Lo “Stellantis” appena nato dalle macerie del mercato

Stellantis, ovvero illuminato dalle stelle. Si chiamerà così il nuovo gruppo che nasce dalla fusione tra Fca e Psa. Nome ambizioso, come gli obiettivi di quello che sarà il quarto colosso automobilistico mondiale: un colosso da 9 milioni di auto all’anno e oltre 400 mila dipendenti, con fatturato di quasi 180 miliardi di euro ogni anno.

Sempre che, nel frattempo, il mercato riprenda i ritmi pre-Covid. L’annuncio del nome scelto per la nuova azienda, infatti, ha di poco anticipato l’uscita del consuntivo sulle immatricolazioni in Europa. Numeri non di certo lusinghieri: a giugno, come nei tre mesi precedenti, è infatti proseguito il calo di vendite: -24%. Dato che ha portato le perdite complessive nel primo semestre dell’anno a un ribasso storico del 39,5%: solo 5.101.669 immatricolazioni, contro le 1.131.843 del primo semestre 2019. Si poteva prevedere? Visto quanto successo finora, sì. Alla precedente debolezza della domanda si sono aggiunti gli effetti nefasti del lockdown. Ma se la ripresa ancora è lontana, leggendo un numeri bisogna fare dei distinguo. Tutti i grandi mercati continentali hanno perso, chi più chi meno: Spagna -36,7%, Germania -32,3% e Italia -23,1%. Tranne la Francia, la cui controtendenza (+1,2%) sa tanto di brodino caldo o forse di speranza. Di certo c’è che è l’unico Paese (in Italia sono stati approvati ieri ed entreranno in vigore il 1° agosto) ad aver già introdotto incentivi, oltre che su ibride ed elettriche, pure sui nuovi Euro 6 a basso impatto ambientale. La mobilità a elettroni, anche se cresce, evidentemente non è ancora al centro della scena.

Mercedes-Amg Gt, animale da pista

La forma è funzione. Perlomeno lo è nel caso della nuova Mercedes-AMG GT Black Series. Nonostante le canoniche targhe, trattasi di una vera e propria auto da corsa, in cui qualunque elemento trasuda sportività e l’eleganza è totalmente sacrificata sull’altare delle esigenze aerodinamiche: a 250 km/h l’auto genera un carico verticale di 400 kg. Come le vetture da competizione, appunto. E, del resto, quell’enorme ala posteriore (regolabile) non è stata installata per bellezza. La stessa lavora congiuntamente all’estrattore di coda, che incorpora le uscite del sistema di scarico.

Sotto al cofano scalpita un V8 biturbo di 4 litri, che eroga ben 730 CV di potenza massima, buoni per scattare da zero a cento all’ora in 3,2 secondi, toccare i 200 in 9 secondi e raggiungere una velocità massima di 325 km/h. Una brutalità trasmessa all’asfalto attraverso un cambio automatico doppia frizione a 7 rapporti, collegato alle ruote posteriori di trazione. La ricetta tecnica prevede pure albero di trasmissione di carbonio – pesa 13,9 kg, il 40% in meno di quello delle altre AMG GT – rinforzi di Cfrp per il telaio e impianto frenante con dischi carboceramici, ideali per l’utilizzo su tracciato. È fatto di fibra di carbonio persino il cofano motore, dotato di feritoie per lo smaltimento del calore.

L’assetto è stato appositamente sviluppato e sfrutta ammortizzatori adattivi regolabili. Mentre le carreggiate allargate rendono visivamente più aggressivi i cerchi di lega fucinati, gommati con pneumatici Michelin 285/35 19” all’anteriore e 335/30 20” al posteriore. Aerodinamica, motore, cambio e differenziale posteriore vantano molteplici mappature di funzionamento, per cucirsi addosso l’auto e adattarla alle caratteristiche della strada o della pista.

All’interno spicca la selleria in pelle nappa e microfibra di colore nero con cuciture arancioni e, in opzione, ci sono i sedili a guscio, per limare ulteriormente peso. Strumentazione e infotainment si basano su display rispettivamente da 12,3 e 10,25 pollici. Infine, per gli insaziabili, è disponibile pure l’AMG Track Package, che include rollbar posteriore di titanio, cinture a quattro punti ed estintore. Il “manico”, invece, si deve portare da casa.

Ariya, il nuovo Suv che sposta gli equilibri tra Nissan e Renault

È stata presentata in streaming, ma la diretta web dal Nissan Pavillon di Yokohama nulla ha tolto a un’auto che fa da spartiacque tra passato e futuro per la casa giapponese. Libera dall’era di Carlos Ghosn e dalla sudditanza sia tecnologica che commerciale da Parigi, che ne aveva impedito la piena espressione di ambizioni e potenzialità. Ecco perché la Nissan Ariya, non è solo l’ennesimo suv elettrico, ma il simbolo dei legacci che si rompono, di quella personalità “verde” divenuta ormai anche premium.

