Il Consiglio d’Europa boccia i lasciapassare: “Sono discriminatori”

L’obbligo di vaccinazione, introdotto (formalmente o surrettiziamente) nella maggior parte dei Paesi europei, viene messo sotto accusa nelle più alte istanze internazionali. L’ultima stoccata è giunta dall’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (organizzazione con sede a Strasburgo, distinta dall’Ue, istituita nel 1949 dalla Convenzione europea dei diritti umani con 47 Paesi firmatari, tra cui l’Italia). Un rapporto approvato a fine gennaio a larga maggioranza ha bocciato l’utilizzo delle certificazioni per punire i non vaccinati.

Gli Stati vengono esortati a “informare i cittadini che nessuno deve farsi vaccinare se non lo vuole” e a “garantire che nessuno sarà discriminato se non è vaccinato”. Secondo il testo (intitolato Vaccini Covid-19: questioni etiche, legali e pratiche), il concetto di passaporto vaccinale è “contrario alla scienza”, in assenza di dati sull’efficacia dei vaccini nel ridurre la contagiosità e sulla durata dell’immunità acquisita.

Il voto, seppur privo di carattere vincolante, scredita di fatto i decreti dell’esecutivo di Mario Draghi che penalizzano i non vaccinati con divieti volti testualmente alla “prevenzione di SarsCov2” (il coronavirus che provoca la malattia Covid), ossia alla neutralizzazione di infezioni e contagi. I vaccini approvati dall’Agenzia europea dei medicinali (Ema) si sono rivelati efficaci nel prevenire le forme gravi del Covid (ricoveri e decessi). Non impediscono invece al virus di infettare l’organismo e trasmettersi a terzi. È quanto emerge da trial clinici, bugiardini e studi condotti sulle varianti Delta e Omicron.

Secondo il dossier consegnato recentemente al Senato dall’avvocato Renate Holzeisen, decadrebbe anche il mutuo riconoscimento tra i Paesi dell’Ue delle certificazioni vaccinali che, secondo la normativa comunitaria, è subordinato ad evidenze scientifiche sull’interruzione delle catene di trasmissione. Una settimana prima era stato il Comitato internazionale per l’etica della biomedicina (Cieb) a prendere di mira l’Italia. La rete scientifica internazionale creata da docenti ed esperti per promuovere un dibattito critico sulla gestione politica della crisi Covid ha chiesto l’abolizione dell’obbligo vaccinale per gli over 50 e del Green pass. Ha invitato gli altri Paesi e le organizzazioni internazionali a fare pressioni sul governo italiano affinché ponga fine alla “sperimentazione di massa di un medicinale sperimentale impropriamente denominato vaccino”. Secondo le autorità di regolamentazione, il vaccino anti-Covid (nozione nella quale si fanno ufficialmente rientrare anche i prodotti mRna di Pfizer e Moderna che inducono la risposta immunitaria con interventi genetici anziché esponendo l’organismo a parti di virus inattivo come si fa coi metodi tradizionali) è uscito dalla fase sperimentale con l’ultimazione dei trial clinici e l’autorizzazione alla commercializzazione. Ma il fatto che l’Ema abbia condizionato la propria autorizzazione all’obbligo per le case farmaceutiche di condurre ulteriori studi (Pfizer dovrà consegnare i suoi entro dicembre 2023) per esaminare la durata di protezione dei vaccini e gli eventuali effetti avversi, finora ignoti per la rapidità con cui sono stati completati i trial , dimostrerebbe per i critici come Holzeisen che i vaccini sono ancora in fase di sperimentazione. A quest’interpretazione si appigliano le associazioni civiche che negli ultimi mesi hanno presentato esposti alla Corte penale internazionale de L’Aia (in Olanda) per crimini contro l’umanità. Sarebbero tali “le imposizioni dei trattamenti con sostanze sperimentali col ricatto (privazione di diritti fondamentali come quello al lavoro, ai servizi pubblici e alla libera circolazione)”, dichiara Holzeisen riferendosi all’art 7 dello Statuto della Corte. A essa sono già stati denunciati Bill Gates, tra i principali finanziatori dei vaccini, e Anthony Fauci, direttore dell’Istituto delle malattie infettive degli Stati Uniti. I ricorrenti invocano il Codice di Norimberga, redatto nel 1946 per impedire il ripetersi delle atrocità mediche commesse dai nazisti, in virtù del quale le persone devono poter dare il proprio consenso alle cure mediche sperimentali senza alcuna costrizione.

Decine di migliaia senza Pass per i bachi di Asl e ministero

Davide aspetta dal 23 gennaio il certificato di guarigione, senza il quale non arriva nemmeno il nuovo Green pass rafforzato: “Ho inviato la documentazione all’azienda sanitaria di Bologna, ma nessuno mi risponde”. Miriana, a Catania, ha fatto la terza dose il 27 gennaio, con il certificato verde già in scadenza, ma il nuovo ancora non c’è e non sa come fare a recarsi a Milano per lavoro. A sua volta Luigi non sa più a chi rivolgersi affinché sua moglie (alla terza dose) possa ottenere il pass e sconsolato dice che il problema che si è creato “è diventato metafisico, irrisolvibile per le menti semplici”.

