Le 24 ore di Conte a Bruxelles: “È più difficile del previsto”

“Siamo in una fase di stallo: si sta rivelando più complicato del previsto” esordisce il presidente del Consiglio Conte a fine pomeriggio in un video su Facebook. E le speranze di un accordo in giornata si infrangono e si continua a trattare. Ma fermiamo l’immagine e riavvolgiamo il nastro a 24 ore prima. Al 9 piano del palazzo del Consiglio europeo i 27 si ritrovano insieme per una cena di lavoro. La speranza della delegazione italiana, dopo il corpo a corpo dei colloqui, è che le posizioni si ammorbidiscano. Ma accade il contrario. Gli animi si surriscaldano. Il premier olandese Mark Rutte torna a rimettere in gioco la proposta della decisione all’unanimità da parte del Consiglio Ue, “irricevibile” per l’Italia. E la partita sembra tornare al punto di partenza. Il premier rientra in albergo dopo mezzanotte, stanco. È palpabile il fastidio per la piega presa in serata, nonostante l’ottimismo della volontà.

Dopo una conferenza stampa notturna con i giornalisti italiani, in cui rimarca paletti noti, la voglia è di stemperare la tensione. Si siede al bar dell’hotel a cinque stelle dove alloggiano anche le delegazioni tedesca e francese e, dopo un ultimo siparietto con la stampa italiana, dà la buonanotte a tutti. Ma la notte della trattativa sta per cominciare. A pochi minuti di distanza da Conte arriva Angela Merkel e prende posto al tavolo accanto. Qualche istante ancora e li raggiunge il francese Emmanuel Macron. Davanti a una bottiglia di Chateau Margaux rosso i tre ripercorrono i temi e i nodi irrisolti della giornata. Ma prima si brinda al compleanno della cancelliera, 66 anni. Merkel ringrazia Conte del regalo di compleanno: un foulard di Ferragamo. Mentre Macron omaggia “Madame la chancelière” con una bottiglia di Bourgogne bianco, il suo preferito. Alle tre di notte il terzetto si scioglie e le quotazioni dei bookmaker che puntano su un accordo si alzano. Mentre i tre sono immersi in chiacchiere e bevute, voci di corridoio dei palazzi di Bruxelles danno come imminente la presentazione di una nuova proposta del presidente del Consiglio europeo Charles Michel. Bozza che in effetti arriva prima dell’inizio del nuovo round negoziale. La prima versione è una doccia fredda per l’Italia. Il nuovo equilibrio tra la ripartizione di debiti e crediti è una drastica riduzione del volume complessivo: 300 miliardi di euro in crediti e appena 325 trasferimenti. Meno di un’ora dopo si chiarisce che le ripartizioni sono più complesse e arriva la sterzata: il volume totale del fondo resta invariato a 750 miliardi, confermano fonti di governo. Ma le sovvenzioni scendono da 500 a 450 e i prestiti salgono da 250 a 300. Parrebbe un punto di compromesso possibile, ma non è il solo da raggiungere. Certo, è una proposta che piace ai frugali: ridurre l’ammontare complessivo dei trasferimenti. “È un passo nella giusta direzione” trapela dalla diplomazia olandese. La bozza Michel, che viene discussa in mattinata in una cerchia ristretta di paesi, all’Italia non piace del tutto. Prima della sospensione dei lavori del Consiglio e l’inizio dei vari bilaterali, Conte fa un intervento durissimo. L’approccio scelto da alcuni Paesi è poco costruttivo e dimostra scarsa consapevolezza della crisi epocale che sta attraversando l’Europa. Ancora una volta il premier ribadisce che il veto sul budget Ue proposto dai soliti noti mina l’efficacia della reazione alla crisi e altera l’equilibrio dei poteri tra le istituzioni europee, in particolare tra Commissione e Consiglio. Per una volta è l’Italia a richiamare i partner al rispetto dei Trattati. Insomma, se Bruxelles vive una tiepida giornata di sole, sul Consiglio europeo tira aria di burrasca. E Conte alza il tiro: l’Italia sta mettendo in cantiere le riforme, ma è ora di affrontare il tema della convergenza sulla politica fiscale, abolendo paradisi fiscali targati Ue, e il tema del surplus commerciale di paesi come la Germania o l’Olanda. Competere ad armi pari: questo è l’obiettivo. Dopo anni di dibattito sui “tecnocrati di Bruxelles”, la discussione sull’Europa entra nel vivo.

