Berlusconi, Francoe le due sentenze

Egr. direttore,

la violenta campagna di stampa nei miei confronti finalizzata a delegittimare la decisione della Corte di Cassazione dell’1/8/2013 che confermava la condanna di Berlusconi Silvio per il reato di frode fiscale – oltre a far riferimento alle false affermazioni rese da Amedeo Franco nell’anomalo e inquietante incontro del giudice con l’imputato che egli aveva concorso a condannare – utilizza strumentalmente due decisioni: la sentenza della III sezione penale della Cassazione n° 52752/14 (estensore Amedeo Franco); e la sentenza del giudice monocratico civile del Tribunale di Milano n° 868/2020.

a) Con riferimento alla prima decisione si è affermato, in vari articoli di stampa, che essa aveva “smentito” il verdetto della sezione feriale dell’1/8/2013; che costituiva “un attacco frontale al collega Esposito e alla sua decisione … fu il vero atto di dissenso del giudice Franco contro il teorema Esposito”; ed, ancora: “quando gli toccò di occuparsi di un caso praticamente identico, Franco demolì con dovizia di argomenti la sentenza che aveva condannato Berlusconi”.

Viene, però, dimenticato “un piccolo” particolare: il Franco fu sconfessato dall’ufficio del Primo Presidente che in un comunicato stampa – dopo aver ritenuto “palesemente superflue espressioni rispetto al tema della decisione” – ritenne che diverse erano le due fattispecie. I casi erano, invero, totalmente diversi: la sentenza redatta dal Franco riguardava il caso di un amministratore di una società che predispone, con documentazione fittizia, una dichiarazione dei redditi che poi, per qualsiasi causa, non firma e viene firmata dal nuovo amministratore e si ritiene che il primo non commetta reato. La fattispecie del processo “diritti Mediaset” riguardava, invece, la creazione in concorso di un sistema di “frodi carosello” realizzato attraverso società cartiere, fittizie, riconducibili ad un unico soggetto. (…)

La Sezione feriale, nel processo Berlusconi – dopo aver richiamato numerose altre decisioni della terza Sez. Penale e dopo aver precisato “che nel caso di specie, l’unitario disegno realizzato, attraverso la creazione di società cartiere, fittizie, tutte riconducibili al medesimo autore, l’enorme lievitamento dei costi, la sostanziale assenza di autonomia decisionale di IMS nella vicenda che si esamina danno conto dell’identità dei profili fondanti della responsabilità che si concentrano sul finale risultato dell’evasione tributaria rilevante, appunto, ai sensi dell’art. 2 d. Igs. n. 74/2000” – ha così concluso sul punto : “Alla stregua di tali considerazioni, del tutto corretta, sia in punto di fatto che di diritto, la conclusione cui pervengono i Giudici del merito, secondo i quali il contributo causale materiale o morale degli imputati di frode fiscale ex art. 110 cod. pen. si desume dagli elementi che provano un loro coinvolgimento diretto e consapevole alla creazione del meccanismo fraudolento sopra delineato, meccanismo che consentiva all’autore di avvalersi di documentazione fiscale fittizia (pag. 179)”.

Ora, Franco, nella sentenza della terza sezione penale n° 52752/’14, afferma: “In sostanza, la Corte di Appello (di Trento) appare aver adottato un’interpretazione (analoga a quella poi seguita dalla sez. fer. 1/8/2013 n° 35729 Agrama ed altri, RV 256579, in relazione all’art. 2 d. lgs. 10/3/2000 n° 74) ….”

Orbene – ed è questo il punto – non solo i casi erano totalmente diversi, ma non vi era alcuna necessità per il Franco di richiamare, nell’esaminare la sentenza della Corte di Appello di Trento del 23/5/2013, la decisione della Cassazione feriale (quella dell’1/8/2013) che, al momento della sentenza della Corte di Appello, non esisteva e che, quando fu successivamente emessa (1/8/2013), non riguardò assolutamente la fattispecie dei due amministratori (oggetto della sentenza della Corte di Appello di Trento del 23/5/2013, esaminata dal Franco), ma riguardò la diversa fattispecie delle “frodi carosello” in ordine alla quale la sezione feriale applicò i principi sempre enunciati dalla III sezione che era stata ripetutamente chiamata a decidere in ordine a tale meccanismo fraudolento (e Franco lo sapeva).