Mentre Letizia, di Pavia, sta aspettando dal 15 gennaio. Oltre a Miriana, Davide, Luigi, Letizia, ci sono tutti gli altri. Migliaia di persone in ostaggio – vaccinate o guarite dal Covid-19 ma senza il pass a cui hanno diritto – che si rivolgono, molto spesso inutilmente, ad aziende sanitarie, ministero della Salute, hub vaccinali. Molti hanno creato gruppi sui social per segnalare le loro vicissitudini. E dire che il governo ha dato il via libera al pass con durata illimitata per chi ha ricevuto la terza dose oppure ha contratto il virus ed è guarito dopo aver fatto due somministrazioni. Misura burocratica, più che sanitaria, che si impantana spesso proprio nella burocrazia. Perché non tutto – e da tempo – sta filando liscio. Dal ministero della Salute, che ha attivato il numero gratuito 1500 per fornire informazioni e assistenza sul Green pass, confermano che gli operatori ricevono “tante telefonate”. Fare una stima di quante persone si trovino in queste condizioni a livello nazionale è praticamente impossibile. Ma bastano pochi numeri, che poi sono la punta dell’iceberg, per comprendere l’entità del fenomeno.

Nella sola Lombardia, dalla fine di settembre a oggi, quasi in 21 mila sono finiti in un labirinto per ottenere il certificato, nonostante fossero o vaccinati o guariti. Tanti stanno ancora aspettando che la procedura sia completata. Con tutto quello che ne consegue, dato che dal 15 ottobre dello scorso anno è in vigore l’obbligo del Green pass per accedere al luogo di lavoro e chi non lo può esibire deve ricorrere al tampone rapido ogni due giorni (gli over 50, per i quali è scattato l’obbligo vaccinale, dal 15 di febbraio dovranno avere invece il pass rafforzato che si ottiene se si è guariti o vaccinati). Nella sola provincia di Bologna si sono ritrovate in trappola finora oltre 21 mila persone e per quasi 9 mila la questione non si è ancora risolta. Il problema è poi esploso a partire dall’inizio dell’anno, dopo che il governo ha consentito di ricorrere al test antigenico rapido per verificare, dopo l’isolamento, l’avvenuta negativizzazione al virus, e quindi la guarigione. Decisione dovuta al fatto che i sistemi sanitari regionali non sono grado di reggere l’esecuzione di centinaia di migliaia di tamponi molecolari. Cosa è accaduto? Semplicemente che migliaia di persone si rivolte così alle farmacie. E tra errori nella trascrizione o nella trasmissione dei dati è andato tutto in tilt, rendendo sempre più problematico il rilascio del certificato di guarigione e del pass. All’origine di questo caos, al quale si assiste in tutto il Paese, ci sono anche altri motivi. Chi per esempio ha fatto le prime due dosi in una regione e il booster in un’altra paga lo scotto della mancata integrazione tra i sistemi informativi regionali, che non dialogano tra di loro. Per non parlare di chi ha fatto una dose all’estero e le altre in Italia. Nel marasma la buona notizia è che nel frattempo continua a flettersi la curva dei nuovi contagi, che ieri sono stati 99.522, la cattiva è che continua a rimanere alto il numero dei morti: sempre ieri sono stati 433. Questo mentre l’ultimo report del governo sull’andamento della campagna vaccinale mostra come nell’ultima settimana siano state eseguite oltre tre milioni di somministrazioni in più. Ma oltre 1,5 milioni di over 50 mancano ancora all’appello. Da lunedì cambio di colore, da giallo ad arancione, per le Marche.

Pessime notizie: Pil fermo e Berlino chiede austerità

L’agenda di politica economica delineata da Sergio Mattarella in Parlamento (ne leggete qui accanto) non è stata applicata in passato e rischia assai di restare sulla carta anche in futuro: per realizzarla servono infatti risorse – spesa tanto corrente che in conto capitale – e da questo punto di vista non tira una buona aria. Il combinato disposto dei dati più recenti sulla crescita (debolissima) e il niet della Germania a una riforma “keynesiana” del Patto di Stabilità (gentilmente consegnato ieri a Roma dal ministro Lindner) riportano l’Italia alla situazione ante-Covid: un Pil stagnante, uno Stato che non vuole e/o non è in grado di intervenire, un lento declino del sistema Paese insieme al rapido aumento di povertà e disuguaglianze.

Andiamo con ordine. Intanto i numeri. Bankitalia ieri ha diffuso il suo indice “eurocoin” per gennaio e il dato è brutto assai: l’indicatore, che misura l’andamento congiunturale dell’Eurozona, il mese scorso s’è fermato a 0,01 dallo 0,21 del mese precedente. Per capirci era intorno o sopra l’uno fino ad agosto e ancora in ottobre a 0,7: in sostanza in Europa, tra pandemia e crisi energetica, la crescita a gennaio era ferma. Un dato che coincide con la “Nota sulla congiuntura” dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), pubblicata giovedì, in cui vengono rilevati “numerosi segnali di rallentamento”. La previsione – quasi un auspicio in realtà, visto lo stato dell’arte – è che questa fase passerà in primavera e che la crescita per il 2022 si attesterà al 3,9% “rallentando nel 2023 all’1,9%, anche per via dell’intonazione meno espansiva delle politiche economiche”.

Riportiamo questi numeri, basati su rilevazioni recenti, per sottolineare un fatto: nel biennio 2022-2023, se andrà bene, mancheranno circa 2 punti di Pil rispetto alle stime inserite dal governo nella Nadef (e che peraltro tenevano conto di un Superbonus 110% a pieno regime, responsabile di un bel pezzo della crescita del 2021 e ora di fatto bloccato). Il tutto, va ricordato, mentre la Bce sembra pronta a una politica monetaria più restrittiva già quest’anno con relativo aumento del servizio del debito (la spesa per interessi). Tradotto: lo spazio di manovra di Mario Draghi e del suo governo potrebbe essere anche meno ampio di quel che sembra per ristori, caro-bollette e ogni altra preoccupazione della sua vasta maggioranza.