L’asse del Nord vuole dimezzare il Recovery Fund: si tratta ancora

Si fa notte. Anche ieri i leader riuniti al Consiglio europeo, il primo dal vivo dopo le videoconferenze del lockdown, non sono riusciti a trovare un accordo e, mentre Il Fatto va in stampa, continuano a trattare su quale risposta comune dare alla più grave recessione in tempo di pace della storia.

Come al solito, la spaccatura è sulla questione più politica tra tutte: i soldi. Quanti, come distribuirli, a chi spetta decidere come usarli e a chi controllare. Le squadre sono le solite: i Paesi del Sud (Italia, Spagna, etc) a chiedere maggiore condivisione, quelli del Nord maggiore rigore. La Germania, l’unico Paese che potrebbe fare da arbitro, al momento sembra lavorare business as usual: si preoccupa di tenersi accanto la Francia mentre Sabastian Kurz (Austria), Mark Rutte (Paesi Bassi) e gli altri (ieri a Danimarca e Svezia s’è aggiunta la Finlandia) fanno il lavoro sporco al posto suo.

Stavolta, come sanno anche i sassi, si parla del cosiddetto Recovery Fund (che ufficialmente si chiama Next Generation Ue). Dopo lo scontro del primo giorno, il presidente del Consiglio Ue – il belga Charles Michel – aveva fatto una sua proposta di mediazione: un piano da 750 miliardi come prima, ma abbassando i sussidi a 450 miliardi (da 500), e aumentando i prestiti. Per accontentare i nordici, poi, è previsto un “freno d’emergenza”: se uno o più Paesi non sono convinti del programma di riforme presentato da uno Stato possono chiedere entro tre giorni lo stop alla procedura per metterlo sotto esame (e dettargli cosa fare e cosa no se trovano una maggioranza qualificata in Consiglio). Non siamo al “potere di veto” preventivo richiesto dall’asse del Nord, ma in un meccanismo che può diventare molto pericoloso per un Paese come il nostro (anche se, va detto, l’Ansa ieri sera qualificava il tutto come “la proposta di mediazione italiana”).

Neanche questo nuovo pacchetto, però, è piaciuto all’asse dei Paesi nordici: nel pomeriggio di ieri hanno chiesto che il piano europeo per la ripresa venisse sostanzialmente dimezzato sia per quanto riguarda i sussidi che i prestiti. Secondo indiscrezioni, ad esempio, vorrebbero che i 325 miliardi in sussidi del cosiddetto Recovery and Resilience Facility (la “ciccia” della discussione) diventino 155 miliardi. Per capirci, va almeno ricordato che la proposta iniziale spagnola (supportata dall’Italia) era un fondo da 1.500 miliardi.

A sera Giuseppe Conte ha approfittato del break negoziale per dire che un’intesa è “più difficile del previsto” e che la situazione è di “stallo”. Negli stessi minuti l’austriaco Kurz ribadiva ai giornalisti che bisogna diminuire le cifre del piano europeo: “C’è da lavorare, ma siamo sulla buona strada”.

Poco prima di cena si dava per certo che il presidente Michel avrebbe presentato una nuova proposta di mediazione (al ribasso), ma i leader europei si sono messi a tavola senza averla vista: se non c’è una rottura definitiva (Emmanuel Macron avrebbe minacciato di tornarsene a Parigi) se ne riparla nella notte e oggi.