Informazioni sull’arrivo di Ariya nel vecchio continente saranno disponibili nei prossimi mesi. Ma nel frattempo giova ricordare che Nissan ha un nuovo logo, con un disegno più essenziale e digitale, che fa la sua prima apparizione su una vettura lunga 459 cm, larga 185 e alta 166, ma soprattutto con una raffinatezza stilistica che la avvicina molto al design tagliente che il gruppo Toyota dedica ai modelli del suo marchio di lusso Lexus. Nissan Ariya si preannuncia un salto di classe anche negli interni, lontani anni luce dalla media compatta Leaf e piuttosto diventati competitivi con i marchi premium tedeschi, giocando con uno schermo unico dietro il volante che racchiude tutta la strumentazione e poi un abitacolo dalle linee essenziali dove il tunnel centrale è regolabile elettricamente per guadagnare una maggiore sensazione di spazio.

Nondimeno, quest’auto condivide volutamente poco con quanto visto finora a Yokohama. La base costruttiva è nuova di zecca, realizzata appositamente per ospitare powertrain elettrici con sospensioni posteriori multilink e una distribuzione dei pesi bilanciata all’origine e che consente cinque configurazioni possibili. Una gamma completa, che parte dalle versioni a trazione anteriore, la prima con motore da 160 kW e batteria da 63 kWh di capacità per una autonomia di 360 Km, e la seconda con propulsore da 178 kW e accumulatore da 87 kWh per 500 km. Le versioni a trazione integrale e-4ORCE, con un secondo motore posteriore, sono poi la conferma che nel mirino c’è Tesla. La edizione base ha batteria da 63kWh e 205 kW di potenza per 340 km di autonomia, seguita dalla e-4ORCE da 87 kWh con 225 kW per 460 km di percorrenza, disponibile anche in una edizione Performance con una accelerazione 0-100 orari in meno di 5,7 secondi.

Ariya, infine, è anche il primo modello Nissan con aggiornamenti automatici on the air dei vari software cruciali per un veicolo a emissioni zero, come l’architettura elettrica ed elettronica, il telaio e le impostazioni del veicolo. In Nissan è veramente girato il vento.

Conflitto d’interessi, ecco la legge con i super paletti

Rieccole, ma è presto per dire se sia davvero la volta buona. Alla Camera sono pronte le nuove norme sul conflitto di interessi: il testo base elaborato dalla commissione Affari costituzionali, dopo una lunga serie di audizioni, andrà in aula il 27 luglio. È presto per dire se si riuscirà ad approvarlo rapidamente: l’ambizione è di fare entrare in vigore le nuove regole già a partire dal 1 gennaio 2021, ma serve che la maggioranza ne faccia una priorità. Almeno è quanto spera il presidente della commissione, Giuseppe Brescia (M5s) a cui è toccato fare “una sintesi, ma al rialzo” delle proposte già depositate a Montecitorio (dei 5 Stelle e l’altra del Pd ma firmata al tempo anche da Italia Viva) che ora dovrà superare la prova degli emendamenti. Impresa certo non facile. Ma urgente, come sottolinea il pentastellato: “I conflitti d’interesse dei detentori di cariche politiche, siano essi al governo o in Parlamento, hanno più volte creato interferenze e condizionamenti su una corretta e imparziale azione politica, fino a minare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e nella gestione della res publica. Analogo effetto hanno avuto i casi di conflitti di interesse nella Pubblica Amministrazione”.

E infatti ce n’è un po’ per tutti. A partire da chi vorrà ricoprire incarichi di governo che per questo dovrà rinunciare praticamente a qualunque carica, ufficio o funzione svolta in imprese, società, enti pubblici o privati e mettersi in aspettativa. Mentre se si tratta di liberi professionisti scatterà la sospensione di diritto dagli albi a cui sono iscritti per tutta la durata della carica nell’esecutivo. Ma non è tutto. È prevista anche l’incompatibilità patrimoniale per i titolari della carica di governo (ma anche del coniuge e dei parenti entro il secondo grado) che posseggano partecipazioni superiori al 2 per cento del capitale di alcune imprese. Quali? Quelle in regime di autorizzazione o concessione rilasciata dallo Stato, dalle regioni o dagli enti locali o che operi in regime di monopolio. Oppure nei settori della difesa, del credito, dell’energia, delle comunicazioni, dell’editoria, della raccolta pubblicitaria o delle opere pubbliche o svolga altra attività di interesse nazionale.

A vigilare sarà l’Antitrust che avrà il potere di far decadere chi non si liberi da una posizione di conflitto di interessi o si rifiuti di conferire le proprie attività a una società fiduciaria o nei casi più estremi, a vendere beni e attività patrimoniali incompatibili con l’incarico politico ricoperto. Obblighi stringenti abbinati al divieto di aggiudicarsi anche per interposta persona lavori, servizi e forniture. Questo quanto al governo e ai membri della autorità indipendenti. Ma la nuova disciplina riguarda anche parlamentari, consiglieri e assessori regionali e non solo. Sentite qui.

