L’ultimo “Atto di fede” di piazzisti e madonnari

Musicisti, giostrai, banditori, “illuminaristi”, fuochisti, madonnari. Organizzatori e venditori ambulanti di prodotti tipici e di dischi fuori mercato. Piazzisti, e artisti, di strada. Un’umanità formidabile e cinematografica. Un evento irripetibile, però sempre ripetuto come una scaramanzia.

Al confine tra misticismo fai-da-te e folclore, è arrivato su Amazon Prime Video Atto di fede, un documentario di un’ora girato tra la Basilicata e la Puglia, che mette a fuoco il fenomeno secolare e complesso delle feste patronali del sud. Dove il mistero del sacro si stempera nei preparativi febbrili, ebbri di vita, della gente comune.

Dal Lazio in giù, costituiscono una tradizione fondamentale, capillare, identitaria, di cui l’appuntamento estivo è solo la punta dell’iceberg, dato che vi lavorano tutto l’anno centinaia di migliaia di persone. Ma tutto questo rischia adesso di tramontare, sempre per colpa del Covid, lasciando molti senza occupazione e generando un danno incalcolabile anche sotto il profilo sociale e culturale. Le feste patronali sono ferme, e le poche che si svolgeranno tra luglio e agosto avranno giusto le sembianze del loro aspetto classico.

Il regista di Atto di fede, già passato per il Torino Film Festival, è Vittorio Antonacci, un trentenne che certi usi e costumi immarcescibili li conosce bene, essendo nato a Taranto. “La festa patronale è comunitaria, coinvolge tutti oltre le singole volontà; è quasi meglio della vittoria ai Mondiali, forse perché si replica ogni anno e sai che la ritrovi, e si nutre d’attesa. L’entusiasmo che si scatena m’ha sempre coinvolto e stimolato, e così siamo partiti al seguito di una banda da giro per viverla da un’altra prospettiva. Sfondando la facciata e guardando dietro l’immagine”.

Il suo doc è il ritratto minimalistico di un Mezzogiorno d’Italia eterno in cui l’evocazione dei santi o di Maria è un pretesto per connettersi e riconnettersi dal vivo, per non perdersi né arrendersi alla globalizzazione.

I protagonisti viaggiano insieme in pullman, di borgo in borgo; dormono dove capita, in camerate maschili improvvisate all’interno di aule scolastiche vuote. Stiamo, e senza squilli di tromba, nel dietro le quinte della grande festa. Ecco le brandine, le canottiere e i torsi nudi alla buona, i parroci che azionano le campane digitalizzate della parrocchia. Ecco la consacrazione alle icone religiose a chilometro zero, ai simboli cattolici universali, e soprattutto una dichiarazione d’amore alla propria terra.

Una passione innata, come ci racconta Davide Abbinante, 34 anni, capobanda di Conturband, la prima streetband del sud Italia: “La banda è l’emblema della festa patronale, è quell’elemento insostituibile che dispensa gioia, emozioni e armonia a tutto il paese. Il suo passaggio risveglia tutti, grandi e bambini, e ci ricorda che il grande giorno è arrivato”. Non si intravvedono smartphone nel documentario, e i ragazzini non scattano selfie ma suonano la fisarmonica. Alla gloria e alla web reputation, preferiscono un atto di fede. Epidemie permettendo.

Montalbano saluta Camilleri

Con un giorno d’anticipo rispetto al primo anniversario dalla sua scomparsa terrena – 17 luglio 2019 – Andrea Camilleri, scrittore e artista, torna in questa vita con un libro, Riccardino, dove Salvo Montalbano, l’assoluto eroe che non conosce svenevolezze si permette il lusso di una lacrima.

L’autore, dunque, si presenta e porta al proprio pubblico l’ultimo atto del più popolare tra i personaggi creati dalla letteratura contemporanea.

