Aspi, non sa cosa dice chi cita Chavez e il Venezuela

“Finiremo come il Venezuela”. “Esproprio modello Chavez”. Sono commenti che riaffiorano in Italia ogni volta che si profila un maggiore ruolo dello Stato in economia. Il riflesso condizionato anti-Stato si è riproposto inevitabilmente a margine della recente vicenda di Autostrade per l’Italia. Il paragone con il Venezuela di Hugo Chavez oramai è talmente frequente che nessuno si chiede se sia o meno pertinente.

Se si identifica Chavez con espropri e nazionalizzazioni, specie nel cruciale settore petrolifero, il paragone è del tutto improprio. L’industria petrolifera, oltre a tenere in piedi le finanze pubbliche, ha reso i venezuelani il popolo più ricco dell’America Latina negli anni Settanta, ed è stata nazionalizzata nel lontano 1975 da un Governo moderato, democratico e filoamericano.

Se non ha nazionalizzato quasi nulla, che ha fatto Chavez? Per reagire a una strategia chiamata “apertura”, attraverso la quale negli anni Novanta erano stati nuovamente assegnati giacimenti importanti a multinazionali petrolifere straniere a condizioni troppo vantaggiose, Chavez nel 2007 ha varato una nuova legge petrolifera.

Questa riportava un poco di ordine, garantendo allo Stato una fiscalità adeguata in un momento nel quale prezzi del petrolio toccavano i loro massimi storici. Dopo il 2014, con la presidenza di Nicolas Maduro, il settore petrolifero è stato però sostanzialmente appaltato a russi e cinesi, ed è in discussione un progetto di legge per una nuova disastrosa privatizzazione.

C’è dunque una lezione che accomuna sia il Venezuela che l’Italia: le concessioni di “beni pubblici”, specie se di interesse strategico, devono adattarsi costantemente alle circostanze del momento e privilegiare l’interesse pubblico.

In questo senso, ancora più degli assetti proprietari, saranno dirimenti i contenuti della nuova concessione di Autostrade.

“Cade”, “cade” il migliore spot a Conte

Trovata una soluzione (buona, mediocre o pessima, fate voi) alla vicenda Autostrade, e subito piombato a Bruxelles per ricercare un complicato accordo sul Recovery Fund, in un qualunque lettore di giornali (o fruitore della tv o del web) una domanda potrebbe sorgere spontanea sullo strano caso di Giuseppe Conte. Come fa a stare ancora in piedi un tizio del genere omologato dalla informazione mainstream come un re travicello inconsistente, un premier parolaio incapace di risolvere i gravi problemi del Paese, alla guida di un governo abborracciato, sostenuto da una maggioranza litigiosa, perennemente sull’orlo di una catastrofica crisi? Per non parlare della destra televisiva, dominante negli approfondimenti serali dove il presidente del Consiglio è invariabilmente il ridicolo “Giuseppi”, un furbacchione esperto nel gioco delle tre carte, che approfitta del lockdown per restare attaccato alla poltrona, quando non addirittura un traditore della patria pronto a svendere l’Italia ai poteri forti di Berlino e di Bruxelles? In una intervista al Giornale dedicata a tutt’altro tema, i profondi guasti del politicamente corretto, a un certo punto Enrico Mentana dice che “per fare giornalismo devi trovare degli elementi di discontinuità, stupore, spiazzamento”. Infatti, se si applicasse questa sacrosanta regola all’ospite, così indesiderato, e indesiderabile, di palazzo Chigi, il giornalismo della discontinuità, dello stupore e dello spiazzamento potrebbe utilmente interrogarsi sui perché di una resistenza così tenace. Se, per esempio gli scontri, sempre “durissimi”, nella maggioranza non siano, come spesso capita, normali effetti collaterali del governare. Ovverosia: a) la ricerca del compromesso tra diversi, che è poi il sale della politica; b) il bisogno incessante di visibilità di questo o quel comprimario, che poi, per costoro, è il sale della vita. Sempre nel nome della discontinuità si potrebbe anche smascherare una buona volta l’alibi del non ci sono alternative. A parte che in politica le alternative vanno sempre cercate, ma se continuano a farsi allegramente infinocchiare da quello che considerano un improvvisato avvocaticchio di Volturara Appula, i grandi leader dell’opposizione, Matteo Salvini e Giorgia Meloni non dovrebbero andare semplicemente a nascondersi? Più la mandi giù e più si tira su: a furia di sopravvivere ai propri (presunti) insuccessi Giuseppe Conte è diventato lo spot di se stesso.

“Nella mia tv qualità e ascolti costringevano la politica a ritirarsi”

Giura di “non guardare più la televisione”, nonostante il suo nome sia associato alla stagione d’oro di Raitre. Angelo Guglielmi, 91 anni, ha diretto la terza rete Rai tra il 1987 e il 1994, rendendola “tv della realtà” e portandogli ascolti medi dal 2 per cento a oltre il 10.