Quando l’Upb parla di “intonazione meno espansiva delle politiche economiche” dal 2023 si riferisce a un bilancio pubblico che è previsto restringersi rapidamente, riportando il deficit sotto al 3% del Pil e addirittura, come previsto dal Pnrr, avviare una significativa spending review (tagli di spesa). È qui che entrano in scena le parole (affidate a Repubblica) con cui il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner si è presentato a Roma, dove ieri ha incontrato il suo omologo Daniele Franco. La riforma del Patto di Stabilità è il vero compito di Draghi a Palazzo Chigi: aiutare l’Italia a ottenere regole di bilancio meno penalizzanti delle vecchie (che peraltro lo stesso premier contribuì a scrivere). Significa abbandonare il controllo ossessivo dei conti semestre per semestre, che ha avuto effetti recessivi in mezza Europa, e concentrarsi su obiettivi a medio termine, puntando sulla crescita per tenere deficit e debito sotto controllo.

L’Italia a questo fine ha stretto un asse con la Francia, ma la Germania non pare tanto collaborativa e qualcosa conta: “Non sempre un cambiamento è un miglioramento. È importante che il debito pubblico dei Paesi Ue resti nel suo insieme sostenibile”, dice Lindner. E una maggiore condivisione dei rischi come proposto da Draghi e Macron? “Non penso che la messa in comune dei rischi e l’ammorbidimento delle regole comuni ci facciano fare progressi”, al massimo qualche eccezione si farà per “gli investimenti in tecnologie avanzate, tutela ambientale e altre priorità”, ma occhio “non sono soldi da spendere per le pensioni, altre spese correnti o la redistribuzione”. Allora magari un Next Generation Eu permanente? “No”. Forse l’unione bancaria? Ecco, lì “dobbiamo capire come valutare le banche che hanno una quota particolarmente alta di titoli di Stato nei loro bilanci” (cioè quelle italiane). E allora? L’Italia ha il Pnrr, “riceverà 200 miliardi di euro” – che avrà solo se la Commissione e i Paesi Ue diranno che sta facendo i compiti – e “non deve temere il Patto di Stabilità”. E perché mai? Finora è andata così bene…

L’agenda Mattarella? Stracciata da draghi & C.

È noto che la politica italiana viva di suggestioni superficiali, e sono quindi bastate 24 ore per avere l’“agenda Mattarella”. Il Pd ha chiesto una sessione parlamentare per far proprio il “discorso d’insediamento del presidente”. Per usare le parole di Enrico Letta: “Abbiamo applaudito i contenuti con scroscianti e ripetute ovazioni. Se rimanessero lettera morta, la politica tutta perderebbe forza”. Viene da chiedersi cosa abbia impedito finora alla “politica” di darsi da fare, ma pure dove sia stato Mattarella in questi 7 anni. Dei punti sollevati nel discorso, quelli che riguardano la politica economica mostrano che “l’agenda” non è quasi mai esistita in passato e soprattutto che il governo Draghi, voluto e benedetto dal Colle, ha finito per stracciare anche quel che era stato fatto in quella direzione in precedenza.

“Dignità è contrastare la povertà, la precarietà disperata e senza orizzonte che purtroppo mortifica le speranze di tante persone”.

Queste parole coincideranno col nuovo record storico di lavoratori precari, che potrebbe essere stato raggiunto a gennaio: a dicembre eravamo a 3 milioni e 77mila persone, solo ventimila in meno del record precedente (maggio 2018). Anche la ripresa post-Covid è precaria: nel 2021 i tre quarti delle assunzioni sono state a termine (+16,4%) e un terzo è part time. Non si segnalano interventi del governo Draghi per ridurre la precarietà (se si esclude la proroga degli sgravi al Sud), anzi in estate in Parlamento un asse bipartisan ha partorito una norma che permette di prorogare i rapporti a termine senza indicare causali (previo accordo coi sindacati, anche a livello aziendale). Di fatto è stato smantellato il “dl Dignità” dell’estate 2018 (governo gialloverde), che aveva arginato il dilagare del lavoro precario. Il settennato di Mattarella, d’altronde, si era aperto col Jobs Act del governo Renzi, che ha eliminato l’articolo 18 e liberalizzato i voucher riducendo anche le tutele per i demansionamenti mentre il precariato è esploso.

“È necessario assumere la lotta alle diseguaglianze e alle povertà come asse portante delle politiche pubbliche”.

I dati indicano che la disuguaglianza si è lievemente ridotta o è rimasta stabile negli ultimi anni: nel 2020, a causa della pandemia, è risalita. La povertà assoluta (esplosa tra il 2010 e il 2018) era scesa nel 2019 e si è impennata nel 2020, sempre causa Covid, raggiungendo il livello più elevato dal 2005. Sarebbe andata ancora peggio senza il il Reddito di cittadinanza, la più importante delle misure anti-povertà, confermata da Draghi cedendo però alla retorica “divanista”: nella Legge di Bilancio ha inserito norme, come la riduzione del numero di offerte di lavoro rifiutabili (eliminando il tetto degli 80 km di distanza) bollate come “assurde” e “inutilmente” punitive dagli esperti di politiche anti-povertà, diversi dei quali hanno fatto parte della commissione governativa presieduta da Chiara Saraceno, la stessa che ha prodotto 10 proposte per migliorare il Rdc, tutte ignorate. Nel complesso, il settennato trascorso ha visto crescere i lavoratori poveri (ormai il 25% del totale, secondo le analisi di una commissione voluta dal ministro Orlando) mentre le misure di contrasto, come il salario minimo (eliminato dal Pnrr “rivisto” da Draghi) restano bloccate. Oggi 5 milioni di lavoratori guadagnano meno di 10mila euro l’anno e l’86,2% è sotto la soglia dei 35 mila, proprio la platea che avrà meno benefici dal taglio Irpef voluto dal governo, che premia maggiormente la fascia 42-54 mila euro: il 3,3% del totale a cui va il 14,1% delle risorse (765 euro l’anno in media). Addirittura 270 euro di sconto vanno pure a chi sta sopra i 75 mila euro.

