Destra e tutori del Sistema: sbiancati gli United Colors

La trattativa su Autostrade è durata quasi due anni ed è passata in mezzo ad altrettanti governi. A far da legame, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che più di tutti mette la faccia sul risultato. Nel giudicare chi ha vinto e chi ha perso in questa partita è necessario partire proprio da come è cambiato il suo ruolo.

Chi ha vinto Il premier Giuseppe Conte porta a casa il ritorno dello Stato nella gestione di autostrade. Aveva minacciato la revoca, resa impossibile dalla contrarietà degli alleati. La soluzione finale gli consente comunque di esultare perché i Benetton hanno accettato le condizioni dello Stato. Non a caso Conte incassa elogi dal Pd e da Alessandro Di Battista, oltre che dal M5S di governo.

Tra i 5 Stelle può ritenersi soddisfatto Luigi Di Maio. Due anni fa la battaglia sulle concessioni era iniziata proprio con lui alla guida del Movimento. L’estromissione dei Benetton dalle autostrade ha origine nella direzione indicata dal M5S nell’agosto 2018.

Ne esce bene anche il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, che è riuscito a mediare tra la posizione della revoca e quella di un intervento pubblico che lasciasse però spazio ai Benetton. Sull’accordo finale c’è molto di suo.

Tra i vincitori c’è poi Nicola Zingaretti: ha preso un Pd restio alla nazionalizzazione e l’ha portato a prendersi parte dei meriti della trattativa, legittimando più volte Conte e dando un segnale di compattezza ai Benetton prima del cdm.

Chi ha perso Tra chi perde ci sono prima di tutto i Benetton. Alla fine la rassegnata accettazione delle condizioni del governo è l’unica possibilità e salva almeno i conti della holding. Perde anche Paola De Micheli, ministra delle Infrastrutture. Non tanto per il merito dell’accordo, ma perché è stata la più criticata, pure nel Pd. E non è piaciuta la mossa, di cui qualcuno accusa il Mit, di diffondere una vecchia lettera in cui lei chiedeva a Conte di velocizzare sul dossier.

Anche Matteo Renzi non gioisce. Sventa la temuta revoca, ma mette la firma sull’esclusione dei Benetton, su cui era stato timido in passato evocando “tempi della magistratura” da rispettare. Quanto a Matteo Salvini, all’inizio prometteva la revoca tra i selfie al funerale delle vittime, salvo poi cambiare idea (“Finiamo come in Unione Sovietica”) e ora tornare indietro: “Nessuna revoca. Incapaci o complici?”.

Non è andata bene neanche al governatore ligure Giovanni Toti. Dapprima ambiguo (“Il tema non è nazionalizzare, ma scrivere bene i contratti di concessione”) è poi diventato un ultrà della revoca e ieri ha parlato di “tanto rumore per nulla a spese degli italiani”.

Due sere fa, alla chiusura di Repubblica e a Cdm in corso, Stefano Folli vergava il necrologio di Conte: “Il caso Autostrade può essere l’incidente su cui il governo inciampa. Rappresenta uno degli indizi più espliciti che una certa stagione politica sta per concludersi”. Servirà aspettare un altro po’.

Perde anche Sabino Cassese, giudice ex componente del cda di Autostrade. Nei mesi ha parlato di revoca “sproporzionata” e di “paradosso”, chiedendosi “come uno Stato senza tecnici possa gestire le autostrade”. E tra gli “sconfitti” c’è infine Carlo De Benedetti: due giorni fa ha dichiarato al Foglio di preferire financo Silvio Berlusconi a Conte, liquidato così: “Basta il caso Autostrade per qualificare la sua nullità”.

“Tolta la gestione ai Benetton. È una vittoria straordinaria”

In una stanza di palazzo Madama c’è Danilo Toninelli, e non sta in sé dalla gioia. “Se sono soddisfatto? Molto di più, questo è un risultato straordinario per il Movimento”. L’ex ministro delle Infrastrutture, senatore al secondo mandato per il M5S, celebra l’accordo tra il governo e Aspi. E rivendica: “Nel mio anno da ministro ho fatto tutti gli atti propedeutici all’esito della trattativa”.

Voi 5Stelle esultate da ore, ma la revoca non è arrivata.

Il risultato finale è identico a quello che avremmo ottenuto con la revoca. Abbiamo tolto la gestione ai Benetton e abbiamo ridato le autostrade allo Stato, che le gestirà con un modello opposto a quello precedente. Prima si puntava solo al profitto senza occuparsi della manutenzione. Ora invece la manutenzione sarà centrale, e si abbatterà il costo dei pedaggi.

E allora perché niente revoca?

Per colpa delle scelte folli del governo Prodi prima e di quello Berlusconi poi. Il centrosinistra ha regalato le strade ai privati, con una concessione che poi è stata legificata, cioè blindata, dal centrodestra. Questo ci ha imposto un’istruttoria complicata, altrimenti Aspi ci avrebbe fermato con i suoi studi legali.

Cassa depositi e prestiti entrerà con un aumento di capitale, in Aspi, dove Atlantia resterà azionista di minoranza.

Quella quota residuale durerà pochissimi mesi.

Ma il tema rimane, per il lasso di tempo in cui i Benetton resteranno azionisti.