Oggi guarda con distacco al servizio pubblico e alle sue trame, ma non ha dubbi: “Ai nostri tempi i vertici avevano capito che facevamo programmi di qualità e portavamo ascolti, perciò ci lasciarono completa libertà. In questo modo anche la politica si faceva da parte”.

Angelo Guglielmi, la tv di oggi non la appassiona?

A me la televisione è sempre piaciuto farla, non guardarla. Quando ho smesso di farla ho smesso anche di vederla, se non per le partite e per un po’ di informazione su La7. Ma da quel poco che so, e per la verità lo so soltanto per sentito dire, credo di non perdermi nulla.

Si parla di palinsesti e il discorso torna alla politica. Riuscirà mai la Rai a liberarsi dai partiti?

Io credo di no. E non è una questione di Pd, 5 Stelle o Lega. Io mi permisi di consigliare al Pd di restare fuori dalle nomine della Rai, ma alla fine nessuno vuole rinunciare. Fu un caso eccezionale quello che accade a noi, che riuscimmo a fare una tv infischiandocene dei partiti anche grazie all’intelligenza di Biagio Agnes, il direttore generale, che capì l’importanza di quello che facevamo e ci lasciò lavorare.

La priorità era fare ascolti?

In quel periodo diversi grandi nomi, come Pippo Baudo e Raffaella Carrà, erano fuggiti dalla Rai per andare in Mediaset. Agnes odiava a morte Berlusconi e voleva ad ogni costo recuperare share. Noi passammo dal 2 al 12 per cento di media, dunque eravamo ben tollerati al di là di ogni discorso politico.

Berlusconi cercò anche lei?

Sì, incontrai lui e Marcello Dell’Utri. Ricordo che se il mio budget a Raitre era di 100 miliardi, loro proposero di portarlo a 140. Poi però capii che dentro c’erano anche tutti quei costi di messa in onda che alla Rai erano fuori dal budget.


In che modo la sua Raitre ruppe col passato?

Dissi basta agli sceneggiati, ai film, al varietà, a tutto quello che si era fatto in Rai fino ad allora. Scelsi la tv della realtà ispirandomi a Pasolini: basta parlare della realtà con le parole, parliamo della realtà con la realtà. Portai tutti conduttori nuovi – da Gad Lerner a Giuliano Ferrara e Corrado Augias – e ci inventammo trasmissioni di successo per raccontare la politica e la società, come Linea Rovente o Telefono Giallo. Non credo che oggi sarebbe possibile.


Perché?

Anche volendo, ai direttori di rete non lo permetterebbero: qualcuno rinuncerebbe del tutto ai varietà o al cinema? Non vogliono, anche perché forse non sanno fare altro.


La politica c’è oggi come allora.

Sì, ma per come lavoravamo il Pci non mi chiese mai nulla né subimmo interferenze da Agnes. Portavamo risultati mai visti per la terza rete, che messa insieme agli altri canali Rai garantì di nuovo il sorpasso nei confronti di Mediaset. Tanto è vero che poi molti di quelli che se ne erano andati tornarono indietro.

Nuovo governo, nuovi epurati: e la riforma Rai può attendere

Che barba e che noia questi nuovi palinsesti Rai dove l’unico sussulto è l’arrivo, anche se per una sola sera, di Maria De Filippi in prestito da Mediaset, con annessa rivolta degli interni contro lo schiaffo morale, e dalla riconferma della coppia sanremese Amadeus & Fiorello. Ma che barba pure le solite epurazioni degli ex potenti, di quelli che prima surfavano sull’onda salviniana e ora vengono messi da parte, nello sgabuzzino delle scope, per poi un domani certamente risorgere, basta aspettare. Perché, si sa, la tv di Stato, finché non verrà fatta una riforma che le frapponga una distanza dal Parlamento, sarà sempre la stanza dei giochi e delle lottizzazioni partitiche. Oggi tocca a me e domani a te, in un’eterna alternanza tra le stelle e la polvere. In Rai si fiuta l’aria e si anticipano le mosse del Palazzo. “Guarda cosa accade a Viale Mazzini e saprai quello che tra sei mesi succederà in Parlamento”, recita un vecchio mantra di rito romano.

Questa volta, però, caso raro, è accaduto il contrario. E così il passaggio della Lega di Matteo Salvini all’opposizione e la nascita della nuova maggioranza Pd-5 Stelle ci ha messo del tempo a essere digerita a Viale Mazzini. “Salini e Foa sono partiti pensando di aver dietro l’esercito con le bandiere di un colore e poi se ne sono ritrovato un altro, con tutte le difficoltà del caso”, si racconta. Basti vedere il tempo che ci è voluto per spalancare le porte della direzione del Tg3 a Mario Orfeo, prima e non ultima richiesta del Pd per “riequilibrare” una Rai troppo penta-leghista.

