“Qui i boss spiano la polizia e sparano con il kalashnikov”

Non si muove foglia a Cerignola senza il consenso delle quattro famiglie mafiose più potenti. Nella Quarta Mafia, la Società foggiana, i cerignolani sono i più pericolosi: dispongono di un esercito e di armi. Un mese fa, in pieno centro, un pregiudicato è scampato a un agguato: i colpi di kalashnikov risvegliarono la città. Mai la mafia si era spinta a tanto. “Ogni giorno, alle 8, arrivo in commissariato, ma quella mattina ero in ferie, altrimenti sarei rimasta coinvolta”, spiega Loreta Colasuonno, dirigente del commissariato di polizia di Cerignola. “Anche la volante si sarebbe trovata in mezzo alla pioggia di proiettili se non avesse avuto un contrattempo. I miei uomini si sono accorti che la vittima scavalcava il cancello del commissariato per trovare un rifugio sicuro. Un’azione così spavalda non si era mai vista. Prima l’inseguimento per un tratto di strada così lungo, poi le armi pesanti per un regolamento di conti”. Si tratta del solito traffico di droga? “Probabilmente… Le indagini sono in corso”.

La vicequestore Colasuonno combatte insieme a una squadra di esperti investigatori una guerra silenziosa contro la criminalità organizzata. “Una poliziotta di tutto rispetto”, dice un uomo d’onore in un’intercettazione. Lontana dai tappeti rossi e dai riflettori, la “poliziotta di Andria” non nasconde la sua preoccupazione di fronte a una città che assomiglia sempre più al Far-West. “Per questo ho deciso di rilasciare la mia prima intervista. Dopo l’ultimo agguato in pieno centro, non c’è stata nessuna presa di posizione da parte della cittadinanza. La gente ha paura di manifestare, teme ritorsioni”. A Cerignola i ladri controllano le guardie. Le vedette dei boss ascoltano anche i respiri dei poliziotti. “Noi sappiamo che siamo monitorati dagli uomini della mafia: prima di una perquisizione o di una operazione, l’ultimo briefing lo facciamo a Foggia…”, rivela la vicequestore.

L’ingerenza e il condizionamento delle locali organizzazioni criminali si è fatto sentire anche nella politica, al punto che la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese lo scorso anno ha ottenuto lo scioglimento del consiglio comunale e affidato l’amministrazione ai commissari prefettizi. Il sindaco “cacciato” è Franco Metta, lista civica di centrodestra, noto avvocato che difende le più pericolose famiglie mafiose.

Lui non l’ha mandata giù, si sente una vittima e dal giorno della defenestrazione lancia i suoi messaggi su Facebook. “Ci tempesta con le sue critiche virtuali, spara a zero, offende: sono stata additata come la manettara che avrebbe pure ossessioni sessuali, addirittura nei suoi confronti”, denuncia la vicequestore. La netta spaccatura fra le forze dell’ordine e l’amministrazione di Metta è evidenziata nella relazione della ministra Lamorgese che parla di una “complessa rete di amicizie, frequentazioni tra amministratori comunali, dipendenti dell’Ente e soggetti appartenenti o contigui a famiglie malavitose” che “avrebbero beneficiato di favori nell’esercizio di attività commerciali”. Come spiega Colasuonno, “una volta l’ex sindaco contestò un’operazione interforze per il contrasto all’abusivismo commerciale. Prese le difese di alcuni pregiudicati. Mi disse di soprassedere, mettendomi a disagio”. L’ex primo cittadino celebrò le nozze di un pluripregiudicato e partecipò al banchetto nuziale insieme a esponenti della criminalità, pubblicando poi le immagini dell’evento sui social network. “Partecipò anche all’inaugurazione del bar della figlia di un noto pregiudicato, in quella occasione la foto è accompagnata dalla frase: ho avuto il piacere e l’onore…”, dice la vicequestore. “Mai vista un’alzata di testa della popolazione, nessuno si ribella, nessuno collabora. Ogni tanto qualche lettera anonima inviata da chi vuole eliminare il suo avversario dal mercato della criminalità organizzata. Mai qualcuno che denunci un’estorsione. Eppure tutti pagano il pizzo. Cosa pretendono dalle forze dell’ordine? Mica abbiamo la bacchetta magica “.

Cerignola è famosa anche per le bande specializzate in assalti ai mezzi blindati e caveau in tutta Italia. “Una volta – racconta Colasuonno – mi capitò di sentire: ‘Speriamo che facciano un altro assalto al portavalori così le loro mogli verranno a spendere da me’. Era la proprietaria di una nota boutique”.

Sull’audio pro-Berlusconi ora indagano i pm di Roma

La vicenda dell’audio di Amedeo Franco , il giudice relatore della sentenza di Cassazione che nel 2013 ha condannato Silvio Berlusconi a 4 anni per frode fiscale nell’ambito del processo sui diritti tv di Mediaset, arriva in Procura a Roma. I pm capitolini faranno approfondimenti sulla registrazione in cui si sente il giudice parlare di “plotone d’esecuzione”, di “porcheria” e “condanna a priori”. Le indagini verranno disposte nell’ambito di un fascicolo che sarà aperto dopo la denuncia, depositata ieri mattina, da Antonio Esposito, il presidente della sezione feriale che ha emesso quel verdetto. Il fascicolo quindi parte da altro. Il giudice ora in pensione infatti ha denunciato per diffamazione il direttore del quotidiano Il Riformista, Piero Sansonetti, per alcune affermazioni fatte durante una puntata di “Quarta Repubblica”, la trasmissione in onda su Rete 4 diretta da Nicola Porro.