Sono questioni tecniche. Ma a questo punto Aspi dovrà accettare le condizioni dello Stato. E Cdp non ci rimetterà nulla, anzi, senza però togliere nulla ai cittadini. Ricordo che Aspi registrava un utile netto annuo di un miliardo.

Oggi il titolo di Atlantia è schizzato verso l’alto in Borsa. Gli investitori hanno intravisto qualche vantaggio dall’accordo per i Benetton?

Con questa intesa togliamo loro 23 miliardi, ossia quanto avrebbero guadagnato fino alla scadenza della concessione. Uscendo ci perderanno, moltissimo.

Questo accordo è merito di Conte o del Movimento?

È merito del presidente del Consiglio e di noi 5Stelle. Nel mio anno da ministro ho posto le basi per la revoca, con una serie di atti che attestavano il grave inadempimento dei Benetton sul contratto, per la mancanza di manutenzione sull’intera rete autostradale. Ma la chiave è stata la sentenza della Corte costituzionale, secondo cui era legittimo escludere Aspi dalla ricostruzione del Ponte di Genova, perché non aveva effettuato la necessaria manutenzione della struttura. Ci hanno detto che si poteva non fare quanto previsto dalla legge, nel nome di un interesse pubblico superiore, quello alla sicurezza.

Lei è stato duro nei confronti del ministro alle Infrastrutture, la dem Paola De Micheli. Ma alla fine un accordo si è trovato anche grazie a De Micheli. E anche lei, come l’attuale ministro che avete tanto criticato, aveva preparato una lettera per riaffidare il ponte ad Aspi “alla fine dei lavori di ripristino”.

Stupidaggini. Quella lettera, del 31 gennaio 2019, aveva una premessa chiara: “Fatta salva ogni eventuale variazione del rapporto concessorio che potrebbe derivare dall’esito della proceduta di contestazione formulata alla società per il crollo del Ponte”.

Rimane lo scontro con la De Micheli: eccessivo, no?

Ha fatto passare un anno prima di chiudere la trattativa, pur avendo tutti gli elementi e le condizioni per farlo.

Una trattativa del genere non la si può chiudere da soli. Serve il sostegno di tutto il governo.

Se Conte ha definito imbarazzante la proposta di Aspi vuol dire che la trattativa non era stata condotta nel modo giusto, con uno Stato mostratosi forte. Gli attori protagonisti della vicenda per competenza dovevano essere De Micheli e il ministro dell’Economia Gualtieri. Poi il presidente del Consiglio è stato bravo a rimediare, grazie anche al M5S che ha tenuto.

Anche il Pd ha tenuto, no?

Questa è una vittoria del Movimento. Abbiamo posto fine a una mangiatoia per politici e privati. Siamo gli unici a non aver mai ricevuto soldi dai Benetton. Ma va detto che con la Lega non avremmo potuto farlo: Salvini non voleva la revoca.

Conte l’ha sempre voluta?

Ha sempre voluto la linea dura, e giusta.

Benetton via da Aspi. Solo il prezzo dirà se ci rimettono pure

Chi ha vinto e chi ha perso tra i Benetton e lo Stato? La domanda è tranchant ma partiamo dai dati certi: 20 anni dopo esservi entrati – incassando una fortuna senza spendere un euro – i Benetton perderanno il controllo di Autostrade per l’Italia (Aspi); non sarà lo Stato a pagare per la loro uscita, niente rischio di mega indennizzi in caso di revoca della concessione; il controllo andrà alla pubblica Cassa depositi e prestiti. Il governo toglie così alla famiglia veneta la gestione dei 3 mila km della concessione. “Una pagina inedita della nostra storia. L’interesse pubblico ha avuto il sopravvento su un grumo consolidato di interessi privati”, ha detto il premier Giuseppe Conte. Resta però un grosso punto in sospeso: se Atlantia – la holding controllata dai Benetton, che a sua volta controlla Aspi – ci rimetterà pure economicamente, questo dipenderà dal prezzo che lo Stato pagherà per entrare in Autostrade. È il nodo più rilevante dell’accordo siglato ieri notte tra gli uomini del gruppo e il governo. L’intesa andrà travata – nel mentre resta la procedura di revoca – e richiederà tempo. Si divide in due parti: quella transattiva per chiudere la vicenda del Morandi, comprensiva della revisione della concessione; e quella sul nuovo assetto azionario. Partiamo dalla seconda.

I Benetton controllano Atlantia attraverso la loro holding “Edizione”, che ne ha il 30%. A sua volta Atlantia controlla l’88% di Autostrade (di fatto, i Benetton, indirettamente, hanno il 27% di Aspi), mentre il resto del capitale è dei soci Allianz e Silk Road.

Veniamo all’accordo. Per prima cosa Aspi varerà un aumento di capitale riservato alla Cdp, che la porterà ad avere il 33% di Autostrade diluendo la quota di Atlantia al 59%. Quest’ultima poi cederà un altro 22% a “investitori istituzionali graditi a Cdp” (casse previdenziali, Poste vita, fondi etc.). Alla fine di questo primo step – che dovrà concludersi entro settembre – Cdp e compagnia avranno il 55% di Autostrade, Atlantia il 37,3 e gli altri soci saranno scesi dal 12 al 7,7%. In questa fase, lo Stato coabiterà, ma in condizioni di comando, con Atlantia, cioè coi Benetton. Poi partirà la seconda fase, che richiederà tempo, forse un anno: Aspi subirà uno “spin off”. Il 37% in mano ad Atlantia sarà distribuito ai suoi soci, portando alla fine della giostra Edizione, cioè i Benetton, ad avere l’11% di Autostrade (e nessun consigliere in cda). Aspi sarà poi quotata in Borsa, permettendo così a tuti i soci di vendere le loro quote.