È succede oggi, illuminando le vetrine delle librerie, celebrando Riccardino, con Antonio e Olivia Sellerio – eredi di Elvira ed Enzo, fondatori del catalogo editoriale che da quarant’anni accompagna il successo di Camilleri – con i lettori, o con le voci terragne di Gigi Borruso, Filippo Luna, Salvo Piparo e Vincenzo Pirrotta, immensi attori, nel segno della posteggia da strada, il teatro da cui hanno origine tutti i teatri, televisione compresa, col libro che fa da sigillo a tutti e trenta i libri del commissario di Vigàta: uno spettacolo di meningi, di umori e di sorprese.

Montalbano scopre che Riccardino se la faceva, a giro, con tutte le mogli dei suoi tre amici. Glielo rivela la moglie tedesca, sposata solo perché talmente brutta da dovergli essere grato in eterno, così da costruire la sua rispettabilità e permettergli di fare il mandrillo. I tre moschettieri – così sono intesi dal commissario questi amici – sono come una corona di topi legati per le code che non si riescono a sciogliere, devono sopportare che Riccardino li faccia cornuti con le proprie mogli fin quando uno di loro rompe il cerchio e lo ammazza. Ovviamente c’è ben più. Ed è un altro gioiello consegnato a suo tempo a Elvira Sellerio, “amica del cuore”, ma Camilleri che l’ha voluto ultimo facendone tanti altri nel frattempo, in questa sua orchestrazione postuma è ben più che l’autore, è il Deus ex Machina giunto al traguardo di tutti i più beffardi capricci. Camilleri si fa “personaggio” esso stesso e fa il verso al proprio destino di scrittore: “I miei libri si vendono al supermercato, non posso sfoggiare tanta cultura”.

Ultimo di quella triade di “scrittori locali” – ovvero Luigi Pirandello e Leonardo Sciascia – Camilleri si fa onnipotente in ogni virgola, invia fax al Questore, suggerisce soluzioni al caso, Montalbano che se ne accorge protesta con l’autore per poi sentirsi dire dal Dottori Questori: “Ma anch’io sono uno dei personaggi”. Insomma, il Deus ex Machina si mette a tu per tu con Salvo, il protagonista e lo costringe alla parola fine. Salvo appare stanco, logorato e decisamente stufo delle sparute telefonate di Livia, la fidanzata. Camilleri se ne rende conto e fa capolino nelle pagine: “Com’è che nell’autri romanzi tu non comparivi mai e in questo mi vieni a scassare i cabbasisi ogni cinco minuti?”. La risposta è uno specchio borgesiano: “Lo faccio contro i miei principi e solo per generosità, perché ti voglio aiutare; mai come all’inizio di questa storia mi eri parsi sbalestrato, in affanno”.

In un gioco di trasi e nesci, Camilleri fa uscire il suo commissario dalla verità della letteratura per farlo entrare nella realtà della popolarità televisiva di Luca Zingaretti col gusto di irritarlo, di farlo pupo laddove lui è puparo di un teatro sempre più mirabile, e dunque inevitabile nelle conseguenze.

Esilarante è la scena in cui la folla, incuriosita, osserva Salvo mentre arriva nella scena del crimine: “Talè! Talè! ‘U commissariu arrivò!” “Montalbano è!” “Cu? Montalbanu? Chiddro di la televisioni?” “No, chiddro vero”.

Un gentiluomo ha sempre il buongusto della giusta uscita di scena. E Camilleri, lo fa capitolare, a Montalbano, concedendogli l’onore delle armi. Ed è un harakiri, quello del commissario, come solo un beniamino del grande pubblico può fare: col sudario della pagina bianca, con la gomma che tutto si porta via, non con chissà quale effetto speciale se poi la sconfitta – avere risolto un caso, ma senza una sola prova – gli “sbuca in bocca col sapore del burro rancido e del pesce putrefatto”.