Dunque nei palinsesti 2020/2021 qualche vittima sacrificale sull’altare del mutato scenario doveva pur esserci. E così ecco Roberto Poletti, conduttore di Uno mattina, finire a fare l’inviato, seppur di punta, a La vita in diretta, ovvero un po’ lo stesso lavoro che faceva a Mediaset, nel programma di Paolo Del Debbio. Altra cosiddetta epurata è Lorella Cuccarini, che lascerà ad Alberto Matano il piacere di condurre in solitaria proprio La vita in diretta. Non senza polemiche, vista la velenosa lettera d’addio con cui la showgirl ha accusato il collega di slealtà e misoginia. Risultato: la conduttrice che aveva espresso simpatie salviniste l’anno prossimo dovrà accontentarsi di condurre lo Zecchino d’Oro. E poi c’è lei, Elisa Isoardi, che un paio d’anni fa (da fidanzata di Salvini) sembrava l’ape regina di Viale Mazzini: le si attribuiva, col suo braccio destro Casimiro Lieto, potere di vita e di morte su tutti. E invece, zac! La prova del cuoco, in crisi di ascolti, evapora come la sua conduttrice, che l’anno prossimo parteciperà come concorrente a Ballando. “Se c’è emorragia di ascolti, un direttore ha il dovere d’intervenire. È quello che ho fatto sul mezzogiorno, dove tornerà Antonella Clerici, ma con Elisa abbiamo un accordo per un nuovo programma…”, ha spiegato il direttore di Raiuno, Stefano Coletta.

Ma nel tritacarne degli sconfitti sono finiti anche altri. Pierluigi Diaco, per esempio, cancellato. Si dice che a Coletta non piacesse la sua trasmissione, condita da troppe lacrime e silenzi. Ma forse, più avanti, rientrerà. Via anche Salvo Sottile da Mi manda Raitre, col neodirettore Franco Di Mare a spiegare che si è voluto dare spazio agli interni. Sottile non l’ha presa bene. Anche Caterina Balivo (ma sembra si sia presa un sabbatico) e Serena Dandini sono desaparecide, mentre Simona Ventura per ora è destinata alla sola conduzione di uno speciale su Chiara Ferragni, la sera in cui andrà in onda il suo film. Quasi nulla. Pure Beppe Convertini rosica: doveva essere uno dei nuovi volti di Raiuno e finisce a Linea Verde su Raitre.

Più lunga, invece, la lista dei vincitori. Da Monica Giandotti, promossa a Unomattina, a Monica Maggioni, che ritorna in grande spolvero all’informazione; da Antonella Clerici, che si riprende il mezzodì della rete ammiraglia, a Serena Bortone, che sbarca su Raiuno. La vera vincitrice, però, è Nunzia De Girolamo, che farà Ciao maschio!, il sabato sera. “Lei ormai è un personaggio totalmente televisivo: l’ho studiata tanto e funziona”, assicura Coletta. Vince anche Gigi Marzullo, che doveva andare in pensione e invece ci allieterà con le sue maglia a strisce e le sue domande per un altro anno. Vince Luisella Costamagna con Agorà, ma pure Gianluca Semprini con Frontiere. Strappa un biglietto di prima classe pure Laura Tecce, un tempo leghista ora chissà, che in Second life racconterà cosa fanno i politici nel tempo libero su Raidue, la rete sovranista.

Chi guarda a destra, appunto, trova spazio nella Raidue melonian-salviniana di Ludovico Di Meo. Così molto atteso è il talk di Alessandro Giuli che sarà in coppia con Francesca Fagnani. Sempre da quelle parti ritorna in auge Milo Infante. Per lui due programmi: Ore 14, ogni pomeriggio, e l’evergreen Generazione Giovani.

La sensazione, però, è che ogni rete sia un piccolo mondo a sé, col suo pubblico e i partiti di riferimento (Raiuno e Raitre ai giallorosa, Raidue alla destra), senza un filo che tenga insieme il tutto. Coi direttori a far da amministratori di condominio, senza una visione. Poi c’è anche qualche lampo, come Rai Doc di Duilio Gianmaria. Manca, però, molto. In ordine sparso: un piano industriale con riforma dell’informazione, l’attivazione di Rai Format (che dovrebbe essere l’incubatore di nuove idee), un sito web decente. Che non si riesce a fare nonostante i 1760 giornalisti (e ne sono appena arrivati altri 230).

“La soluzione per Autostrade è un segnale anche per l’Europa”

“Un fallimento di questo Consiglio europeo, senza almeno un accordo politico, rinvierebbe tutto a dopo l’estate con il rischio che ad agosto i mercati si scatenino e tutto diventi più difficile. Se lo schema della Commissione dovesse essere rifiutato, salterebbe. Con effetto deflagrante per tutti. I governi trovino un accordo e il Parlamento è pronto a negoziare”. David Sassoli, presidente del Parlamento europeo, è a Bruxelles mentre i 27 leader dei paesi Ue sono alle prese con il negoziato più importante della storia dell’Europa. Quando questo giornale va in stampa, i lavori sono in corso. Ieri mattina, nel suo intervento di apertura del Consiglio ha indicato la strada e le priorità dell’Europarlamento.