Questo schema consente alla Cdp di non liquidare con soldi pubblici i Benetton e di privare la famiglia di Ponzano Veneto della gestione di Autostrade. Quest’ultima non fallirà trascinando con sé – come succederebbe in caso di revoca – anche Atlantia visti i suoi 9 miliardi di debito garantiti dalla holding: un vero terremoto finanziario e il vero ostacolo al ritiro della concessione. Non è un caso se ieri la holding ha chiuso in Borsa con uno stellare +26%. Significa che i Benetton non ci perdono niente? Ovviamente no, ma quanto dipenderà appunto dalla cifra che Cdp spenderà per entrare in Aspi. Atlantia, per capirci, ha a bilancio l’88% di Aspi a 5,8 miliardi: questa è la cifra a cui deve vendere la sua quota. Se Cdp pagherà intorno ai 3 miliardi per il 33% di Aspi, di fatto Atlantia e i Benetton non avranno perdite. Sotto questa cifra, sì. Il negoziato tra la Cdp e Atlantia sarà quindi fondamentale (dovrà concludersi entro il 27 luglio).

Il valore di Aspi, però, sarà influenzato anche dall’accordo sulla parte transattiva. Atlantia ha accettato tutte le richieste del governo: 3,4 miliardi di indennizzo; nessuna modifica al decreto Milleproroghe che disattiva la maxi penale in caso di revoca; ritiro dei contenziosi; più controlli e sanzioni per gli inadempimenti; accettazione del sistema tariffario dell’Autorità dei Trasporti che ridurrà i pedaggi; più investimenti e manutenzioni. L’unica condizione non accettata è la manleva legale per lo Stato per l’enorme contenzioso giudiziario che Autostrade si trascinerà dietro. Tirate le somme, la concessione di Aspi, che finora è stata una miniera d’oro, sarà meno remunerativa. Quando pagherà, lo Stato deve ricordarsi anche questo.

Mezzo Pd sconfitto E Di Maio: “Revoca non ancora esclusa”

“Ma non è possibile! Guarda come il Fatto quotidiano racconta questa vicenda”. A notte fonda durante il Consiglio dei ministri, quando arriva la prima pagina del Fatto, che ritrae alcuni big del Pd vestiti con le maglie Benetton, Lorenzo Guerini sbotta, accusa direttamente il premier Giuseppe Conte, brandendo lo smartphone su cui campeggia il giornale. “Non ti permettere. La tua ministra (Paola De Micheli, ndr) ha dato alla stampa una lettera riservata e non ho reagito, anche se c’erano profili legali”, gli risponde Conte.

I toni sono alti, il che per entrambi – abituati a mediare sempre e comunque – è il segno che la tensione è alta. Ma quando si arriva in Cdm, la direzione è già chiara, anche se la consegna è il silenzio assoluto: la revoca è sul tavolo, ma più come arma negoziale che come vera soluzione. Per il Pd è sempre stata l’ultima spiaggia, per i Cinque Stelle una bandiera. In mezzo, il premier che ha alzato il livello dello scontro, andando dritto sulla revoca nell’intervista al Fatto di lunedì. E trovando Nicola Zingaretti a fargli da spalla. Così, quella tra mercoledì e giovedì è la notte in cui c’è in gioco il governo. Ma anche quella in cui nessuno vuole apparire sconfitto, né tanto meno amico dei Benetton. A cercare la mediazione con Atlantia, insieme al premier, è Roberto Gualtieri.

Il Cdm assomiglia a un bivacco. Dario Franceschini continua a occuparsi delle presidenze delle commissioni. Segno che l’accordo è possibile. A trattare a oltranza con Atlantia sono Conte, Gualtieri, i tecnici di Palazzo Chigi e del Mef. Ogni tanto, partecipa anche la De Micheli. Ma di fatto è all’angolo: non tanto per come stanno andando le cose nel merito (tenere dentro i Benetton, ma in condizioni di non nuocere, era la sua linea guida), ma per come si è mossa. Andando al frontale con il premier, anche sul piano mediatico, assumendo il ruolo di ariete: ma poi è diventata l’agnello sacrificale. Nel gioco collettivo dello scaricabarile, in molti vogliono le sue dimissioni. Nella serata decisiva, recita un ruolo da comprimaria. Perché la soluzione finale viene elaborata al Mef, insieme a Cdp, in stretto contatto con Conte. Mentre Gualtieri continua a parlare con lo stesso Zingaretti, il vice segretario, Andrea Orlando, con Goffredo Bettini. Nel frattempo, il premier mette sotto pressione Atlantia.

