suo vecchio amico Vladimir Putin: anch’egli assai spaventato dal virus, fa sottoporre a tampone tutti i suoi interlocutori. “Ha fatto erigere intorno a sé una cortina di ferro. Cosa di cui lui è molto esperto…”, ci ha scherzato su Carlo Rossella sul Foglio, parlando di Putin.

Lo stesso ha fatto Silvio. Perché anche se non sono più quelle folli estati in cui Villa Certosa era presa d’assalto da decine di questuanti, tanto che c’era la caccia ad affittare le ville vicine per marcarlo stretto e spuntare un invito, tuttavia l’ex premier ha sempre il suo cospicuo numero di aficionados.

Dicevamo della Pascale. Lei con Veronica non si è mai incrociata. La Fascina, molto silenziosa e sempre al suo posto, è tutto il contrario e per questo è apprezzata dalla famiglia, soprattutto da Marina, che è stata la vera artefice della defenestrazione di Francesca. Berlusconi e Pascale non si vedono da tempo. Pare che Marina abbia posto il divieto assoluto. Forse perché, come racconta qualcuno, magari teme un ritorno di fiamma. La 35enne napoletana, nel frattempo, è stata da poco paparazzata a Sabaudia con quella che si vocifera essere una sua grande amica: la cantante Paola Turci. “Si frequentano dall’autunno scorso…”, sussurra una fonte. Pascale continua a godere di tutti i benefit: la villa, le auto, la scorta, un fisso mensile. Ma tra settembre e ottobre potrebbe arrivarle il benservito, ovvero lo sfratto da Villa Maria. “Finché lei è nei paraggi, Marina teme che il padre possa ricascarci”, si sussurra dalle parti di Arcore. Perché proprio per il suo carattere esuberante, Silvio con Francesca si divertiva. Adesso un po’ meno.

Commissioni: ribellione del M5S su Paita “lobbista” degli armatori

Raffaella Paita aspira da tempo la presidenza della commissione Trasporti della Camera. Ed entro due settimane, dopo il voto sullo scostamento di Bilancio, la otterrà. Così prevede l’accordo di maggioranza sulle 28 presidenze di commissione da rinnovare a metà legislatura: Matteo Renzi ha spinto fortissimo per la sua proconsole in Liguria ai Trasporti e per Luigi Marattin alla Bilancio (difficilmente la spunterà, per ripiegare sulle Finanze). Eppure, la nomina di Paita sta provocando non pochi malumori all’interno della maggioranza. Sia per il suo conflitto d’interessi – suo marito Luigi Merlo è presidente di Federlogistica ed ex manager di Msc, uno dei principali gruppi armatoriali, e del porto di Genova – sia per le sue dure posizioni nei confronti del candidato in Liguria, Ferruccio Sansa.

Dopo aver letto sui giornali che in pole position per la commissione Trasporti c’è proprio Paita, diversi deputati Pd e M5S si sono ricordati del suo ostruzionismo all’emendamento al decreto Rilancio presentato dal Pd, ma sottoscritto anche da M5S e Leu, in funzione “anti-armatori” sulla “autoproduzione”. Stiamo parlando di quella pratica per cui spesso, per risparmiare sui costi, gli armatori decidono di far svolgere le funzioni – come lo scarico delle merci – ai propri dipendenti marittimi rispetto ai portuali.

E l’emendamento, approvato, va in senso opposto: tutelare i lavoratori marittimi e portuali contro queste pratiche attraverso l’introduzione di requisiti e autorizzazioni molto stringenti. Dopo la presentazione dell’emendamento, gli armatori e le associazioni di categoria hanno preso netta posizione contro le nuove norme considerate “troppo restrittive”. Assarmatori ha parlato di “ritorno a 25 anni fa” mentre l’Associazione Logistica dell’Intermodalità Sostenibile (Alis) si è detta “molto preoccupata” per la nuova norma. Preoccupazioni che si sono spostate anche all’interno della commissione Trasporti di Montecitorio. Nella maggioranza hanno notato il super attivismo della renziana Raffaella Paita che ha preso le distanze dai suoi ex colleghi del Pd sollevando molte obiezioni all’emendamento. E in molti temono che, una volta seduta sulla poltrona più alta della commissione, difficilmente Paita si opporrà a norme scomode per gli armatori italiani.

I malumori della maggioranza, e soprattutto tra i 5 Stelle, sono legati anche alla sua posizione in Liguria: ogni giorno la candidata perdente del Pd nel 2015 bombarda Sansa. Tant’è che Italia Viva correrà in autonomia in Liguria, sostenendo il professore di Ingegneria Aristide Massardo. “Questa vuole diventare presidente della Commissione con i nostri voti e poi rompe la coalizione in Liguria?” chiede con amarezza un esponente della maggioranza. “Effettivamente il conflitto d’interessi di Paita esiste – dice la deputata 5S Carmela Grippa – spero che in fase di trattative il nome della nuova presidente possa cambiare”.