Era il 6 luglio scorso. “Noi sappiamo oggi che la magistratura italiana è marcia. – ha detto Sansonetti – (…) I pubblici ministeri e i giudici spesso si mettono d’accordo. Gli imputati sono travolti. Le garanzie non ci sono. Moltissimi processi sono truccati. Tutta la magistratura italiana è sotto accusa. E purtroppo (…) i grandi giornali italiani ne parlano poco, ma è una tragedia perché lo stato di diritto è stato travolto dalle trame della magistratura italiana”. Poi aggiunge: “E quella del giudice Esposito fa parte, sta dentro questa storia”, frase questa finita nella denuncia di Esposito. Come pure quando il giornalista dice: “Il giudice Esposito è uno scandalo vivente, così come uno scandalo vivente sono decine di altri giudici”.

Per questo il magistrato ha denunciato per diffamazione Sansonetti chiedendo ai pm anche se vi siano gli estremi per contestare il reato di vilipendio dell’ordine giudiziario. E questa è la denuncia di Esposito. Per verificare però la diffamazione, si ragiona in Procura, bisogna capire anche l’antefatto, la circostanza alla quale si riferiscono le parole di Sansonetti. E quindi quell’audio che da giorni una certa stampa innalza a “prova” per riabilitare Berlusconi e che è stato depositato dalla difesa del leader di Forza Italia a sostegno del ricorso davanti alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo.

Come noto, in quella registrazione del 6 febbraio 2014, il giudice Amedeo Franco, deceduto un anno fa, rinnega la sentenza che lui stesso aveva firmato. “I pregiudizi per forza che ci stavano (…) Si poteva cercare di evitare che andasse a finire in mano a questo plotone di esecuzione, come è capitato, perché di peggio non poteva capitare”, dice Amedeo Franco portato al cospetto dell’ex premier da Cosimo Ferri, leader storico della corrente Magistratura indipendente, in passato sottosegretario alla Giustizia del governo di Enrico Letta e ora in Italia Viva.

Perché Franco si presentò dall’ex premier? Chi avviò la registrazione? Perché le dichiarazioni del giudice sono state rese pubbliche integralmente solo un anno dopo la sua morte? C’è qualcosa ancora di ignoto dietro quelle registrazioni?

L’inchiesta penale, in futuro, potrà trovare le risposte.

 

Napoli, azienda sotto inchiesta vince maxi-gara in Lombardia

Il filo che collega e accomuna la Lombardia del leghista Attilio Fontana e la Campania del democrat Vincenzo De Luca nella gestione dell’emergenza Covid-19 passa attraverso un ben avviato centro diagnostico privato di Casalnuovo di Napoli, l’Ames diretto dal dottore Antonio Fico. È il laboratorio che poche settimane fa ha trionfato nella gara-accordo quadro con procedura d’urgenza per analizzare 20mila tamponi rinofaringei al giorno, per sei mesi, per le aziende sanitarie della Lombardia. Un appaltone da 72 milioni di euro concepito a metà maggio, con il fuoco dell’emergenza ancora bollente. Ames è arrivata prima in graduatoria con un’offerta al ribasso di quasi il 51% – 29 euro e mezzo a tampone su una base d’asta unitaria di 60 euro – nonostante molte imprese concorrenti si fossero proposte a prezzi inferiori (una era disponibile a processarli a poco più di 10 euro). Merito di un elevatissimo punteggio tecnico, che ha certificato l’altissima qualità “del materiale tecnico prodotto” in sede di offerta, secondo l’analisi della commissione aggiudicatrice. Un punteggio che nella compilazione della graduatoria finale ha pesato di più di quello economico. Secondo quanto risulta al Fatto Quotidiano, Ames ha i mezzi e le strutture che le consentirebbero, teoricamente, di evadere da sola tutti i quantitativi ordinati dalla Lombardia senza bisogno di scorrere la graduatoria dal secondo al sesto posto. Il 9 luglio l’Azienda socio-sanitaria territoriale di Bergamo ha iniziato a ordinare al centro forniture per poco più di mezzo milione di euro. Segno che la convenzione tra l’Aria (l’azienda regionale per gli acquisti della Lombardia) e il centro napoletano, protocollata il 23 giugno e messa sul sito a inizio luglio, è diventata operativa.