Sambuca olandese

A Bruxelles non Giuseppe Conte, ma l’Italia intera combatte una guerra per la vita o la morte sul Recovery Fund. Al suo fianco c’è la gran parte dei paesi Ue, con tutti gli altri più grandi e influenti: Germania, Francia e Spagna. E questo sia per i rapporti diplomatici intessuti da Conte, forte degli alti consensi in patria, sia perché Berlino e il fronte mediterraneo condividono un disperato bisogno di sussidi per far ripartire le rispettive economie e quella europea nel suo complesso e rispondere alle cascate di miliardi investiti (e stampati) dalle superpotenze concorrenti (Usa, Cina e Giappone). In caso di guerra, e questo lo è, non c’è più maggioranza né opposizione: tutti si stringono attorno al capo del governo e lo sostengono “a prescindere”, in attesa di tornare a dividersi sulle questioni interne. Infatti persino quello sfasciacarrozze di Salvini, oltre a Meloni e a FI, hanno indetto una breve tregua dalle polemiche, ben consci di alcuni fatti incontestabili: Conte pesca il suo 60% e più di credibilità nei sondaggi anche fra i loro elettori; tra i più acerrimi nemici dell’Italia ci sono molti loro amici e alleati in Europa; e polemizzare anche ora col premier significherebbe indebolirlo nella partita mortale con l’Olanda e gli altri paesi “frugali” (cioè egoisti, miopi e un po’ criminali). Cioè pugnalare alla schiena non lui, ma l’Italia. Che già sconta diffidenze per il suo debito pubblico e le altre tare ataviche. Dunque corre in salita, anche a causa delle demenziali regole europee che consentono a un paesucolo di 17 milioni di abitanti come l’Olanda, per giunta paradiso fiscale, di ricattare e paralizzare col veto e i rutti di Rutte tutta l’Unione europea che ne ingloba 446 milioni.

Si dirà: ciascuno fa i propri interessi. Ma, a parte il fatto che è anche interesse dei “frugali” non far sprofondare l’economia di tutta l’Europa (altrimenti – come ha detto Prodi – “a chi li vendono gli olandesi i loro tulipani?”), gli interessi in Europa, così come gli effetti del Covid, sono tutt’altro che simmetrici. L’altro giorno il manifesto notava che sono proprio i “frugali” a prendere dal mercato comune europeo molto più di quanto danno alla Ue. L’Olanda, per ogni euro versato, ne guadagna 11; Austria e Svezia 9; Danimarca 7. E questo perché i loro mercati interni sono ristrettissimi e dipendono in gran parte dall’export. Nella Ue e nei paesi associati, il mercato unico di quasi 500 milioni di persone e le 4 libertà (di circolazione di merci, capitali, servizi e persone) fa guadagnare ogni anno 427 miliardi, cioè 840 euro per ogni cittadino. Ma solo in media: una tabella compilata dalla Commissione europea in base a ricerche recentissime dimostra sperequazioni spaventose.

I cittadini dell’Europa centrale (specie negli Stati più piccoli) guadagnano 3.600 euro pro capite e quelli delle regioni più periferiche appena 150 a testa. Eppure basta il veto di un nano per legare le mani al gigante e trascinarlo in fondo al mare. Quindi la leggenda delle formichine del Nord stufe di svenarsi per le cicale del Sud non sta in piedi. Serve ad alimentare la propaganda dell’Olanda e dei suoi pochi alleati. Infatti persino in quei paesi la stampa e l’intellighenzia più illuminate contestano la testardaggine, miope e alla fin fine suicida, dei rispettivi governi. E si sa quanto contano intellettuali, economisti e giornalisti per smuovere anche le opinioni pubbliche più egoiste. In Italia, tanto per cambiare, accade l’esatto opposto. Se ieri, a Bruxelles, i colleghi di Conte avessero dato un’occhiata ai giornali italiani avrebbero scoperto che li ha quasi tutti contro. E non per le sacrosante critiche dovute ai politici che le meritano. Ma per il pregiudizio universale che accompagna Conte da quando osa fare il premier, a costo di contare balle e danneggiare l’Italia pur di buttarlo giù e metterci al posto l’ammucchiata di larghe imprese. Basta leggere la stampa umoristica, quella di destra che qualche frescone si ostina a definire “sovranista”. Il Giornale di B. quello moderato e responsabile, titola a caratteri di scatola: “CONTE DRACULA”. La Verità racconta che, siccome non ha ancora abolito le tasse, “Conte si riprende gli aiuti alle imprese”. Libero, noto alfiere del sovranismo e del patriottismo, riesce a sostenere che “L’Ue non dà i soldi perché non si fida di Conte” (se al suo posto ci fosse Salvini, o B. che ci faceva fare dei figuroni in tutto il mondo, allora sì). E sapete perché? Per “le politiche dei grillini: nazionalizzazioni e assistenzialismo a pioggia” (cioè perché ridiamo le autostrade allo Stato, come in Germania, e diamo il reddito di cittadinanza a chi non ha un euro, come tutto il resto della Ue). Dunque Feltri&Senaldi scavalcano Salvini&Meloni e schierano financo con Olanda&C.: “Voi al suo posto cosa fareste?”.