Presidente, Conte arriva a quest’appuntamento con l’accordo su Autostrade. È un punto che gioca a suo favore?

La soluzione su Autostrade è il provvedimento più importante di questa legislatura, perché contiene una visione sulla necessità di una nuova regia pubblica. È un buon segnale all’Europa, perché si sposa al tema su come si dovranno spendere i soldi che arriveranno per la ricostruzione. Non entro nel contenzioso. Noto però che la soluzione va nella direzione di riaffermare un indirizzo pubblico. E in questo momento ce n’è grande bisogno. In Francia, lo Stato è presente nei Cda delle grandi aziende, in Germania, il sindacato vi partecipa di diritto. L’Italia non può essere un bancomat a disposizione del primo che passa.

Eppure, sull’accordo con Aspi, ci sono una serie di dubbi. A partire dal prezzo della transazione.

Siamo in una fase storica in cui c’è bisogno di una grande responsabilità pubblica. Per l’Italia è il tema dei temi. Ma di questo si discute in tutta Europa. Quando parliamo di ricostruzione, parliamo di come tenere insieme investimenti e riforme strutturali. Solo un nuovo intervento pubblico può indicare la strada da seguire per allineare gli interventi nazionali agli obbiettivi europei, come il Green deal e la digitalizzazione. Non possiamo permetterci il lusso di favorire interessi di parte o sprecare risorse. Segnalo che tutte le polizie europee avvertono che la mafia è già pronta a mettere le mani sulle risorse comunitarie.

Gualtieri sul Corriere di ieri sostiene che il governo non ha mai escluso l’uso del Mes. Ma di veti ce ne sono stati. Anche se poi quei soldi sono conteggiati nel Piano nazionale di riforme. Lei cosa ne pensa?

Gli strumenti non sono totem. Sono buoni se sono utili. Adesso vale la pena aspettare l’ammontare e la portata di tutti quelli che verranno messi in campo. La linea sanitaria del Mes offre prestiti vantaggiosi utili a rafforzare la sanità pubblica.

Ci sono posizioni molto divergenti sulla capienza del Recovery Fund, con i Frugali che mettono in discussione anche l’ammontare dei Grants e la governance, con alcuni che vogliono spostare la sorveglianza dalla Commissione al Consiglio. Intravede un punto di caduta?

La democrazia è compromesso. Nella logica di pacchetto tra Recovery Fund e bilancio pluriennale europeo, sulle grandi linee del piano di ripresa e del bilancio, ci sono convenienze per tutti. Parlo non solo dei trasferimenti previsti dal Next Generation Eu e dai Rebates per i Frugali contenuti nel bilancio, ma anche nella salvaguardia della politica di coesione e della politica agricola, come chiedono i Paesi dell’est. Ci sono convenienze per tutti. È la base della proposta presentata da Ursula von der Leyen. Per quel che riguarda la governance, bisogna rispettare i Trattati, con il rafforzamento del metodo comunitario, che tiene insieme Commissione, Parlamento e Consiglio. Se i governi hanno la prima e l’ultima parola non si fa un buon servizio alla democrazia europea.

Il Parlamento dovrà pronunciarsi sul pacchetto. Quali sono i vostri paletti?

Una governance comunitaria, con un ruolo del Parlamento, un calendario dettagliato di entrata in vigore delle risorse proprie, ovvero contributi che vanno direttamente all’Unione e non passano per gli Stati membri (come la digital tax, il contributo sulla plastica e sul carbonio), il rispetto dello stato di diritto e un’ampiezza del Recovery Fund di 750 miliardi di euro (500 in finanziamenti, 250 in prestiti) come proposto dalla Commissione.

L’asse del Nord non molla sui soldi e sulle “condizioni”

Dimensioni (da ridurre) del Recovery fund, un diverso equilibrio tra (più) prestiti e (meno) trasferimenti, forti condizionalità (soldi in cambio di piani di riforma) prima di autorizzare gli esborsi e, a questo proposito, il via libera all’unanimità (e cioè, vista al contrario, il potere di veto per ogni singolo Stato) ai piani di riforma di cui sopra da presentare per l’accesso ai fondi europei: sono questi i temi su cui i quattro Paesi cosiddetti “frugali” (Olanda, Danimarca, Svezia e Austria) e la Finlandia che li fiancheggia hanno dato battaglia nel primo giorno del primo Consiglio europeo dal vivo (a Bruxelles) dopo quelli in videoconferenza dell’èra Covid-19.

L’asse del Nord non è un monolite. Le posizioni cambiano, i Paesi si avvicendano nel porre ostacoli o nel rilanciare il dialogo. Ad esempio, nel corso del Consiglio di ieri è parso di notare ai presenti un lieve spostamento dell’Austria verso posizioni più possibiliste, mentre la Finlandia si irrigidiva invece su volume (troppi soldi) e architettura tra crediti e trasferimenti del Recovery Fund.