b) Quanto alla sentenza del Tribunale di Milano che, a dire di alcuni organi di stampa, avrebbe “raso al suolo” la sentenza della sezione feriale della Cassazione del 2013 – a parte che risulta molto difficile che una sentenza civile di I grado di un giudice monocratico possa “radere al suolo” una sentenza penale della Suprema Corte confermativa di due sentenze di merito – si osserva che anche qui c’è un “piccolo” particolare che è stato volutamente omesso. La sentenza in questione non riguarda nella maniera più assoluta fatti e sentenze del processo “Diritti Mediaset”, oggetto della decisione della sentenza della sezione feriale del 1° agosto 2013, bensì riguarda fatti e sentenze di altro e diverso processo denominato “Diritti Mediatrade” di cui si sono occupate le seguenti sentenze (appunto ricordate nella decisione del giudice civile del Tribunale di Milano): 1) sentenza Tribunale di Milano n° 8181/’14 che ha mandato assolti Berlusconi Silvio, Confalonieri Fedele dal reato di frode fiscale perché il fatto non costituiva reato (anche se ex art. 531 c.p.p.); 2) sentenza Corte di Appello di Milano del 17/3/2016 che ha condannato il Piersilvio Berlusconi e Fedele Confalonieri per il reato di frode fiscale relativo all’anno 2007 dichiarando prescritto il medesimo reato per l’annualità fiscale 2006. 3) sentenza Corte di Cassazione n° 1673/2017 che ha annullato senza rinvio tale decisione perché “il fatto non costituiva reato” e, quindi, per mancanza dell’elemento psicologico del reato, confermando così sostanzialmente la decisione del Tribunale. Rileva la Corte di Cassazione che “il Tribunale aveva accertato che il sistema di super valutazione dei diritti di trasmissione in danno delle società emittenti, già utilizzato da oltre un decennio, fosse proseguito, seppur con progressiva diminuzione negli anni 2000/2005; ha ritenuto tuttavia che non vi fosse la prova che tale sistema, certamente fonte di arricchimento personale per coloro che avevano indebitamente fatta propria la maggiorazione dei prezzi, fosse stato escogitato di concerto con i vertici Mediaset per evadere il fisco o che comunque di esso Berlusconi e Confalonieri fossero a conoscenza ed avessero consapevolmente beneficiato di tali falsità nella dichiarazione consolidata per evadere l’imposta di gruppo” (pag. 44, sent. Cass. 1673/’17). In sostanza, la Corte di Cassazione rileva che il Tribunale aveva tenuto conto dei mutamenti verificatisi proprio a partire dal 1999 ed in seguito alla quotazione in borsa di Mediaset, che avevano interessato in generale il mercato dell’acquisto dei diritti e le strutture societarie del gruppo. In particolare, la Corte di Cassazione rileva, ancora, che erano state valorizzate, tra l’altro, dal Tribunale “la sostituzione con Mediatrade con la società maltese IMS, controllata da Mediaset e svolgente un ruolo di mero transito, con la conseguente cessazione della operatività dell’ufficio di riferimento in Lugano già gestito da Carlo Bernasconi” – (la società fittizia IMS era stata oggetto di lunga trattazione nella sentenza “Diritti Mediaset” del 1° agosto 2013) – e, soprattutto, “il conseguente cambiamento dei rapporti con i fornitori, ivi compresi quelli ‘storici’ e quindi anche con Agrama al quale venne imposto – provocandone la vibrate rimostranze – un nuovo schema operativo che prevedeva l’eliminazione della intermediazione delle sue società offshore” (pag. 45 sent. Cass. 1673/’17).

Questi sono i “fatti, (e le sentenze), posti a fondamento della decisione nel procedimento penale c.d. Mediatrade” (…). Non risponde, quindi, al vero l’affermazione che il giudice civile abbia esaminato i fatti e le sentenze del processo c.d. “Diritti Mediaset” (che ha riguardato il meccanismo fraudolento fino al 1998), e non ha, quindi, né “demolita”, né “spazzata via” la sentenza della Corte feriale di Cassazione dell’1/8/2013, in nessun modo interessata dalle argomentazioni del giudice civile che (…) non ha definito la causa con una statuizione di merito bensì “dichiarando la prescrizione delle azioni delle attrici” (e, cioè, RTI s.p.a. e Mediaset s.p.a. c. Agrama ed altri).

 

Una nuova sanità dal dramma

Ogni pandemia alla generazione che la vive appare come un evento unico. In realtà, epidemie e pandemie fanno parte inscindibile della storia dell’uomo. Sono foriere di malattie, lutti, carestie ma, in realtà, ciò che è più impattante è il dopo. Sembra che questi eventi rispondano a uno strano processo universale che fa derivare l’ordine dal caos. Una vera rivoluzione naturale che crea, quasi sempre, un periodo di confusione, dramma, morti per poi dare origine a una nuova era, a un nuovo ordine. Tristemente, l’umanità è condannata a periodici tsunami per ottenere cambiamenti veloci e radicali. Ovviamente ciò che ne deriva non è volere degli dèi ma ciò che gli uomini sapranno costruire. Non sempre infatti il dopo è migliore per tutti, spesso lo è per pochi, ma comunque nuovo. Le storiche pandemie hanno fatto cadere imperi, provocato livellamenti sociali, apportato nuovi abitudini igieniche, creato il sistema ospedaliero. Sarà così anche questa volta. Lo scenario potrebbe essere economicamente disastroso per molti, positivo per pochi, ma potrebbe creare la necessità di una ridistribuzione delle risorse. Potrebbe scaturirne una rivoluzione culturale che finalmente pensi alla spesa sanitaria come a un investimento, alla salute del singolo come garanzia di quella pubblica. Anche la globalizzazione avrà un altro volto. Dapprima un nazionalismo protettivo ma poi, quando ci si renderà conto che le frontiere sono state cancellate per sempre, si capirà che siamo tutti coinquilini di una stessa grande casa e che, ci piaccia o no, dobbiamo starci meglio possibile. Oggi 26 ricchi posseggono le risorse di 3,8 miliardi di persone. Il trend è una crescente concentrazione di ricchezze in un numero sempre più esiguo di persone. È un processo suicida. La pandemia, nello scenario unico della globalizzazione, scopre le ferite . È questa la fine del mondo (vecchio) predetta dai Maya? Non perdiamo l’occasione perché da questo dramma nasca un miglioramento. Avverrà se tutti, per una volta, remeremo insieme verso il nuovo porto.

*Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Contro lo zelo revisionista e la falsificazione del passato

In questi giorni capita di leggere, con sempre maggiore sconcerto, prese di posizione favorevoli a una rivisitazione in senso positivo della persona e dell’opera di Silvio Berlusconi. Sentiamo l’esigenza, come cittadini e soci di Libertà e Giustizia, di dissentire vigorosamente da questa tardiva e francamente ingiustificata sottovalutazione dei formidabili guasti culturali e politici che l’ingresso in politica di Berlusconi ha comportato per il nostro Paese: vogliamo ricordare la legittimazione dell’evasione fiscale? La pervasiva corruzione a tutti i livelli della vita pubblica? L’uso mercificante del corpo della donna in politica? L’asservimento del Parlamento alle vicende personali del capo? L’assenza totale di una visione per lo sviluppo del Paese, con le conseguenze di arretratezza e stagnazione che sono divenute evidenti a tutti, tanto da parlare ormai di “ventennio perso” per l’Italia? Il clamoroso monopolio sulla tv privata e il conflitto tra gli interessi personali del capo e l’interesse del paese a un’informazione indipendente e pluralista?

Cosa induce oggi anziani esponenti politici e non a “rivalutare” Berlusconi? E, simmetricamente, ad attaccare il governo presieduto da Giuseppe Conte? Una cosa appare chiara: tanto zelo revisionista è funzionale a un cambio di maggioranza.

E allora ci si consenta di dissociare la nostra voce di cittadini e soci di Libertà e Giustizia da questo intollerabile andazzo e dalle trame in corso, finalizzate a uno spostamento a destra della maggioranza e al siluramento dell’attuale governo.

Non solo: vogliamo anzi manifestare la nostra solidarietà per Conte e il governo che guida, per l’immane lavoro svolto in questi mesi di fronte ad un’emergenza spaventosa e inedita, per la riconquistata presentabilità dell’Italia nel contesto internazionale, per il tentativo di agire al meglio nell’interesse pubblico con uno sforzo importante per indirizzare la politica europea ad affrontare unita la crisi socio-economica provocata dalla pandemia, per la relativa indipendenza dalle segreterie di partiti che, benché oggi sia un pregio, gli viene invece rimproverata.

 

Appello ai milanesi Basta cemento, cambiamo modello

Giorni fa hanno sgomberato a Milano quel fazzoletto di terra che sta in piazza Baiamonti dove prima c’era il distributore Tamoil. Era stato occupato dai ragazzi di Friday for Future e dal comitato Baiamonti Bene Comune per evitare che lì si costruisse la piramide di cemento e vetro, gemella di quella che occupa tutto il lato di via Pasubio. Mi ero affezionato all’idea di questo spazio verde e ho sentito il bisogno, dopo lo sgombero, di fare qualcosa a sostegno (anche dopo la stupida serata di musica sparata a tutti decibel che ha offeso gli abitanti del quartiere).

Sono solo 600 metri quadri, poca cosa rispetto alle centinaia di ettari già cementificati negli ultimi anni e quelli in ballo nei prossimi, come i 120 ettari degli ex scali Fs. Eppure in quella occupazione, negli alberi piantati e nelle serate di cinema all’aperto si è visto il disegno di una città disseminata da tante piccole oasi verdi, di spazi comuni e di alberi veri che assorbono Co2 e restituiscono ossigeno. Hanno voluto mandare le ruspe, estirpare tutto, imbrattare lo schermo e chiudere l’area.

Il sindaco Giuseppe Sala si è distanziato dall’operazione, ma ha confermato la destinazione. Ha deciso però che nel frattempo, per due anni, lo spazio sarà gestito attraverso un patto. È stato un successo dell’occupazione. Resta la minaccia che tra due anni tutto possa venire sbaraccato. Io mi sono innamorato dell’idea di questo parco. Ho sentito un paio di amici milanesi ottantenni come me, che come me si portano appresso un bel po’ di storia di questa città, per fare qualcosa che riaffermi l’idea iniziale. Piantiamo alberi veri, ci siamo detti, quelli grandi, ombrosi, come le querce lombarde, i tigli o gli olmi. Ne sosterremo i primi costi, nella speranza che poi arrivino i contributi di altri cittadini semplici e illustri.

Non ci rivolgiamo al sindaco, ma al popolo milanese che lo ha eletto e che è anche il nostro popolo, antifascista, pronto a scendere in piazza in difesa degli immigrati. Questo popolo pensa e dice che da quando Milano è governata dalla sinistra è diventata bella. Bellissima. Bella, anche se l’Organizzazione mondiale della sanità dice che la sua aria è tra le più inquinate al mondo. Bella anche se Ispra dice che con Napoli è il Comune più cementificato d’Italia. Bella anche se i fiumi che l’hanno generata, il Lambro, il Seveso, l’Olona, continuano a essere inquinati. Milano – pensano – è bella perché c’è stata Expo, con 160 ettari rubati al verde. Perchè c’è City Life, piazza Gae Aulenti, la siringa di Unicredit, tanti supermercati e centri commerciali e un altro stadio. Bella perché ci sono tanti eventi, fiere, turisti, movida.