Ames, che processa tamponi che arrivano via treno fornendo i risultati entro 24 ore, è la stessa impresa che ad aprile, nella fase acuta della pandemia, “ha solo fornito i suoi spazi e un aiuto, un supporto scientifico per aiutare l’Istituto Zooprofilattico di Portici a processare tamponi per la Regione Campania”, come ribadisce al Fatto Quotidiano il dottore Fico. Una collaborazione che, secondo le ricostruzioni delle pagine napoletane de La Repubblica, è stata compiuta senza essere preceduta da un bando pubblico o una formalità scritta. O meglio, un contratto tra Ames e Istituto Zooprofilattico c’era: ma riguardava circa 10mila test di sangue e urina per un piano di monitoraggio sulla terra dei roghi, importo di circa 750mila euro, gara di dicembre, firma il 25 marzo. Vergata più o meno negli stessi giorni in cui iniziava la collaborazione per i tamponi “gratuita e disinteressata”, hanno sostenuto i manager coinvolti. Collaborazione che consentì all’Istituto di aumentare i tamponi giornalieri da circa 50 a quasi 700. Solo in giorni successivi la Soresa, la centrale acquisti della Regione Campania, ha riaperto una manifestazione d’interesse – precedentemente accesa solo per 22 ore – per ipotizzare di allargare anche ai privati l’analisi del tamponi. Prima quattro aziende, poi altre 21, hanno dimostrato il possesso dei requisiti richiesti, tra le quali l’Ames. Ma nessuna ha poi lavorato con la Regione Campania, che ha continuato a effettuare i tamponi attraverso la dozzina di laboratori ricavati in ospedali e strutture pubbliche.

Sulle spigolature di questa vicenda la procura di Napoli guidata da Giovanni Melillo ha ordinato un’inchiesta e l’ha affidata al pm ‘reati pubblica amministrazione’ Mariella Di Mauro. Il fascicolo è tuttora aperto. Nel frattempo Ames è ‘emigrata’ al Nord. “Cosa c’è di strano? Non è la prima volta”, sorride Fico. “Siamo un’eccellenza di livello nazionale”.

Palazzo di Londra: un gioco di specchi nasconde il denaro

Più che un immobile di pregio, è il labirinto degli specchi. Il palazzo di Londra acquistato dal Vaticano con lo zampino di due finanzieri, Raffaele Mincione (in foto) e Gianluigi Torzi, sembra sempre più uno di quei padiglioni delle fiere in cui chi entra è destinato a perdersi, a ritrovarsi, a perdersi ancora. In attesa di trovare l’uscita, Mincione ieri ha dovuto consegnare i suoi cellulari e tablet alle autorità vaticane che indagano sulla vicenda e che hanno già addirittura arrestato Torzi, rimasto chiuso per una decina di giorni nella cella vaticana con vista su San Pietro. Nei giorni precedenti, gli avvocati di Mincione, Luigi Giuliano e Andrea Zappalà, per evitare la stessa sorte al loro assistito, avevano depositato una memoria di 27 pagine e 39 allegati. Per dimostrare due cose: che tutte le operazioni con soldi del Vaticano realizzate dal finanziere italiano basato a Londra sono state corrette; e che tutte sono state concordate con la Segreteria di Stato. Lo dimostrano la “procura” firmata il 22 novembre 2018 da monsignor Edgar Peña Parra, sostituto per gli Affari generali della Segreteria di Stato, e la “Comfort Letter” del 23 novembre (riprodotta in pagina) con firma di monsignor Alberto Perlasca, capo dell’Ufficio amministrativo della Segreteria di Stato. In quei giorni avviene una svolta. Già nel 2014 il Vaticano aveva cominciato a far gestire soldi a Mincione. Almeno 155 milioni, usati (al 55%) per acquistare l’ormai famoso immobile in Sloane Avenue, a Londra, e per il resto (45%) impiegati in investimenti finanziari in azioni e obbligazioni. Un buon “bilanciamento tra rischio immobiliare e rischio azionario e obbligazionario”, secondo la memoria depositata.

Un gioco di prestigio per far sparire soldi, secondo i promotori di giustizia Giampiero Milano e Alessandro Diddi che esercitano l’accusa per il Vaticano. Nel labirinto degli specchi, questi lamentano perdite milionarie e avanzano accuse, contestate a vario titolo, per reati come estorsione, peculato, truffa aggravata e autoriciclaggio. Mincione risponde allineando documenti e grafici che proverebbero la regolarità delle sue operazioni. Fino, appunto, alla svolta del novembre 2018, provata dalle due lettere di Peña Parra e Perlasca: il Vaticano estromette Mincione, accusato di far perdere soldi alla Santa Sede, e lo sostituisce con Torzi, che opera attraverso la società lussemburghese Gutt sa. Mincione scarica su Torzi le responsabilità per quel che è successo dopo. Torzi potrebbe aver detto tutt’altro agli inquirenti vaticani durante la sua detenzione, ma questo ancora non lo sappiamo. Sappiamo che cosa dicono i promotori di giustizia, i pm del Papa: Mincione e Torzi insieme sono accusati di aver fatto sparire centinaia di milioni dell’Obolo di San Pietro. Almeno 18 milioni li ha persi Mincione investendo in titoli di società in cui aveva interessi diretti (Bpm, Carige, Fiber, Retelit…). Quanto al palazzo di Londra, nel labirinto ci si perde. Vale 260 milioni ma è costato 360, secondo i promotori. È invece un buon investimento, secondo Mincione, perché è costato 324 milioni, ma oggi ne vale 360 e rende in affitti 15 milioni l’anno, con cui il Vaticano paga comodamente i 5 milioni annui del mutuo concesso da Credit Suisse. Dietro questi protagonisti finanziari s’intravvede il grande scontro vaticano: il cardinale Giovanni Becciu, che aveva scelto Mincione, contro monsignor Peña Parra che gli aveva preferito Torzi; e i promotori di giustizia contro gli uni e gli altri. Sopra tutti, papa Francesco, deciso a uscire dal labirinto degli specchi, costi quel che costi.

