Trump indietro nei sondaggi: la paga Parscale, ex mago del web

Donald Trump continua a giocare allo “scarica-barile”: se qualcosa non va, è sempre colpa d’altri. L’epidemia di coronavirus? La Cina, l’Oms, il virologo Anthony Fauci e gli altri suoi compari scienziati. L’economia non riparte? Jerome Powell e la Fed. La campagna è un flop? Il manager che non l’asseconda, quel Brad Parscale che nel 2016 lo accompagnò alla vittoria. Indietro nei sondaggi, il magnate fa la cosa che sa fare meglio dai tempi di The Apprentice, quando non era ancora presidente: licenzia. Così, fa fuori Parscale e lo sostituisce con Bill Stepien.Nelle ultime settimane, il posto di Parscale era parso più volte vacillante: il magnate gli addossava tutti gli incidenti di percorso della sua campagna, specie il flop del comizio di Tulsa il 20 giugno. Parscale, 44 anni, lavora con Trump dal 2011 ed è uno specialista della comunicazione online: era digital media director della campagna 2016; ora, era il manager della campagna per la rielezione. Resterà nel team come senior advisor e continuerà a occuparsi delle strategie digitali. Stepien, 42 anni, ha lavorato con l’ex governatore del New Jersey Chris Christie – non granché, come referenza – e poi con Trump, di cui fu direttore politico durante la fase della transizione. Il cambio della guardia avviene mentre fioccano sondaggi negativi per il magnate presidente. Nbc e Wall Street Journal danno il candidato democratico Joe Biden 11 punti avanti, 51% a 40%, anche se Trump va forte sull’economia, con il 54% dei consensi. Per la Quinnipiac University, il vantaggio di Biden è addirittura di 15 punti: 52% a 37%. Nonostante le sentenze avverse della Corte Suprema, il magnate non intende consegnare ai giudici di New York le sue dichiarazioni fiscali: gli avvocati del presidente cercano d’allungare i tempi fin dopo l’Election Day, il 3 novembre. Una grana tira l’altra. E una caccia l’altra: il magnate e la “prima figlia” Ivanka postano sui social foto in cui reclamizzano i fagioli e altri prodotti della Goya, grande azienda alimentare popolare nella comunità ispanica, boicottata perché il suo ad Robert Unanue è un fan del presidente. Trump pubblica una foto nello Studio Ovale: ha sulla scrivania confezioni di prodotti Goya e tiene i pollici alzati. Ivanka invece posta una foto dove ha in mano un barattolo di fagioli e si legge lo slogan in inglese e in spagnolo “Se è Goya deve essere buono”. La critica per Ivanka è d’avere infranto la regola etica che vieta ai dipendenti federali di fare pubblicità commerciale.

Hacker a caccia di vaccini. Su Twitter la truffa bitcoin

Hackers russi starebbero tentando di rubare le ricerche per lo sviluppo di un vaccino anti-Covid da centri di studio in Canada, Stati Uniti e Gran Bretagna. L’accusa è gravissima: la fonte sono le agenzie di sicurezza dei tre paesi colpiti, che in un comunicato coordinato, ieri, hanno accusato dell’attacco cyber APT29, un gruppo di hacker anche conosciuto come Cozy Bear, che il New York Times definisce “associato” all’intelligence russa. Non un furto privato o su commissione ma, questa la tesi dei tre governi, noto ai vertici della sicurezza della Federazione Russa.

Il National Cyber Security Centre britannico è piu cauto e scrive che “Cozy Bear”, anche detto “the Dukes”, “quasi certamente opera come parte dei servizi di intelligence russi”: una valutazione “supportata ache dalla CSE, l’agenzia di cyber intelligence canadese e, negli Stati Uniti, dal Dipartimento di Sicurezza nazionale, dalla CISA, (Cybersecurity Infrastructure Security Agency) e dalla National Security Agency”. È il gruppo identificato per la prima volta nel 2014 e già coinvolto nella compromissione del National Democratic Committee durante le elezioni presidenziali USA del 2016. I dettagli sono forniti in un rapporto pubblico di 14 pagine in cui sono resi noti anche hashes, cioè pezzi di codice per decrittare il malware e indirizzi IP per identificare gli hackers: l’attività di spionaggio, ancora in corso, avrebbe come target centri di ricerca, think tank, governi, personale diplomatico, strutture sanitarie e dell’energia con lo scopo di rubarne proprietà intellettuale, con un focus sulle ricerche per il vaccino. Con il cosiddetto spear-phishing: false email personalizzate, inviate da account compromessi ma che godono della fiducia della vittima, come quello di un collega o un superiore, e con tecniche di manipolazione che ne sfruttino le vulnerabilità. Il ministro degi Esteri Dominic Raab: “È assolutamente inaccettabile che i servizi di intelligence russi stiano colpendo chi lavora per combattere la pandemia. Mentre altri privilegiano i loro interessi egoistici con un comportamento senza scrupoli, il Regno Unito e i suoi alleati proseguono il duro lavoro di trovare un vaccino e proteggere la salute pubblica globale”. Il portavoce di Vladimir Putin, Dmitry Peskov ha dichiarato all’agenzia Tass: “Non sappiamo chi abbia tentato di attaccare compagnie farmaceutiche e centri di ricerca in Gran Bretagna. Possiamo solo dire che la Russia non c’entra”. Ma è una giornata nera per i rapporti bilaterali: sempre ieri Raab ha rivelato che “quasi certamente attori russi hanno tentato di interferire nelle elezioni politiche del 2019 diffondendo un documento del governo ottenuto illegalmente”.