Ecco, vorremmo allora chiedere a questo nostro popolo: ma che cosa è la bellezza? È solo l’opera di un architetto o è anche un vero bosco in città? È il nostro sentirci moderni o è anche il profumo del tiglio? Non vogliamo contrastare il progresso, chi ha 80 anni vive grazie al progresso. Ma è proprio inevitabile che in nome del progresso, o del profitto di pochi, si debba perdere, e per sempre, qualcosa di bello e vitale come l’aria respirabile, il verde, l’acqua pulita? Vorremmo dunque chiedere al popolo di Sala se, dopo la pandemia che ha fermato il mondo, non sia irrazionale continuare con la stesso modello di città. I virus sono figli del pianeta malato e urbanizzato. Le torri e le piramidi, con lo smart working e l’impossibilità di stare in tanti negli ascensori, sono destinate a rimanere vuote. Gli eventi, le Olimpiadi fatte per attrarre milioni di persone e di turisti non sono più proponibili. L’Onu ci dice che tra pochi decenni il 70% della popolazione mondiale vivrà in megalopoli che saranno, tranne poche zone privilegiate, più inquinate e malate di quanto non lo siano oggi. E allora smettete di costruire, piantate invece alberi veri, con le radici ben affondate nella terra, non nei vasi su balconi e terrazze verticali.

*Forum italiano dei movimenti per l’acqua pubblica

 

Prodi, Scalfari e Mauro: chi tace su B. è complice

Il problema, adesso, non è più ciò che ha detto Prodi su Berlusconi: “Un suo ingresso al governo non può essere un tabù”. Ma che cosa non dicono e non scrivono Eugenio Scalfari ed Ezio Mauro, il fondatore di Repubblica e il suo ventennale successore. Vale anche per loro il detto chi tace acconsente?

Sono passati due giorni dalla sconcertante “riabilitazione” dell’ex Cavaliere da parte del Professore e né il padre nobile di quel giornale né il padre putativo hanno finora aperto bocca e impugnato la penna. Se Prodi “apre”, dunque, Scalfari e Mauro chiudono gli occhi e le orecchie. E intanto l’attuale reggente di “Stampubblica”, Maurizio Molinari, abbassa i toni definendo la sortita del Professore “tattica e non strategica. Io non gli darei importanza politica”, nascondendosi dietro il dito e smentendo attraverso un portavoce di aver aperto al Caimano. “Ma quando mai?”.

È vero che un paio d’anni fa, esattamente il 24 ottobre 2018, Scalfari proclamò urbi et orbi in una delle sue esternazioni televisive a Di Martedì su La 7 che “tra Berlusconi e Di Maio sempre meglio Berlusconi”, mandando su tutte le furie Carlo De Benedetti e sconcertando così una buona parte dei lettori di Repubblica. Ma in realtà quella sembrò più una boutade che un’apertura politica. E comunque, oggi l’imprimatur di Prodi sull’ingresso del leader di Forza Italia al governo implicherebbe un’improbabile convivenza con i Cinquestelle, senza dei quali nessun “governissimo” sarebbe praticabile. A meno di estrometterli dalla maggioranza e relegarli all’opposizione, per far posto non solo a Berlusconi con la sua pattuglia di Forza Italia ma a tutto il centrodestra sovranista.

Ancora più assordante, però, è il silenzio di Ezio Mauro. Se c’è una linea, un filo conduttore, un leitmotiv nel suo fatidico ventennio alla direzione di Repubblica, questo è proprio l’anti-berlusconismo intransigente e ideologico, culminato nella campagna con le “10 domande” sulle frequentazioni hard dell’ex presidente del Consiglio. E ancor prima, la concentrazione televisiva e pubblicitaria, il conflitto d’interessi, la compravendita dei parlamentari per far cadere il governo Prodi (già, proprio lui!) e infine le vicende giudiziarie che hanno portato alla condanna dell’ex Cavaliere per frode fiscale, ai servizi sociali e alla sua decadenza da senatore.

Ora è comprensibile che un patriarca come Scalfari, arrivato alla veneranda età di 96 anni, si conceda il lusso di un certo libertinaggio intellettuale e politico. Lui se lo può anche permettere. Ma Ezio Mauro no, il successore non ha gli stessi diritti del capostipite e – sia detto senza offesa – non è al suo livello. Qui il silenzio rischia di diventare complicità. Perfino Molinari, in un’intervista al Foglio, ha osato prendere cautamente qualche distanza: “Se mi volete fare dire che il governo debba affidarsi a Berlusconi, non ci riuscirete”. Parola di Ponzio Pilato.

Se ora il reggente di “Stampubblica” – come ha annunciato lui stesso – cerca “giornalisti che non siano prigionieri del passato”, li troverà senza troppa fatica sul mercato. Ma il passato è la storia di quel giornale e di quel gruppo editoriale, si può rivedere e ridiscutere, non si può rinnegare e tradire. E soprattutto, non si possono rinnegare e tradire i valori di libertà e giustizia su cui si fonda; intorno ai quali s’è aggregata nel tempo una “struttura d’opinione”, una comunità di giornalisti e lettori, che oggi è smarrita e dispersa.