Tutto è fuorché genere, Camilleri. Questo suo ultimo Montalbano, lo conferma nella triade degli “scrittori locali”: una corona legata dall’abbagliante vigore del ragionamento, dell’invenzione (commovente la scena del 2 novembre, la notte dei morticini) e della facondia tutta di teatro la cui coda è cometa di letteratura. La stessa cui si lega, quarto di tre moschettieri qual è, l’erede vero di Camilleri: Antonio Manzini che tutto è fuorché genere.

Caso Messaggero, si muove l’Ordine: deferito Martinelli

Il Comitato esecutivo del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti ha deferito al Consiglio di disciplina del Lazio il neo-direttore del Messaggero, Massimo Martinelli, per valutare l’eventuale violazione dei principi della Carta di Firenze, il documento deontologico che tutela i diritti dei giornalisti precari. Il tema è quello dei compensi ai collaboratori del giornale del gruppo Caltagirone, tagliati fino al limite di 7 euro ad articolo per le edizioni locali e l’edizione online. Cifre definite “intollerabili” dall’esecutivo dell’Ordine e inferiori ai minimi tariffari previsti dall’accordo tra Federazione editori e Federazione della stampa, firmato nel 2014 e allegato al Contratto nazionale di lavoro giornalistico.

Nonostante lo sciopero di tre giorni – il primo proclamato da giornalisti non dipendenti – tutti hanno dovuto accettare le nuove condizioni entro il 14 luglio per proseguire il rapporto di lavoro. Prima la Fnsi e poi il Governo hanno chiesto un incontro all’amministratore delegato de Il Messaggero SpA, Azzurra Caltagirone, che ha rifiutato. L’invito ad accettare il taglio dei compensi è arrivato dallo stesso direttore Martinelli: “Siamo un giornale sano soprattutto grazie al senso di responsabilità e ai sacrifici che sappiamo fare”, ha scritto in una mail inviata ai collaboratori poco dopo l’insediamento, la cui rilevanza deontologica dovrà essere valutata. “Quella dei compensi ai collaboratori è la questione delle questioni, ed è un fatto prima di tutto etico”, dice il presidente dell’Ordine dei giornalisti Carlo Verna, che ha scelto di invitare una rappresentanza dei colleghi coinvolti al Consiglio Nazionale del 21 e 22 luglio prossimi. “Ho sempre difeso tutti i collaboratori del Messaggero, dal primo all’ultimo, e continuerò a farlo. Lo spiegherò anche al Consiglio di disciplina”, dice Martinelli al Fatto, senza però anticipare i contenuti della sua difesa. “No comment” anche sulle nuove tariffe imposte dalla proprietà.

L’invito a Scanzi non va giù a tutti. Ora a Piombino la giunta traballa

Nessuno scontro sulla gestione dei rifiuti in città e nemmeno sulla crisi dell’ex acciaieria Lucchini che ha messo in ginocchio la città. A terremotare la giunta di centrodestra di Piombino (Livorno), guidata da un anno dal sindaco Francesco Ferrari (Fratelli d’Italia), è l’invito del giornalista del Fatto Andrea Scanzi a uno spettacolo musicale previsto il prossimo 16 agosto. Il cartellone dalla “estate piombinese” – evento organizzato dal Comune che vedrà alternarsi in piazza musicisti, comici e attori – è stato presentato domenica dal sindaco Ferrari (nella foto) e dal suo vice Giuliano Parodi, eletto con una lista civica a sostegno del primo cittadino. L’evento di Scanzi non ha nulla di politico: sarà uno spettacolo con il cantautore Bocephus King. Ma non piace lo stesso alla Lega che sostiene la giunta e, secondo i rumors, anche allo stesso sindaco. Il commissario del Carroccio locale, Sergio Tascini, ha vergato un durissimo comunicato contro il numero due Parodi fino a chederne le dimissioni.