“Dignità è rispetto per gli anziani che non possono essere lasciati alla solitudine”.

La legge di Bilancio stanzia appena 15 milioni aggiuntivi rispetto ai 200 in più chiesti dalle 51 organizzazioni del “Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza”. Risorse che si “aggiungono” ai 100 milioni già previsti per rafforzare i servizi di assistenza domiciliare dei Comuni. In pratica – spiegano le associazioni – si tratta di appena 39 euro per ciascuno dei 2,9 milioni di anziani non autosufficienti: “I malati e le loro famiglie sono usciti dall’agenda politica”. Solo quest’anno dovrebbe arrivare la riforma prevista dal Pnrr, attesa dalla fine degli anni 90.

“Dignità è azzerare le morti sul lavoro (…)”

Il settennato appena trascorso ha visto l’unico intervento sulla sicurezza del lavoro arrivare l’autunno scorso con il decreto che inasprisce le sanzioni. Sul fronte dei dati, l’insediamento di Mattarella è coinciso con la ripresa dell’occupazione, e le morti non sono mai calate sotto il livello del 2014 (nel 2021 le denunce sono 1.221, contro le 1009 di 7 anni fa).

“È doveroso ascoltare la voce degli studenti che esprimono domande volte a superare squilibri e contraddizioni. Dignità è diritto allo studio, lotta all’abbandono scolastico, annullamento del divario tecnologico e digitale”.

Cioè degli studenti manganellati in piazza mentre chiedono la fine del sistema scuola-lavoro: è morto un 18enne in stage, altri si sono feriti dal 2017 e solo ora si pensa a qualche modifica. E ancora scuole vecchie e aule sovraffollate: nell’anno trascorso almeno una classe su 10 era oltre i limiti di legge (secondo il ministero) e 450mila alunni studiano in aule con più di 25 studenti. La soluzione è affidata al calo demografico (così il governo nel Pnrr). Nonostante gli stanziamenti per la Dad, poi, l’8% degli alunni, perlopiù di famiglie svantaggiate, è comunque rimasto escluso dalle attività a distanza, il 23% se si considerano gli studenti disabili (dati Istat). Il tasso di abbandono scolastico, intorno al 14%, è il più alto d’Europa, soprattutto al Sud e tra i giovani nati all’estero, dove si arriva al 36%. Per sconfiggerlo? Nel Pnrr si potenzia l’orientamento al lavoro…

“Nell’ultimo periodo gli indici di occupazione sono saliti – un dato importante –, ma ancora tante donne sono escluse dal lavoro, e la marginalità femminile costituisce uno dei fattori di rallentamento del nostro sviluppo, oltre che un segno di ritardo civile, culturale, umano”.

A dicembre gli occupati erano ancora 286mila in meno rispetto ai livelli pre-pandemici. In totale, le ore lavorate nel terzo trimestre del 2021 erano inferiori a quelle del 2019. Va peggio proprio per le donne: su 3,3 milioni di contratti attivati nel primo semestre 2021, oltre 1,2 milioni sono a tempo parziale. La metà delle assunte ha avuto contratti di poche ore (Gender Policies Report, Inapp). Va peggio al Sud. L’unica legge per la parità salariale è stata voluta e approvata dal Parlamento solo quest’anno.

Quirinale, menzognee Amarcord

Neanche un briciolo di imbarazzo nei tanti commenti che giudicano l’Italia salvata dalla doppia medicina che le è stata inflitta.

Sergio Mattarella al Quirinale per 14 anni e Mario Draghi che resta a Palazzo Chigi, azzoppato dalla mancata ascesa al Colle ma pur sempre il Migliore di tutti. L’esecutivo Draghi è una creazione di Mattarella e senza Mattarella pareva evidentemente improponibile. Ogni alternativa è stata bollata in partenza, come disonorante. Si salva solo Giorgia Meloni, che pensa alle legislative e sa che al di là delle baruffe partitiche ci sono elettori da convincere. Pur rimanendo all’opposizione aveva approvato con Salvini la candidatura di Elisabetta Belloni, proposta da Conte e Enrico Letta, fino a quando arrivò il siluro dello stesso Letta, soggiogato da Renzi e renziani del Pd.

Non poteva andare altrimenti, proclamano compiaciuti i principali editorialisti, nonostante le loro previsioni siano tutte andate a buca. Draghi che con Mattarella aveva affossato Conte per poter poi trasferirsi al Colle non ha vinto la scommessa, come tanti avevano fantasticato, e tuttavia resta il campione in assoluto anche lì dov’è: magari proverà la prossima volta. Mattarella che aveva ripetutamente dichiarato di volersene andare – sino a mettere in scena il trasloco con gli scatoloni – resta al suo posto come se nessuna alternativa fosse esistita. Perfino Enrico Letta, rivelatosi succube di Renzi, riceve misteriosamente la laurea del vincente.

Facile dire che non c’era alternativa, quando nessuna è stata messa alla prova e tutte sono state dichiarate fasulle. Dichiarate da chi? Perché? Qualcuno potrebbe spiegare in maniera convincente perché davvero NO Frattini (l’atlantismo è stato un pretesto ignominioso), NO Belloni, e poi NO Casini? (la domanda non implica simpatia, ovviamente).