Quel documento, parte dei negoziati preparatori per un accordo commerciale Usa-UK, fu utilizzato da Jeremy Corbyn per dimostrare l’intenzione di Boris Johnson di includere l’NHS nelle trattative. Nel Regno Unito cresce anche l’attesa per la pubblicazione, la prossima settimana, di un altro rapporto, quello sulle presunte ingerenze russe nella campagna per il referendum su Brexit del 2016 e le elezioni politiche del 2017. Rimandata a lungo e senza giustificazioni plausibili da due governi conservatori. La svolta si deve all’iniziativa del neo presidente della commissione parlamentare di Intelligence, il conservatore Julian Lewis, che grazie ai voti laburisti è riuscito a scalzare il candidato designato dal governo e per questo è stato punito dal suo partito.

E ci sono possibili sviluppi in un’altra vicenda di hackeraggio, stavolta ai danni di Twitter. Negli ultimi giorni sugli account verificati di società come Uber e Apple e quelli di personalità come Elon Musk, Jeff Bezos, Barack Obama, Joe Biden, Kanye West sono stati pubblicati messaggi come questo: “Raddoppierò tutti i bitcoin che saranno inviati a questo indirizzo. Se mi mandate 1.000 dollari io ve ne restituirò 2.000. Ma solo entro i prossimi 30 minuti”.

I truffatori hanno intascato circa 120 mila dollari prima che Twitter intervenisse. “È stato un attacco coordinato di ingegneria sociale che ha preso di mira alcuni dei nostri dipendenti con accesso a strumenti e sistemi interni” ha spiegato il social media. Non quindi una aggressione a singoli profili ma una trappola agli amministratori del sistema. Secondo una inchiesta di Motherboard gli hacker avrebbero avuto un complice fra i dipendenti, che avrebbe fornito loro accesso in cambio di denaro.

Perché la natura ci guida ancora

Tra le controversie politico-culturali che in questo frangente di storia dell’occidente accendono maggiormente le passioni, un posto di rilievo lo occupa il problema di giudicare cosa è “naturale”, ovvero la questione se quello che crediamo “naturale” sia tale e perché, e se cose o scelte giudicate “innaturali” sarebbero in quanto tali dannose o moralmente sbagliate.

Le discussioni sulle cause della pandemia in corso e le minacce rappresentate da agenti infettivi d’origine selvatica fanno, per esempio, riferimento agli interventi umani ai danni della biodiversità naturale e qualcuno, addirittura, sostiene che quanto sta accadendo sarebbe una vendetta della “natura” per lo sfruttamento e la distruzione dell’ambiente. Nessuno può negare che un numero significativo di infezioni emergenti che hanno minacciato le popolazioni umane nell’ultimo mezzo secolo derivino da contatti più frequenti tra l’uomo e i parassiti, soprattutto virus, che colonizzano animali che vivono in ecosistemi naturali, aggrediti da attività economiche umane. Una questione forse non di oggi, se pensiamo che l’arrivo della Peste Bubbonica nel Trecento coincideva con il massimo dell’attività di deforestazione in Europa. Resta da vedere se possa avere qualche effetto la moralizzazione colpevolizzante di un processo che è molto “naturale” e vede l’uomo usare, come ha sempre fatto nella preistoria e nella storia, le capacità di cui è naturalmente dotato per agire sull’ambiente allo scopo di migliorare la propria condizione.

Non è solo nella sfera dei fatti ecologici che entra il gioco il richiamo alla “natura”. Sono decenni che si discutono questioni definite dai politici “eticamente sensibili”, come la creazione e uso di organismi geneticamente modificati in agricoltura, la fecondazione medicalmente e geneticamente assistita inclusa la gestazione per altri, la clonazione riproduttiva e terapeutica, lo statuto morale dell’embrione umano o il diritto di disporre autonomamente della propria vita e, quindi, di rifiutare trattamenti salvavita (o di chiedere l’eutanasia), etc. In questi casi, la questione era ed è se una persona ha il diritto di decidere in autonomia e sulla base di valori personali la propria esistenza, nel senso di ricercare per sé e per chi ama (prescindendo dal genere e quindi ignorando anche il pregiudizio che solo l’amore eterosessuale sia naturale) e senza danneggiare altri, un benessere concreto, ignorando cosa è considerato comune sentire – su base religiosa o solo morale – “naturale”. L’idea che tende a prevalere è che esistano delle condizioni “naturali” che riguardano la sfera riproduttiva e l’inizio della vita – con chi e come si concepisce un figlio, se lo si possa far nascere senza gravi malattie, etc. – o la fine della vita – quanto sia legittimo rifiutarsi di morire “naturalmente” se questo comporta sofferenza e perdita di dignità, chiedendo quindi ai medici un aiuto a morire come forma di cura – che devono essere accettate anche da chi, con validi motivi, non le considera tali. Queste pratiche “naturali” sostanzierebbero, per alcuni, dei valori morali e civili che darebbero in modo esclusivo un senso “autentico” all’esistenza umana.