Alla Lega non va giù la spesa di 200 mila euro per organizzare la kermesse dopo aver “appena aumentato le tasse”, ma in realtà il vicesindaco Parodi viene messo nel mirino per l’invito di Scanzi, da sempre molto critico nei confronti di Matteo Salvini. “Non entreremo nella sterile polemica degli artisti di destra e di sinistra, perché l’arte è arte e si basa sempre sui gusti personali” è la premessa del segretario della Lega, che però poi si dissocia dall’invito del giornalista del Fatto: “Ma vedere nel cartellone della nostra città, in primo piano ed al centro, la foto di Andrea Scanzi che tra i suoi best seller ha un libro dal titolo ‘Il cazzaro verde’ è troppo per chiunque”. Da qui la minaccia nei confronti della giunta: “Le scelte fatte da Parodi sono irrispettose nei confronti del partito” e per questo “la misura adesso è colma”. Ergo: allontanate il vicesindaco e mettete un leghista o altrimenti sono guai.

Cibo a domicilio, la Cgil dà la linea ai rider. Landini contro Ugl e sindacato dei padroni

La prossima settimana, Maurizio Landini presiederà un’assemblea di rider. La Cgil sta studiando una strategia per evitare di essere messa all’angolo nelle trattative sul contratto collettivo del food delivery, da firmare entro novembre. Il rischio che il sindacato rosso sia escluso dal tavolo è infatti concreto, ora che l’Ugl si è alleata con l’associazione di fattorini Anar, molto vicina alle posizioni delle aziende, ed è pronta a sottoscrivere un accordo gradito alle varie Deliveroo, Glovo e Just Eat. Non a caso, pochi giorni fa, Assodelivery – che rappresenta queste multinazionali – si è detta pronta ad aprire il negoziato.

Andiamo con ordine. La legge 128 del 2019 ha imposto alle app del cibo a domicilio il rispetto dei contratti nazionali di lavoro (da sempre ignorati). Entro novembre 2020 bisognerà sottoscriverne uno apposito, altrimenti scatterà quello della logistica. Finora, le piattaforme hanno preferito inquadrare i fattorini come autonomi, negando loro le tutele dei dipendenti come ferie e malattia. In particolare, li hanno sempre pagati con tariffe legate al numero di consegne e non con salari orari. Da qui sono nate le proteste, perché i guadagni incerti spingono i rider ad andare più veloce e a rischiare incidenti.

Nel frattempo, a settembre 2019 è nata l’Anar, gruppo di rider che – a differenza di Deliverance Milano, Rider Union Bologna e Cgil – difende le aziende e chiede di non abolire il cottimo, come invece previsto dalla legge del governo giallo-rosa. Guadagnandosi le simpatie delle piattaforme, con le quali tra l’altro vi sono testimonianze di incontri avvenuti prima della costituzione dell’associazione. L’Anar sarebbe pronta a firmare un contratto che escluda gli stipendi fissi, richiesti dagli altri sindacati, ma è rimasta ferma poiché potrebbe subire l’accusa di essere una sigla aziendalista e teme cause legali. Pochi giorni fa, è arrivata in soccorso l’Ugl: il sindacato di destra ha stretto un accordo con l’Anar, andrà al tavolo con Assodelivery e accetterà un contratto che mantenga l’attuale meccanismo di retribuzione, senza paghe orarie ma a cottimo. Dato che la legge ammette alle trattative i sindacati più rappresentativi, l’Anar sta sostenendo il tesseramento all’Ugl. La tattica non lascia nulla al caso e potrà togliere le app da un impiccio non da poco. La Cgil, invece, ha rider iscritti in tre categorie diverse: Filt, Filcams e Nidil, che rappresentano rispettivamente trasporti, commercio e atipici. Questo rischia di creare dispersione e ridurre la rappresentatività di ognuna delle tre sigle. Ecco perché serve una sintesi e il segretario Landini vuole fare da collante e dare una linea comune. Altrimenti potrebbe rimanere spettatore.