Saranno ineleggibili alla Camera o al Senato, direttori e vicedirettori di testate giornalistiche nazionali se hanno esercitato l’incarico nei 6 mesi prima dell’accettazione della candidatura. Ma anche i sindaci nei comuni con meno di 20 mila abitanti, i capi e i vicecapi di gabinetto dei Ministri. E chiunque abbia anche incarichi di natura dirigenziale, gestionale, amministrativa, di controllo o di vigilanza, di qualsiasi società o impresa costituita in qualsiasi forma, anche a partecipazione pubblica o mista, che svolga la propria attività in regime di autorizzazione o concessione. Qualunque titolo che sia rilasciato dallo Stato, ma anche da amministrazioni pubbliche, istituzioni, e altri enti pubblici o anche da regioni e province. Insomma vincoli stringenti che riguarderanno anche i magistrati. Per i quali si cerca di limitare le porte girevoli con la politica, innanzitutto con l’innalzamento da 6 mesi a 2 anni prima dell’accettazione della candidatura del periodo di ineleggibilità per correre nelle circoscrizioni dove esercitano le loro funzioni. “Chi va al governo o in Parlamento per realizzare l’interesse della nazione e non quello personale e particolare non ha nulla da temere da questo testo e anzi lo può votare con convinzione”, dice il presidente della commissione Brescia, convinto che solo così si potrà restituire credibilità “non solo all’azione politica, ma anche ai tanti imprenditori e a tanti altri soggetti e professionisti che si affacciano all’esperienza politica”.

“Chavez! Esproprio!” Anzi, “vincono loro!” Bufale post Benetton

Esproprio venezuelano. No, regalo ai Benetton. Statalismo, dirigismo, ma pure favore agli speculatori di Borsa. A leggere le reazioni all’accordo transattivo (andrà finalizzato entro luglio) tra lo Stato e Atlantia, la holding che controlla Autostrade per l’Italia, c’è da entrare in confusione. Prima di inoltrarci in una parziale rassegna, un breve riassunto dei fatti.

La cosa dovrebbe funzionare così: Cassa depositi e prestiti entra nel capitale di Aspi col 33% con un aumento di capitale, poi Atlantia vende un altro 20% abbondante a investitori istituzionali graditi a Cdp scendendo sotto il 40%, a quel punto le azioni residue vengono distribuite ai soci di Atlantia. I Benetton a quel punto si ritrovano tra il 10 e il 12% di Autostrade, quota che dovrebbero cedere. Nel frattempo viene rivista la concessione – da tutti, Corte dei Conti in giù, giudicata un regalo illegittimo al concessionario – che regola i 3 mila chilometri di corsie in modo da avere più investimenti e meno pedaggi. Chi vince e chi perde? I Benetton devono rinunciare a un bancomat truccato che gli ha garantito profitti assurdi, però salvano Atlantia dal fallimento (certo con la revoca). Per dare un giudizio completo, però, bisognerà capire quanto sarà valutata Aspi, cioè quanto spenderà Cdp. Tutto troppo facile? Ci pensa il circo Barnum dell’opinione a complicarlo.

Quelli che Chavez. “L’esproprio ai Benetton è clamoroso, non siamo il Venezuela” (l’ex ministro Maurizio Lupi); “Statalismo, imprudenza, indecisione, disprezzo per le regole. Il sostanziale esproprio di Aspi è fare giustizia come lo intendono i 5 Stelle, senza attendere una sentenza” (Antonio Tajani)

Ora, è evidente a chiunque che una transazione non è un esproprio. Meno evidente, a giudicare da quasi due anni di dibattito, che il concessionario – da codice civile e da codice della strada – non può non aspettarsi danni se lascia crollare un’infrastruttura (calamità naturali a parte), specie se così ammazza 43 persone.

Quelli confusi/1. “Il titolo Atlantia ha guadagnato il 25%. Qualcuno ieri ha fatto i soldi e festeggiato…”. “ Ieri sera hanno festeggiato i Benetton e sicuramente ci metteranno soldi gli italiani” (Matteo Salvini)

Tre giorni fa: “Dichiarare e far perdere a un titolo in Borsa il 15% significa non saper fare bene il proprio mestiere” (Matteo Salvini contro Conte che impoveriva i Benetton)

Quelli confusi/2. “Anas è in grado di gestire tremila km di Autostrade? Francamente io ho dei seri dubbi” (Alessandro Morelli, deputato leghista)

Anas?

Quelli confusi/3. “Quel che resta da capire adesso è, per esempio, a chi toccherà gestire il nuovo ponte di Genova, in attesa dei nuovi assetti: se alla Autostrade dei Benetton o ai nuovi azionisti, se intanto arriveranno” (Marcello Sorgi, La Stampa)

Sarebbe troppo lungo, qui mancano proprio le basi.