Non è detto che gli italiani apprezzino questo copione visibilmente già scritto in anticipo, forse addirittura fin dai giorni del conticidio – o Mattarella o Draghi, così pare volessero i mercati, l’Europa, la Nato e chissà quale altro fantasma. Altra via non c’era anche quando palesemente esisteva. Era possibile eleggere Belloni, per esempio, si poteva almeno provare. Invece si è provato solo con Elisabetta Casellati – la più vanitosa, la più rampante tra i candidati, perdente per forza essendo sostenuta solo da parte delle destre. Si dice così spesso che bisogna volere e tentare l’impossibile, ma qui è il possibile che non è stato né tentato né voluto.

Sicché ora prevale una strana euforia. Mattarella ha ricevuto 85 applausi, quasi sempre in piedi. E visto che gli occhi dei commentatori si appannano commossi alla sola parola “standing ovation”, si coglie l’occasione per dire che proprio così – con applausi “scroscianti” – si sono espressi gli italiani: a novembre al San Carlo di Napoli, a dicembre alla Scala.

Si fa presto a dire “gli italiani”, nota giustamente Tomaso Montanari. Non è il popolo che osannava a Napoli e Milano – il popolo che esercita la sovranità secondo la Costituzione – ma una élite assai ristretta. I parlamentari applaudono come mai prima e l’unica cosa cui non pensano è quella essenziale: come saranno valutati dai cittadini, quando si voterà. L’affluenza nelle politiche del 2018 già era in calo (72,9% per la Camera; 72,9% per il Senato), ma alle ultime amministrative è stato un tracollo, questo sì scrosciante: l’astensione ha superato il 50% al secondo turno.

Probabilmente l’astensione sarebbe stata altissima già nel 2018, se non ci fosse stato il Movimento 5 Stelle a smuovere i cittadini con parole nuove e a incanalare le collere. Ma secondo la vulgata i 5 Stelle erano populisti: si erano indignati con Mattarella quando questi respinse Savona ministro dell’economia, ingiustamente sospettato di volere l’uscita dall’euro; avevano flirtato con i Gilets Jaunes (un vasto movimento contro le politiche economiche di Macron, specie fiscali, non riducibile a mera sedizione violenta). I votanti 5 Stelle non erano graditi: molto meglio se gli italiani non andavano proprio più alle urne. La vulgata dice ancora che Di Maio è ben incuneato nei Palazzi e dunque “molto maturato”. Stavolta gli elettori del M5S diserteranno in massa, nonostante gli sforzi immani di riconquista territoriale e vera maturità movimentista intrapresi da Conte.

Molti escono ammaccati da questi tempi di pandemia e di emergenza, a cominciare da Draghi che nella conferenza stampa di fine anno aveva sostenuto che la sua missione era finita, nonostante la pandemia fosse ben viva e le disuguaglianze sociali crescessero. Tanto più inane parlare di “crollo del sistema”, qualora Mattarella non fosse stato rieletto (parola di Pierluigi Castagnetti): uno storcimento della realtà che sta divenendo patologico. Non sarebbe crollato alcun sistema, se Mattarella non avesse fatto il bis. Se fosse vero, si può ragionevolmente supporre che non avrebbe preparato gli scatoloni. Oppure tutto era menzogna, sin da principio: Mattarella che giudicava costituzionalmente anomali due settennati; Draghi che riteneva felicemente compiuta la missione e difendeva la centralità del Parlamento; Enrico Letta che si travestiva da Ciccio Ingrassia, urlava dall’alto dei rami “Voglio una donna!” e poi però in un baleno ci ripensava, aspettando che la suorina-nana lo tirasse giù dall’albero come in Amarcord.

Il crollo del sistema è dato per sicuro se chi governa non si dice europeista, atlantista, e rapido nel decidere. Nonostante questo Mattarella ha detto alcune cose più che giuste, il 3 febbraio alle Camere: ha detto che “poteri economici sovranazionali tendono a prevalere e a imporsi, aggirando il processo democratico”; ha chiesto che “il Parlamento sia sempre posto in condizione di poter esaminare e valutare con tempi adeguati” gli atti del governo; e che “la forzata compressione dei tempi parlamentari rappresenta un rischio non certo minore di ingiustificate e dannose dilatazioni dei tempi”. È un buon programma. Non risponde del tutto al profilo di Draghi.

Immutato rimane, di contro, il silenzio italiano sul ricorso al nucleare e al gas, definite energie pulite dalla Commissione Ue, su pressione di Macron. E rimane la cecità sui respingimenti in Libia dei migranti. Oltre 170 organizzazioni italiane, europee e africane hanno lanciato in questi giorni un appello affinché sia revocato il memorandum Italia-Libia, contrario alle leggi internazionali contro le espulsioni collettive sui rifugiati. Anche su questi punti i governanti sono tutt’altro che Migliori.

 

Salvini va in tilt: “Meloni è ingenerosa”

Uno pensa a un “partito repubblicano”, l’altro a una “federazione dei moderati” e la terza, l’unica a cui i sondaggi danno ragione, può permettersi ogni giorno di inchiodare gli alleati alle proprie (numerose) contraddizioni.

Così sta il centrodestra italiano. Ieri il più attivo è stato Silvio Berlusconi, le cui ambizioni guardano al centro: no a una federazione con la Lega – con buona pace di Matteo Salvini, che ciclicamente ci spera -, sì a “tutto ciò che può riunire i moderati nel solco del Partito popolare europeo”. È al Corriere della Sera che B. affida la stroncatura definitiva del progetto salviniano (d’altra parte Matteo, al Parlamento europeo, sta in tutt’altro gruppo), rilanciando invece un rassemblement delle forze centriste (l’Udc, Noi con l’Italia, magari pezzi di Coraggio Italia), “un centro senza il quale non si vince e che deve avere un ruolo trainante nella coalizione”.