Per la Cassazione tocca a Curzio, di Md come Salvi

Le nomine lottizzate dei magistrati, spesso in combutta con la politica sono ferita viva che brucia anche al plenum del Csm presieduto ieri da Sergio Mattarella, stavolta al Quirinale. Nominato il primo presidente della Cassazione: è Piero Curzio, presidente della sezione lavoro della Cassazione, fine giurista. Il segno dei tempi travagliati è “il sincero apprezzamento” del presidente Mattarella per quello che dovrebbe essere normale: “Il modo in cui il Consiglio è giunto alla condivisione della nomina: la disponibilità al confronto rispettoso”.

Stavolta non è scattata la logica correntocrate dell’uno a te, uno a me: Curzio è “toga rossa” di Md come il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, impensabile finora che le due figure potessero essere della stessa corrente. Netto l’intervenuto di Antonio D’Amato, togato di Mi. Parla di “intrallazzi delle correnti”, di “distorsioni inaccettabili” e invoca “un cambiamento radicale che consenta di recuperare la fiducia dei cittadini”. D’Amato sarà il relatore del processo disciplinare al leader della sua corrente, Cosimo Ferri, ora deputato renziano, incolpato per lo scandalo nomine insieme a Luca Palamara e ad altri 5 ex togati del Csm: “Le vicende di ieri, dice, appartengono al passato e agli uomini di quel passato”, quanto alla riforma del Csm “non è più differibile. L’urgenza, però, non può essere il percorso sinistro per attaccare l’indipendenza della magistratura”. Interviene pure Nino Di Matteo, al plenum presieduto da David Ermini, che nomina presidente aggiunto della Cassazione Margherita Cassano, amata presidente della Corte d’appello a Firenze, di Mi. Di Matteo ricorda un passato da pm della Cassano per dire che “davanti a fenomeni di degenerazione del Csm non comprendo perché, anche inopinatamente, si invochi la separazione delle carriere. Il poter cambiare funzioni è garanzia per i cittadini di poter contare” su pm e giudici indipendenti.

Pioggia record, due morti annegati in auto Orlando: “Non c’era allerta meteo in città”

Un nubifragio si è abbattuto su Palermo dal primo pomeriggio causando drammatici allagamentie il blackout in città. Strade e abitazioni sono state completamente sommerse. Due persone, un uomo e una donna, sono morte annegate nella propria vettura nel sottopassaggio di via Leonardo da Vinci, altre sono state salvate solo dall’intervento dei sommozzatori dei Vigili del fuoco. Decine i sottopassi allagati. Alcuni automobilisti, tra cui anziani, hanno cercato di raggiungere un luogo sicuro nuotando dopo aver abbandonato i propri mezzi. L’acqua, in alcuni vicoli, ha raggiunto il mezzo metro di altezza. “Oltre un metro di pioggia – ha detto il sindaco Leoluca Orlando – è caduta a Palermo in meno di 2 ore. La pioggia più violenta nella storia della città almeno dal 1790, pari a quella che cade in un anno. Una pioggia che nessuno, nemmeno i metereologi che curano le previsioni nazionali, avevano previsto, tanto che nessuna allerta di Protezione Civile era stata emanata per la nostra città”.

L’inganno degli Emirati: il lavoro era la guerra libica

Mentre l’Europa è impegnata a salvare se stessa dal coronavirus , dall’altra parte del Mediterraneo, in Libia, la guerra infuria e continua a coinvolgere anche i paesi limitrofi. È il caso del Sudan. Da giorni, centinaia di sudanesi protestano fuori dall’ambasciata degli Emirati Arabi Uniti a Khartum, la capitale. Il motivo è la campagna di reclutamento in corso tra i giovani per combattere con le milizie del comandante libico Khalifa Haftar, da un mese costretto alla ritirata dalla Tripolitania dopo la rimonta delle forze del Governo di Accordo Nazionale (Gna) guidato da Fayez al-Sarraj, e riconosciuto dall’Onu, attualmente impegnate a riconquistare Sirte. La città in cui venne assassinato Gheddafi è considerata la linea rossa per i principali sostenitori di Haftar: Russia, Egitto ed Emirati Arabi. Per vincere questa battaglia cruciale, Haftar e i suoi sodali, Francia compresa nonostante il diniego, devono giocarsi il tutto per tutto.