Quelli che i Benetton. “Per capire chi abbia vinto o perso nella battaglia di Autostrade basta guardare come ha reagito la Borsa (…) I Benetton sono i veri vincitori” (M. Belpietro, La Verità)

La Borsa ieri ci ha un po’ ripensato: Atlantia è calata del 5%. Per una valutazione meno episodica bisogna tenere a mente almeno questo: quelle azioni valevano oltre 25 euro prima del crollo del Morandi, oltre 22 euro a febbraio, quasi 15 euro a inizio luglio, 13,7 ieri. Atlantia ha a bilancio Aspi per 5,3 miliardi: se la quotazione sarà inferiore ci perderà, sennò guadagnerà, ma comunque dovrà fare a meno del suo asset più rilevante e redditizio.

Quelli che se c’ero io… “Cdp acquista Aspi: i privati dunque non vengono ‘cacciati’, ma vengono pagati. È la soluzione giusta?”. “Io avrei preferito intervenire a monte, su Atlantia: avremmo speso meno per controllare meglio business più ampi” (Matteo Renzi)

Se c’era lui i privati non sarebbero stati pagati: forse rimanevano al loro posto visto che sempre ieri ha definito i Benetton “capro espiatorio”. Bella l’idea di far entrare lo Stato in Atlantia cioè, tra le altre cose, nelle autostrade spagnole…

Quelli che i mercati/1. “Le responsabilità sono delle società. Gli azionisti si nominano solo se ci sono profili penali. Qui c’è un problema di reputazione italiana per gli investitori internazionali e ne usciremo certamente danneggiati, al di là di quello che accadrà ad Autostrade” (Giovanni Tria)

Al di là di tutto, questo era ministro del governo che avviò la “procedura di caducazione” per Aspi nell’agosto 2018.

Quelli che i mercati/2. “È nell’interesse pubblico che la rete autostradale sia gestita dal settore pubblico?” (Carlo Cottarelli, la Repubblica)

Forse andrebbe ricordato che, tolte Italia e Grecia, in tutta Europa funziona così: facciamo come la Germania, no?

Quelli che i mercati/3. “La domanda è se questo segni un’altra tappa del domino dirigista che dovrebbe riportare allo Stato le industrie in perdita, nel segno di un assistenzialismo destinato a entrare in rotta di collisione con le norme europee e a riprodurre un’eredità di inefficienza e di sprechi” (Massimo Franco, Corriere della Sera)

Ora però non diventi un’abitudine eh: inefficienze e sprechi vanno bene solo se privati.

Quelli che non è vero. Luciano Benetton ha smentito i virgolettati di Repubblica. Noi gli crediamo e aspettiamo l’annuncio della querela, però almeno una di quelle frasi è un ritratto capolavoro di un pezzo del capitalismo italiano e la citiamo come pezzo letterario: “Ci trattano peggio di una cameriera. Chi caccia una domestica è obbligato a darle 15 giorni di preavviso. A noi, che per mezzo secolo abbiamo contribuito al boom economico dell’Italia, intimano di cedere i beni entro una settimana”.

No comment. C’è tutto.

“Da solo valgo il 2%. Con me gladiatore FI non affonderebbe”

Dei Responsabili è forse l’archetipo, mitizzato dalla parodia di Maurizio Crozza e ora star di tv e social dopo essere uscito dalla politica. Lontani i giorni in cui il suo passaggio dall’Italia dei Valori a Noi Sud salvava il governo Berlusconi (era il 2010), oggi Antonio Razzi si conquista le cronache superando il suo imitatore sul piano del paradosso. Come quando, tre giorni fa, ha pubblicato sui social un video a petto nudo, pentola in testa e spada in mano facendo il verso a Russell Crowe nel Gladiatore.

Senatore Razzi, adesso si sente pure Russell Crowe?

Mi sono divertito a imitarlo, a rifare la sua parte bellissima. Devo dire che mi sono arrivati tanti complimenti, anche se purtroppo nella vita non ho mai avuto i muscoli come lui, ma va bene lo stesso. Solo che non avevo un elmo in casa, neanche un cappello, quindi mi sono dovuto inventare la pentola in testa.


Ormai si è dato ai social. Una specie di influencer.

Da un mesetto uso Tik Tok. Se lo usa Salvini che è segretario di un partito perché non lo posso usare io? La gente può pensare quello che vuole, ma io lo faccio per scherzare e per mandare un messaggio ai pensionati: non vi scoraggiate, ci si può sempre divertire, la vita è bella!

E non le viene voglia di tornare in politica?