È stato detto, dimostrato e ribadito in quasi tutte le salse che non c’è niente di più culturale dell’idea di “natura”. Nondimeno ci sono altrettante prove del fatto che non c’è niente di più difficile da sradicare della credenza che esistano situazioni che sono, per definizione, naturali o più naturali di altre. Un’idea che in sé non avrebbe nulla di problematico se, per motivi che dipendono dalla nostra… naturale psicologia, non viaggiasse normalmente in compagnia del pregiudizio per cui quello che è considerato “naturale”, per ciò stesso viene giudicato più buono, più giusto, più sano e più sicuro. La natura funziona per noi, intuitivamente, come un riferimento normativo.

Se sia corretto, sul piano strettamente logico, fare appello alla natura come criterio normativo, è una questione risolta già nel 1874 da John Stuart Mill. Il termine “Natura”, scriveva Mill, viene usato con due significati principali: da un lato per denotare “l’intero sistema di cose esistenti, a cui si attaccano tutte le loro proprietà”, dall’altro “indica come le cose sarebbero, senza l’intervento umano”. Secondo il primo significato, “la dottrina per cui l’uomo dovrebbe seguire la natura è priva di senso, poiché l’uomo non ha il potere di fare nient’altro che seguire la natura; ovvero tutte le sue azioni sono compiute in obbedienza a una o più leggi fisiche o mentali della natura”. Nel secondo senso, “la dottrina per cui l’uomo dovrebbe seguire la natura, o in altre parole, dovrebbe rendere il corso spontaneo delle cose il modello delle sue azioni volontarie, è altrettanto irrazionale e immorale. Irrazionale, perché qualsiasi azione umana, qualunque sia, consiste nel modificare e ogni azione utile nel migliorare il corso spontaneo della natura. Immorale, poiché il corso dei fenomeni naturali è pieno di tutto ciò che quando commesso dagli esseri umani è piuttosto degno di orrore, per cui chiunque si sforzasse nelle sue azioni di imitare il corso naturale delle cose sarebbe universalmente visto e riconosciuto come il più malvagio degli uomini”.

Poco da aggiungere, se non cercare di capire perché, nonostante quello che scriveva Mill nei Three Essays on Religion, pubblicato un anno dopo la sua morte, l’idea di Natura continui ad alimentare scelte e giudizi irrazionali. Probabilmente perché è naturale, nel primo senso di Mill, fare appello alla natura. Anche se è illogico. Ma è solo una dei tanti modi illogici di ragionare che la “natura” ha cablato nel nostro cervello. Quasi centocinquant’anni dopo, è ancora più evidente che l’appello alla “natura” è un argomento fallace, che fa leva sulla credenza inverosimile e scientificamente insensata che esista un “ordine” naturale dato, in quanto tale armonico e quindi da apprezzare o conservare. Quello che esiste nel mondo, in generale, uomo incluso, è in continuo cambiamento, e in modi che sono indipendenti da ogni presunta volontà umana. Le aspirazioni dominanti che ci guidano come esemplari di una specie naturale sono riprodurci, manipolare il prossimo e migliorare le condizioni di vita personali e dei propri parenti/amici; aspirazioni che normalmente prescindono dal fatto che per realizzare tali condizioni si interferisca con la “natura” e sia necessario farlo. Del resto, non ci interroghiamo certo se stiamo o meno interferendo con la natura quando usiamo occhiali, assumiamo antibiotici, navighiamo in rete con uno smartphone, brevettiamo invenzioni, facciamo trapianti di organi, usiamo automezzi o aerei, illuminiamo e riscaldiamo le abitazioni, costringiamo i nostri figli ad andare a scuola.

 

Soldi a Calenda no ma a cena ci vado

Ho incontrato Carlo Calenda una sera negli studi del talk show di Annalisa Bruchi. L’ex ministro era l’ospite. Io il commentatore “leggero”, quello che doveva cercare di far ridere. Calenda si lamentava di non contare niente perché quando aveva invitato i colleghi a cena, nessuno aveva accettato l’invito. Io intervenni: “Onorevole, mi ascolti. Inviti me. Io vengo”. Non era una gran battuta ma Calenda rise. Almeno lui. Calenda non ha un gran partito (“Azione”), usa il basso profilo, spesso l’autoironia e ottiene un grande seguito. In televisione lo vedi ovunque tranne a Tiki Taka e al Paradiso delle signore. Ma ci riuscirà. Nel frattempo rimedia soldi da tutte le parti. Gli industriali lo adorano e lo ricoprono d’oro. Ne è misterioso il motivo. Amore per la democrazia? Escluderei. Supporto cristiano ai deboli (“per i deboli imploro pietà”)? Non mi pare il caso. Ma allora perché Lupo Rattazzi gli ha mollato 30 mila euro? Che cosa si aspetta dall’uomo che non riesce nemmeno ad invitare i colleghi a cena? E che cosa si aspetta Luca Garavaglia, presidente della Campari, in cambio dei 15 mila euro versati nelle casse di Azione? Che Calenda beva in tv pubblicamente un Crodino brindando alla salute di Giletti non è Giletti? E vogliamo parlare di Gianfranco Librandi, parlamentare di Italia Viva, che contribuisce addirittura, secondo quanto scrive Fosca Bincher sul Tempo, con 20 mila euro prelevati dalle casse di Tci Telecomunicazioni? Sai quanto è contento Matteo Renzi? (Come?
A Renzi avrebbe dato 800 mila euro? Fascisti! Populisti! Sovranisti!)