Ma il record di patriottismo lo stabilisce l’ultimo nato fra i giornali di destra: Repubblica. Che così descrive, con la consueta obiettività, la guerra solitaria dell’Olanda contro il resto d’Europa: “Ue, l’Italia all’angolo”. Poi fa la gara di patriottismo con Feltri e Senaldi e titola, e la vince: “Processo all’Italia. L’Olanda guida l’accusa: ‘Non ci fidiamo più’”. Non male, per il giornale del gruppo Fca che ha sede, indovinate un po’, in Olanda. I Frugali sono in buone mani: se l’amico Rutte dovesse stancarsi e mollare un po’, ci pensa Sambuca Molinari a rimettere in riga quelle merde di italiani.

La magia del rapporto tra nonni e nipoti

Arte, acqua e relazioni. Sono questi i temi principali de Il ragazzo del fiume (Mondadori) un libro scritto da Tim Bowler negli anni Novanta (vincitore della Carnegie Medal) e ripubblicato ora in Italia in una nuova edizione.

Le 173 pagine sono molto di più di un testo per ragazzi perché l’autore riesce a parlare al lettore di ogni età.

La protagonista, Jess, è nata per nuotare. Per lei l’acqua viene prima di tutto e tutti ma non di suo nonno. Quando scopre che gli resta poco da vivere, decide di aiutarlo a realizzare il suo ultimo desiderio: tornare nel paese della sua infanzia per portare a termine un dipinto misterioso, “Il ragazzo del fiume”. Jess vuole risolvere l’enigma del dipinto e capire perché per il nonno sia tanto importante. Il ragazzo del fiume narra delle sofferenze e delle gioie della crescita, esplora il rapporto tra i giovani e gli adulti, descrive la bellezza del mondo naturale e ha il coraggio di parlare di morte ai ragazzi.

Bowler riesce con semplicità e grazia a intrecciare tutti i temi e ad appassionare generazioni di lettori. Nelle pagine di questo romanzo emerge con chiarezza l’importanza delle relazioni: un libro che ogni bambino può leggere pensando al rapporto con i suoi nonni ma anche il contrario.

 

Il ragazzo del fiume

Tim Bowler

Pagine: 173

Prezzo: 16

Editore: Mondadori

Il bello dell’inutile: nel solito inferno della vita scoprire ciò che non è inferno

“In tempo di crisi economica non tutto è permesso”. Ecco perché in piena pandemia il libro di Nuccio Ordine ha conquistato spazio e presenza. Perché è in tempi di trapasso cosa più dell’inutile è davvero utile? Il gioco di parole serve a rappresentare un coinvolgente affresco del pensiero, letterario, filosofico, scientifico e artistico, che esalta il disinteresse e la curiosità contro ogni pretesa di asservire la cultura al profitto.