Se ci fosse qualcuno che mi candidasse… Ma qui hanno tutti paura, ho capito l’antifona, non mi vogliono perché finirei per oscurare tutti gli altri. Sono troppo gelosi. Il problema è che questi dovrebbero imparare l’educazione: ho saputo che non mi ricandidavano al Parlamento leggendo i giornali. Ma io dico: almeno chiamatemi e inventatevi una scusa, ditemi che c’è un altro che aspetta da dieci anni la poltrona al posto mio. Una volta hanno detto che non mi avevano candidato perché sono troppo “colorito”.

Un’illazione gratuita…

Sarà mica un difetto? Vuol dire che sto in mezzo alla gente, che parlo con i giovani, che faccio le foto con tutti per strada. Per esempio adesso sono al mare a Pescara e vengono tutti sotto al mio ombrellone per salutarmi, mica li mando via. Se c’è una vecchietta che deve attraversare la strada io la aiuto, mica come loro che stanno nei Palazzi. Seguo alla lettera gli insegnamenti di Berlusconi di una volta. E invece ora Forza Italia è affondata…

Se ci fosse stato lei, invece?

Un sacco di gente m’ha chiamato dicendo: “Senatore, se lei non è candidato io non voto.” Potevo portare pure un 2 per cento in più al partito e invece ci hanno rinunciato, ora cadranno sempre più in basso.

Insomma le manca la politica?

Beh, se dicessi di no sarebbe una bugia. Ma ahimé qui non chiama nessuno ed è un peccato perché se fossi eletto io non mi farei li cazzi mia, lavorerei per il Paese come ho sempre fatto.

Tutto tace proprio ora che un po’ di Responsabili servirebbero al governo?

Ma sì, venti o trenta persone si trovano sempre.

L’eterno ritorno dei Responsabili?

Ci sarà sempre bisogno di loro, glielo garantisco io. Fanno tutti finta di andarsene restando un po’ al misto, poi in realtà al momento giusto aiutano il governo. A casa non ci vuole andare nessuno, alla fine faranno carte false per rimanere lì.

Caimano Responsabile: Scilipoti e i suoi fratelli

La definizione l’ha data uno dei padri fondatori: “La Responsabilità è uno spermatozoo che genera un mondo nuovo e diverso”. Qualcuno avrà riconosciuto lo stile di Domenico Scilipoti, l’ex senatore che nel 2010 lasciò l’Italia dei Valori per volare in soccorso di Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio alle prese con la scissione di Gianfranco Fini. Quando le cose iniziavano a mettersi male per B., ecco la Provvidenza. O meglio, la Responsabilità: un manipolo di parlamentari messi insieme come capitava pur di tenere in piedi il governo. Protagonisti di quelle settimane, oltre a Scilipoti, nomi per lo più spariti dal Parlamento. Tutti parte del grande almanacco dei responsabili, quelli che a un certo punto di ogni legislatura vengono evocati come soluzione di stabilità. Ne approfittarono in varie forme Berlusconi, Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, in attesa di capire se Giuseppe Conte o altri ancora ne avranno bisogno.

Ma che fine hanno fatto i Responsabili? Si è già citato Scilipoti, artefice del salvataggio di B. Memorabile, dopo la sua decisione di votare per Silvio, la fantomatica manifestazione in suo sostegno messa in piedi da un gruppetto di extra-comunitari fuori Montecitorio, che esposero cartelli del tipo: “Onorevole Scilipoti-libertà.” Dettaglio: quei ragazzi, identificati dalla Polizia, dichiararono di esser lì “per lavoro” perché pagati dallo stesso Scilipoti. Acqua passata: l’ex parlamentare è tornato a fare il medico muovendosi spesso in Africa per ragioni umanitarie. Di recente la politica è tornata a bussare e l’ex Responsabile ha accettato una consulenza gratuita alla sanità della Regione Sicilia.

Nessuna tentazione per altre cariche, giura: “Non ho nostalgia per la politica”. Qualche consiglio, però, sì: “Essere responsabili significa assumere atteggiamenti anche difficili da comprendere all’opinione pubblica, ma per il bene del Paese. Se c’è un momento di difficoltà come è questo del coronavirus e non lo si fa per interessi personali, ben venga un aiuto al governo”.

Al fianco di Scilipoti c’era Bruno Cesario, eroe delle acrobazie partitiche: prima nella Margherita e nel Pd, poi Alleanza per l’Italia con Francesco Rutelli, poi Responsabile (dunque sottosegretario nel governo B.) e infine ricandidato al Parlamento nel Pdl, per poi passare all’Udc. Oggi è capo della segreteria di Vincenzo De Luca in Campania, pronto a sfidare la destra alle Regionali.

Più lineare la second life di Massimo Calearo, all’epoca scelto da B. come consigliere, che è tornato a fare l’imprenditore in Veneto.