Con buona pace di Molinari, si può essere prigionieri anche del presente. Per esempio, di una proprietà che s’identifica con il mondo imprenditoriale, con i suoi interessi più o meno legittimi, con le sue pretese. Un gruppo di potere che misura l’azione del governo in rapporto alle proprie aspettative, economiche e finanziarie, ritenendosi magari depositaria del bene comune. Quella “razza padrona”, insomma, che ha sempre preferito privatizzare i profitti e socializzare le perdite: la Fiat-Fca, Confindustria, Mediobanca, Bonomi, De Benedetti, Berlusconi, Benetton e compagnia cantante. Ma neppure loro, tutti insieme, riusciranno a farci diventare anti-industriali e anticapitalisti.

La vita di una moderna democrazia presuppone una “democrazia economica” trasparente e rispettosa delle regole, capace di conciliare salute e lavoro, dalle acciaierie alle autostrade. Richiede un apparato produttivo efficiente. Reclama un’occupazione piena e dignitosa. Ed esige anche un sistema dell’informazione autonomo e indipendente, in grado di esercitare il ruolo di watch dog, di cane da guardia, nei confronti dei poteri costituiti. È necessario allora un nuovo “patto dei produttori”, per cercare di ridurre il più possibile le disuguaglianze – come auspicava Norberto Bobbio – e di costruire così una società più giusta.

 

Achille Lauro “Perché lo stroncate?” “Mai accontentarsi della mediocrità”

Ho letto l’articolo di Scanzi su Lauro. Onestamente non comprendo le ragioni di una stroncatura così pesante e aggressiva. Le argomentazioni si limitano a commenti di gusto musicale, sintetizzabili in: “Ha zero talento e se la crede fin troppo”, più qualche critica (di parte) all’uso delle parole sui social. Apprezzo molto Scanzi e come suo appassionato lettore mi chiedo il perché di tanto astio apparentemente (o comunque secondo quanto ho percepito io) ingiustificato.

Gianluca S. Bianchi

 

Non ho idea delle reazioni che provocheranno le parole di Scanzi su Lauro, ma la mia è senza dubbio d’accordo con l’articolo. Artisti del genere sono le incarnazioni più pure dell’arte commerciale e ignorante: quel che si scrive, che sia una canzone o altro, deve essere comprensibile a un bambino di tre anni, cosicché chiunque potrà gradire e usufruirne, rendendo così il mercato più grande possibile. Ecco, le canzoni di personaggi come Lauro (ma anche Baby K e Chiara Ferragni) sono questo: una combinazione vaga di hashtag e mugugni poco comprensibili ma orecchiabili, che non solo sviliscono la musica ma sono propaganda del principio degenere secondo cui il profitto prevale su qualità e talento o, peggio, che il profitto sia sinonimo di qualità e talento.

G.C.

 

Il tema Achille Lauro è assai divisivo, me n’ero già accorto anche sui social. E queste due lettere lo confermano. Evidentemente c’è davvero gente che lo trova bravo, a conferma di come anche le perversioni non siano più quelle di una volta. Il lettore critico (con me) mi chiede di argomentare di più. E sia: Achille Lauro non sa cantare, non sa scrivere e ha la presenza scenica di una mietibatti colorata. Forse è colpa mia. Ho conosciuto Gaber, De André, Zucchero, Knopfler e Roger Waters. Ho scritto un libro con Fossati, a teatro racconto Ivan Graziani, quando sono triste faccio due chiacchiere con Bennato. Una settimana fa ho pranzato con Vasco. E ancora piango se ripenso alla scomparsa anticipata di Stevie Ray Vaughan. Sono fatto così. Mi si perdonerà se, ancor più bella musica, aborro l’insopportabile motto “chi s’accontenta gode”. Parafrasando Goethe (che parlava di vini): la vita è troppo breve per farsi piacere “musica” mediocre.

Andrea Scanzi

Mail box

 

L’Egitto necessita di aiuto per il Covid, non di armi

Quando l’Italia era in grande difficoltà con il Covid siamo stati aiutati da russi, cubani, albanesi, cinesi e molti altri. Visto che il popolo egiziano è adesso in piena emergenza sanitaria, secondo me, (invece di vendergli armi), dovremmo inviare i dispositivi personali di protezione e i respiratori di cui hanno tanto bisogno.

Claudio Trevisan

 

I salari vanno ripensati? Sì, ma a livello europeo

La polemica sulle gabbie salariali da riproporre, oltre che pretestuosa è sbagliata e ipocrita, e non tanto per la scarsa credibilità di chi l’ha proposta, il sindaco milanese, ma perché non è inquadrata nel modo logico. Scusi, ma se un insegnante, un infermiere, un operaio, un muratore guadagnano in maniera molto differenziata, (e su questo non v’è dubbio alcuno) nei paesi della Ue, che a parole si dice un unico organismo e un’unica nazione europea, non sono queste già gabbie salariali, nonostante queste figure svolgano nelle canoniche 8 ore al giorno lo stesso tipo e quantità di lavoro?

Enrico Costantini

 

Al presidente Conte il sostegno degli onesti

Per favore dateci la possibilità di far sentire a Conte il nostro sostegno per la revoca ad Aspi. Per le famiglie delle vittime, per noi cittadini onesti e semplici deve continuare per la strada intrapresa perché ridà dignità a questo disastrato Paese.

Adriana Re

 

Ingegnere: imprenditore o solo “prenditore”?