Ior: scandali, soldi, misteri e la guerra di Francesco

Chiudere le porte dello Ior e riaprire quelle del Paradiso. Sarà vero? Riuscirà papa Francesco a rimediare ai molti peccati commessi dalla banca vaticana, disfacendone le trame, i cristalli, il salone di marmo che si specchia dentro al cerchio magico del Torrione Niccolò V, dove i santissimi soldi transitano da ottant’anni in un rumoroso silenzio, sgocciolando delitti, tradimenti e sangue?

Tanti gironi capovolti ne hanno segnato la storia, il più profondo inciso da Paul Marcinkus, atletico di spalle e di sguardo, che regnò vent’anni – dal 1969 all’89, anno di molti portenti – dentro la sua nuvola di sigari Avana, trafficando in miliardi di dollari, conti sempre cifrati di correntisti anonimi, poteri oscuri, massoneria italiana e americana, dittatori sudamericani, banche tropicali, amabili signore del jet set, campi da golf.

Nato a Cicero, quartiere di Chicago, due isolati dal villone di Al Capone, figlio di un lavavetri lituano, Paul Casimir Marcinkus, detto Chink, detto Il Gorilla, scalò la vita in clergyman, Rolex al polso e scarpe fatte a mano. Fu guerriero di due papi, l’esangue Paolo VI che se ne invaghì nominandolo vescovo e principe della santa cassaforte dove non sono ammessi assegni, solo oro, contante e bugie. E poi Karol Woytila, che lo arruolò nella sua guerra planetaria contro il comunismo, mandandolo a finanziare Solidarnosc, la piccola leva scovata nei cantieri di Danzica, con cui avrebbe sollevato l’intero mondo d’Oltrecortina.

Tra i due papi – già diventati santi grazie alle impazienze del marketing vaticano – la sottile interferenza di papa Luciani, quello del “Dio è più mamma che padre”, che il trentaduesimo giorno del suo papato stabilì l’urgenza di rimuovere Marcinkus dal suo vascello pirata, ma che purtroppo fu rimosso per sempre nella notte del suo trentatreesimo giorno, sepolto senza autopsia, con coda infinita di sospetti e cattive leggende sui veleni che assomigliano a infarti, e infarti che assecondano la cattiva provvidenza.

Nei sui vent’anni di presidenza Ior, non c’è scandalo italiano, o mistero, come la scomparsa di Emanuela Orlandi, dove prima o poi non compaia la sua fuoriserie nera, con l’autista al volante e la sacca delle mazze da golf nel portabagagli. Sta parcheggiata al centro della bancarotta del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi che a forza di finanziare i generali argentini, tramite la P2 di Licio Gelli, sbrigare il traffico di tangenti socialiste e democristiane – compresa la maxi tangente Enimont, 108 miliardi in certificati del tesoro portati dal giovane Luigi Bisignani, figlioccio di Andreotti, pupillo di Gianni Letta – e infine riciclare i soldi dei diavoli di Cosa nostra, chiude la sua parabola a Londra, appeso al Ponte dei Frati neri. E la coda della sua Mercedes 500 Sl, transita dentro l’avventura dell’altro campione della finanzia andreottiana, Michele Sindona, patron della Banca Privata, oltre che titolare dei flussi del denaro mafioso che navigavano attraverso lo Ior fino alle isole Cayman, Barbados, Antigua per ritornare indietro immacolati.

Avventura che costò la vita a Giorgio Ambrosoli che per conto del tribunale di Milano ricostruiva la segreta contabilità di quel gigantesco scandalo, ucciso da un killer venuto apposta dall’America, ingaggiato da Sindona. A sua volta liquidato nel carcere di Voghera, da un caffè avvelenato, altro dettaglio offerto dell’identica cattiva provvidenza.

E pensare che lo Ior era nato a fin di bene. Voluto da Pio XII nel cupo anno 1942, mentre il tallone di ferro del Terzo Reich ancora si estendeva fino a Stalingrado. Diventa operativo a fine guerra, quando il primo presidente, il laico Bernardino Nogara, trasforma le piccole monete della fede raccolte dalle migliaia di cattedrali e parrocchie d’ogni latitudine, in grandi investimenti immobiliari del Vaticano, un migliaio di palazzi a Roma, un milione nel mondo.

La minuscola Città del Vaticano, 0,44 chilometri quadrati, 900 abitanti, moltiplica il suo potere, protetta dai riverberi millenari della croce, più prosaicamente dalla politica al di qua del Tevere che in base ai Patti lateranensi le concede tutti gli onori dello Stato estero: 180 ambasciate accreditate, una poltrona in tutte le principali istituzioni transnazionali, a cominciare dall’Onu. Nessun onere. Lo Ior viaggia dentro il medesimo privilegio. E sa come sfruttarlo, rendendosi impermeabile a tutte indagini, a tutte le rogatorie.