Da qui il tentativo di reclutare quanti più miliziani possibile per rinforzare l’Esercito Nazionale Libico (Lna), il nome dato da Haftar al puzzle di mercenari che combattono per la sua affermazione come unico rais della nostra ex colonia distrutta da 9 anni di conflitto. La scorsa settimana il segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, aveva denunciato “interferenze senza precedenti di attori stranieri nel conflitto libico” dove sono in ballo soprattutto lo sfruttamento dei ricchi pozzi petroliferi e di gas, finora gestiti dalla italiana Eni, situati proprio nella zona orientale della Libia, la Cirenaica, roccaforte di Haftar. I manifestanti sudanesi chiedono “scuse e risarcimenti” alle autorità degli Emirati Arabi Uniti per essere stati ingannati dalla compagnia di sicurezza privata degli Emirati, la Black Shield Security Services che li costringe a prestare servizio nelle milizie di Haftar anziché di svolgere il lavoro di normali guardie di sicurezza secondo il contratto farlocco con cui sono stati cooptati.

“Pretendiamo le scuse degli Emirati Arabi Uniti nei confronti del popolo sudanese perché non siamo mercenari”, ha dichiarato Abu Alma Ali Hamza Taha. Ahmad Babakr, un altro manifestante, ha minacciato di portare la questione alle Nazioni Unite e ai gruppi per i diritti umani “se l’ambasciata degli Emirati Arabi Uniti non risponderà alle nostre richieste”. La Black Shield Security Services ha subito negato le accuse di mentire a cittadini sudanesi sulla natura del loro lavoro previsto in Libia. Gli Emirati Arabi Uniti sono stati accusati dalle Nazioni Unite e dalle organizzazioni per i diritti umani di aver infranto l’embargo sulle armi, stabilito per l’appunto dall’Onu, in Libia inviando armi, aerei e mercenari per imporre il comando dell’uomo forte della Cirenaica in tutto il paese. Un rapporto delle Nazioni Unite dello scorso ottobre ha documentato che migliaia di sudanesi stavano combattendo a fianco dell’Lna. Il reclutamento più significativo è avvenuto in concomitanza con l’arrivo dei miliziani siriani pro-Turchia, istruttori e armi turche, pagati e inviati da Ankara per rianimare Sarraj di cui il presidente turco è il più strenuo alleato.

Le autorità sudanesi già lo scorso giugno avevano arrestato più di 100 cittadini che erano destinati a recarsi in Libia per combattere. L’agenzia di stampa statale Suna ha citato il brigadiere Jamal Jumaa, portavoce delle forze di reazione rapida, affermando che “le forze di sicurezza congiunte hanno arrestato 122 fuorilegge, tra cui otto bambini, che si stavano dirigendo per combattere come mercenari in Libia”. Suna ha anche pubblicato un video che mostra dozzine di giovani seduti a terra, circondati da veicoli militari che trasportavano soldati armati di fucili d’assalto. Nel 2019, un rapporto delle Nazioni Unite aveva già denunciato che migliaia di miliziani sudanesi erano di stanza nella città libica orientale di Bengasi, quartier generale di Haftar. I paramilitari allora erano stati schierati per proteggere le infrastrutture petrolifere. Martedì scorso gli Emirati Arabi Uniti hanno lanciato un avvertimento implicito alle forze del Gna che avanzano su Sirte. “I tamburi della battaglia intorno a Sirte minacciano gravi sviluppi e pericolose conseguenze umanitarie e politiche”, ha twittato Anwar Gargash, ministro di Stato per gli affari esteri. Sirte è per ora ben difesa dai mercenari pro-Haftar, tra cui i russi della compagnia di sicurezza privata Wagner, vicina al Cremlino, e dai siriani lealisti del presidente Assad con il supporto logistico degli Emirati Arabi Uniti che nella loro ritirata dalla Tripolitania hanno cosparso le campagne e le città di mine.