Mail box

 

Venezia: scandalo delle sentenze pre-compilate

In questi giorni, la Corte d’Appello di Venezia è nella bufera. Se è vero quanto affermano i quotidiani ad alcuni penalisti veneti sarebbero pervenuti, via pec, dispositivi e motivazioni di sentenze in procedimenti non ancora discussi. Secondo la presidente della Corte d’Appello si tratterrebbe non di sentenze ma di bozze di ipotesi. Quale che sia la verità si tratta, comunque, di un fatto grave. Secondo le norme processuali la decisione del processo segue e non precede la discussione. La difesa della presidente mi sembra più formale che sostanziale. Per l’avvocato che riceve la comunicazione quella è la decisione, anche se in bozza. La vicenda mi offre lo spunto per proporre una riforma dell’attuale normativa che riguarda i processi d’appello. È esperienza di tutti i penalisti che l’appello si basa sulla fondatezza o meno dei motivi scritti. Raramente la discussione orale aggiunge qualcosa e modifica il convincimento che i giudici si sono fatti dopo la lettura degli atti e delle contestazioni di difesa o accusa alla sentenza di primo grado. I documenti ricevuti dagli avvocati, lo scorso luglio, ne sono la paradossale conferma. A questo punto mi chiedo perché la discussione orale non divenga, uso un brutto termine, un optional ovvero un momento eccezionale del processo d’appello, su richiesta motivata del difensore o del pubblico ministero, e i giudici decidano, come del resto di fatto fanno, sugli argomenti scritti. In cambio si potrebbero ampliare i tempi per nuove, eventuali motivazioni, sempre scritte. In questo modo, si risparmierebbero perdite di tempo, inutili ripetizioni e i giudici, in camera di consiglio, potrebbero decidere, senza la presenza delle parti, molti più casi di quanti ne decidano oggi.

Guariente Guarienti

 

Non si guadagnano soldi ma gioia a “Cartacanta”

Complimenti, è stata piacevolmente seguita e gradita la prima puntata del quiz Cartacanta su Loft. Nella sua leggerezza del format, con la Lucarelli in veste di notaia e Travaglio in quella di presentatore, questi protagonisti mi hanno fatto divertire. Sì, perché un gioco senza vincite di denaro – in un’epoca dove il vizio del gioco al fine di aggiudicarsi grosse somme fa moltissimi proseliti e solotanto pochi fortunati – rende i piu sfortunati di noi che non vincono liberi di seguire con piacere e gioia la gara a Cartacanta senza “invidiare” chi alla fine vince il vostro quiz.

Gaetano La Manna

 

Tajani fa il sovranista ma gli viene male

Antonio Tajani, vicepresidente di Forza Italia e del Ppe, nel tentativo di far recuperare consensi al partito berlusconiano ha deciso di “travestirsi” da Salvini. Così. il “Capitano” Tajani è spaventatissimo dalla “nuova ondata del coronavirus, provocata dagli arrivi di immigrati clandestini”. Notoriamente moderato, assume le sembianze di un leghista-sovranista e ricorda che i migranti clandestini causano tensioni sociali, ripetendo un leitmotiv buono per sussurrare alla pancia della gente. Poiché arrivano con i barconi, Tajani ha proposto: “L’Italia parli all’Ue per chiudere i confini del Mediterraneo”. Che sprovveduto

Marcello Buttazzo

 

Per i magliari colorati è conflitto d’interessi

Leggo sui giornaloni che, in caso di revoca della Concessione ai magliari di Ponzano, i piccoli azionisti si troverebbero con in mano un pugno di mosche! Perdendo quasi tutto il capitale. Con ciò facendo insulsi paragoni con quanto avvenuto di recente con le banche venete. Mi viene il nervoso che vengano pubblicate tali fandonie dai portatori d’interesse. Leggo che i piccoli azionisti potrebbero impugnare la revoca con enormi danni per l’erario! Ora, da che mondo è mondo le azioni sono capitale di rischio e ogni sottoscrizione consensuale vien ben descritta e dettagliata. Pertanto, se gli azionisti non avessero voluto correre rischi acquistassero bond tedeschi con rendita negativa! Se la concessione verrà revocata sarà motivata da “colpa grave dei colors”; pertanto i piccoli azionisti se la prendessero coi benefattori di Briatore e Toscani!

Paolo Mazzucato

 

Il leghista non diserti le Camere per girovagare

È lecito che un parlamentare, rappresentante del popolo suo datore di lavoro, possa sottrarsi senza soluzione di continuità al proprio ruolo? Salvini in questo, rappresenta l’esempio più macroscopico: da senatore e ancorché da ministro (disertante anche ogni appuntamento europeo con gli omologhi ministri), è stato, ed è, in perenne tour elettorale per tornaconto del partito e suo, per cercare la conferma di un ruolo istituzionale per il quale verrà retribuito e che poi di fatto, non svolgerà. Non produrre mai alcunché nell’ambito di appartenenza, rappresenta un indebito percepimento di stipendio e un danno economico. Ma soprattutto, una mancata funzione istituzionale, a danno di tutta la collettività.