Quando Giovani Paolo II decide di rimuovere il suo amico Marcinkus dal suo stremato vascello, alla vigilia degli Anni Novanta, gli scandali non finiscono. Tocca ai nuovi rampanti affacciarsi nel suo unico salone, protetto da nove metri di mura esterne, con un unico sportello e un unico bancomat che offre i suoi servizi anche in latino. Entrano in scena i rinnovati eroi dell’era berlusconiana, la cricca dei costruttori romani ingaggiati dal re della Protezione civile Guido Bertolaso ai tempi del G8 alla Maddalena, bruciati 400 milioni di euro, e poi a L’Aquila, passerella planetaria sulle macerie e i morti. Imprenditori come Diego Anemone, quello del Salaria Sport Village, e Angelo Balducci, gentiluomo di sua santità, tutti titolari di conti allo Ior, proprio come Andreotti ai tempi suoi, o l’incredibile Luciano Moggi, estimatore ricambiato del cardinal Ruini.

Poi tocca ai Giampiero Fiorani, presidente della Popolare di Lodi che confesserà i versamenti in nero nelle casse vaticane. Siamo ai tempi dei “furbetti del quartierino”, a cui seguono quelli dei Vatileaks, rivelazoni sulla gestione e il riciclaggio dei soldi, coinvolto nelle indagini il cardinale Tarcisio Bertone, quello dell’attico da 750 metri, con traffico di documenti segreti, e un colpevole scovato a tempo di record, un tale Paolo Gabriele, niente meno che il maggiordomo, come nei gialli da due lire. Il quale non chiude il danno, ma lo spalanca, fino alle impensabili dimissioni di Benedetto XVI: “Gli eventi hanno portato tristezza nel mio cuore”.

Così che quando papa Francesco si affaccia per la prima volta dai sacri palazzi, 17 marzo 2013, augurando “buon pranzo!”, sta parlando a tutti, tranne che agli gnomi dello Ior. Da allora vara una riforma all’anno dell’Istituto, liquida i presidenti, cambia i consigli di amministrazione, ma neanche l’elogio della povertà, né la santa Amazzonia fanno il miracolo. Probabile che fino a quando non verranno smantellate le mura, il sacro Torrione resterà la prigione che era nel Quattrocento, ma con un unico prigioniero, il Vaticano.

Venaus, decade il sindaco: “Un complotto”

Un presunto complotto tramato alle spalle del sindaco. Una manovra a sorpresa che ha ribaltato il consiglio comunale, facendo cadere il primo cittadino. A pochi mesi dal voto del prossimo autunno, è bufera a Venaus, piccola roccaforte No Tav della Val di Susa, paese di meno di mille anime dove il sindaco uscente, Avernino Di Croce, (74 anni, ex Pci, ex militante di Italia dei valori) ha appreso con una lettera – firmata dalla maggioranza dei consiglieri – di essere decaduto dal suo ruolo. “Una coltellata a tradimento”, secondo Di Croce, che dopo nemmeno un anno di mandato dice amareggiato: “Di solito i consigli comunali si sciolgono per mafia”. Invece, in questo caso, secondo Di Croce, si tratterebbe d’altro.

Il prossimo autunno si vota. E qualcuno mormora che sarebbero stati i Durbiano (Nilo, ex sindaco che per 15 anni amministrò il paese, e il giovane nipote Erbin, vicesindaco che ha affiancato Di Croce) a tramare le fila del ribaltone. Accuse respinte dai Durbiano, a partire da Nilo, che spiega: “Sono amareggiato da quanto accade. Ero stato io a scegliere Di Croce come candidato sindaco. Ho avuto problemi di salute, che sono migliorati e non ho alcuna intenzione di impegolarmi in questa situazione. Posso solo dire che ho cominciato a ricevere lamentele su Di Croce a settembre. A ottobre avevo consigliare a tutti di non litigare. Venaus è un paese che ha bisogno di tranquillità e di una presenza costante sul territorio”.

Secondo alcuni valligiani, il fatto che Di Croce, durante la pandemia, non si sarebbe “mai fatto vedere” in paese, avrebbe alimentato lo scontento verso il primo cittadino. Ma per Di Croce, queste motivazioni sono pretestuose. Ieri sera ha salutato i suoi concittadini in un’assemblea pubblica da lui stesso indetta. “Vi ringrazio per avermi accolto, sono forestiero e volevo portare una ventata d’aria nuova”, ha esordito, aggiungendo: “Pensavo che fosse una cosa positiva, dopo 15 anni di mandato da parte della stessa persona”.

Non è stato caso così. La cosa che ora indigna di più l’ex sindaco “forestiero” è la modalità con cui è stato fatto cadere. “Credo che davvero gatta ci cova. Qualcuno – ha detto – avrà pensato che non si poteva rischiare di perdere tempo per la convocazione di un Consiglio comunale straordinario, chiarificatore, democratico e trasparente. Era necessario far cadere l’amministrazione prima del 27 luglio, in modo da poter andare al voto il prossimo 20 settembre, magari con la lista dei candidati e del candidato sindaco già pronta, sin dal momento del distacco della spina”.