Non a caso ieri Silvio ha incontrato ad Arcore Pier Ferdinando Casini, corteggiatissimo decano del centrismo italiano che qualcuno vedrebbe invece come volto ideale di un terzo progetto federativo, ovvero quello guidato da Giovanni Toti e Matteo Renzi. Casini giura che si è trattato “di un incontro dal contenuto umano” e “non politico”, ma l’ex presidente della Camera può avere un non secondario ruolo da mediatore nei movimenti tettonici di quest’area. Anche perché Silvio può contare sulla sponda di diversi democristiani che escludono la convergenza con Renzi e riconoscono ancora al Caimano una leadership non solo carismatica, non foss’altro che per una diffusa antipatia nei confronti di Salvini: “Per noi il primo interlocutore è Forza Italia”, dice Maurizio Lupi. Che Salvini non gradisca non è un mistero: “Io non sono per il ‘toto’, toto Casini, toto Renzi. Non è una caserma, se qualcuno vuole rifare la Dc è liberissimo di farlo”, ha bofonchiato ieri a Zapping.

Il guaio, per Salvini, è che senza l’appoggio dei “moderati” rischia di vedersi scavalcare senz’appello da Giorgia Meloni. Vedendo il leghista in crisi, la leader di FdI ha gioco facile nell’infierire: “Purtroppo mi devo interrogare – ha allargato le braccia a Radio24 – su partiti che tra l’alleanza di centrodestra e quella di governo con il centrosinistra alla fine preferiscono la seconda”.

Il riferimento è chiaro: “Con Salvini non ci sono questioni personali, sono questioni politiche”. Insomma “preferire il Pd a FdI” è un tema di cui “dar conto agli elettori”. Accuse a cui Salvini replica in serata: “Meloni è ingenerosa, non abbiamo scelto il Pd. Siamo in emergenza e fra il partito e l’Italia ho scelto l’Italia”. Ma Meloni insiste pure sui continui balletti leghisti sul Covid: “Il punto è che alla fine vince sempre Speranza. Per cui adesso quando arriva in Aula il decreto che fa la Lega? Lo vota o non lo vota?”. Visti i precedenti, la domanda appare retorica.

Telefonate, urla e mitomanie. Cosa resta dei giorni del Colle

Come quando torni dalle vacanze, il racconto si mischia a leggenda. Qualche conquista viene ingigantita, qualche disavventura omessa. Così, giovedì sera, nelle ultime cene prima di lasciare Roma, ai tavoli di commiato tra grandi elettori riaffiorano schegge delle giornate che hanno portato alla rielezione di Sergio Mattarella. Litigate e pasticci, affronti e ingenuità: ognuno ha qualcosa da aggiungere al film di tradimenti e illusioni svanite.

Come quelle che riguardano Maria Elisabetta Casellati, la presidente del Senato che non ha fatto un plissè mentre assisteva allo spoglio delle schede della quinta chiama, quella in cui era la candidata al Quirinale del centrodestra, nemmeno quando qualche collega particolarmente feroce ha scritto il suo nome e ha annullato il voto facendoci una croce sopra. Non ha gradito, come noto, di essersi fermata a 382 sì, ben 71 voti sotto la soglia del suo schieramento. Che non ha voluto tentare, come consigliava Giorgia Meloni, di metterla ai voti due giorni prima, quando il quorum a 673 avrebbe garantito a tutti la sua non-elezione: “Avremmo potuto chiedere qualche voto di sostegno, come poi hanno fatto con Crosetto – ricordano i commensali del centrodestra – per far capire agli altri che avevamo un seguito”. Ovviamente, nessuno voleva darlo alla forzista più odiata di palazzo Madama – quando è uscito il suo nome, Antonio Tajani è arrivato a dire: “Allora rimettiamo in campo Berlusconi!” – , ma solo fare strategia. Lei, invece, ci credeva eccome: testimonianza ne sono le telefonate ricevute da esponenti del Pd e dei Cinque Stelle, quando hanno annunciato l’astensione: “Sono la presidente del Senato – tuonava Queen Elizabeth – non potete disertare un voto in cui sono candidata io”. Lo stesso “cavillo” per cui si era imbizzarrito Marcello Pera, pur col titolo di “ex”, nella terna dei quirinabili il giorno prima.

L’appello “istituzionale” non è andato a buon fine, le vanità della Casellati nemmeno. Così come quelle di Renato Brunetta, che già si vedeva a palazzo Chigi in qualità di ministro più anziano. O meglio, altro divertissement di fine partita, pregustava il colpaccio di diventare premier per davvero, immaginando fanta-scenari in cui Draghi sarebbe salito al Colle, ma Mattarella avrebbe ancora gestito le consultazioni per il nuovo governo. Si sghignazza anche quando si ripensa all’incredulità del banchiere, attivissimo fino alla vigilia del bis, incapace di accettare che i parlamentari non solo non lo volessero, ma se infischiassero anche dei moniti “draghiani”: “Quello è cattivissimo, ce la farà pagare”.

Per non parlare di quelli che hanno sfiorato il sogno, come Pier Ferdinando Casini. Qualcuno si spinge a dire che Draghi – quel venerdì in cui ha realizzato che la strada per lui era sbarrata – avrebbe perfino dato il suo benestare all’elezione di Elisabetta Belloni, pur di non lasciare margini al democristiano con cui non ha alcuna familiarità. Non ha fatto strada nemmeno l’azzardo dem di proporre a Salvini uno scambio (per lui senza guadagni): Gentiloni al Colle, Giorgetti commissario europeo al suo posto. E che dire di Luciano Violante? C’è chi è disposto a giurare che l’ex presidente della Camera abbia tentato di smuovere l’impasse con telefonate a destra e sinistra, accreditandosi con gli uni e con gli altri come mediazione possibile. Un ministro avrebbe chiuso la discussione: “Lasciate perdere, sono mitomanie”. Poi si è alzato e ha chiesto il conto, ognuno a casa sua.