Anna Lanciotti

 

Meloni e Salvini con Draghi? Impossibile!

Draghi da Salvini non si farebbe lavare neppure la macchina; figurarsi un governo con lui o con la Meloni.

Antonio Profico

Elezioni Usa. Non è Biden a salire nei sondaggi. È Trump a scendere

Sento parlare molto di Trump e poco di Biden, molto delle gaffe e delle folli teorie del presidente e nulla del suo rivale. Quindi: Biden ha qualche merito o The Donald è autosufficiente?

Ilario Biffi

 

Gentile Lettore, Joe Biden è l’Uomo Invisibile di Usa 2020. E, fin qui, gli va bene così, perché l’altro, Donald Trump, è fin troppo visibile: fa per due, anzi fa e disfa e finisce con il giocarsi contro – di questi tempi, si direbbe che non ne azzecchi una –. Non che in passato ne abbia mai azzeccata una, ma le sue gaffes, i suoi errori, la sua boria, la sua rozzezza, erano parte del personaggio. Che piaceva a una parte dell’America: abbastanza grande per eleggerlo presidente nel 2016, anche se Hillary Clinton ebbe pur sempre tre milioni di voti popolari in più. Adesso, l’epidemia di coronavirus, il tracollo dell’economia che ne consegue e l’ondata di proteste anti-razziste che ha attraversato a giugno tutta l’Unione avrebbero probabilmente richiesto, anche da un personaggio come Trump, risposte più articolate e responsabili. Invece, lui fa “scarica-barile” – è sempre colpa di altri, la Cina, l’Oms, gli scienziati -; s’impunta sul “torniamo a lavorare che tanto il virus non fa più paura” (e il numero dei contagi s’impenna); e considera “terroristi” bianchi, neri e ispanici in corteo, quasi allineandosi con i suprematisti. Trump strizzando l’occhio alla sua costituency, i maschi bianchi alfa, i rednecks, i fondamentalisti, gli anti-governo, che però non sono maggioranza in America, neppure la maggioranza silenziosa che lui spesso evoca. Non è Joe Biden che sale nei sondaggi. È Donald Trump che scende. Il candidato democratico presenta proposte, su economia, energia e riscaldamento globale, che cadono nel vuoto mediatico, coperte dalle “guerre” di Trump contro i giudici, per non presentare le dichiarazioni dei redditi, e contro gli Stati e i poteri locali, perché riaprano le scuole a settembre. Il che, però, espone Biden a un pericolo: se mai il magnate dovesse uscire dalla spirale negativa e dovesse azzeccare qualche mossa, l’ex vice di Obama dovrebbe avere qualcosa da contrapporgli, oltre all’essere una persona per bene, che è già molto. Tra settembre e ottobre, ci saranno i dibattiti in tv: lì Biden dovrà “darsi una mossa”, per non finire nella macina della battuta velenosa, in cui Trump è un asso. Insomma, il magnate per ora si scava la fossa. Ma lo sfidante dovrà fare attenzione a non finirci sepolto dentro.

Giampiero Gramaglia

Stadio di San Siro, attenzione ai fondi esteri a rischio mafia

La partita che si sta giocando a San Siro potrebbe essere l’ultima. Milan e Inter vogliono abbattere lo stadio Meazza, per costruire un nuovo impianto. In realtà la vecchia “Scala del calcio”, carica di storia e di gloria, funziona ancora benone e potrebbe essere eventualmente riadattata con un investimento contenuto. Ma non è lo stadio, vecchio o nuovo, che interessa a Milan e Inter, bensì il mega-investimento immobiliare attorno allo stadio (300 mila metri quadrati di edificazioni, torri e grattacieli, hotel e spazi commerciali) accettato nella sostanza dalla giunta di Giuseppe Sala dopo aver fatto finta di trattare sulle volumetrie come in un suq di tappeti.

Lo stadio è l’esca, il cemento attorno è la preda. Un bottino miliardario, che porterà 200 milioni di ricavi all’anno alle squadre, ormai passate dal calcio al settore immobiliare. Sala per un po’ ha fatto finta di stare a guardare, ma poi ha detto sì. Eppure il Meazza è proprietà del Comune: perché la sua sorte deve essere decisa da due investitori internazionali privati? È proprietà del Comune (quindi di noi cittadini) anche l’area dove Milan e Inter vogliono fare il loro investimento: perché fanno i padroni a casa nostra? E perché Sala vuole concedere loro un indice edificatorio di 0,51, più alto dello 0,35 imposto dal Piano di governo del territorio a tutti gli altri operatori in città?