C’è decisamente chi sta peggio. Basti pensare a un responsabile d’annata, quel Sergio De Gregorio che nel 2008 lasciò l’Idv facendo cadere il governo Prodi. Come ammise lo stesso De Gregorio, che poi ha patteggiato 20 mesi di reclusione, quel passaggio fu pagato 3 milioni di euro da Berlusconi. Ma i guai continuano, perché meno di due mesi fa De Gregorio è stato arrestato perché accusato di essere coinvolto in un giro di estorsioni e riciclaggio.

Attende invece il giudizio della Cassazione Denis Verdini, principe del Patto del Nazareno battezzato anche grazie alla sua mitologica Ala, avamposto del centrodestra nei governi a maggioranza Pd dell’ultima legislatura. In appello Verdini è stato condannato a 6 anni e 10 mesi per il crac del Credito cooperativo fiorentino, a settembre si vedrà.

Guai di altro tipo passa Maurizio Grassano, espulso della Lega e responsabile sul finire dell’epopea berlusconiana. Dopo l’addio alla politica ha trovato solo disavventure: problemi di salute, la depressione e lo sfratto da casa per colpa di un processo per truffa.

Più sereno è invece Vincenzo D’Anna, che merita la citazione in quanto bi-responsabile: non solo aderì al gruppo di Verdini, ma fece anche parte di quel Popolo e Territorio in sostegno di Berlusconi nel 2011. Tutta questa responsabilità merita una carica di prestigio, e infatti oggi D’Anna è presidente dell’Ordine dei biologi, ruolo da cui si era dimesso a marzo salvo poi tornare sui suoi passi. Il motivo? Alcune dichiarazioni – diciamo incaute – in cui teorizzava un ceppo tutto padano (peraltro meno pericoloso) del coronavirus.

E a proposito di medicina, tra quelli che si sono rimessi il camice c’è anche Mario Pepe, componente del suddetto Popolo e Territorio nel 2011. Altri tempi: “Non mi manca il Parlamento perché oggi è finita la magia, è cambiato tutto. Sembrano una scolaresca in libera uscita”. Quel che è certo è che Pepe ha buoni motivi per festeggiare, lui che era terrorizzato dal taglio dei vitalizi: “Il parlamentare deve avere la serenità economica. Ma lo sa io quante volte ho fatto il testimone di nozze quest’hanno? Quanti regali ho fatto? Ho fatto il testimone a 21 matrimoni!”. Ora che l’assegno potrebbe tornare tutto intero anche alla Camera, Pepe potrà finalmente veder sposare gli amici col sorriso.

Lo stesso che ha ancora Catia Polidori, protagonista di un responsabilissimo salto carpiato nel 2010: eletta con Berlusconi, lasciò il Pdl per seguire Fini, ma nel giro di quattro mesi tornò sui suoi passi confermando la fiducia a B. dal gruppo misto. Oggi è in Parlamento, eletta con FI.

Notevole anche il cortocircuito di cui fu protagonista Riccardo Villari. Eletto al Senato nel 2008 col Pd, diventa presidente della Commissione Vigilanza Rai coi voti della destra e contro il suo partito (che voleva Leoluca Orlando). Poi si iscrive ai Radicali, passa al Misto e sostiene Berlusconi, diventando pure sottosegretario. Oggi è di nuovo con la sinistra di De Luca alle regionali in Campania, dopo la nomina a presidente della Città della Scienza, a Napoli.

Suo rivale, in sostegno di Stefano Caldoro, sarà Francesco Pionati, altro responsabile degli anni d’oro fuoriuscito dall’Udc. L’appoggio non prevede candidature in prima persona, anche perché Pionati sta bene dove sta, cioè alla Rai: sul sito è descritto come “alle dirette dipendenze del direttore della Tgr”, compenso annuo 215.360 euro.

Più sobrio Giampiero Catone, ex finiano che confermò la fiducia a B., oggi direttore de La Discussione, il quotidiano fondato da Alcide De Gasperi: “A lei mancherebbe la politica della terza Repubblica?”. E quella di una volta? “Al 90 per cento schiacciavi un pulsante e neanche sapevi di cosa si parlava”. E i responsabili? “Non c’è ideologia, ci si sposta pensando soprattutto alla legislatura successiva”. Sì, ma allora lei? “Io non ho mai cambiato lo schieramento con cui sono stato eletto, altri sì”. Un modo per dire che furono i finiani a tradire B., non lui a tradire loro.

Responsabile “montiano” era invece Luciano Sardelli, medico in procinto di candidarsi in Puglia a sostegno di Raffaele Fitto. Questione di amore per la sua terra: “La politica romana non mi manca, ma poter incidere sul territorio sì. I parlamentari sono comparse, passivi esecutori di determinazioni che vengono dai capi”. Un peccato sminuirsi così: “Un minimo di peso ce l’hai soltanto quando prendi una posizione autonoma rispetto al tuo partito, allora riesci a svincolarti dalla sudditanza”. In una parola: Responsabilità.

Governissimo pure Il Corriere sdogana B.