 

Il falegname Letta fa un altro tavolo, ma i partiti litigano già

Per ora nessuno dice “no” all’idea di mettersi tutti intorno a un tavolo, ma già si litiga sul menu: la proposta del Partito democratico di utilizzare il tempo che resta alla legislatura per raccogliere le sollecitazioni contenute nel discorso pronunciato dal neoeletto Capo dello Stato Sergio Mattarella, piace a tutti almeno sulla carta.

“Come Parlamento e come partiti e forze politiche, ci giochiamo la credibilità. Sono impegni che abbiamo applaudito con scroscianti e ripetute ovazioni. Se rimanessero lettera morta, la politica tutta perderebbe”, ha detto il segretario dem Enrico Letta spiegando il senso della lettera inviata dalle due capogruppo Debora Serracchiani e Simona Malpezzi ai presidenti di Camera e Senato.

Il piatto è ricco: l’agenda Mattarella spazia dalle misure per superare le emergenze (sanitaria economia e sociale) al rilancio post pandemia, passando per la sicurezza del lavoro, la lotta alle discriminazioni, la transizione ecologica fino il contrasto alle diseguaglianze e allo scandalo del correntismo della magistratura di cui il Palamaragate ha fornito un orrido spaccato. Da dove partire?

C’è già chi parla di bicamerale, chi di una sessione parlamentare “costituente”, ma la ciccia è capire per fare che cosa si convochi questo tavolo. Il punto fermo è che sono due i temi che catalizzano l’attenzione di tutti in questo ultimo anno di legislatura (o forse meno): la legge elettorale, su cui possono nascere o morire alleanze e coalizioni. E la riforma della giustizia che al momento è l’unico collante del centrodestra uscito a pezzi dal passaggio dell’elezione del Capo dello Stato.

Per Giuseppe Conte le riforme che servono sono intanto quelle dei regolamenti parlamentari, in modo che siano scoraggiati i cambi di casacca. E in prospettiva sarebbero pure necessari tutta una serie di interventi per garantire la stabilità dei prossimi governi, a partire dalla “sfiducia costruttiva” spesso invocata dal presidente del Movimento 5 Stelle.

Al tavolo proposto da Letta, Federico Fornaro di LeU non dispiacerebbe rilanciare le proposte di legge di riforma costituzionale già depositate in Parlamento anche se, parallelamente, “si deve aprire anche un confronto serio, trasparente e costruttivo sulla legge elettorale”. Che invece non è certo sull’agenda di Fratelli d’Italia: “Siamo pronti al confronto che chiediamo da tempo per raggiungere obiettivi concreti, ma il Pd smetta di pensare alle leggi elettorali”, ha spiegato il capogruppo alla Camera Francesco Lollobrigida. Per una volta d’accordo col collega senatore della Lega Massimiliano Romeo: “La legge elettorale per noi non è una priorità”.

E il partito di Silvio Berlusconi? “Tenendo conto che il passaggio più lungo e articolato del discorso di Mattarella ha riguardato la giustizia, partiamo allora da questo punto cruciale”, ha spiegato la presidente dei senatori di Forza Italia, Anna Maria Bernini, pure lei disponibilissima a sedersi al tavolo proposto da Letta per recuperare la centralità perduta del Parlamento. Dove però si continuano a temere forzature da parte del governo: dopo i tanti rinvii, la riforma del Consiglio superiore della magistratura firmata dalla Guardasigilli, Marta Cartabia, arriverà blindata oppure sarà possibile metterci becco?

Del testo, che tra le tante cose promette, attraverso la modifica del sistema di elezione dei componenti togati, di debellare il fenomeno del correntismo, si sono perse le tracce, complice la lunga corsa al Quirinale. Mentre si avvicina la data in cui il presidente Sergio Mattarella dovrà indire le elezioni di luglio, in vista del rinnovo del plenum del Csm previsto a settembre.

Il “partito del Pnrr” sogna SuperMario come un taxi alle urne del 2023

Non chiamatelo “Partito di Draghi” e neanche “Partito per Draghi”. Chi ci sta lavorando lo definisce “Partito per il Pnnr”. Che è una delle conseguenze della rielezione di Sergio Mattarella. Il bis si porta dietro la voglia di blindare l’asse attuale, che passa per il commissariamento dei leader politici (e dei partiti), mira a scomporre e ricomporre il quadro e mette insieme uno schieramento trasversale, una cordata, fatta di politici, super tecnici, grand commis. L’obiettivo è portare Draghi candidato premier nel 2023. “A sua insaputa”, è la battuta corrente. Perché – dopo la prova del Colle – che ha mostrato l’ostilità collettiva nei confronti dell’ex Bce, uno scenario del genere appare piuttosto ardito. Più facile immaginare che il premier voglia cercare un incarico alla guida dell’Europa, o, invece, come dicono in molti a lui vicini, ritirarsi a Città delle Pieve. Eppure, il progetto esiste. D’altra parte, anche per il bis c’è chi ha lavorato per mesi, sia nello staff del Presidente (vedi il segretario generale, Ugo Zampetti), che nei partiti (soprattutto nel Pd) malgrado la volontà più volte espressa dall’interessato di non essere rieletto.