A Palazzo Chigi arrivano i cartoni delle pizze. Poi, alle 4 di mattina, pure l’accordo. “Io e Conte siamo un team cazzutissimo”, si lascia andare Gualtieri. Grandi sorrisi anche tra i Cinque stelle. Quello che trasuda gelo è Luigi Di Maio. I suoi rapporti con il premier sono ai minimi termini, dopo settimane di guerra fredda. E ieri sera il ministro certifica lo stato delle cose, con una diretta su Facebook in cui frena gli entusiasmi: “Non siamo ancora al punto che ci eravamo prefissati, la revoca non è ancora esclusa: prima servono risultati nella gestione”. Un 5Stelle di governo commenta: “Luigi e Conte sono distantissimi”. Convinzione diffusa anche nel Pd, dove sospettano un eccessivo dialogo tra Di Maio e Renzi. Poi c’è il dem Orlando, anche lui furente per la prima pagina del Fatto: “Non sono amico dei Benetton, ho condiviso con Zingaretti la linea dal primo all’ultimo minuto”. In un tweet la mette giù dura: “Leggo su un giornale che sarei tra coloro che difendono la posizione dei Benetton in Aspi. Non solo non è vero ma mi chiedo perché dopo due anni di annunci e discussioni non si sia ancora trovata la via per estrometterli dalla concessione”.

Però prevale la pace. Anche se in giornata riprendono, forti, le voci su un rimpasto. E un grillino di peso conferma: “Alcuni sottosegretari stanno chiedendo garanzie”. Perché i giallorosa non sanno stare tranquilli.

Monumento ai caduti

Quando, 23 mesi fa, crollò il Ponte Morandi seppellendo 43 morti, Autostrade era figlia di NN. Per i giornaloni, i colpevoli del crollo non erano i concessionari Benetton che lucravano da 19 anni su un bene pubblico con l’impegno di manutenerlo e invece l’avevano mandato a ramengo. Ma i 5Stelle e gli ambientalisti anti-Gronda: il faraonico passante autostradale da 5 miliardi di euro che, anche se fosse stato realizzato in tempo utile (10 anni di cantieri), si sarebbe aggiunto al viadotto pericolante senza sostituirlo e comunque era stato bloccato dall’inettitudine di chi aveva governato Genova, la Liguria e l’Italia (centrodestra e centrosinistra). Ai funerali, il premier Conte e i suoi vice Di Maio e Salvini, acclamati dalla folla, promisero che mai più i Benetton avrebbero gestito Autostrade. E lì i giornaloni tutti, seduti su montagne di milioni regalati dai Benetton in forma di pubblicità (maglioni, bimbi e pecore multicolor), sponsorizzazioni (le feste Rep Idee e le guide turistiche di Repubblica) e gettoni di presenza (nel board Atlantia sedevano Cassese, giurista del Corriere&C, e la Mondardini, amministratore di Repubblica), iniziarono a nominare i Benetton. Ma per difenderli. Cantavano tutti la stessa canzone alla Squallor, scritta direttamente a Ponzano Veneto: nessuno è colpevole fino a sentenza definitiva, fino alla Cassazione non si può dire se la colpa è dei manager Benetton o del destino cinico e baro, chissà mai chi è stato.

Nel giro di una settimana Repubblica, Corriere, Stampa, Messaggero e Giornale riuscirono a scrivere che chiunque incolpasse Atlantia per le colpe di Atlantia era affetto dalle seguenti patologie: populismo, giustizialismo, moralismo, giustizia sommaria, punizione cieca, voglia di ghigliottina, ansia da Piazzale Loreto, sciacallaggio, speculazione, ansia vendicativa, barbarie umana e giuridica, cultura anti-impresa che dice no a tutto, pericolosa deriva autoritaria, ossessione del capro espiatorio, esplosione emotiva, punizione cieca, pressappochismo, improvvisazione, avventurismo, collettivismo, socialismo reale, aggiotaggio, decrescita, oscurantismo. Francesco Merlo intervistò su Repubblica il capofamiglia Luciano, quello coi capelli turchini, definendolo “imprenditore di sinistra” (nelle foto di famiglia sta sempre da quella parte). Prima domanda, e ho detto tutto: “È vero che il crollo del Ponte Morandi con i suoi 43 morti ha ferito lei e ha ucciso suo fratello?”. Mancò poco che chiedesse ai parenti dei 43 morti di pagargli i danni. Intanto Salvini, a cui forse qualche vecchio leghista aveva rinfrescato la memoria, diventò il miglior alleato dei Benetton.

E rovesciò il Conte 1. Così, per l’alternanza all’italiana, toccò al Pd difendere gli United Colors. Ai Trasporti andò Paola De Micheli che, coi suoi modi ruspanti da cassiera di drogheria e la cultura consociativa da ex-Pci Vecchia Romagna, riprese a inciuciare. I giornaloni intanto pubblicavano sempre lo stesso pezzo dettato da Ponzano Veneto: finirà a tarallucci e vino, Conte rinvierà alle calende greche e il M5S ingoierà anche quel rospo. Ancora il 5 luglio quel genio di Claudio Tito sparava su Repubblica: “Il governo spera nella Consulta per lasciare la concessione ad Aspi”. Come sempre, era vero il contrario: Conte sperava nella Consulta per levare la concessione ad Aspi o levare i Benetton da Aspi. L’ha annunciato lunedì al Fatto e martedì notte in Cdm l’ha fatto. Ora si contano i caduti. De Benedetti, due giorni fa, con tempismo pari alla perspicacia, definiva Conte “una nullità” proprio per Autostrade. E tutti i giornaloni, ancora ieri, non riuscivano a immaginare un governo che caccia a pedate un potere forte anziché chinarsi a 90 gradi. Repubblica: “Conte lavora a un patto coi Benetton”. Sì, ciao, buonanotte. Il Foglio: “Su Aspi l’unica strada è il rinvio”. Certo, come no. Giornale: “Governo bloccato. Cdm rinviato. La linea dura vacilla. Revoca suicida, pagheremo 17 miliardi”. Le pazze risate.