Da quando Romano Prodi ha detto che il suo ingresso al governo non può essere un tabù, Silvio Berlusconi è più omaggiato di Cameron Diaz, l’iconica protagonista della commedia Tutti pazzi per Mary. L’ultimo a rendergli omaggio è il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana. Pure lui convintissimo che “serve” anche B. per un governo di responsabilità nazionale. Certo, precisa, il Corriere non è mai stato tenero con il Cavaliere, ma mai la cosa è scaduta nella lotta “ideologica”. Per Fontana, a ogni modo l’imperativo è d’obbligo: “Vanno separate le sue vicende personali dalla sua figura politica che va riconosciuta”. Mai più senza dunque. Specie ora che Berlusconi “sta interpretando la parte del buon padre di famiglia”. Tutto è perdonato anche dalle parti di Repubblica/La Stampa: dove Maurizio Molinari assicura la fine delle ostilità con il Cavaliere. O quanto meno che al Gruppo Gedi, la stagione delle asprezze ideologiche verso il centrodestra è finita per sempre. Merito dell’uscita di Carlo De Benedetti? Macché. Lui, l’ingegnere del Domani (a settembre in edicola) ha oggi altre priorità: dare il benservito al presidente del consiglio Giuseppe Conte “il vuoto pneumatico”. E Berlusconi? “Tutt’altra stoffa”.

Obiettivo Marche ma resiste il no 5S a Mangialardi (Pd)

Al Nazareno sono convinti che l’accordo in Liguria sulnome di Ferruccio Sansa non serva solo a mettere in campo un candidato forte contro Giovanni Toti, ma a far “scoccare la scintilla” per possibili accordi in altre regioni. Soprattutto nelle Marche, ma anche in Puglia dove il governatore uscente Michele Emiliano sta provando a includere i 5 Stelle per neutralizzare la candidatura in solitaria di Ivan Scalfarotto, appoggiato da Italia Viva e Azione: “La nostra coalizione in Puglia è aperta a loro prima o dopo le elezioni, c’è un programma che possiamo realizzare insieme” ha detto ieri Emiliano in un’intervista al Manifesto. Il governatore Pd pochi giorni fa aveva anche notato che “il matrimonio con il M5S esiste già a livello nazionale” ponendo l’accento sul fatto che la partita in Puglia ha anche un valore simbolico: è la regione del premier Giuseppe Conte che, come noto, auspica l’alleanza giallorosa anche a livello locale. Qui la strada è in salita perchè il Movimento 5 Stelle non ci sta a fare un passo indietro sulla propria candidata Antonella Laricchia che ogni giorno prende le distanze dal governatore dem. Ma tant’è, Emiliano ci proverà fino alla fine.

Meno impervia invece la trattativa nelle Marche dove il candidato di Fratelli d’Italia Francesco Acquaroli non riesce a scrollarsi di dosso la polemica sulla sua partecipazione a una cena nel giorno della marcia su Roma con menù inneggiante a Benito Mussolini. La trattativa tra centrosinistra e il M5S va avanti su due tavoli: da una parte a livello nazionale con Nicola Zingaretti e Vito Crimi che stanno cercando una soluzione unitaria, e dall’altra a livello locale con il candidato del centrosinistra Maurizio Mangialardi che da giorni prova a lanciare ami ai grillini. Lunedì il sindaco di Senigallia ha chiamato, via Whatsapp, il candidato del M5S Gian Mario Mercorelli che non si sarebbe accorto della telefonata. Poi i due si sono scambiati convenevoli via messaggio ma senza entrare nel merito delle vicende politiche. Una freddezza che riflette lo stallo della trattativa: il M5S chiede al Pd di cambiare candidato, ma i dem non ne vogliono sapere vista la campagna elettorale già avviata di Mangialardi. L’idea di convergere su un terzo nome civico sembra sempre più difficile.

Ma Mangialardi, che è anche presidente di Anci Marche, sta provando lo stesso a imbastire un’alleanza organica grazie ai suoi buoni rapporti con i sindaci M5S sul territorio. “Ai 5 Stelle dico: se vogliamo parlare di programma e di posti, io ci sono – spiega il candidato dem al Fatto – le Marche potrebbero essere la prima regione in cui il M5S vince e va a governare. Per loro sarebbe una vittoria storica”. Poi Mangialardi fa un’offerta: “Oltre al programma che è fondamentale, sono pronto a cedere la vicepresidenza della Regione al M5S in caso di accordo”. Al momento però tra i 5 Stelle resta la linea aperturista, ma senza cedere sul candidato: “Se ci fossero le prospettive, potremmo andare a vedere le carte – dice il senatore del M5S e facilitatore nelle Marche, Giorgio Fede – ma al Pd chiediamo discontinuità sia sul candidato che sul programma e finora non abbiamo visto nulla di tutto ciò”. Dal M5S ci tengano a precisare che la situazione delle Marche “è molto diversa da quella della Liguria” dove si è trovato un accordo su un nome civico e per questo potrebbe tornare in auge l’ex rettore del Politecnico delle Marche, Suro Longhi, che piace molto ai 5 Stelle. Ma la trattativa si sbloccherà solo con un intervento nazionale.