Di Maio insidia Conte: Grillo arbitro in campo

L’assedio – come ormai non stentano a chiamarlo non solo a palazzo Chigi, ma pure dentro i Cinque Stelle – questa volta ha avuto l’arbitro delle grandi occasioni. Quel Beppe Grillo che solo qualche settimana fa aveva deciso di rispolverare il vecchio vaffa, stavolta all’indirizzo delle sue creature, annullando all’ultimo minuto la discesa a Roma con cui voleva provare a sedare le beghe interne del Movimento, da sei mesi senza un capo legittimato dalla base. Eppure, al garante che non ha più voglia di ascoltare capricci e mediare ambizioni, è toccato rimettere le cose a posto due volte in un mese. E non è una coincidenza il fatto che in entrambi i casi, in ballo ci fosse la sopravvivenza del governo guidato da Giuseppe Conte.

Così, dopo aver redarguito le intemperanze di Alessandro Di Battista – reo di aver evocato un “congresso” per i 5 Stelle, ovvero di aver messo sul piatto anche l’ipotesi che alla guida arrivasse qualcuno come lui, contrario all’avventura giallorosa – l’altro ieri gli è toccato riportare in carreggiata l’accordo con il Pd per le regionali nella “sua” Liguria. Una telefonata con Vito Crimi, il capo reggente, che smentisse in maniera netta le indiscrezioni secondo cui anche l’ex comico genovese, come Luigi Di Maio, non apprezzava la candidatura a presidente di Ferruccio Sansa, il giornalista del Fatto su cui si era trovata la mediazione dopo mesi di trattativa.

Come noto, il nome di Sansa è rimasto. E ormai nel Movimento nessuno nega più che l’intervento a gamba tesa nella querelle ligure sia da attribuire all’ex capo politico, da tempo impegnato in una sua personalissima partita che immagina fischi il calcio d’inizio con la fine dell’attuale esperienza a palazzo Chigi. Una partita che, con una lettera a questo giornale, lo stesso Di Maio ha rivendicato come normale amministrazione del suo lavoro da ministro degli Esteri, che incontra quindi un ex presidente della Bce come Mario Draghi, un emissario di Berlusconi come Gianni Letta, il presidente di una holding (in questo caso, della famiglia Benetton) come Gianni Mion.

Per questo fa un certo effetto scoprire che, tra i tanti impegni, Di Maio non abbia per ora in agenda quello di martedì, quando i Cinque Stelle si riuniranno virtualmente per un “villaggio Rousseau” a cui parteciperanno, tra gli altri, il reggente Vito Crimi e la sindaca di Roma Virginia Raggi, ma pure Davide Casaleggio e Paola Taverna: la presenza di Di Maio, al momento, non è prevista (e pare che lui se ne sia rammaricato).

Sono segnali del clima di tensione che si respira nel Movimento e che ora hanno preso di mira anche il ministro Stefano Patuanelli. Non solo perché ha dato i cosiddetti “trenta giorni” al segretario generale del ministero dello Sviluppo economico, quel Salvatore Barca un tempo considerato fedelissimo dello stesso Di Maio. Ma pure perché al suo posto pensa di portare Marcella Panucci, che il neopresidente Carlo Bonomi non vuole più come direttore generale di Confindustria. “Gli sta facendo un favore”, racconta chi ha seguito il dossier, mentre altri sottolineano come – dopo tutto quello che è accaduto nell’era Covid – scegliere una rappresentante degli imprenditori sia “una scelta di campo” difficilmente digeribile fuori. Fatto sta che, almeno in questo, pare che la sostituzione dell’ex fedelissimo non sia da considerare uno sgambetto a Di Maio: Barca, spiegano, non piaceva più nemmeno a lui, quando era al Mise. “Ha fatto fare ad entrambi scelte sbagliate”, spiegano, “soprattutto sulle nomine di direttori”. In ogni caso, per consolarlo, gli hanno offerto un posto in una direzione generale (tre anni di stipendio garantiti) oppure un posto al timone di una società del gruppo Invitalia, quella che si occupa di partecipazioni. Lui però vorrebbe andare in Consap, ma è probabile ci sia un problema di pantouflage, visto che è una azienda partecipata. (Chissà cosa ne pensa, di queste romanissime storie, Beppe Grillo).