La rete è trasversale. C’è chi non ha esitato a dirlo in chiaro, come Renato Brunetta, ministro della Pa di FI, più in quota Draghi, che in quota Berlusconi. Tra i più attivi, il sottosegretario Bruno Tabacci. Vicino anche a Mattarella, ha passato gli ultimi mesi a spiegare al premier (e non solo) che l’operazione Quirinale non sarebbe andata a buon fine. E poi ci sono Luigi Di Maio e Lorenzo Guerini, ministro degli Esteri e della Difesa. I più vicini al premier e legati, seppure in modo diverso, al Capo dello Stato. E se Di Maio ormai è sull’orlo della scissione da M5s, Guerini sta saldamente nel Pd. Ma con l’idea di un partito ben diverso da quello alleato strutturalmente con Giuseppe Conte. Meno organico è Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico, comunque più draghiano che salviniano. Chi potrebbe risentirne, viceversa, è Enrico Letta, che – con i giallorossi vincitori delle elezioni – a tornare a Palazzo Chigi ci pensa. E poi ci sono figure vicine sia al capo dello Stato che al premier, come Franco Gabrielli, sottosegretario con delega ai Servizi. Nella squadra era iscritta di diritto anche Elisabetta Belloni. Ma dopo la vicenda della sua candidatura al Colle bruciata, i rapporti sono in evoluzione.

Il “partito del Pnnr” poi, si incrocia con il (forse) nascente Grande centro di Renzi, Casini, Quagliariello e Toti. Uno schieramento che potrebbe portare i propri voti all’occorrenza. C’è chi comincia – soprattutto in Iv – a esprimersi contro il proporzionale: il Rosatellum spingerebbe chi non si riconosce nelle coalizioni verso i centristi, il proporzionale finirebbe per penalizzarli. I disegni sono in atto. Con il placet o meno dell’interessato.

Conte vede Draghi: “Niente crisi” Ma vuole soldi su sanità e bollette

Il Migliore che il Quirinale l’ha solo sfiorato ora deve tenere assieme la sua maggioranza. Così dopo la rielezione di Sergio Mattarella, Mario Draghi ricomincia il giro di incontri con i leader partendo dall’avvocato a 5Stelle, quel Giuseppe Conte che ha fatto di tutto per lasciarlo a Palazzo Chigi, ma che in un uggioso venerdì gli giura: “Presidente, nulla di personale verso di lei, noi del M5S vogliamo che il governo arrivi a fine legislatura”. Perché deve innanzitutto coprirsi sul fronte interno, Conte, ossia respingere l’accusa dei dimaiani: quella di puntare alla crisi di governo e quindi alle urne. “Ma questa del voto anticipato è una favola”, giurano dal Movimento. “Solo polemiche di basso cortile”, con cui vogliono “sporcare la linea responsabile” dell’ex premier. E va benissimo così a Draghi, già alle prese con i capricci della Lega, che tre giorni fa in Consiglio dei ministri non ha votato il decreto sulla Dad.

Conte invece non minaccia astensioni o rivolte. Però al premier chiede segnali, concreti. Ha bisogno di mostrare che il M5S incide sull’agenda di governo. Per questo giovedì ha chiesto a Draghi un incontro, trovando l’immediata disponibilità del presidente del Consiglio. Così ieri mattina, nel colloquio di un’ora a Palazzo Chigi, ha sollecitato un nuovo scostamento di bilancio. Altri soldi, da destinare innanzitutto alla sanità: nel dettaglio per gli interventi chirurgici pregressi, quelli rimasti in sospeso per l’emergenza Covid. “Hanno rinviato quasi un milione di operazioni e 20 milioni di esami diagnostici, e per recuperare bisogna pagare gli straordinari a medici e infermieri” spiegano dal M5S. Ma nell’incontro Conte è tornato anche su un totem per i 5Stelle, il superbonus edilizio. La misura non ha mai convinto Draghi, ma l’ex premier l’ha difesa, ancora. Per poi invocare anche nuovi fondi contro il caro-bollette.

Il punto, insomma, è lo scostamento di bilancio, su cui però il premier è molto cauto. A Palazzo Chigi temono l’impatto sui mercati di un ulteriore aumento del deficit. Non vogliono sbilanciarsi, anche se qualcosa verrà tentato. Però il senso politico dell’incontro con Conte è chiaro: secondo l’avvocato, la partita del Colle – di cui ieri non si sarebbe parlato – non avrà ricadute sull’esecutivo. E non dovrebbe averne neppure la guerra interna al M5S, combattuta anche in punto di norma. “Non parlo di correnti, vietate dallo Statuto” scandisce Conte davanti Chigi. Sillabe non casuali, perché in quelle norme Conte cerca l’appiglio per mettere all’angolo Luigi Di Maio. Così il riferimento al correntismo potrebbe essere la premessa per rinfacciare al ministro le dichiarazioni rese sabato sera contro “le leadership che hanno fallito”. Accuse lanciate con dietro una ventina di parlamentari, a fare gruppo. Ma il nodo centrale è chi e come farà le liste per le prossime Politiche. Statuto alla mano, agli iscritti spetta “l’individuazione dei candidati, con le modalità stabilite dai relativi regolamenti”. Regolamenti che possono essere elaborati dal presidente, cioè da Conte, a cui spetta anche il potere di concedere o revocare il simbolo del M5S. Ma che devono passare per il comitato di Garanzia, di cui fa parte Di Maio. E dove a fargli compagnia c’è Virginia Raggi, non esattamente contiana. In quest’ottica, potrebbe avere un peso rilevante la prossima assemblea degli iscritti. Va convocata per approvare le modifiche allo Statuto, necessarie per accedere ai fondi del 2 per mille, in prima istanza rifiutati ai 5Stelle dalla commissione di garanzia per gli statuti.

Aggiustamenti con cui Conte potrebbe ridefinire gli equilibri interni. “Spero che non si arrivi a momenti traumatici” dice al Corriere Torino l’ex sindaca Chiara Appendino. Nell’attesa, Conte prova a rinsaldare il rapporto con il segretario del Pd Enrico Letta, sfibrato dal Colle. Ieri i due hanno pranzato assieme. “Un incontro di routine” sminuiscono da entrambe le parti.