Ma perché Di Croce non era più gradito? Qualcuno parla di problemi di carattere. Altri di assenza protratta per troppo tempo a causa del Covid. Per altri ancora sarebbe stato troppo attento ai conti: avrebbe detto “no” alla costruzione di una piazza monumentale da 600 mila euro, “no” alla realizzazione di un polo medicale, perché non ci sarebbero state risorse a bilancio. Quel che stupisce, in questa guerra intestina che si protrae da mesi nel piccolo paese, è che sulla Tav – una delle più grandi e spinose questioni nazionali – amici e nemici invece siano tutti d’accordo: nessuno la vuole. Si litiga solo sul resto, piccole o grandi beghe non sempre comprensibili per un osservatore esterno.

Ilva, il governo la vuole green (e fa felice anche Emiliano)

Ogni giorno, com’è noto, ha la sua pena, alcuni ne hanno due: ieri, mentre il governo provava a chiudere la querelle Autostrade, gli è ricaduta addosso l’Ilva. Colpa, per così dire, di un nuovo piano – che poi non è neanche nuovo – di Stefano Patuanelli: ne ha parlato ieri Repubblica e il ministro dello Sviluppo grillino ha in sostanza confermato. Addio all’inquinante area a caldo (che va a carbone), a Taranto si produrrà acciaio solo da forni elettrici a gas alimentati con materiale pre-ridotto con l’idea – nel lunghissimo periodo – di farli andare a idrogeno: è la famosa “decarbonizzazione” cara a Michele Emiliano, ai 5 Stelle e ai movimenti ambientalisti.

Curiosamente, a rilanciarla è stato Domenico Arcuri, commissario all’emergenza Covid e ad di Invitalia , la società pubblica destinata a intervenire sull’ex Ilva, che ora tratta direttamente con ArcelorMittal, il colosso che ha “in affitto” l’ex siderurgico dei Riva. Arcuri, già bestia nera dei grillini, che fecero di tutto per non rinnovargli l’incarico, ora è una sorta di consulente di Di Maio & C.

Altrettanto curiosamente questa proposta è l’innesco perfetto per una possibile alleanza alle prossime Regionali tra i grillini e il governatore uscente targato Pd, che nei sondaggi va così così. Il ministro per gli Affari Regionali, Francesco Boccia, vicino a Emiliano, in una recente intervista al Fatto ne aveva fatto l’esplicito centro delle sue avance ai 5 Stelle: “Aiutate Michele: così decarbonizziamo l’Ilva”. Pure il segretario dem Nicola Zingaretti s’è scoperto verdissimo: “La strada indicata è quella giusta: un grande polo siderurgico per l’acciaio green” da realizzare “con la stessa maggioranza” che già s’è occupata di Aspi e Alitalia (tanto per essere chiari).

La proposta di cui sopra, però, ha due grossi problemi: il primo, politico, è il rifiuto a ritirarsi dalla corsa – nonostante pressioni crescenti – di Antonella Laricchia, candidata dagli iscritti M5S; il secondo sono le migliaia di esuberi che sarebbero innescati dalla chiusura dell’area a caldo, una buona metà dei 10.700 dipendenti attuali del gruppo, a cui vanno aggiunti i 1.800 rimasti in carico alla struttura commissariale e destinati alle bonifiche (mai partite). Non a caso tutti i sindacati, preoccupati e irritati, hanno chiesto un incontro urgente col governo: potrebbe tenersi questo fine settimana, quando anche Arcuri punta ad avere idee più precise rispetto al mero titolo “de-carbonizzazione”.

Non bastasse, c’è il buco nero ArcelorMittal: non è ancora chiaro, infatti, se la multinazionale resterà o prenderà la porta come pare intenzionata a fare. Invitalia e il ministero dell’Economia preferirebbero la sua permanenza in Italia, molti nel governo e nella maggioranza premono per lasciarla libera in cambio di soldi: i 500 milioni di penale già previsti dall’accordo extra-giudiziale di marzo e altrettanti in dotazioni di magazzino potrebbero bastare. A quel punto la mano pubblica coinvolgerebbe altri marchi dell’acciaio: l’italiana Arvedi già produce coi forni elettrici; l’indiana Jindal salta sempre fuori (ma è già in ritardo coi suoi programmi a Piombino).

L’idea del governo – che comporta la rinuncia al ciclo integrato dell’acciaio – pare far proprie le stime pessimistiche di Mittal sul mercato mondiale: la produzione di Ilva dovrebbe dunque restare in una prima fase sotto i 4 milioni di tonnellate (oggi è a 3,5) e crescere a regime vicino ai 6 milioni (il piano attuale fissava l’obiettivo a 8). Per trasformare Taranto, comunque, servono soldi e tempo: almeno 2 miliardi di euro solo per gli investimenti (più le perdite da assorbire) e almeno due anni per far partire i forni elettrici. Il processo, nelle intenzioni, dovrebbe giovarsi dei soldi del Recovery Fund, tra le cui priorità – quando e se vedrà la luce – ci saranno gli investimenti green. Per questo al momento è stata individuata solo una dotazione iniziale di mezzo miliardo circa.