“Certo, scrive Ordine, molto spesso i musei o i siti archeologici possono anche essere fonte di straordinari introiti”. Ma si tratta di un “tesoro per la collettività”. E lo stesso vale per la scuola e l’università i cui meccanismi di impoverimento sono trattati senza sconti alle riforme che hanno “liceizzato” gli studi universitari.

Il libro è un’arma contundente contro il tentativo feroce di annichilire gli studi classici e rendere la scuola la semplice ancella de mercato del lavoro. Del resto, è la curiosità disinteressata che permise, ricorda nell’appendice Abraham Flexner, a Paul Ehrlich di mettere a punto, “giocherellando” al microscopio, la tecnica utilizzata oggi in migliaia di ospedali per gli esami del sangue. Il punto di vista di Flexner sgombra il campo dall’equivoco di contrapporre umanismo e scienza.

Ordine esalta la “bellezza” e la vita interiore come essenza dell’essere su questa terra. Non tanto perché come dice Eugène Ionesco “se non si comprende l’utilità dell’inutile, l’inutilità dell’utile, non si comprende l’arte”. Non tanto perché le cose utili sono brutte – “la cosa pi utile di una casa è il cesso” – ma perché, richiamando Calvino l’inferno dei viventi “non è qualcosa che sarà”, ma è già qui. E per non soffrirne si può decidere di accettarlo oppure “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, dargli spazio”.

 

L’utilità dell’inutile

Nuccio Ordine

Pagine: 272

Prezzo: 11

Editore: Bompiani

 

Dalí scultore nella città dei Sassi

Del tempo, ci illudiamo di conoscere il passato, di sperimentare (ora fallendo, il più delle volte, ora trionfando) il presente e di prevedere guardinghi il futuro. In realtà, come pure suggeriva Wittgenstein nel suo Tractatus, il tempo è l’attesa di esso. Tra chi ha intuito una reale soluzione alla sua tirannia è il catalano Salvador Dalí, che in uno dei suoi quadri più celebri, gli orologi in La persistenza della memoria (1931), ribalta il rapporto uomo-tempo, posizionando l’uomo come misura del tempo.

Il pittore surrealista – che addiviene al surrealismo saccheggiando impressionismo, puntinismo, cubismo, fauvismo omaggiando tanto Matisse quanto Picasso – è stato anche un apprezzato e sublime scultore. E l’intuizione dietro la mostra Dalí a Matera. La persistenza degli opposti (a cura di Beniamino Levi, Marco Franchi, Patrizia Minardi e Roberto Panté), di esporre le opere scultoree del maestro in giro per la città dei sassi è quanto mai riuscita perché proprio per via del tempo, si trovano nel loro genius loci; tanto che lo scrittore e fotografo Carlos Solito, proprio a partire da tale benevolo incontro, realizza il libro fotografico Sogno a Sud. Dalí a Matera (Rizzoli illustrati, pp. 208, euro 37).

A Matera, infatti, passato, presente e futuro prosperano in una coesistenza mistica e terrena insieme. Per questo, incrociare le sculture La danza del tempo (1979-1984) dell’orologio feticcio che si squaglia adagiata sull’acciottolato di via Madonna delle virtù, o L’elefante spaziale (1980) che svetta affacciata sulle vertigini della Gravina e sui Sassi di Matera, o ancora la muliebre e minimalista figura dorata di Pianoforte Surrealista (1954-1984) al centro della barocca piazza San Francesco ci riconcilia con tutta la grazia dell’esistenza. Oltre a questi tre grandi complessi scultorei, quasi 150 opere dell’artista – sculture museali grandi e più piccole, illustrazioni, opere in vetro, libri illustrati e arredi – sono state collocate nella cornice del Complesso Rupestre di Madonna delle Virtù e San Nicola dei Greci nel cuore dei Sassi di Matera.