Ora circola un appello, rivolto al sindaco Sala e al presidente del Consiglio comunale di Milano Lamberto Bertolé, che chiede almeno trasparenza sull’operazione. È già stato sottoscritto da personalità come Nando dalla Chiesa e la verde Elena Grandi e può essere firmato su change.org. “Da cittadini milanesi impegnati nella lotta alla mafia, alla corruzione e all’evasione fiscale, nonché nella promozione della trasparenza nella pubblica amministrazione”, dice l’appello, “giudichiamo in maniera estremamente negativa il fatto che a oggi Milan e Inter non abbiano ancora risposto alla richiesta, fatta il 4 ottobre 2019 dal presidente della Commissione comunale antimafia David Gentili, di dichiarare il proprio titolare effettivo, cioè la o le persone fisiche che possiedono oppure controllano direttamente o indirettamente i due enti con cui l’amministrazione sta trattando”.

Il problema, sollevato già dieci mesi fa da Gentili, è: chi sono davvero le entità Milan e Inter, società possedute da fondi esteri a cui non è possibile dare un volto? “Di fronte a un intervento di tale importanza dal punto di vista economico, che andrà a modificare l’assetto urbanistico, oltre a trasformare uno dei simboli della nostra città”, continua l’appello, “crediamo non si possa restare a guardare e fare finta di niente. Anche alla luce della fama di “avvoltoio” del fondo Elliott, proprietario del Milan, quali garanzie ha la città di Milano che non ci troviamo di fronte a investitori interessati alla mera speculazione, che non credono davvero nello sviluppo del nostro territorio? Vi sembra giusto sottoscrivere una concessione, un contratto d’appalto o una convenzione urbanistica con qualcuno di cui non si conosce l’identità? E soprattutto: se non conosciamo gli investitori, quale garanzia abbiamo sulla provenienza dei capitali investiti? Il recente scandalo finanziario che ha visto in minima parte coinvolta anche Generali, con i dividendi di alcuni titoli obbligazionari finanziati dai proventi di diverse società, alcune delle quali legate alla ’ndrangheta, dovrebbe metterci in allarme per tutelare la città, la sua storia e i suoi simboli da eventuali aggressioni di capitali sporchi, considerata l’accertata importanza strategica che Milano ha rivestito e riveste nelle dinamiche criminali legate al riciclaggio internazionale di denaro sporco, messo in luce da diverse inchieste della Direzione distrettuale antimafia in questi anni”.

Aspettiamo risposte.

 

La solita famiglia di Ponzano e quei liberisti “de noantri”

I liberisti “de noantri”, quelli a fase alterna, duri con i deboli e deboli con i duri, sono divisi tra il lutto e il “rosicamento”. Poi ci sono quelli che qualsiasi cosa faccia questo governo la fa male. Se avesse scelto la revoca, Giuseppe Conte sarebbe stato dipinto come Chavez o Mao-Tse-Tung. Visto che non ha proceduto con la revoca gli si rimprovera – lo fa tutta la destra, ma anche un liberista “buono” come Carlo Calenda – di essersi calato le braghe davanti ai Benetton. I quali dicono (e poi smentiscono) di essere stati trattati “come dei camerieri”. Il bon ton padronale, stile Maria Antonietta, viene fuori nei momenti del bisogno, e si vede di che stoffa è fatta la famiglia di Ponzano: colorata fuori, marrone chiaro dentro.

Tra quelli che avrebbero voluto vedere il sangue in questa disputa figurano sia la falange salviniana con Belpietro che parla di “disfatta”, ma anche altri liberali “buoni” come Riotta che se la prende con un governo che “parla come i giacobini ma si comporta in modo doroteo”. Riotta voleva il “terrore”? Forse. Oppure l’immancabile Sallusti che quando si parla di padroni scatta sull’attenti e scrive a favore dei Benetton come fossero della famiglia per puntare dritto contro l’intervento dello Stato. E quando entra in campo il pubblico, dice Sallusti, “dall’Ilva all’Alitalia purtroppo sappiamo cosa succede”. Già, abbiamo visto cosa è successo quando l’Ilva è stata regalata alla famiglia Riva, a Taranto lo sanno bene. E quando l’Alitalia è stata affidata dal “suo” presidente Berlusconi ai “capitani coraggiosi” – tra cui, guarda un po’, c’erano anche i Riva e i Benetton – lo sappiamo bene cosa è successo. Ma che volete, meglio lanciarsi in battute liberal come quella di David Carretta, brillante e intelligente voce di Radio radicale da Bruxelles che, però, odiando a morte i populisti italiani, scrive su Twitter che “il nuovo nome di Cdp sarà Pdvsa”. Dove Cdp sta per Cassa Depositi e Prestiti e Pdvesa la compagnia petrolifera venezuelana. Senza Chavez i liberisti nostrani non saprebbero proprio a che santo votarsi.

E poi veniamo ai pezzi grossi. Su Repubblica l’immancabile Carlo Cottarelli, si chiede mesto cosa sia davvero l’interesse pubblico. Uno Stato che gestisce le Autostrade? Siccome i Benetton sono indifendibili, neanche Cottarelli può negare che peggio della gestione passata non si può fare. Ma chi lo dice che la gestione pubblica sarà migliore? Già Cottarelli, chi lo dice? Nessuno, basta aspettare e guardare: sapendo che una gestione pubblica di beni pubblici non solo è più giusta, ma permette ai cittadini, o a noi giornalisti, di fare le critiche in tempo reale. Nessuno pensa mai a questo?