Corriere, Repubblica, Stampa e Verità sparavano la lettera “riservata personale” della De Micheli a Conte del 13 marzo, fatta uscire per salvare in extremis i Benetton e tornata alla mittente come un boomerang: doveva screditare Conte per aver ignorato per 4 mesi una ghiotta transazione, invece ha screditato la ministra per non aver capito (o aver capito fin troppo bene) la boiata che era. Una patacca che, per la Verità, “sbugiarda Conte”. E, per Paolo Baroni de La Stampa, dimostra i “quattro mesi persi” dal premier, che “in tutto questo tempo ha dormito” perché “il 13 marzo era la giornata mondiale del sonno”: questo frescone dimentica che il 13 marzo il premier aveva appena chiuso l’Italia e si occupava full time di Covid (250 morti e 2.547 contagiati solo quel giorno), ma trovò il tempo con Gualtieri di respingere l’ennesimo accordo-trappola caldeggiato da madama. Ma il Premio Nostradamus va a Stefano Folli, l’oracolo di Repubblica, che martedì sera è andato a nanna giulivo dopo aver consegnato il quotidiano De Profundis per il governo: “Una stagione al tramonto”, “Autostrade può essere l’incidente su cui il governo inciampa”, “una stagione politica si sta concludendo”, “l’esaurimento del Conte2 è sotto gli occhi di chiunque voglia vedere”, “la decadenza di una formula politica”, “l’agonia”. Poi ieri, forse, si è svegliato. Una prece.

Erezioni, Molière e bugie: la nuova stagione del Quirino

Sembrava già di assistere a uno spettacolo ieri mattina alla conferenza stampa in cui il Teatro Quirino – che per il suo centocinquantesimo compleanno rinnova poltrone, palco e foyer “Il tutto,” precisa Geppy Gleijeses (direttore), “deciso e realizzato prima dell’emergenza e, dunque, senza aiuti” – ha presentato il cartellone per la stagione ’20-’21.

Come consumati cultori del gesto (quali gli attori, in effetti, sono) la triade Gleijeses, Gugliemo Ferro (direttore bis) e Rosario Coppolino (ad), dai piedi del palco ha presentato gli spettacoli che vedremo in scena: nove nuovi e dodici ripescati tra gli interrotti della passata stagione. Si inizierà il 22 dicembre, apotropaicamente, da Il malato immaginario di Molière con Emilio Solfrizzi per la regia dello stesso Ferro, e poi a gennaio con Un Tram chiamato desiderio di Tennessee Williams con Mariangela D’Abbraccio. Ognuno dei protagonisti viene invitato a raggiungere il trio: allora, mette su la mascherina per incedere lungo il corriodio tra i posti, arriva dai tre, prende il microfono, toglie la mascherina e recita la sua battuta più bella, indossando l’abito più bello, e con il tono di voce più bello. E non per vezzo, ma per rispetto al mestiere del teatro che è parlare, certo, ma soprattutto vedere. Lucia Poli, protagonista insieme a Maurizio Micheli e Gleijeses di Servo di scena di Ronald Harood diretto da Ferro, definisce quella a venire come “una stagione eroica”; segue l’ironico cast della commedia brillante Se devi dire una bugia dilla grossa di Ray Cooney (Gianluca Ramazzotti, Paola Quattrini, Antonio Catania e Paola Barale). Dalla sua poltrona (lui non fa la sfilata) Paolo Bonacelli e la sua statura di uomo e di attore informano sul ritorno di Processo a Gesù di Diego Fabbri a fine marzo; mentre ad accendere il riso nella platea di giornalisti e addetti ai lavori ci pensa Alessandro Haber, protagonista di Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller che andrà in scena ad aprile per la regia di Leo Muscato. In risposta alle riverenze dei padroni di casa, prende il microfono e ammette: “Per tutti questi complimenti, ho appena avuto un’erezione”. Chiude il defilé Maurizio Casagrande, in scena a fine maggio con uno spettacolo su Pino Daniele. Colpisce che tutti, una volta giunti ai piedi del palco, facciano in modo di toccarne il legno, ora appoggiandosi, ora stiracchiandosi, come a voler dire a se stessi: “È tutto vero”. Ancora emozionati di questo rito, mentre la conferenza finisce e la Barale si spara un selfie con la Quattrini, si esce in strada. Vincenzo Manna e Andrea Paolotti (autore e attore de La classe, spettacolo al Quirino in aprile) parlano di diete, metabolismo, carote, pollo ai ferri. Ah, bentornata frivolezza!