Durante il pomeriggio, poi, nei palazzi bruxellesi s’è parlato del nuovo ruolo della Danimarca, che s’è concentrata invece sulla proposta (cara ai “frugali”) di riduzione del normale Budget Ue 2021-2027 e a sostegno dei cosiddetti “rebates”, sorta di sconti sui contributi al bilancio comunitario appannaggio dei nordici e della Germania, osteggiati dalla Francia e dall’Italia. Anche la premier finlandese Sanna Marin in mattinata aveva detto chiaramente di essere favorevole ad un esborso più moderato nel volume totale e di desiderare un equilibrio diverso tra sovvenzioni e crediti, orientato a un diminuzione dei trasferimenti. È stato però il premier olandese Mark Rutte, ancora una volta, ad ergersi a capofila degli intransigenti sul tema della governance del Recovery Fund. Entrando in Consiglio il premier olandese ha rimarcato la sua sfiducia nelle trattative, sostenendo “di vedere poco meno del 50% di possibilità di raggiungere un accordo”. Nel corso del negoziato, raccontano fonti di governo, ha ritirato fuori il tema dell’unanimità sulla governance. Un tema centrale: chi vigila sull’erogazione dei fondi, la Commissione Ue o il Consiglio dei capi di Stato e di governo? E come? Attraverso maggioranza semplice, qualificata o unanimità. L’unanimità è un suicidio per un Paese come il nostro; per l’Italia, hanno ricordato il premier Giuseppe Conte e il ministro Roberto Gualtieri, quella è una “linea rossa”. D’altra parte il Cancelliere austriaco Sebastian Kurz ha parlato di “sistemi politici guasti” a proposito di alcuni Paesi europei ed è facile intuire a chi si riferisse.

Forse per questi tonil’altro cancelliere presente, quella tedesca Angela Merkel, in mattinata aveva messo in guardia tutti dicendo che la divergenza di posizioni richiedeva “un grande disponibilità al compromesso” e di “aspettarsi trattative molto molto difficili”. Ma in giornata nulla è trapelato dal fronte tedesco. Si sa solo che la cancelliera vedrebbe di buon occhio un nuovo incontro entro la fine di luglio e che sulla governance considera la proposta di Charles Michel sul Consiglio europeo un buon compromesso. Ma come si sa il diavolo è nei particolari.

La linea rossa del premier Occhi puntati su Angela

“Un vertice alla velocità di un ghiacciaio” dice un diplomatico presente, quasi un minuetto. Fatto di mosse e contro-mosse, rilanci e tentativi di incassare il risultato. Guardando tutti, però, da una stessa parte: Angela Merkel. Con un po’ di spazio, ovviamente, per Emmanuel Macron. Non tanto perché la presidente di turno dell’Unione europea sia la padrona di casa, ma perché la Germania, soprattutto dopo la pandemia Covid, sembra essere l’unico punto di equilibrio di un’Unione che voglia rimanere tale.

La foto diffusa dal presidente Ue, Charles Michel, che lo vede riunito con i due leader francese e tedesca e con la presidente, anch’essa tedesca, della Commissione, Ursula von der Leyen, rivela quale sia la tolda di comando europea. In questo senso anche i soliti scontri tra i “frugali” del Nord e gli “spendaccioni” del Sud, soprattutto l’Italia, cambiano di segno. Non solo perché sulla destra – geografica e politica – è sempre solido l’asse dell’est, in particolare dopo la vittoria di Duda in Polonia. Cambia di segno perché il ruolo della Germania stavolta non è quello di mandare avanti i “frugali”, olandesi in testa, per poi bastonare i paesi più distanti dai parametri del Patto di Stabilità. Stavolta la Germania ha davvero il compito di portare a casa un risultato di mediazione efficace che ricordi a tutti, certamente, quali sono le regole immutabili della Ue, ma che allo stesso tempo non faccia saltare il banco.

I tedeschi non possono permettersi di perdere l’Italia e non farlo significa lasciare sul tavolo quello che per Conte è il minimo indispensabile: un ammontare significativo di grants, cioè di aiuti a fondo perduto, erogati in tempi rapidi e senza il giogo di un veto olandese o di chiunque altro.

Lo scontro tra Conte e Rutte, che ha segnato questa fase dell’Unione e che è la notizia più evidente del vertice di ieri – e che in effetti permette all’Italia di giocarsela fino all’ultimo anche se i vari attori sul campo ammettono che stavolta è veramente dura – esprime questa situazione. Conte ha segnato una “linea rossa”: ammontare totale a 750 miliardi con un bilanciamento tra trasferimenti e prestiti, nessun veto da parte di nessuno.

È probabile che sulle cifre si tratterà fino a notte fonda – tutti i partecipanti prevedono che la partita vera sia cominciata solo con la convocazione serale – che sulla governance si arriverà a una mediazione della mediazione partendo, appunto, dalla “linea rossa”. Perché mai come ora è importante che le risorse debbano essere “efficaci”.