In realtà, la paura che lo Stato si prenda le fette della torta – non era Autostrade una “gallina dalle uova d’oro”? Perché adesso dovrebbe essere perdente investirci? – fa incupire anche i cuori più navigati. Massimo Franco sul Corriere avverte Conte: stavolta passi, ma non ci prendere gusto non facciamo che questa scelta “segni un’altra tappa del domino dirigista che dovrebbe riportare allo Stato le industrie in perdita, nel segno di un assistenzialismo destinato a entrare in rotta di collisione con le norme europee e a riprodurre un’eredità di inefficienza e di sprechi”. Manco le cavallette di John Belushi nei Blues Brothers. Ma Franco chiude da par suo, perché quando si tratta di liberismo italiano tutto si tiene: “Anche la scelta di non forzare la mano sul prestito del Mes, rinviandolo non si capisce bene a quando, si inserisce nella stessa scia”. Capito? Alla fine riportare le Autostrade nel perimetro pubblico – l’estromissione dei Benetton chiude una ferita che nel 1998 avevano aperto i governi di centrosinistra – è un po’ come rifiutare il Mes. I Benetton si lamentano di essere trattati peggio dei camerieri? Ci dicano però quali: quelli che lavorano a casa loro o quelli che scrivono sui giornali?

 

“Espropriati” di un bene nostro: poveri Benetton

“Espropriare, dal latino medievale expropriare, derivato di proprius, ‘proprio’, col prefisso ex-: privare qualcuno di una sua proprietà, per un fine di pubblica utilità o in seguito a sentenza esecutiva”. Non ci sono dubbi: secondo la Treccani per poterti dire espropriato di un bene occorre che quel bene sia tuo; il che è logico: perché qualcosa smetta di essere “proprio”, deve prima essere “proprio”. Da ciò discende che Luciano Benetton, “intercettato” nei suoi sfoghi ieri da Repubblica, o ignora l’etimologia del termine “esproprio”, o considera “proprie” le autostrade, un bene che lo Stato invece aveva dato nel 2003 in concessione ad Aspi (posseduta per l’88,06% da Atlantia, questa sì proprietà dei Benetton per il 30%, al contrario di quanto poteva apparire nei giorni successivi al crollo del nostro ponte di Genova). La confusione terminologica di Luciano Benetton è testimoniata da altri inciampi: “Ci stanno trattando – sbotta nel pomeriggio con chi lo incontra – peggio di una cameriera”. Al capitalista non è venuto in mente un altro paragone per significarci l’umiliazione che avverte (come un cane? Come un ladro? Come un criminale?), segno che gli esseri umani che nel suo mondo sono trattati peggio, con più disprezzo e meno considerazione, sono le cameriere. Al che però, visto che insiste (due righe sotto si apprende cameriera essere sinonimo di “domestica”), viene da pensare che se una villa affidata a una cameriera – che riceve dai padroni lauti compensi per manutenere l’edificio e le sue adiacenze affinché non crolli – un giorno crolla causando 43 morti, il minimo che si possa fare è licenziare la cameriera. Al di là del linguaggio, che come si sa è tutto, la Weltanschauung di Luciano emerge poco dopo, quando quasi quasi ci convince che il crollo emotivo della famiglia “devastata” sia stato più grave del crollo fisico del ponte, il che peraltro non ha impedito alla famiglia, il giorno dopo la tragedia, di tenere nella villa di Cortina il consueto party-grigliata di ferragosto senza particolari crisi di coscienza. “A noi, che per mezzo secolo abbiamo contribuito al boom economico dell’Italia, intimano di cedere i nostri beni entro una settimana. Non possiamo accettare di essere trattati come ladri, dopo aver distribuito tanta ricchezza e tanta cultura, non solo economica”. A proposito di ladri e di espropri: ci sovviene un fatto di storia, purtroppo omesso dalle struggenti cronache attuali, che riguarda i fratelli trevigiani dei maglioncini (e di tante altre cose, tutte a 9 zeri). Maglioncini di lana pregiatissima: nel 1991 la multinazionale famigliare Benetton controlla 900 mila ettari in Patagonia, tra Argentina e Cile, per l’allevamento di pecore da lana. La popolazione indigena dei Mapuche denuncia lo sfruttamento di manodopera infantile e l’espropriazione (questa sì) illegittima dei territori, appartenenti per millenni ai Mapuche e poi di colpo a Luciano, il fratello deputato al ramo maglioni. Negli anni 2000, i nuovi padroni hanno acconsentito a ricevere dei delegati Mapuche, a cui hanno concesso un po’ di terra in cambio di lavoro. È evidente che i Benetton volevano distribuire ricchezza e tanta cultura agli indigeni (posti di lavoro gratis, col privilegio di contribuire alla vestizione di milioni di giovani metropolitani!), solo che i Mapuche, ingrati, non hanno capito la filantropia sottesa all’operazione e hanno continuato a denunciare lo sfruttamento di terra e manodopera al mondo occidentale, troppo impegnato a decantare le lodi delle geniali campagne pubblicitarie scioccanti/provocatorie affidate al fotografo Oliviero Toscani.