“Ho meno soldi dei pompieri: dovrò liquidare l’Eliseo”

Chi è di scena: sempre lui, Luca Barbareschi, che per l’ennesima volta minaccia di chiudere il Teatro Eliseo di Roma, da lui diretto dal 2015. “A dicembre, il Tric (Teatro di rilevante interesse culturale) meno sovvenzionato d’Italia verrà messo in liquidazione!”. Peccato, però, che il canovaccio si ripeta di anno in anno, se non di semestre in semestre: viene il sospetto che sia una recita… “Se avessi saputo prima di tutte le grane non avrei rilevato un teatro fallito, rilanciandolo”, spiega Barbareschi. “L’ho acquistato nel 2014 mettendoci 5,6 milioni di tasca mia, più altri 7 di ristrutturazione. Non ho mai usato soldi pubblici – come insinuano alcuni giornalisti – per comprare l’immobile” di via Nazionale, in pieno centro, di fronte alla Banca d’Italia.

“La stampa è contro di me: mi addolora”. Eppure i cronisti scrivono perché il direttore parla: è stato lei il primo a minacciare la liquidazione: “Sì, a meno di un intervento del Mibact o di un miracolo, a dicembre si chiude. Io non ho più soldi. Mi trovo col culo per terra. Avrei dovuto chiudere già nel 2018, coi conti in pareggio, dopo la stagione del centenario… E invece alla fine di quest’anno l’esposizione sarà di circa 4 milioni. Che dire? Metto in liquidazione tutto e l’Eliseo diventerà un centro congressi…”.

A febbraio alcuni emendamenti presentati al dl Milleproroghe avrebbero permesso al teatro romano di ricevere 4 milioni di euro dal 2020 al 2022, ma quei 12 milioni extra Fus sono stati bocciati dalle Commissioni parlamentari, dopo i mugugni delle associazioni di categoria che gridavano allo scandalo per un provvedimento ritenuto ad personam. Si è ripetuta, anche se con esiti opposti, la querelle del 2018, quando Barbareschi ottenne otto milioni di euro extra Fus e alcuni teatranti – “degli sfigati romani” – ricorsero al Tar, perdendo. Resta però il rinvio a giudizio del direttore, accusato di traffico di influenze dalla Procura di Roma, insieme al suocero ed ex Ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio e al lobbista Luigi Tivelli: i tre avrebbe fatto pressioni illecite per fare ottenere all’Eliseo 4 milioni di euro dalla Finanziaria 2017. “Non ho paura di nulla – rincara Barbareschi –. Traffico di influenze?!! Pensi, è la stessa cosa che facevano Grassi e Strehler… Non è lobbismo, ma passare le giornate a chiedere attenzione… Questa accusa finirà nel nulla, ma è una specie di fatwa che pagherò per i prossimi 6-7 anni, con problemi reputazionali, con le banche e sul lavoro… Ridicolo: quella legge non l’ho fatta io, ma Napolitano, Gentiloni, Franceschini…”.

Le vie del Fus non sono infinite, ma perché non insistere su quelle anziché aspettare la Finanziaria, i decreti, le leggi ad hoc…? “Stando proprio alle griglie del Fus, noi abbiamo più punti di tutti, ma meno soldi… È una truffa nei miei confronti; perciò stiamo preparando una denuncia… E purtroppo l’incremento annuale dei fondi statali è di massimo il 10 per cento: c’è un tetto alla crescita come nei Paesi comunisti; quest’anno arriviamo a quasi 700 mila euro, siamo ricchi!”, ironizza. “Ma ancora non abbiamo ricevuto i contributi per il 2019”.

Se dal mondo politico qualche apertura di credito nei confronti di Barbareschi c’è stata – ad esempio, Michele Anzaldi di Italia Viva –, i teatranti sono nuovamente furibondi o quantomeno perplessi, da Massimo Piparo, direttore del Sistina, a Geppy Gleijeses, che si è sfogato sui social: “Fino a che punto potrà arrivare l’abiezione di dare a un privato soldi pubblici a vagonate per gestire un teatro in modo fallimentare… Un privato investe i suoi soldi, non va a elemosinare in Parlamento”.

Eppure Barbareschi lamenta sempre “pochissimi contributi a confronto dei colleghi”: poco o niente, circa 230 mila euro all’anno, arriva dagli enti territoriali – Comune, Regione… –, mentre dallo Stato – leggasi Fus – L’Eliseo intasca il minor finanziamento tra i Tric (578 mila euro nel 2018, contro, ad esempio, 1,25 e 1,22 milioni di Elfo e Parenti di Milano). “Con questi fondi pubblici – poco più di una caserma di pompieri – è impossibile far vivere un teatro che ha due sale e oltre 80 dipendenti”. Dipendenti in cassa integrazione da marzo, che aspettano ancora il pagamento della seconda tranche di maggio-giugno e a luglio, cioè ora, chi lo sa… Quanto ai creditori, promette Barbareschi, “saranno tutti ripagati, come ho sempre fatto nella mia vita”.

Convivere col Male oscuro

“Non stare mai tranquilli”. “Paura del mattino”. “L’orrore del proprio fisico”. Se è vero, come riporta uno studio dell’Università di Torino, che il 25 per cento degli italiani ha sviluppato una qualche forma di depressione durante l’isolamento, a molti non suonerà inaudito il grido che proviene dal meraviglioso Il campo di concentrazione (Guanda), il diario scritto da Ottiero Ottieri durante il suo ricovero alla clinica psichiatrica di Zurigo, dove soggiornò tra il 1970 e il ’71 per guarire da una nevrosi depressiva.