La Mela che ride in Irlanda. Via 14 miliardi di tasse: l’Ue dà ragione a Apple

La Corte di Giustizia europea ha dato ragione al ricorso di Apple Inc: la multinazionale non ha ricevuto illeciti aiuti di stato dall’Irlanda, e quindi non deve pagare gli oltre 14,3 miliardi di euro in tasse non versate all’erario irlandese, come sostenuto nel 2016 dalla Commissaria europea alla Competizione Margrethe Vestager.

Antefatto: nell’agosto del 2016 la Commissione europea stabilisce che l’Irlanda, paese membro dell’Ue, ha garantito ad Apple aiuti di stato illegali grazie a consistenti incentivi fiscali. L’accogliente politica fiscale irlandese è uno dei motivi per cui Apple da 35 anni ha il suo quartiere generale europeo a Cork. La Commissaria parla esplicitamente di sweetheart deal, trattamento di favore di Dublino alla Mela. Contesta due sentenze delle autorità irlandesi, che hanno determinato il carico fiscale di Apple Irlanda fra il 1991 e il 2015. Per capire: nel 2011 due controllate irlandesi di Apple dichiarano profitti per 16 miliardi di euro, ma grazie a quelle sentenze l’imponibile è di soli 50 milioni.

Pur riconoscendo il diritto dei singoli stati membri di definire le proprie politiche fiscali, la Vestager riesce ad ottenere una condanna degli irlandesi che, sostiene, “offrendo vantaggi non disponibili ai lori rivali”, rendono impossibile l’equa competizione nell’Ue.

Il principio è quello dell’uniformità del trattamento fiscale, per rendere impossibile l’elusione di tasse dovute la sede legale in paesi con politiche fiscali piu flessibili. Questione enorme: la decisione della Commissione aprirebbe alla possibilità di una lotta davvero efficace ai regimi a tassazione agevolata nell’Unione, dall’Irlanda, all’Olanda al Lussemburgo. Già nel 2013 Apple era finita nella bufera, quando una inchiesta del congresso degli Stati Uniti l’aveva accusata di aver eluso il pagamento di miliardi di dollari in tasse all’erario Usa facendo passare i profitti dalle controllate irlandesi. Allora, il Ceo Tim Cook aveva replicato: “Paghiamo tutte le tasse dovute, ogni singolo dollaro. Non nascondiamo i soldi in qualche isola caraibica”. Poco dopo, come rivelato dai giornalisti investigativi dietro all’inchiesta Paradise Papers del 2017, scelgono i vantaggi fiscali offerti di Jersey, dipendenza della Corona britannica, isola non caraibica ma offshore.

Il calcolo della Commissione è astronomico: 14.3 miliardi di euro, di cui 13 di elusione e 1.3 di interessi. Apple e e il governo irlandese fanno appello. Tim Cook definisce la decisione “merda politica”.

I legali di Apple chiariscono la loro prospettiva sul caso: “Non riguarda quante tasse paghiamo ma dove dobbiamo pagarle. La società ha pagato piu di 100 miliardi di tasse sui profitti globale e altre decine di miliardi in tasse di altro tipo”. Secondo la difesa, la Ue avrebbe tentato di ottenere tasse dovute negli Stati Uniti e avrebbe cambiato retroattivamente le regole sull’imposizione fiscale di profitti globali. Ieri i giudici europei hanno dato loro ragione: “La Corte ritiene che la Commissione non abbia provato che le sentenze irlandesi siano state il risultato della discrezionalità esercitata dalle autorità fiscali”. Ovvero: ci piaccia o no, è tutto legale.