Makke, il “mite mister Teflon” contro i peccatori d’Europa

Il frugale Mark Rutte ha un eroe cui si ispira: Winston Churchill, mentre non ha mai nascosto la sua ammirazione per il cipiglio di Margaret Thatcher, fiera nemica del welfare. In verità, nel corso degli anni Makke (il docile, uno dei tanti nomignoli che gli vengono affibbiati) ha dimostrato di avere idee confuse, quanto a leader carismatici contemporanei: gli piaceva molto Bill Clinton. Ma anche Ronald Reagan.

Non parliamo poi delle sue roboanti esternazioni: ha l’abitudine di alzare i toni e offendere i Paesi che ritiene “peccatori”. Eh sì, lui applica un calvinismo molto anacrostico, da fedele membro della Chiesa Protestante dei Paesi Bassi dove nel 2004 confluì la Chiesa Riformista. C’è chi ricorda come liquidò la derelitta Grecia che aveva bisogno di sostanziose iniezioni finanziarie, all’epoca del default ellenico: “Non le darò nemmeno un centesimo”, dichiarò lo spilungone Mark (è alto un metro e 93). Anni dopo ammise d’essersi sbagliato. Conte avvisato mezzo salvato…

Non parliamo poi di un problema spinoso e lacerante come la Shoah. Nel 2009 Mark si batté per depenalizzare il negazionismo. Questo gennaio ha chiesto scusa alla comunità ebraica per la persecuzione subìta durante la Seconda Guerra Mondiale. Non è un caso che i politologi lo considerino uno dei peggiori premier olandesi.

Eppure, nonostante le critiche e la precarietà delle sue maggioranze, è il primo ministro più longevo d’Europa, dopo la Merkel: guida, fra alti e bassi, il governo olandese da dieci anni. Pur di restare al timone, si è alleato con la destra, il centro, gli ecologisti e la sinistra. Per un paio d’anni, persino con il sostegno del suo rivale d’estrema destra, l’impresentabile sovranista Geert Wilders. Il disinvolto opportunismo gli ha procurato il soprannome di “Mister Teflon”, grazie alla capacità di lasciarsi scorrere addosso tutto e il contrario di tutto. Un giornale ha preferito battezzarlo “Mr. Silicone”, poiché gli riconosce l’elasticità del caucciù e la resistenza agli sbalzi della temperatura (s’intende, quella parlamentare che in questi giorni di Eurobond è assai rovente).

L’avversario numero uno di Conte all’Ue, in fondo, incarna il liberalismo vecchio stile: non è un grande economista, ma un grande economo. Infatti detesta gli sprechi e spende poco. Intanto, non vuole guardie del corpo. Non ha smartphone, ma un antidiluviano Nokia. Possiede una vecchia Saab di seconda mano. Da due anni ha ripreso a pedalare, “fa bene alla salute e all’ambiente”. Il ciclismo evita 6 mila decessi l’anno e fa risparmiare 20 milioni all’erario. In Olanda ci sono più bici che abitanti, 23 milioni contro 17, e 35 mila km di piste ciclabili. Una volta Rutte si è recato dalla regina sulla sua bici modello Urban, solido e spartano. Un trionfo. Gli olandesi hanno fama di taccagni, fin dai tempi della Compagnia delle Indie Olandesi. Una calunnia immeritata, per Rutte. La frugalità è una virtù che dovrebbero avere tutti, sostiene lui, soprattutto quei cicaloni del Sud Europa che invece sperperano e sono amministratori inaffidabili.

Su questo codice morale, Rutte ha costruito la sua immagine. Di uomo pragmatico e risparmiatore. Duttile e riservato (ben poco si sa della sua vita privata, salvo che è scapolo), è nato il giorno di san Valentino del 1967, quando i Paesi Bassi erano la meta trasgressiva d’Europa, la patria della tolleranza e dell’integrazione. Al liceo il biondo e occhialuto ragazzone aveva manifestato spiccato interesse per l’arte. E la musica. Avrebbe voluto frequentare il Conservatorio e diventare pianista. Ma si è laureato in Storia all’università di Leida per diventare poi manager alla Calvé e alla Unilever dove è stato dirigente al dipartimento delle risorse umane.

Nel frattempo, si organizzava la metodica scalata politica. A 21 anni era già capo dei giovani liberali. A 35 anni diventa segretario di Stato agli Affari Sociali e all’Occupazione. A 36 è deputato. A 37, segretario di Stato per l’Istruzione, la Cultura e la Scienza. A 39 capo del Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia (VVD). A 43 premier.

E lì è ancora. Baluardo contro gli inaffidabili del Mediterraneo. Che però apprezza in cucina. Nel week end si concede ogni tanto il lusso di un pranzo con la sorella al ristorante del cuore, dove ha invitato Conte. Si chiama l’Impero Romano.