Una mostra che, con gioia, riapre proprio in questi giorni, talmente imperdibile che chi non potrà subito vederla potrà amarla già dal prezioso volume di Solito, che immagina un anziano Salvador Dalí, seduto sulla poltrona a dondolo, con di fronte “tutta la baia fino alle isole di Port Lligat e Sa Farnera”: ora che è giunto alla sera della vita, si arrampica meditabondo in un onirico monologo interiore, inanellato a dialoghi immaginari con se stesso da giovane, la musa Gala, i colleghi artisti, l’amico García Lorca, o i personaggi raffigurati nei suoi dipinti.

 

Dalí a Matera

Dal 16 al 19 e dal 23 al 26 luglio. Da fine mese, tutti i giorni

Vanina Guarrasi, poliziotta sìcula che ha già scalato le classifiche

Un cubano scappato negli Stati Uniti ai tempi della gloriosa rivoluzione di Fidel e del Che. E ritrovato ucciso in un parcheggio dell’aeroporto di Catania. Esteban Torres, il nome. Un anziano elegante e ancora piacente, con ben tre matrimoni nel suo curriculum. Gli hanno sparato con una Makarov, mitica pistola di fabbricazione sovietica. Stavolta il vicequestore Vanina Guarrasi si trova dinnanzi a un intrigo internazionale, per citare volutamente Hitchcock. Torres era diventato cittadino americano e anche italiano ma viveva in Svizzera. Indi, una casa alle pendici dell’Etna e periodici soggiorni in albergo con l’amante autoctona, una donna esuberante che si chiama Bubi Geraci. Dopo un po’ anche lei viene rivenuta morta, in un pozzo a Taormina.

Il rompicapo è davvero duro da risolvere. Anche perché, nonostante le scoperte fatte nell’indagine, non si riesce a mettere a fuoco il movente. Passione? Vendetta familiare (Esteban aveva anche un fratello gemello)? Oppure mafia, visto che Torres si occupa di faccende finanziarie per conto delle cosche? Al solito, Guarrasi può fare affidamento su tutto il suo cerchio magico che abbiamo imparato a conoscere nelle sue inchieste precedenti. A partire dal commissario Patanè, ottuagenario in pensione che è il suo migliore consigliere. Sullo sfondo, ovviamente per chi la conosce, la doppia tragedia personale di Vanina: la ricerca dei mafiosi che le ammazzarono il papà poliziotto sotto i suoi occhi e l’amore tormentatissimo con Paolo, magistrato antimafia che lei salvò da un attentato e poi lasciò per non vivere con il terrore della morte incollato addosso. La Salita dei Saponari è il terzo libro di Cristina Cassar Scalia, uno dei nuovi talenti del giallo italiano già arrivata in altissima quota nelle classifiche di vendita.

 

La Salita dei Saponari

Cristina Cassar Scalia

Pagine: 306

Prezzo: 18

Editore: Einaudi

La poesia di Arminio, farmacia per l’anima

La poesia, per Franco Arminio, è un richiamo alla sensualità, all’intensità, anche a quella dolorosa perché la vita ne è intrisa. “Ma è sempre meglio un dolore vivo che una quiete morta”. Il poeta, paesologo e saggista di Bisaccia, comune di 3.800 anime in Irpinia d’Oriente, torna ai suoi molti lettori con La cura dello sguardo, raccolta di pensieri (tratti da vecchi diari o scritti in pieno e post lockdown), aforismi e poesie a rafforzare idee già espresse nei precedenti L’infinito senza farci caso, Resteranno i canti, Cedi la strada agli alberi.

Oggi tra i poeti italiani con più seguito anche grazie alla partecipazione attiva sui social, cassa di risonanza per scambi virtuosi, “La rete non è il mondo, ma serve a far girare il mondo buono”, ha concepito questo lavoro come una farmacia nuova perché reputa che il suo disagio sia “il filo di una bestia di dolore che riguarda tutti”. Bestia che ha a che fare sia col fisiologico patimento che ognuno si porta appresso sia con la miseria spirituale dell’uomo moderno che sempre più si trincera in un “autismo corale”, incapace di cogliere i bagliori di letizia che l’esistenza concede ma che bisogna saper carpire, e di veicolare una comunicazione vitale, con sé e il prossimo. Per Arminio, 60 anni, stiamo smarrendo passione, desiderio, stupore e la propensione a guardare l’altro e tutto ciò che ci circonda con compassione e consapevolezza. Lo sguardo è invece la base della cura. “Dobbiamo spalancare gli occhi, sentire che ognuno di noi è ferita e guaritore. Io mi curo di me guardando fuori”, scrive.