Ma stavolta, come nei passaggi cruciali della Ue, non ci sono spazi per mezze misure: o le risorse ci saranno, esigibili, chiare e non vincolate, oppure sarà un problema. Il vero “rilancio” di Conte e dell’Italia sta in quel piano, previsto per settembre, la cui realizzabilità è data dalla quantità di risorse europee. Almeno 80 miliardi per il 2021 saranno necessari, meglio se 100.

Dal Recovery Fund l’Italia si aspetta una cifra di 172 miliardi, tra prestiti e trasferimenti, e quindi è da quella cifra che occorre capire il punto di caduta. Altrimenti, non sarà più solo questione di “ricorrerà al Mes” come si sbracciano un giorno sì e l’altro pure tutti coloro che vogliono lo scalpo di Conte, ma sarà a rischio la struttura economica e sociale dell’Italia. Conte e Gualtieri fino all’ultimo si dicono ottimisti, ma sanno bene che dovranno sudarsela fino in fondo. E dal risultato che il presidente del Consiglio porterà a casa dipenderà la tenuta del governo.

Conte: “750 miliardi senza tagli”. Si litiga, ma si tratta a oltranza

Un vertice straordinario sotto ogni profilo: questo è stato il Consiglio europeo che si è aperto ieri a Bruxelles e che deciderà se e come investire, tra Recovery Fund e bilancio Ue, un pacchetto da oltre 1.800 miliardi. È il primo vertice europeo “in presenza” da 5 mesi, dopo l’incontro sul bilancio Ue dello scorso febbraio che si era risolto in un fiasco. È anche il primo Consiglio Ue in tempi di Covid-19, con tutto ciò che ne segue: delegazioni ridotte al minimo, sala stampa chiusa, informazioni via Twitter e mascherine. Ma soprattutto è il primo incontro tra capi di Stato e di governo in cui la dimensione di eccezionalità ed emergenza data dalla crisi economica generata dal coronavirus è un fatto di cui tutti si mostrano consapevoli. “Un momento della verità per l’Europa”, secondo il presidente francese Emmanuel Macron. “Non si tratta solo di soldi ma di persone, del futuro dell’Europa” per il presidente del Consiglio europeo, il belga Charles Michel. “Tutto il mondo ci guarda per sapere se l’Europa sarà in grado di affrontare unita la crisi del coronavirus”, ha detto la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen.

Dichiarazioni roboanti vuote di significato? Stavolta “il clima è costruttivo anche se il negoziato resta complicato”, riferisce una fonte di governo. Si tratta a oltranza: nessuno ha messo la pistola sul tavolo, nessuno “ha giocato a fare il Pierino” per far saltare il banco, riferisce una fonte diplomatica. Le opinioni pubbliche di tutti paesi europei hanno ancora negli occhi le terribili immagini dei momenti più duri della pandemia. Difficile voltarsi dall’altra parte, ma questo – paradossalmente – rende le trattative ancor più complicate: mentre Il Fatto va in stampa, si parla infatti di un’ulteriore proposta arrivata al tavolo dei leader.

In ogni caso il desiderio di un accordo non ha impedito confronti serrati e duri tra i quattro “frugali” (Olanda, Danimarca, Svezia e Austria) e gli altri, tra Polonia e Ungheria, da una parte e Francia e Germania dall’altra sull’indipendenza del sistema giudiziario a cui vincolare gli esborsi.I dossier sul tavolo erano e rimangono diversi e complessi: la governance per decidere a chi spetta la sorveglianza sugli esborsi legati al Recovery Fund e attraverso quale strumento decisionale (se unanimità, maggioranza semplice o maggioranza qualificata), il volume degli investimenti totali, l’equilibrio tra sovvenzioni e crediti, l’allocazione delle risorse e la tempistica, e poi ancora la discussione sul vincolare gli esborsi al rispetto dello Stato di diritto, tema caro all’Olanda e alla Germania che hanno di mira l’Ungheria di Orban e la Polonia di Morawiecki.

L’accordo, però, o sarà totale o non ci sarà, riferisce una fonte diplomatica: è questa la linea che l’Italia continua a portare avanti nella trattativa. Difficile però che questo possa avvenire in due giorni di vertice. Le trattative ieri si sono concentrate sulle modalità di governance del Recovery Fund. Rispetto alle proposte di unanimità, definite “impraticabili” dal premier Giuseppe Conte in netto contrasto con le richieste del premier olandese Rutte, una linea di caduta possibile c’è: si chiama “emergency brake”, “freno d’emergenza”, un meccanismo non incluso nella proposta di compromesso fatta la settimana scorsa dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel. Si tratta di un intervento che potrebbero richiedere quei Paesi che non fossero convinti dei piani nazionali presentati nell’ambito del Recovery fund. Il punto discriminante è però il ruolo del Consiglio Ue: elabora “raccomandazioni” per la Commissione Ue oppure decide?

L’Italia non intende spogliare la Commissione dal ruolo che gli compete – questa è la posizione negoziale di Conte – quindi è favorevole solo alle “raccomandazioni”. La proposta di questo “freno d’emergenza” ora sarà valutata dai vari governi, ma non è certo questo l’unico punto di scontro. Per l’Italia, ad esempio, il Recovery Fund deve restare di 750 miliardi e con l’attuale divisione tra sussidi e prestiti (500 e 250 miliardi). All’olandese Rutte e agli altri nordici non va bene: oggi si ricomincia.