Quando leggo che l’ingegnere preferisce Berlusconi a Conte non credo che sia un problema di demenza senile (non riuscendo più a ricordare le “belle cose” fatte dal caimano). Secondo me il problema riguarda l’associazione traversale degli affari dove non si riesce più a distinguere “il mondo di sotto” dal “mondo di sopra”, e dove i nostri grandi “prenditori” sono rigorosamente contro chi vuole proteggere l’interesse pubblico, specialmente quando questo va a toccare i loro interessi privati.

Claudio Trevisan

 

Renzi via dal governo, ne guadagneremmo tutti

Che Renzi stia dalla parte dei Benetton non vi sono dubbi. Che stia pensando di mettere qualcuno dei suoi, nell’eventuale Cda della nuova compagine societaria, derivata dall’ingresso della Cdp, è lecito supporlo. Che pensi solo al suo benessere, avendolo già dimostrato con Open e altre iniziative, è noto. Perchè Conte – persona colta, semplice e non opportunista – non lo manda a farsi un giro, lui e i suoi sodali? Ne guadagneremmo.

Paolo Benassi

 

De Benedetti si scansi, la sinistra andrà avanti

Carlo De Benedetti dichiara di preferire B. a Conte. Lo dice in un’intervista a Il Foglio, invocando il concetto di male minore. Così, con poche frasi, distrugge anni di resistenza anti-berlusconiana, portata avanti da Repubblica, il giornale di cui è stato storico editore. Come uomo di sinistra, insieme a molti altri amici, vivo il gelo dell’ennesimo tradimento. Dopo Scalfari, che dichiarò anche lui di preferire il miliardario ai 5 Stelle; dopo Prodi, che sdogana B. con l’attenuante generica dell’età avanzata; ora al coro dei revisionisti berlusconiani si aggiunge anche De Benedetti. È solo solidarietà geriatrica o c’è dell’altro? C’è dell’altro: i soldi (molti) in arrivo dall’Europa. Avere al Governo persone “accomodanti” con i corrotti fa girare più velocemente il denaro tra le dinastie industriali, che ormai sono infiltrate dentro la grande stampa nazionale. Mentre un premier come Conte – che inchioda i Benetton ai loro criminali inadempimenti – viene percepito come un’anima bella, che non sa come vanno le cose in Italia. Noi, ceto riflessivo di sinistra, ne abbiamo subite tante di delusioni, Non sarà certo quella di De Benedetti a farci smettere di lottare per un Paese più giusto e meno corrotto. E allora mi viene solo una frase da rivolgere all’ingegnere: ora si scansi, noi andiamo avanti.

Massimo Marnetto

 

Speculare sull’ignoranza è da politico indegno

Veramente abbiamo raggiunto il vertice dell’ignoranza. Non si può tacere che un certo politico dichiari di essere il vero custode del pensiero di Enrico Berlinguer senza denunciare questa vergogna assoluta. Se lo può “permettere” perchè, oltre alla malafede, gioca sulla abominevole non conoscenza della storia contemporanea dei suoi elettori e di gran parte dei nostri concittadini. Speculare sull’ignoranza è il sintomo estremo della inciviltà. Dopo Ruby nipote di Mubarak, credevo non avrei sentito niente di più abietto, mi sbagliavo!

Oreste Ferri

 

Volevo segnalare che nell’articolo di ieri a pagina 19 – “Ho meno soldi dei pompieri: dovrò liquidare l’Eliseo” – “gli sfigati romani” di cui parla Luca Barbareschi sarebbero Sistina, Ambra Jovinelli, Quirino, il meglio del Teatro privato italiano. Ma, valutazioni a parte, vi pregherei di precisare che il giudizio in esame non è ancora concluso. Il 22 ottobre infatti la controversia sarà discussa nel merito in Consiglio di Stato, con udienza già fissata. E se il signor Barbareschi dovesse risultare soccombente dovrà rimborsare allo Stato italiano anche gli 8 milioni indebitamente intascati.

Geppy Gleijeses

Gli 8 miliardi ad Alitalia, anche mia zia è stata un suo amministratore

Antitrust avvia procedimento contro Alitalia: biglietti cancellati anche senza stop, voucher anziché rimborsi. – ANSA, 4 lug 2020.