Di queste 200 pagine bisognerebbe sorbirne una al dì, come si farebbe con un preparato galenico a base di ingredienti naturali in uno di quei bei flaconi di vetro da farmacia che si usavano un tempo. Non ci sono controindicazioni a meno che non si tema di indagare la propria interiorità. Senza mai tacere la sua inquietudine perenne, Arminio trae luce dalle sue ferite, annidate anche nell’infanzia e nelle figure genitoriali, e pur conscio di non poterle totalmente sanare (d’altronde fanno parte di lui) spera di essere medicamento per chi legge. La cura è invito a esercitare speranza, empatia, immaginazione, ascolto, a farsi aiutare dai sensi, a celebrare chi non c’è più, a valorizzare il tempo che ci è concesso, a ricordare la bellezza della natura, della tradizione, dei luoghi, specie quelli dimenticati o spopolati come i piccoli paesi nostrani, potenziale terreno fertile per coltivare il domani.

Il tramite è la poesia che come direbbe Kafka è “un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi”. Parlatevi, parliamoci, onestamente. Con nitore. “La nostra debolezza è nascondere ai nostri occhi ciò che siamo”, dice. Nella malattia, del corpo e dell’anima, e su questo gli ultimi mesi ci hanno messo alla prova, conta invece tenere vivo l’amore, “questa ora dovrebbe essere l’ordinanza più urgente e più rispettata”, perché comprare e consumare merci non ci salverà. Curiamoci poi con la farmacia del paesaggio. “Spiare come stanno, dove stanno le cose”. Un cancello, una cattedrale, l’albero solitario. Un inno alla meraviglia del mondo e alla vita, dunque, che è però anche piena di crepe. Epperò “se fossimo saldi e senza crepe non saremmo carne viva, ma calcestruzzo”.

 

La cura dello sguardo
Nuova farmacia poetica

Franco Arminio

Pagine: 208

Prezzo: 16

Editore Bompiani

“Come vendere droga online”, la via tedesca al teen drama

La via tedesca al teen drama si colloca a metà strada fra Breaking Bad e Silicon Valley. La serie s’intitola Come vendere droga online (in fretta) e il 21 luglio sbarcherà su Netflix con i sei nuovi episodi della seconda stagione. Il protagonista è Moritz, 17enne nerd con un padre poliziotto che, per riconquistare la fidanzata Lisa, si mette in testa di vendere ecstasy su internet attraverso il sito MyDrugs. Le competenze non gli mancano: Moritz e Lenny, il suo amico in sedia a rotelle, fondano e disfano startup da quando vanno alle elementari. Per recuperare il prodotto, però, i due ragazzi sono costretti a mettersi in affari con il losco Buba… E non finirà bene.

La seconda stagione inizia con un brindisi. Moritz, Lenny e il nuovo socio Dan, il ragazzo più popolare della scuola, festeggiano il raggiungimento del primo milione di euro in Bitcoin. Ma ora si pone un altro problema: come conciliare MyDrugs con le lezioni, le fidanzate, insomma con la vita normale di tre adolescenti? Lenny e Dan spingono per chiudere il sito, Moritz invece è troppo orgoglioso del giochino che ha creato per lasciarselo alle spalle così. Ma quando Lisa in rotta con i genitori si trasferisce a casa sua, il quartier generale dello spaccio, la situazione precipita.