La Bestiolina imita la Bestia e fa steccare i ‘buoni’ del Pd

Io questo articolo non l’avrei mai voluto scrivere. Lo rimando – non immaginate da quanto – sperando che qualcuno dalle parti della sinistra si svegli e capisca che non è il caso. Che forse è il momento di richiamare l’esercito dei più attivi comunicatori social e di spiegare che non è con La Bestiolina che si sconfiggerà La Bestia. E per Bestiolina intendo quella macchina che controlla i trend del giorno, le notizie più utili alla propaganda di sinistra, uniforma la comunicazione sui social. Quello che fa la Bestia, insomma, ma dalla parte del Bene. E il Bene non esiste se non esiste il Male. La chiamo Bestiolina perché non ha l’aggressività de La Bestia salviniana e perché il suo fine ultimo è quello di provocare l’indignazione buona, di chi dedica un pensiero all’Aquarius, al sindaco razzista, a Salvini che suona citofoni, al post sessista, al giorno della memoria, al murales per la pace, alle meringhe e al profumo di lavanda nei cassetti della nonna. E sarebbe tutto giusto e bellissimo – per un po’ lo è anche stato – se non fosse che la narrazione è diventata stucchevole, oltre che chirurgica e furba come quella di Salvini. La Bestia e la Bestiolina hanno finito per diventare speculari. L’antisalvinismo ha impugnato le armi del salvinismo.

Basta farsi un giro sulle bacheche dei Lorenzo Tosa (ex candidato con +Europa), Fabrizio Delprete (ex collaboratore di un deputato di Sel), Emilio Mola (vicino alla Sinistra italiana), Leonardo Cecchi (cura la pagina social Pd), Cathy La Torre (prossima candidata sindaco di Bologna), per capire di cosa stiamo parlando. Sono loro, i titolari delle pagine più seguite e più uniformate a questa comunicazione: ne leggi una, le hai lette tutte. Sono identici i loro contenuti, ovvero post emozionali sul tema più in vista del giorno.

Sono identici gli incipit – sempre un “Io sono…” e segue nome di persona – perché su fb tira lo storytelling. O frasi secche, brevi, per acchiappare l’attenzione. Sono identici perfino l’utilizzo degli spazi nei post, della punteggiatura, il climax e le chiuse ad effetto, sempre colme di positività e speranza. Altra regola è cannibalizzare contenuti altrui a mani basse senza mai linkare nessuno. In pratica copiano e incollano un tuo post (o riassumono una notizia) e ci mettono sotto la tua firma (a volte la fonte), così like e condivisioni restano a loro e non a te.

I post pucciosi, fuffosi, petalosi dei citati Tosa, Mola, Delprete & C. sono talvolta coordinati in maniera comica: per dire, il 15 luglio postavano tutti il post epico sull’eroismo della sindaca di Lizzano che cazzia il prete omofobo (Mola lo posta alle 8,59. La Torre alle 9,04. Delprete alle 9,55. Tosa alle 10,06). Stesso linguaggio, stessa enfasi, stesso registro, anche perché Mola, per dire, è social media manager de La Torre, ma si dice che anche Delprete scriva per lei e che Tosa scriva per altri. Tutto mescolato in un calderone di accaparramento di emozioni facili, like, engagement.

Così accade che a leggerli tutti in fila si viene assaliti da uno strano disagio, quello che talvolta si prova allo stadio per il buzzurro seduto accanto, quello con la sciarpa dello stesso colore della tua. Si viene pervasi dall’imbarazzante sensazione di assistere al marketing dei buoni sentimenti nonché dal terrore di ritrovarsi un giorno, magari nella prima fase rem del sonno, quando l’inconscio straparla, a sognare Tosa che legge un suo post avvolto da un’aura celeste. E svegliarsi tutti sudati urlando la parola impronunciabile: buonismo!

Io non voglio fare questa fine. Non voglio diventare una brutta persona. Ma non mi sfugge che se Salvini punta allo stomaco, loro puntano al cuore. Se la Bestia è maieuta dell’odio, la Bestiolina lo è dell’ammmore. E c’è un tema di fondo: perché lo fanno? Cosa li motiva? L’idea di trasformare il mondo in un luogo migliore? Forse. A questo va aggiunto però un misto di ambizione personale e strategia marketing propria degli influencer. E che aspirino tutti a essere influencer è palese: Tosa pubblica classifiche di engagement vantandosi di essere la seconda pagina dopo quella di Salvini, La Torre ha social media manager (Mola) e perfino un consulente Instagram che segue brand di qualsiasi tipo, dal profumo alla crema viso. Delprete annuncia l’uscita del suo libro così: “Per ripercorrere gli ultimi anni di questa martoriata Repubblica ho deciso di fare un e-book con tutte le mie risposte ai sovranisti, Salvini in primis”. Un accennato autocompiacimento, insomma.