Il nodo vero, però, sono gli esuberi: i forni elettrici richiedono meno personale, tanto più che la produzione verrà tagliata. Lasciare a casa circa 7 mila persone però (i 1.800 già a bagnomaria e circa 5 mila “nuovi”) non sarà indolore: il costo economico è notevole, quello elettorale forse di più.

Mes, Italia Viva spara a salve

L’incidente non arriva, non ci sono i numeri e l’aria per botole per il governo. Ma Italia Viva ha bisogno di pungere per ricordare che esiste: e allora, dopo aver chinato il capo su Autostrade in Cdm, in Senato batte un colpo sul Mes votando la risoluzione di +Europa e di Emma Bonino a favore del fondo salva stati. Un colpo a salve, nel giorno in cui la maggioranza schiva ogni rischio in Parlamento, votando risoluzioni innocue sulle comunicazioni del presidente del Consiglio Conte, in Aula in vista del Consiglio europeo di domani.

L’importante è saltare a piè pari la mina, il Mes: e infatti nei testi approntati dai giallorosa, con il consenso anche di Iv, non c’è alcun riferimento esplicito al fondo. Piuttosto si esorta il governo ad attivare già quest’anno il Next generation Ue, già noto come Recovery Fund, perché di quei soldi c’era e c’è assoluto e urgente bisogno. Invece il Mes è tabù, perché su quello Pd e Movimento sono ancora lontanissimi. Così Conte si guarda bene dal citarlo nei suoi due interventi alle Camere. Tanto il suo obiettivo principale è il Recovery Fund, da portare a casa “senza compromessi al ribasso”. Deve essere la stessa idea del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che nel tradizionale pranzo pre-Consiglio con Conte e i ministri al Quirinale lo mette in chiaro: “Il vertice europeo sarà decisivo”. E non saranno accettabili “battute d’arresto o marce indietro” sul percorso europeista degli ultimi mesi.

In Parlamento la maggioranza vota compatta le sue risoluzioni, con i voti anche di Iv. Ma in Senato i renziani votano volentieri anche quella della Bonino pro-Mes, che ai 5Stelle lancia una profezia che sa di anatema: “Penso che il Movimento cambierà idea anche sul fondo salva Stati”. E le recenti, ambigue dichiarazioni di alcuni grillini, come Carlo Sibilia, rendono meno ardita la previsione. Nell’attesa la maggioranza respinge il testo della Bonino, appoggiato dai 15 renziani. Forza Italia invece, pur favorevole al Mes, la ignora. I forzisti come spesso accade mostrano generosità nei confronti del governo giallorosa, e si limitano a votare la risoluzione del centrodestra, un altro testo insapore che non cita il Mes, inviso a Lega e Fratelli d’Italia.

In questo scenario, fa rumore soprattutto l’intervento del capogruppo del M5S Gianluca Perilli: “Il senatore Salvini dice che abbiamo fatto un bel regalo ad Autostrade. Ma il regalo non l’abbiamo fatto noi ad Autostrade, piuttosto la famiglia Benetton alla Lega quando ha donato 150.000 euro (e non solo alla Lega ma anche a Fratelli d’Italia)”. Ignazio La Russa di FdI s’infuria, Perilli viene subissato di insulti. Urla da stadio, poi il capogruppo grillino riprende la parola: “Ho citato un articolo del Fatto, il finanziamento era per il centrodestra, ma all’epoca ne faceva parte An, non FdI”. Sipario.

Renzi vuole altre poltrone: stop al Risiko commissioni

Sulla conclusione della partita c’è un cauto ottimismo: dopo giorni di negoziati, oggi torneranno ad incontrarsi i capigruppo di maggioranza per trovare l’accordo sulle presidenze delle nuove commissioni parlamentari. Sul tavolo tra Camera e Senato 28 poltrone. Più una su cui negli ultimi giorni ha preso ad insistere con gli alleati Matteo Renzi, che ha messo gli occhi sull’Autorità di regolazione dei Trasporti.

Le sue richieste – abbinate al timore che procedere al rinnovo delle commissioni possa ripercuotersi sul voto sullo scostamento di bilancio previsto per la prossima settimana – hanno consigliato ai partiti di maggioranza una ulteriore pausa di riflessione. Anche a costo di andare incontro alle critiche dell’opposizione, che ha cominciato a gridare al “solito carosello” (il copyright è del forzista Giorgio Mulè) e all’ennesima “figuraccia” (a sentire Francesco Lollobrigida di Fratelli d’Italia).

In realtà l’accordo pare alla portata, come conferma il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà che rassicura: “Si chiude a luglio, non si va a settembre”. Lo slittamento insomma sarebbe un rinvio tecnico per chiudere gli ultimi punti. Quali? Alla Camera la maggioranza ha già trovato un accordo di massima a cui si è giunti però scombinando lo schema inizialmente ipotizzato per il Senato.