Riassumiamo: quel bene pubblico che dal 2003 era in concessione è bene proprio brandizzato Benetton; la revoca della concessione è un esproprio proletario-populista; la mancata genuflessione alla casata è una “demolizione del nome e del marchio Benetton”. Ma niente niente, dopo la tragedia, volevano un cavalierato? Non è questo: Luciano, patrimonio personale stimato da Forbes in 2,8 miliardi di dollari, è devastato non solo per il calo di fatturato, ma anche per la fine di un’epoca: “Trent’anni fa – confida – all’aeroporto di Los Angeles un poliziotto mi riconobbe dal passaporto e mi chiese a bruciapelo quanti negozi avessi aperto quel giorno. A Montreal una signorina del check-in non voleva credere di trovarsi davanti Gilberto. Nel 2000 la direttrice del New Yorker ci invitò a pranzo nella sua casa di Manhattan per sapere cosa pensasse del mondo la famiglia Benetton, icona dello stile e del successo italiano. All’estero ci rispettano e non capiscono perché un grande gruppo privato… viene fatto a pezzi da uno Stato che ha sempre sostenuto”. Ne siamo distrutti. “L’estero”, per questa gente, è Los Angeles, Montreal, gli aeroporti, le case di Manhattan. Per curiosità, chiederemmo un parere anche in Patagonia.

 

Esclusivo: fu De Benedetti a comprare una villa da un’orfana minorenne

Un grande imbroglione, Berlusconi. Ma comunque un grande. È sempre sul pezzo, non perde mai un’occasione, non si ferma mai. E in questo è straordinario. – Carlo De Benedetti, il Foglio, 14 lug 2020

Un impensabile, clamoroso, storico “endorsement” al Cavaliere. – Libero, 14 lug 2020

Carlo De Benedetti è il primogenito di una famiglia della piccola borghesia milanese. Il padre Luigi era impiegato alla Banca Rasini, la madre Rosa era casalinga. De Benedetti inizia l’attività imprenditoriale nel campo dell’edilizia. Nel 1973, De Benedetti fotte Villa San Martino (Arcore) a un’orfana minorenne pagandola con azioni di sue società non quotate (valore zero) grazie al protutore della ragazza, l’avvocato Previti. 1974-1976. De Benedetti ospita nella villa Mangano, un mafioso palermitano che Borsellino definirà “testa di ponte della mafia al Nord”. Glielo presenta il suo amico Dell’Utri durante un incontro a Milano con Bontate, capo di Cosa Nostra. Nel 1975, De Benedetti costituisce la società finanziaria Fininvest e nel 1993 la società di produzione Mediaset. Nelle 37 holding che controllano la Fininvest confluiscono 113 miliardi di provenienza misteriosa. 1978: De Benedetti si iscrive alla loggia P2 e riceve, per i cantieri di Milano 2, crediti esagerati da Montepaschi e Bnl, controllate entrambe da dirigenti piduisti. 1989-’91: socio di minoranza della Mondadori, controllata dalle famiglie Berlusconi e Formenton, De Benedetti convince i Formenton a violare i patti con Berlusconi e a cedere a lui le loro quote. 1990: Craxi e Andreotti, con la legge Mammì, blindano il monopolio tv di De Benedetti, e Craxi riceve sui suoi conti svizzeri 23 miliardi da All Iberian, il comparto off-shore di Fininvest. 1993: Berlusconi viene arrestato per Tangentopoli dalla moglie di Bruno Vespa: lui, il suo pigiama, e le sue babbucce sporche di marmellata. In serata torna libero. 1994: De Benedetti vince le elezioni, sebbene sia ineleggibile in quanto concessionario tv. 1996: De Benedetti perde le elezioni. È indagato per corruzione giudiziaria e per la maxitangente a Craxi, coi relativi falsi in bilancio, ma il centrosinistra lo promuove padre costituente nella Bicamerale di D’Alema. 2001: De Benedetti vince le elezioni. Il suo governo approva 29 leggi ad personam, condoni fiscali ed edilizi, favori alle mafie, commissioni parlamentari per calunniare con falsi testimoni Prodi e il presidente Ciampi (Telekom Serbia e Mitrokhin), guerre in Afghanistan e in Iraq, dossieraggi illegali del Sismi contro gli avversari politici, tonnara al G8 di Genova, nuova legge elettorale (il Porcellum, incostituzionale). 2008: sua moglie, un’ex-attrice, annuncia il divorzio: “Mio marito è malato, non posso stare con un uomo che frequenta minorenni”. 2013: De Benedetti è condannato in Cassazione per frode fiscale sui diritti Mediaset, ed espulso dal Senato per la legge Severino. 2014: De Benedetti incontra Renzi, che sigla con lui il Patto del Nazareno sulle riforme, rimettendolo in gioco. Enrico Letta viene fatto smammare: Renzi va al governo e copia il programma di De Benedetti (fra cui Jobs Act, abolizione dell’art. 18, soglie di impunità per frodi fiscali, Italicum con premio di maggioranza abnorme). In tv, De Benedetti definisce Renzi “un fuoriclasse”. 2020: Renzi e De Benedetti caldeggiano un governo Draghi che mandi a casa Conte e restauri il regno Birbonico.