Il ministro delle finanze irlandese, Paschal Donohoe, ha accolto la sentenza dichiarando che “è sempre stato evidente che non c’è mai stato un trattamento speciale per le due società di Apple”. La Vestager ha replicato con un lungo comunicato in cui ricostruisce la vicenda, annuncia che studierà la sentenza per un eventuale appello alla Corte di Giustizia e conclude: “La Commissione resta ferma nell’obiettivo che ogni società paghi la giusta quantità di tasse. Gli Stati membri che garantiscono a certe multinazionali vantaggi fiscali non disponibili a tutti danneggiano l’equa competizione nell’Unione e privano i bilanci pubblici e i cittadini di fondi indispensabili, specie in questi tempi di crisi”.

E aggiunge una stoccata: “Il ricorso ad aiuti di stato deve andare di pari passo con un cambiamento nella mentalità di certe società e con una legislazione che eviti scappatoie e garantisca trasparenza”.

Vero, ma complicato. Dove fa profitti una multinazionale del digitale? Dove ha la sede legale? Dove vende? Con le leggi attuali è difficile da stabilire.

Come chiarisce su Twitter Dan Neidle, guru dei fiscalisti britannici e partner dello studio legale Clifford Chance a Londra: “La Commissione ha sostenuto che Apple avrebbe dovuto pagare le tasse in Irlanda sui suoi profitti mondiali. Ma Apple non guadagna tutti quei soldi in Irlanda. Non ha evaso le tasse irlandesi. E i profitti in Francia, Germania etc, dove i prodotti Apple vengono venduti o scaricati? Non si pagano tasse a destinazione, quindi non c’è evasione nemmeno li. Gli Usa, dove di fatto Apple genera valore? Generalizzando, diciamo che gli Stati Uniti non sono particolarmente rigidi nel tassare i profitti globali delle proprie compagnie. Vogliamo che paghino piu tasse? Bisogna cambiare le regole, inventandosi un meccanismo radicale che gli Stati Uniti non possano bloccare”.

Patrimonio ancestrale eppure dimenticato

Il bel documentario di Vittorio Antonacci – diciamo pure un raro esempio di realismo religioso e antropologico senza filtri – si apre con immagini a me familiari ma che costituiscono certamente una novità per la maggior parte di coloro che lo vedranno. Queste: i componenti di una banda musicale in viaggio verso un paesino della provincia di Lecce e che poi si sistemano nei locali della scuola per la notte. Era infatti il 1980, quando da ragazzino provetto organizzatore delle processioni del Venerdì Santo nella mia terra, la costiera sorrentina, il primo compito che mi fu assegnato fu quello di portare le chiavi della scuola elementare al maestro della banda musicale. Aprii, feci vedere le aule in cui mettere le brandine e indicai come raggiungere i bagni.

Le stesse scene le ho ritrovate in Atto di fede

, traslate in un’altra regione del Sud e in un contesto diverso: la festa patronale, con le luminarie, i fuochi, il cantante in piazza (un’usanza nata negli anni Cinquanta quando la tv non c’era ancora), il madonnaro che studia il posto migliore, “strategico”, dove disegnare il santo, il tutto riassunto in una formula doppia e pascoliana relativa al dì di festa: il senso dell’attesa e il senso della fede. Il documentario fa vedere con occhi diversi e semplici (perché no) quello che si cela dietro la religiosità popolare, e che solo in pochi casi è infiltrazione mafiosa. Feste, processioni, bande musicali, rosari collettivi davanti alla Madonna radunano volti anziani, maturi e giovani che ci ricordano che l’Italia è anche quella dei campanili, non solo delle città. Un patrimonio non da disprezzare o condannare – siamo pur sempre il Paese di Ernesto de Martino, grandissimo antropologo – ma al contrario da valorizzare con un censimento accurato. In Spagna, giusto per fare un esempio europeo, la Settimana Santa andalusa è un pilastro del turismo primaverile. In Italia questo giacimento è immenso ma langue in tanti compartimenti stagni. Un vero peccato, in tutti i sensi.