La depressione, già portata sulla pagina da Giuseppe Berto – che prese da un passo de La cognizione del dolore di Gadda il titolo del suo flusso della coscienza dolorosa (Il male oscuro uscì nel 1964, un anno dopo il capolavoro di Gadda), nel diario di Ottieri è una presenza totalizzante e feroce che ottunde i giorni sempre uguali della clinica.

Impossibile rimanere impartecipi: si sente “il bagliore bianco dell’ansia”, cromatismo complementare della “disperazione nera” sotto la cui scure Ottieri tiene il registro delle continue variazioni dell’umore, delle torsioni della psiche dentro spire maniacali. Scrittore sopraffino (autore del mirabile De morte, sceneggiatore de L’eclisse di Antonioni), Ottieri fronteggia il mostro con disseccata ironia: “Sono il più intelligente fra i pazzi, il più pazzo fra gli intelligenti d’Italia”. Trova un po’ di requie nelle visite della moglie, ma teme sempre “lo switch all’ora del tè”, il mutamento violento del pomeriggio; anche se la sera, come tutti i depressi, si sente meglio che nell’orrenda “banchisa polare” della mattina.

Fantastica sulle donne sane, le psicologhe e le infermiere, ma il ruminare non si traduce in vita vera: guarire vuol dire “l’azione, il divertimento, il lavoro, l’amore”, invece di questo incessante “mangiarsi nel dubbio”. La depressione, che per Gadda era una “perturbazione dolorosa, più forte di ogni istanza moderatrice del volere”, per Ottieri è “un reattore che succhia all’indietro tutte le forze, le assorbe nel processo pensatorio infinito”.

L’essere umano nudo sperimenta la “concentrazione”, che non è lucidità rischiarante e proficua, ma tensione mentale e promiscuità con gli altri pazienti, che “parlano lingue che non capisco”. Ci si riduce all’elementarità, “si sta attaccati alle più scarne origini, dormire, mangiare, lavarsi, vestirsi. Si sta a un centimetro dal suicidio”.

Il filosofo Karl Jaspers ha definito “abisso” il profondo disconoscere le origini di questi disturbi. La mente del “matto”, del depresso cronico, è impenetrabile. Nell’abisso è il titolo del saggio del neuropsichiatra Antony David appena uscito per Il Saggiatore, scritto nell’epoca in cui i neurotrasmettitori hanno preso il posto degli umori degli antichi: se un tempo si credeva nel sangue e nella bile, responsabile della melanconia, oggi si “crede” in dopamina e serotonina. Di malattie un tempo inesplicabili – e di dipendenze, bipolarismo, suicidio – si occupa David, che esamina casi clinici-limite: un paziente catatonico è convinto di avere un ordigno nucleare dentro di sé, in modo che se si muovesse l’intero mondo ne sarebbe annientato; un altro, dopo un incidente stradale, crede di essere morto (“delirio nichilistico”) o che i suoi cari siano stati sostituiti con dei sosia.

Assente – se non nelle forme della sedazione – all’epoca in cui scrivevano Berto e Ottieri, oggi la farmacologia interviene dentro i gangli invisibili del male. Sempre Gadda: “Era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgurato scoscendere d’una vita, più greve ogni giorno, immedicato”. Oggi la chimica ha sostituito la clinica concentrazionaria, coi suoi aspetti alienanti e coercitivi; gli strumenti di diagnosi neurologica come la risonanza magnetica sono in grado di individuare le cause dell’angoscia, la “roccia senza spacchi” di Ottieri, in lesioni cerebrali, dunque in spacchi organici. Dalle aree encefaliche lesionate può spirare quel freddo sentire. Ma se la realtà avesse bisogno della nostra struttura cerebrale sana per esistere nelle sue forme illusorie, e fosse invece la lesione, il difetto, a svelare la vera realtà? È l’interrogativo che resta sospeso nei libri magnifici di Oliver Sacks e che Gadda risolse con il ribaltamento del dubbio di Amleto: “essere” è conoscere il vero dolore (e viceversa); “non essere” è adattarsi placidamente alla vita e alla “turpe contingenza del mondo”.

La “mano di Dio” è patrimonio del mondo intero

La sintesi dell’istinto e del talento. Qualcosa di inspiegabile e di inspiegato, non comprensibile per noi persone comuni che assistiamo a bocca aperta, e poi commentiamo e commentiamo ancora cercando ragioni e processi e non trovandone, perché semplicemente non ne esistono.

L’istinto e il talento, mai l’uno o l’altro da soli, perché l’istinto ce l’abbiamo tutti e quando emerge normalmente fa danni, e di talento ce n’è tanto ma quando non è istintivo è privo di originalità e quindi passa quasi inosservato, confuso nella massa delle prestazioni di buon livello costruibili anche con applicazione e professionalità.

Istinto e talento in quote variabili, sintetizzati in un unico Gesto, reso memorabile dal palcoscenico in cui viene posto in essere. Perché per restare impresso a fuoco nella memoria collettiva, il Gesto deve avere un grande luogo e un grande momento. Ha bisogno di un contesto alto, di un attimo speciale per essere ricordato per sempre. Questa è senza dubbio una componente fondamentale, al pari dell’istinto e del talento: perché un meraviglioso passo di danza fatto in un salotto solitario, una melodia celestiale suonata in un cortile, un dipinto straordinario relegato in una cantina sono lettera morta, destinati a perire nel silenzio.