Alitalia è in crisi dalla metà degli anni ’90, ma è la compagnia di bandiera italiana, quindi gode di certi privilegi, in primis l’assistenza premurosa dello Stato, che a ogni turbolenza ne rimpingua le casse con soldi miei. Dopo otto tentativi di vendita andati a vuoto, tanto è appetitosa (prima degli ultimi problemi, quando gli altri vettori erano in utile, perdeva 2 milioni di euro al giorno), Alitalia è stata di recente nazionalizzata, e riceverà altri tre miliardi. E così, negli ultimi tre anni gliene avranno regalati otto. OTTO MILIARDI DI EURO PUBBLICI. Per mettere questa cifra in prospettiva: sono più di quanto Ronaldo guadagna in un giorno. In casi disastrosi, il diritto commerciale italiano prevede una procedura detta “amministrazione straordinaria”. Gli straordinari amministratori di Alitalia sono, dal 2017, Gubitosi, Paleari, Laghi e mia zia. Il contributo di zia è stato fondamentale, e viene da lontano: al Fondo Monetario Internazionale, zia subì le avances di Dominique Strauss-Kahn, e testimoniò contro di lui nel processo per violenza sessuale che lo travolse anni dopo. Strauss-Kahn si dimise, e la Lagarde prese il suo posto. Cinque settimane fa, mentre tutti in Italia discutevano del MES accapigliandosi (conveniente, non conveniente, ci sono sconti comitive, e se no, posso almeno includere il mio beagle?), zia ha telefonato alla vecchia amica che è arrivata alla BCE grazie a lei, e il giorno dopo la Lagarde annunciava il PEPP, l’acquisto di titoli pubblici e privati che farà nevicare sull’Italia 250 miliardi di euro. Così, non solo Conte avrà i soldi per il rilancio extra-deficit che serve al Paese (sempre che, dai e dai, non trovino il modo di rimettere al suo posto Renzi) (pensavate di esservi liberati di Renzi? Ah ah ah ah ah! Impossibile, Renzi è troppo utile, chiedete a De Benedetti, nessun reato), ma soprattutto avrà liquidità in abbondanza, volendo, per nuove trasfusioni ad Alitalia (che oggi è scelta solo dall’8% dei viaggiatori da e per l’Italia, con quei prezzi: il 92% prende altri aerei). C’è chi difende il governo: “Daranno i soldi anche a Lufthansa!”, esclama dal mio barbiere, con un guizzo improvviso, un cliente insaponato, restando di colpo con un orecchio solo. “Ma Lufthansa è una impresa sana, che produce forti utili,” gli replica un altro accanto a lui, continuando a sbirciare la scollatura generosa della moglie del barbiere che gli sta facendo la manicure, mentre Van Gogh galoppa al pronto soccorso con un orecchio in mano (Renzi mi ha telefonato: lo dà in accoppiata con Aladin Bar). Scusate un attimo. Eccomi tornato, sono dovuto andare in bagno a masturbarmi perché il pensiero della scollatura della moglie del mio barbiere sarebbe irresistibile anche per il Dalai Lama (che a me, comunque, non la racconta). Dicevamo? Ah sì: sul tema Alitalia non c’è opposizione, in parlamento. Sono tutti d’accordo che farla fallire provocherebbe danni per miliardi; ma, come ha ricordato Delrio dieci giorni fa, il turismo in Italia è servito al 70% dalle low cost. L’aiuto ad Alitalia le sgomina, in un mercato contratto dal Covid-19. Non c’è una distorsione del mercato? Prossimamente su questi schermi: “Il fascino discreto del monopolio incapace e dei biglietti aerei alle stelle”.

 

Brunetta e il suo elogio del premier

Signor presidente del Consiglio, lei in Europa è stato bravo a trattare”. “Spero ne sia consapevole che lei ha in mano, in questo momento, il recupero di 20 anni di cattiva politica economica”. E così via con un tono propositivo e non pregiudiziale. Sintonizzato su Radio Radicale

riconosco la voce di Renato Brunetta che interviene sulle comunicazioni di Giuseppe Conte alla vigilia del Consiglio europeo. Un po’ mi sorprende che un esponente di Forza Italia, e quindi dell’opposizione, non insolentisca il premier, non lo accusi di avere svenduto il Paese, di avere tradito la fiducia degli italiani “con il favore delle tenebre” (Salvini-Meloni). Si dirà che a differenza delle destre Lega-FdI, sempre con la bava alla bocca quando si tratta di Conte, il partito di Silvio Berlusconi è in fase di avvicinamento a un possibile governo di unità nazionale e ha quindi tutto l’interesse a non esasperare i toni.

Preferisco credere che l’economista Brunetta, con il suo intervento, abbia inteso perseguire non l’interesse di qualche inciucio bensì l’interesse nazionale. Poiché un’opposizione a questo governo, anche la più severa e intransigente, dovrebbe rifuggire dalla politica del tanto peggio per gli italiani, tanto meglio per loro. Per condividere invece quei barlumi di speranza con cui ieri, sul Corriere della Sera

, Francesco Giavazzi iniziava il suo articolo: “C’è qualche timido segnale che gli effetti diretti del Covid-19 sull’economia si stiano attenuando”. Quali? L’indice dei nuovi ordini consegne e scorte che a giugno “si è quasi stabilizzato”. Sempre a giugno “una lieve contrazione dell’attività economica: 47,5 ma comunque in risalita rispetto a maggio (45,4)”. E ancora: “anche la Banca d’Italia prevede che dopo un crollo nel 2020 (meno 9,5%) l’economia riprenderà e tornerà a fine 2022, a un livello di reddito vicino a quello precedente la pandemia”. Squarci di sereno che non possono farci dimenticare il fossato sempre più largo tra i “garantiti” (i dipendenti pubblici che hanno continuato ad essere retribuiti), i “salvati” dalla cassa integrazione (ma per quanto ancora?), e i “sommersi”: autonomi e partite Iva, ormai allo stremo. Al professor Brunetta, che ministro dei governi B. assai osteggiammo, oggi forse ci unisce l’orrore per gli sfasciacarrozze e i demagoghi che blaterano di “oro alla patria”, pur sapendo che peserà come un macigno sulle prossime generazioni. Ma tanto basta.