E poi la foga di arrivare primi sul post emozionale, come quella di Salvini quando c’è da mettere alla gogna un immigrato, che fa fare errori grossolani: “Guardate! Un ragazzo nero è stato fermato brutalmente dalla polizia perché non usava la mascherina!”, seguono aggettivi carichi di indignazione e hashtag del giorno #blacklivesmatter. Poi viene fuori che il nero stava molestando dei passeggeri e aveva un’arma bianca. Ma il post (di Delprete) resta lì. Non lo cancella. Come fa sempre Salvini, quando sbaglia.

Idem per un altro post, in cui lo stesso scrive che il tizio che arrostiva un gatto era un attore pagato 50 euro. Una fake news che non viene cancellata perché (chissà) serve a riabilitare l’immigrato come a Salvini servono le fake news per alimentare odio per gli immigrati. Speculari, dicevamo.

La vera questione è cosa porti tutto questo alla sinistra: di sicuro non voti, perché dietro quei post non c’è un pensiero politico e neppure un’emozione che vada a radicarsi. Non è l’odio della Bestia che si appiccica addosso. Sono le lacrime asciutte della Bestiolina, che dopo trenta secondi dalla lettura del post non ti ricordi neppure più per cosa ti sei commosso, se era per il migrante che ha fatto 700 chilometri a piedi o per l’ l’orfano siriano.

Ed è su questo che bisogna riflettere: per tornare a dire qualcosa di sinistra, anche sui social, non serve una Bestiolina che punti alle emozioni, ma, forse, avere dei progetti. Allora sì, che ci sarebbe molto da raccontare. E non servirebbero neppure i post emozionali. Ci commuoveremmo anche a computer spento.

Italia, Rt a 1,01. Nel mondo dilaga

In Italia la situazione resta stabile, la curva ha però smesso di scendere e ormai si è capito che, con la riapertura dei confini, l’obiettivo “zero contagi” è un miraggio, perché il virus è tornato a circolare insieme alle persone. Ieri ministero della Salute e Istituto superiore di sanità hanno confermato, per gli ultimi 15 giorni (29 giugno-12 luglio), un “lieve aumento”. Rt, il tasso di riproduzione del virus, è a 1,01 a livello nazionale, per la prima volta superiore a 1. La Lombardia torna sopra la soglia (1,14), aggiungendosi a Veneto (1,61), Toscana (1,24), Lazio (1,23), Emilia-Romagna e Piemonte entrambe a 1,06, ma tutte con numeri sensibilmente inferiori. Sono le Regioni in cui si sono registrati focolai spesso innescati da arrivi dall’estero. Ieri 233 nuovi casi (55 in Lombardia) e 11 decessi.

Nel mondo il virus si sta diffondendo a una velocità tripla rispetto a quando in Italia è terminato il lockdown. Il 4 maggio erano circa 80 mila i nuovi contagi giornalieri nel mondo, oggi sono 250 mila e continuano ad aumentare. Come ha sottolineato l’Organizzazione Mondiale della Sanità, a livello globale non si è ancora raggiunto il picco epidemico e la trasmissione accelera, con oltre 14 milioni di casi dall’inizio della pandemia e 5 milioni di attualmente positivi.

Il continente americano è il più colpito, con gli Stati Uniti che pagano la scelta di non aver adottato forti misure di contenimento e che macinano record: i nuovi casi sono oltre 78 mila, 3 milioni e mezzo il totale dei contagiati, 138 mila i deceduti. Anche il Sud America non vede un rallentamento dell’epidemia, con il Brasile che registra oltre 45 mila nuovi contagi ogni giorno ed ha superato i 2 milioni di positivi totali. Ma a correre sono anche Messico, Colombia, Perù, Cile e Bolivia con migliaia di nuovi contagi ogni giorno. L’India, terzo paese più colpito, ha superato il milione di contagiati e viaggia al ritmo di 35 mila nuovi casi giornalieri, seguita dal Sudafrica con oltre 13 mila e dalla Russia con 6 mila.

In Europa, dove la curva epidemica è scesa grazie alle forti misure di contenimento, diversi Paesi registrano una ripresa dei casi. La Spagna, che come l’Italia aveva abbattuto i nuovi contagi sotto quota 200, è tornata sopra i 1.000. Ma a preoccupare sono soprattutto i Balcani e i Paesi dell’est Europa, con Serbia e Montenegro che hanno registrato una nuova impennata dei casi (con la conseguente divieto di viaggiare verso l’Italia da parte del ministro Speranza), come anche la Romania, la Bulgaria e la Repubblica Ceca. Intanto, diminuisce l’età media. Secondo l’Iss negli ultimi 30 giorni l’età media dei positivi al tampone in Italia è stata di 46 anni contro una media di 61 dall’inizio dell’epidemia. I minorenni nell’ultimo mese hanno superato il 10% del totale, prima erano intorno al 2% di media.