A quel punto, e la questione ci pare cruciale nella fattispecie, esiste un proprietario del Gesto? Chi lo pone in essere, colui che è in possesso dell’istinto e del talento ma che del luogo, del palcoscenico è solo ospite provvisorio, può vantare un copyright dell’Evento, di cui il Gesto è sicuramente il principale fattore ma non certo l’unico?

Quel pomeriggio del 22 di giugno del 1986, lo stadio Azteca di Città del Messico fu il teatro, e il quarto di finale del Mundial il momento; componente non secondaria fu l’Inghilterra, il cui ruolo di avversario fornì, a causa delle Falkland o Malvinas che dir si vogliano, una meravigliosa nuance politica all’Evento. Senza tutto questo, il Fallo di Mano sarebbe stato un fallo di mano; e i Dodici Tocchi del successivo Gol più bello della storia del calcio sarebbero rimasti dodici tocchi consecutivi a un pallone. Così come ricordare il proprio calciatore preferito, se lo fai mentre ritiri un Oscar, non è un ricordo semplice ma una Dedica di immenso valore.

Ecco perché riteniamo con forza che il Gesto della Mano de Dios abbia cessato, nell’attimo stesso in cui fu compiuto, di essere patrimonio esclusivo di chi lo eseguì, per diventare proprietà pubblica fruibile da parte di chiunque voglia, peraltro autorevolmente, raccontarlo. Ettore e Achille non chiesero a Omero i diritti d’immagine, né Monna Lisa un risarcimento per essere stata ritratta.

Siamo della modesta e personale opinione che se un grandissimo regista, che ha peraltro dimostrato la propria sincera devozione al più grande calciatore di tutti i tempi, manifesta la volontà di raccontare un Gesto, egli non debba rendere conto a nessuno se non alla sacralità del momento, l’esaltazione dell’astuzia, la vittoria dello sberleffo, successivamente peraltro consacrata dal talento. E siamo altresì convinti che di questa narrazione beneficeremmo tutti, incluso, e forse soprattutto, colui che del Gesto fu l’artefice.

Perché l’Arte, sia stata praticata su un campo di calcio nel 1986 o su un set nel 2020, è solo bellezza. E come tale non ha padrone.

Macron, giravolta sulle pensioni

La contestata riforma delle pensioni torna sul tavolo dei negoziati sin da venerdì in Francia. “Credo che questa riforma sia giusta. Bisogna forse darle più tempo”, ha detto ieri Emmanuel Macron, in un’intervista in diretta tv in occasione della festa del 14 luglio. La riforma, provvedimento centrale del programma politico del presidente, aveva scatenato mesi di scioperi prima di essere congelata durante la crisi sanitaria. Ora che la Francia riprende una vita quasi normale (anche se l’epidemia di Covid-19 dà segni di ripresa), e che ha un nuovo esecutivo, il dibattito può ripartire. Ma il testo sarà rielaborato e i tempi di entrata in vigore potranno farsi più lunghi: “È chiaro che nei prossimi anni bisognerà procedere a una riforma delle pensioni”, ha sottolineato Macron. I sindacati non condividono la ripresa così rapida dei dibattiti e nel primo pomeriggio diverse centinaia di manifestanti si sono riuniti a Parigi e in altre città, come Lione e Rennes. Brevi incidenti sono scoppiati con le forze dell’ordine in place de la Bastille. Molti sono andati a protestare anche contro le misure prese nei giorni scorsi a favore del settore ospedaliero – con un investimento di circa 8 miliardi di euro per un aumento salariale di 183 euro al mese – considerate insufficienti. La riforma delle pensioni è il primo dossier scottante di cui si dovrà occupare il nuovo premier, Jean Castex, che oggi terrà il suo primo discorso di politica generale in Assemblea. La questione più delicata riguarderà ormai il deficit del sistema pensionistico che potrebbe raggiungere un livello record di 30 miliardi di euro nel 2020 per via della crisi. In ogni caso i francesi conosceranno presto il nuovo calendario della riforma. È stato un 14 luglio insolito. La tradizionale parata militare sugli Champs-Elysées è stata sostituita da una cerimonia più sobria in place de la Concorde, senza pubblico, in omaggio ai medici “eroi” e ai lavoratori “essenziali” della lotta al Covid. A un certo punto è stato sollevato nella piazza uno striscione con la scritta: “Dietro gli omaggi, Macron asfissia gli ospedali”. I fuochi d’artificio della Tour Eiffel sono stati mantenuti ma i parigini invitati a guardarli in tv. Macron, che ha fornito un mea culpa per gli errori commessi, ha preparato i francesi a un’eventuale ripresa dell’epidemia, che ha ucciso più di 30 mila persone in Francia, annunciando l’obbligo di mascherina in tutti i luoghi pubblici chiusi dal primo agosto. Li ha anche preparati a una nuova ondata di disoccupazione, con 800 mila – un milione di nuovi senza lavoro entro la primavera 2021. Le priorità di Macron per l’autunno sono lavoro e giovani, con un “piano di rilancio, almeno 100 miliardi di euro in più dei 460 miliardi già stanziati”.