Rebates, dumping eccetera: breve guida al dibattito in Ue

Recovery Fund, Bilancio europeo, rebates, sussidi e prestiti, dumping… Dopo due giorni di Consiglio europeo, nel quale le proposte tecniche sottendono visioni politiche, è utile una breve guida alle cose di cui si parla.

Recovery Fund. In realtà si chiama Next Generation Ue ed è un piano di quatto anni – che correrà parallelamente al normale Budget Ue settennale – in parte sotto forma di trasferimenti (grant) e in parte di prestiti (loan): quei soldi, che dovrebbero aiutare i Paesi più colpiti dal Covid, saranno raccolti dalla Commissione e andranno ripagati pro-quota, a partire dal 2028, dai vari Stati membri. Il vero “fondo per la ripresa” si chiama Recovery and Resilience Facility e fino a ieri sera valeva – in trasferimenti, cioè la parte “interessante” – 310-325 miliardi; altri grant (poca roba) sarebbero poi allocati in alcuni programmi di scopo come il Fondo per la transizione ambientale. I problemi più grossi, visti dal lato italiano, sono di tre tipi: 1) la dimensione dell’impegno – e specie quanto ai trasferimenti – non è adeguata alla portata della crisi e i benefici netti per noi, al di là del rimborso in tempi medio-lunghi, è poca cosa (se va bene circa 1 punto di Pil, 18 miliardi); 2) il meccanismo scelto fa sì che la maggior parte dei fondi potrà effettivamente essere spesa tra il 2023 e il 2024, troppo tardi; 3) i fondi sono sottoposti a “condizioni”, cioè vincolati a un piano di riforme nel solco delle priorità Ue e alle “raccomandazioni” della Commissione (quanto vincolati è la battaglia politica che l’asse del Nord sta combattendo a forza di “poteri di veto” e “freni di emergenza”).

Bilancio Ue. Dura sette anni e il prossimo va dal 2021 al 2027. Si aggira sui mille miliardi di euro in totale, appena l’1% del Pil europeo, e viene raccolto da contributi degli Stati sia diretti che via tassazione (una parte del gettito Iva ad esempio): stavolta molti Paesi volevano aumentarlo, ancorché di poco, ma l’asse del Nord è contrario e quello dell’Est non vuole perderci. Nessun Paese comunque è disposto a pagare di più. Va ricordato che l’Italia è contributore netto dell’Ue (come Germania, Francia e altri): negli ultimi otto anni ha versato oltre 40 miliardi più di quanto abbia ricevuto. Un altro problema del prossimo Bilancio Ue è l’uscita della Gran Bretagna, che lascia un buco di circa 70 miliardi che nessuno vuole coprire.

I “rebates”. Collegato al tema del Bilancio 2021-2027 c’è quello dei cosiddetti “rebates”, vari tipi di sconti sui contributi da versare a Bruxelles, concessi a Germania, Olanda e altri Paesi nordici su cui si litiga da anni. Per capire l’assurdità della cosa va ricordato che gli sconti vennero introdotti negli anni Ottanta per la Gran Bretagna un po’ per motivi politici, un po’ perché il meccanismo di divisione degli oneri rischiava di svantaggiarla troppo: visto che Londra aveva i suoi rebates, la Germania pretese lo sconto sulla quota di sua spettanza dello sconto britannico. Negli anni i rebates sono cresciuti e, oltre che Berlino, riguardano oggi in vari modi Austria, Svezia, Paesi Bassi e Danimarca: “Loro si chiamano frugali, noi li chiamiamo avari”, ha detto ieri il premier polacco. Bizzarro che tutto questo avvenga per quattro spiccioli – circa 3,5 miliardi l’anno per la Germania, qualche centinaio di milioni per gli altri – e ancora di più che lo sconto sullo sconto alla Gran Bretagna finisca per sopravvivere pure alla Brexit…

Dumping fiscale. È l’accusa lanciata da Giuseppe Conte in particolare ai Paesi Bassi. Non è argomento di discussione in questo momento, ma la Ue e l’Eurozona non hanno, se non su questioni marginali, politiche comuni sulle tasse (né sul resto in verità, vincoli di bilancio a parte): ognuno fa quel che può e crede. Alcuni Paesi (Irlanda, Paesi Bassi, Stati dell’Est) riservano trattamenti di favore inauditi ad aziende e holding, il che in un mercato unico – e in molti casi con una moneta comune – finisce per essere una forma di concorrenza sleale (dumping) ai danni dei partner. In Olanda la sfera di favore comprende anche il diritto e consente ad alcuni azionisti di minoranza di controllare le loro imprese come se avessero il 51% delle quote (vedi gli Agnelli con Fca ma non solo).