Apparentemente esagerata e surreale, Come vendere droga online (in fretta) in realtà è basata su una storia vera. A Lipsia, nel 2013, il 18enne Maximilian S. creò Shiny Flakes, un negozio di droga su internet. Max operava da solo e commise qualche errore: quando due anni dopo la polizia riuscì ad arrestarlo, nella sua cameretta furono trovati 320 chili di droghe varie per un valore di circa 4,1 milioni di euro. Nel cast tutto tedesco della serie compare anche un volto noto al pubblico italiano: nella parte del belloccio Dan c’è infatti Damian Hardung, che ha interpretato Adso da Melk ne Il Nome della Rosa con John Turturro.

 

Il giovane Artù visto da una donna

Se c’è un tema che cinema e tv hanno esplorato sin nei minimi dettagli, quello è il ciclo arturiano. Dall’indimenticato cartone Disney La Spada nella roccia ai film come Excalibur, Il Primo Cavaliere e King Arthur, fino alle serie tv Merlin e Camelot: alzi la mano chi non conosce la storia di Re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda per averla vista sul piccolo o sul grande schermo. Ora arriva un’altra serie che riscrive le stesse vicende ma da un altro punto di vista: s’intitola Cursed ed è disponibile da ieri su Netflix.

La protagonista è Nimue, una ragazza cresciuta in un villaggio di druidi che ha il potere di risvegliare le forze della natura ma non è ancora in grado di controllarlo, e per questo viene emarginata dagli altri abitanti (da qui il titolo Cursed, maledetta). La sua vita prende una svolta quando i Paladini Rossi, un gruppo di fondamentalisti religiosi che combatte contro ogni forma di magia, mette a ferro e fuoco il villaggio. Prima di morire, la madre di Nimue le affida una spada e le dà una missione: consegnarla a un certo Merlino. Come avrete intuito, la spada è la mitica Excalibur e Merlino è il famoso mago. Da qui in avanti la storia della guerriera druida s’incrocia con quella di Artù, che non è ancora re bensì un giovane mercenario mulatto in cerca della propria strada; della sorella Morgana cresciuta in mezzo alle suore; e di Merlino, rappresentato come un ubriacone pazzo che fa piovere sangue dal cielo e va a braccetto con la Morte. Tutti personaggi presi dall’universo arturiano, come del resto Nimue che altri non è se non la Dama del lago, che secondo la leggenda avrebbe consegnato Excalibur ad Artù.

Tratta dal romanzo di Tom Wheeler e Frank Miller, fumettista famoso per la serie di Sin City, Cursed è a tutti gli effetti un prequel che racconta i protagonisti del ciclo bretone da giovani. Una moda, quella del prequel, che sembra inarrestabile e riguarda un po’ tutti i generi: a settembre arriverà su Sky Perry Mason, che torna alle origini dell’avvocato più famoso della tv, mentre sono in lavorazione il prequel di Game of Thrones (House of Dragon) e quello della serie Mediaset Rosy Abate (Le Origini del Male).

Intuire le ragioni di tanto successo non è difficile. Il prequel permette di continuare a raccontare una storia che si era già esaurita, mettendo lo spettatore di fronte a vicende che già conosce ma riproponendole sotto una luce di diversa. Nel caso di Cursed, poi, al centro della scena c’è un personaggio femminile che nella storia originale è secondario: “Il ruolo delle donne nelle leggende è sempre stato negativo o trascurato” ha detto Frank Miller per spiegare questo ribaltamento di prospettiva.

Dopo The Witcher, la serie basata sulla saga di Geralt di Rivia, Cursed è un’altra incursione di Netflix nel mondo del fantasy medievale, tra cavalieri e creature magiche. Anche la scelta di concentrarsi su personaggi giovani è in linea con la tendenza prevalente, che privilegia il coming-of-age e le storie di formazione. L’attrice che interpreta Nimue è un volto noto per gli appassionati delle serie Netflix: si tratta di Katherine Langford, famosa per il ruolo di Hannah Baker in Tredici. Per il ruolo di Artù è stato scelto Devon Terrell, che ha vestito i panni del giovane Barack Obama nel film Barry, mentre un cattivissimo Daniel Sharman (I Medici) è il Monaco piangente.

 

Cursed

Disponibile già dal 15 luglio su Netflix