Amore&Orrore: la guerra dei Roses tra Depp e Heard

“Erano due persone innamorate l’uno dell’altra, ma che non avrebbero mai dovuto stare insieme”. Alla fine, la frase più giusta e dolorosa per commentare il divorzio di Amber Heard e Johnny Depp l’ha pronunciata davanti all’Alta corte di Londra l’ex assistente personale di Depp, Stephen Deuters. Uno che ovviamente era lì per difendere Depp, ma che si è lasciato sfuggire un pensiero poco partigiano, di quelli interpretabili solo da chi sa. Da chi conosce le dinamiche storte e cattive dei rapporti che la psicologia chiama “relazioni tossiche”. Tossiche anche senza l’abuso di stupefacenti e alcol che comunque in questa vicenda sono lo sfondo o l’apice di ogni passaggio.

Johnny e Amber si erano conosciuti nel 2011 sul set di un film dal nome profetico: The Rum Diary – Cronache di una passione. L’alcol e la passione, nei cinque anni di relazione con un matrimonio di mezzo, non sono mancati. E in realtà, a leggere le cronache delle udienze di divorzio, nella loro storia violenta e sgangherata non è mancato quasi nulla. Di sicuro, la Corte che dovrà decidere chi dei due abbia ragione, chi sia stato l’elemento instabile e violento, chi abbia sfinito la relazione tra isterie, emotività, rancore e gesti eclatanti, si trova davanti a groviglio di bugie e verità che fanno parte di un’unica matassa: quella letale delle dipendenze affettive. Quelle dipendenze in cui a volte, il ruolo di vittima e carnefice si confonde. In cui l’innesco è nella reciprocità di emozioni ingestibili e potenti. In cui la passione è una sorta di malattia dove l’odio e l’amore coesistono, e non trovano mai un equilibrio o un approdo.

Il mondo di spettatori che legge le accuse folli, le ricostruzioni di Johnny e Amber, si divide in due: quelli che strabuzzano gli occhi e quelli che non si stupiscono di nulla. Che poi sono, rispettivamente, quelli che hanno avuto relazioni sane e quelli che hanno vissuto l’orrore di una relazione tossica.

Nel racconto della relazione tra Amber e Johnny sono finiti tutti nel frullatore: assistenti, amici, ex, colleghi, perfino i cani tirati in ballo a più riprese, per giunta in alcuni tra i passaggi più eclatanti. Johnny avrebbe minacciato di metterli nel microonde, Johnny li avrebbe sollevati fuori dal finestrino della macchina, Amber avrebbe defecato nel loro letto per dispetto e avrebbe incolpato i cani. Sì, c’è anche questo.

E anche qui c’è la metà del mondo che strabuzza gli occhi e quella che c’è passata. Che magari ha sempre avuto le lenzuola intonse, ma che conosce quel cortocircuito e non si stupisce neppure di questo. Perché sa che più dura una relazione tossica e più l’asticella della follia si alza. Per cui un giorno, se si sopravvive, ci si domanderà: “Come è stato possibile arrivare a tutto ciò?”.

Ecco, se si sopravvive. Perché a leggere le deposizioni in aula, viene da chiedersi quanto Depp e la ex moglie siano andati vicino a disintegrarsi non solo psicologicamente ma anche fisicamente. Lui, in seguito a una lite con lei, si è ritrovato con un dito mozzato. E, secondo Amber, con il sangue le avrebbe scritto “ti amo” su una parete. Lei ha raccontato di essere stata presa a calci da lui su un aereo privato perché Depp era convinto che avesse una relazione con James Franco. Lui scriveva messaggi al suo amico e collega Paul Bettany del tipo “Vorrei bruciarla come una strega”. Poi ci sono le foto, impietose, scattate da entrambi non si sa bene se per rinfacciare il male, privatamente, o per archiviare, in attesa delle lenzuola sporche da lavare in pubblico. Amber ha scattato foto al “vassoio della colazione” di Depp (cocaina e whisky), a Depp svenuto sul pavimento della camera, scalzo e con la testa infilata nel comodino. A Depp addormentato sul divano, col gelato che gli cola sui pantaloni. E poi lui che la accusa di bere due bottiglie di vino al giorno, lei che lo accusa di aver tentato di bruciare un quadro che le aveva regalato una sua ex (la Heard è bisessuale), lui che dice “Mi prendeva a calci e mi tirava lattine, candele accese e bottiglie”, lei che lo accusa di essere un picchiatore che quando beve e si droga cambia personalità, lui che dice la picchiatrice era lei (e in effetti un audio registrato nel 2015, durante una sessione di terapia di coppia, l’ ex moglie riconosce di aver picchiato Depp).

In tutto questo, finiscono per essere sputtanati e coinvolti un po’ tutti, da James Franco (“Amber mi diceva che era un violentatore”) a Elon Musk (“Era lui a picchiare Amber”) al padre di lei (“Mia figlia ha problemi d’umore). Il tutto intervallato dall’ammissione di Depp di dipendere dalle droghe, ma di non essere mai stato violento con le donne (indimenticabile però il suo arresto nel ’95 per la suite distrutta in una lite con la ex Kate Moss). E saranno proprio le ex Winona Rider e Vanessa Paradis, a quanto pare, a raccontare in udienza l’animo pacifico di lui.

E qui, ancora una volta, ci sarà chi strabuzza gli occhi (Ma come? Allora Amber Heard mente!) e chi sa che le relazioni tossiche sono spesso il frutto non di un animo violento ma di due anime che insieme diventano altro: il peggio di sé. No, non vorrei essere il giudice che dovrà decidere.