“Mi candido con ideali concreti per il centrosinistra del futuro”

Da ragazzi ci arrampicavamo sul masso più alto della scogliera. Erano giorni di luglio come questi, qui a Genova. Arrivati in cima, senza pensarci ci buttavamo nel vuoto. Saranno stati dieci metri di volo. Ma appena lasciata la roccia capivi che ormai ti eri tuffato, eri sospeso nell’aria. Non c’era verso di tornare indietro. Oggi mi sento così: mi sono candidato alle Regionali in Liguria, il salto è fatto.

Sono trent’anni che faccio il giornalista, non avrei potuto scegliere un altro lavoro. E nemmeno un altro giornale. Sono sempre stato convinto che il giornalista debba tracciare un limite invalicabile tra sé e il potere. Ho sempre cercato di coltivare la libertà e l’indipendenza dalla politica.

Ma allora, direte, ci sei cascato anche tu? Provo a raccontarvi. Nei mesi scorsi a Genova sono andati in tilt gli apparecchi per la radioterapia. I malati di cancro sono stati costretti a estenuanti pellegrinaggi in pullman per curarsi. Semplicemente perché non si era investito per comprare un apparecchio. Mentre la Regione ha speso un milione e mezzo per la pubblicità istituzionale. Quasi propaganda con soldi pubblici. Questa immagine, i malati stipati sul bus, mi è tornata in mente quando mi hanno offerto di candidarmi. Potevo dire di no, continuare a fare un lavoro che mi piace. Oppure tentare un’altra strada per cambiare le cose. È lo stesso pensiero che ho avuto di fronte all’emergenza Covid: a maggio la Liguria è stata la regione con il maggior numero di morti per abitanti. Un disastro che ha cause precise: la privatizzazione della sanità sul modello lombardo, l’abbandono della prevenzione e della medicina di base. Bisogna fare qualcosa, subito. E per sorte l’occasione è capitata a me.

Così, dopo vent’anni che scrivo inchieste contro la cementificazione, posso immaginare un piano di sviluppo a cemento zero che, però, punti risorse sul recupero e la riqualificazione delle periferie, dei borghi storici abbandonati. Ambiente e lavoro, insieme.

E i parchi naturali? Siamo l’unica regione che li ha tagliati, che ha bocciato l’istituzione del Parco Nazionale di Portofino, un gioiello che avrebbe portato 20 milioni di finanziamenti, centinaia di posti di lavoro.

In Liguria oggi si può avviare un esperimento e ritrovare il coraggio di pronunciare una parola: futuro. Si possono tenere fermi gli ideali, cercando di renderli concreti.

La Liguria – già in passato apripista in passaggi decisivi della vita italiana – può essere il luogo dove nasce un nuovo progetto politico di centrosinistra che non sia tenuto insieme da convenienza o disperazione. Ma da una visione condivisa del futuro. Forse proprio la Liguria può indicare la direzione a una maggioranza di governo in cerca di identità. Vinceremo? La partita è in salita. Ma le battaglie si fanno perché ci credi.

Bisognerà rimettere tutto in discussione. Capovolgere il senso delle parole di cui si è appropriato Salvini. La “sicurezza” non è di destra, perché sicurezza significa anche garanzia di assistenza sanitaria adeguata per tutti. Significa tutele per i lavoratori. Sicurezza è lotta all’emarginazione e diritto allo studio. Anche così si batte la delinquenza.

Nemmeno “l’identità” è di destra, perché la Liguria – ma il discorso vale per tutta l’Italia – non sono i tappeti rossi di cui è stata cosparsa la regione come fosse un circo. Identità è l’animo solidale di questa terra che non ha mai lasciato indietro gli ultimi.

Nemmeno l’economia, il favore per le imprese sono per forza di destra. Oggi ci si salva tutti o nessuno, lavoratori e imprenditori insieme. E il boom della green economy è un’occasione irripetibile per tenere insieme lavoro, impresa, ambiente e salute.

“Càndidati, dimostra che il centrosinistra può essere felice!”, mi ha detto un ragazzo in un bar dei caruggi. Ecco, questo: varcare i limiti del ruolo di giornalista e provare a vedere se, dopo aver criticato le malefatte degli altri, sapevamo davvero costruire una Liguria e un’Italia migliori. E per tutti.

Arrivederci ai colleghi del Fatto con cui ho condiviso un periodo unico. Non perdonatemi niente. Prendetemi a ceffoni se tradirò le promesse. E arrivederci ai lettori, senza di voi il nostro lavoro non esiste.