A Montecitorio i 5 Stelle otterranno 7 commissioni, con la conferma della Affari costituzionali e della Giustizia, presiedute da Giuseppe Brescia e Francesca Businarolo. Dovranno cedere invece la Esteri (oggi guidata da Marta Grande) destinata al Pd che ha ipotecato anche la Lavoro, le Attività produttive, Ambiente, oggi tutte a guida leghista. Come pure la Bilancio: Italia Viva l’aveva pretesa per sé, ma ha dovuto cedere ai dem accettando in cambio la presidenza della commissione Finanze (in pole Luigi Marattin) e ottenendo pure la Trasporti dove il nome in corsa è quello di Raffaella Paita.

Ora il fatto è che l’accordo sulla Camera ha creato, diciamo così, uno spariglio delle carte sul tavolo per il Senato, dove a Italia Viva, a questo punto, non interessa più la commissione Finanze per non fare il doppione e quindi punta alla Lavoro che però è del Movimento 5 Stelle (e vorrebbe mantenerla). Il risultato è che ora il Pd reclama la Finanze (oggi presieduta dal leghista Alberto Bagnai) per l’ex presidente della regione Abruzzo Luciano D’Alfonso e non si accontenta più, com’era nei piani iniziali, dell’Agricoltura. Che è una presidenza che non vuole nessuno se il prezzo è di rinunciare a un’altra casella più appetibile. Sicuramente non la reclama Italia Viva che già presidia le Politiche agricole al governo con il ministro Teresa Bellanova.

Insomma alcuni tasselli che coinvolgono M5S, Pd e Iv vanno ancora messi a posto. E LeU? Alla Camera è rimasta a bocca asciutta e dovrebbe con facilità ottenere la presidenza della commissione Giustizia a Palazzo Madama per Pietro Grasso.

In questo incastro micidiale rimarrebbero comunque da assegnare altri posti, specie quelli dei vicepresidenti che potrebbero servire a compensare gli scontenti. Che al Senato possono fare la differenza specie rispetto a votazioni delicate: questa settimana la maggioranza è andata sotto più volte in commissione, ma non è successo nulla. La prossima settimana servono, ma in aula, 161 voti sullo scostamento di bilancio e non se ne può perdere nemmeno uno. E così è altamente probabile che il voto sul rinnovo delle commissioni, che crea sempre fibrillazioni tra alleati e dentro i partiti, avvenga in un momento successivo allo scrutinio su cui il governo rischia grosso.

 

Liguria, Sansa è il candidato dei giallorosa Italia Viva da sola

Ormai è ufficiale: il candidato di Pd-M5S e sinistra in Liguria sarà il giornalista del Fatto Ferruccio Sansa. Sarà lui a sfidare il governatore uscente Giovanni Toti che per tutta la giornata di ieri ha martellato il governo sull’accordo raggiunto su Aspi: “Tanto rumore per nulla”. La situazione sul candidato giallorosa, in stallo da cinque settimane a causa del veto dei renziani e degli uomini del Pd vicini a Claudio Burlando, si è sbloccata durante la segreteria regionale del Pd di martedì sera. In quella sede il segretario dem Simone Farello, in vista della riunione degli alleati, ha ottenuto il mandato a “tenere tutti insieme, dal M5S a Italia Viva” con il terzo nome di Paolo Bandiera. Ma, visto il “no” secco del M5S, la scelta è ricaduta sul candidato più in linea con l’accordo raggiunto a marzo tra Andrea Orlando e Vito Crimi e poi sostenuto dai militanti grillini sulla piattaforma Rousseau: Ferruccio Sansa. La candidatura del giornalista però non va giù ai renziani, rappresentati in Liguria da Raffaella Paita, che alla fine dovrebbero andare da soli, come in Veneto e in Puglia: se sembrava scontato il sostegno al professore di Ingegneria Aristide Massardo, nelle ultime ore sono risalite le quotazioni della giovane Elisa Serafini, ex assessore comunale di Genova che aveva dato le dimissioni denunciando presunte “pressioni” per convincerla a finanziare con soldi pubblici una mostra sull’acciaio. Una cosa è certa: i renziani non sosterranno Sansa. Nella riunione di ieri sera hanno provato a rimettere sul tavolo il nome di Massardo ma la sinistra ha fatto opposizione minacciando l’uscita dalla coalizione.

Decisiva, per sbloccare la trattativa, sarebbe stata la caduta del veto su Sansa da parte di quella parte del Pd genovese vicina all’ex governatore Burlando, molto criticata dal giornalista del Fatto, e dalla volontà del Pd nazionale di evitare un remake della scissione della sinistra di Sergio Cofferati che nel 2015 spalancò le porte al centrodestra di Toti. Non ci dovrebbe essere invece il ticket con Massardo, ventilato nelle ultime 48 ore: il professore di Ingegneria a Genova ha precisato che non accetterà “eventuali offerte di posizioni o ruoli subalterni” viste le “differenze politiche” con Sansa. Quella del giornalista sarà una sfida in salita a due mesi dalle elezioni: “Abbiamo già perso troppo tempo – dice il leader della sinistra, Gianni Pastorino – ora pancia a terra per provare a vincere contro Toti”. Il Pd è convinto che l’alleanza in Liguria si porterà dietro l’intesa con il M5S anche nelle Marche.