Ghislaine si veste da suora ma il giudice non la libera

Richiesta respinta. Nonostante i suoi legali l’abbiano dipinta come vittima di un complotto mediatico, il giudice non ha concesso la scarcerazione a Ghislaine Maxwell, unica protagonista del caso Espstein dopo che Jeffrey è stato trovato morto in carcere nell’agosto 2019. La donna resterà dentro fino all’inizio del processo. “Vostro Onore, mi dichiaro non colpevole”. Ieri, distretto di New York South, ore 13 locali. Udienza per la richiesta di cauzione di Ghislaine, 58 anni, ex compagna e presunta ape regina di Jeffrey Epstein, accusata di 6 reati, fra cui trasporto di minore a scopo di sfruttamento sessuale e spergiuro. Fugge dal 10 agosto 2019, il giorno del suicidio, al Metropolitan Correction Centre di New York di Epstein, inchiodato da pesanti e concordi accuse di sfruttamento della prostituzione minorile. Maxwell parla in collegamento dal carcere di Brooklyn, dove è rinchiusa dal 2 luglio, giorno del suo arresto. È la caduta di un’altra Dea, una intoccabile, per decenni protetta prima da una nascita privilegiata, poi denaro, conoscenze, potere. Che oggi la condannano. L’avvocato dello Stato di New York Audrey Strauss chiede al giudice Alison Nathan di rigettare la richiesta di rilascio su cauzione perché, si legge nei documenti del processo, “l’accusata presenta un alto rischio di fuga, è cittadina di un paese – la Francia – che non permette l’estradizione dei propri cittadini, ha accesso a considerevole ricchezza, le sue finanze sono completamente opache e si è dimostrata molto abile nel nascondersi”. Bandiere rosse, le definisce Strauss.

Come il fatto che quando gli agenti dell’FBI che la cercavano da un anno si sono qualificati alla porta della villa milionaria di Bradford, New Hampshire dove si nascondeva, lei non abbia risposto: l’hanno vista da una finestra rifugiarsi in un’altra stanza, chiudersi dietro la porta. O che, hanno testimoniato gli agenti, tenesse il cellulare avvolto nella carta stagnola, “nel maldestro tentativo di sfuggire al tracciamento”. O che dichiari di non guadagnare un soldo, che il tenore di vita che si puo permettere lo deve alla generosità di amici, gli stessi non identificabili ma disposti a pagare i 5 milioni della cauzione e, chissà, anche il conto dell’hotel di lusso di Manhattan dove promette di restare in attesa del processo fissato al 21 luglio 2021. Ma l’accusa ha identificato 15 conti correnti, una ricchezza di almeno 20 milioni di dollari. Non regge nulla, nella difesa. Nemmeno la tesi di base: “Lei non è Jeffrey Epstein” ripetuta da uno degli avvocati difensori. Perché le vittime dicono altro. In aula vengono lette due testimonianze scritte, non attribuite: “Ghislaine è un mostro e una predatrice. Era capace di manipolarci emotivamente per adescarci e soddisfare Epstein. Senza di lei lui non avrebbe potuto fare quello che ha fatto”. Una racconta un ulteriore dettaglio raggelante: le sarebbero arrivate minacce alla vita del figlio di due anni per dissuaderla dal deporre contro la Maxwell in una causa precedente. Poi c’è Annie Farmer, che ci mette faccia e voce. Voce tremante. Racconta di essere stata adescata a 16 anni. Definisce la Maxwell pericolosa per gli altri, “una predatrice sessuale” che non ha mai mostrato rimorsi, e che ha contatti in tutto il mondo. Tocca alla difesa recuperare, parlare di campagna mediatica, umanizzare Ghislaine, raccontarne famiglia e amici, spiegare che si è nascosta per proteggere la propria privacy ma non c’è alcun pericolo di fuga, visto che in questo anno ci sono stati contatti con gli investigatori. Parla di ossessione mediatica: sarebbe giustificata, visto che Ghslaine, se volesse, sarebbe determinante per ricostruire il reticolo di rapporti con gli altri presunti predatori, uomini molto in alto, altri intoccabili, a cui Epstein avrebbe fornito le ragazze. Come il principe Andrea, accusato dalla sopravvissuta Virginia Giuffre di aver abusato di lei proprio nella casa londinese della Maxwell.

Monir e gli altri: facile finire dietro le sbarre (e morire) per un nulla

Dopo aver criticato la risposta delle autorità egiziane all’emergenza Covid-19 ed essere finito dietro le sbarre per aver fatto il proprio mestiere di giornalista con la schiena dritta, Mohammed Monir è morto per aver contratto il virus in prigione. Mohamed Monir, 65 anni, è deceduto in un’unità di isolamento dell’ospedale del Cairo – ha confermato la sua famiglia – dove era stato ricoverato due settimane fa dopo il suo rilascio dal carcere di Tora a causa delle sue cattive condizioni di salute. Dopo il suo rilascio, Monir aveva scritto un post su Facebook lamentando mancanza di respiro e dolore toracico, deducendo di aver contratto il coronavirus.

“Anche brevi detenzioni durante questa pandemia possono significare una condanna a morte”, ha dichiarato Sherif Mansour, coordinatore del programma per il Medio Oriente del Comitato per la protezione dei giornalisti, chiedendo pertanto alle autorità di rilasciare giornalisti detenuti. Monir, giornalista molto noto in Egitto per autorevolezza e indipendenza, negli scorsi mesi aveva criticato la gestione da parte del governo della pandemia in varie occasioni e su diversi media tra cui la tv intenazionale del Qatar, Al Jazeera, bandita dal regime di al-Sissi essendo da lui ritenuta espressione della Fratellanza Musulmana, invisa al presidente egiziano.

La polizia aveva arrestato Monir il 15 giugno, accusandolo di essere membro di un gruppo terroristico, di diffondere notizie false e abusare dei social media. I detenuti possono essere trattenuti per anni con accuse vaghe o palesemente fabbricate, non per forza collegate a esempi specifici tratti dagli articoli o interviste televisive. Dallo scorso febbraio, le autorità hanno dato il via a una campagna di arresti di giornalisti e medici che hanno osato denunciare l’incapacità del governo egiziano di gestire la pandemia sottolineando i pericoli ancora più allarmanti per coloro che sono detenuti. Fra gli altri giornalisti arrestati ci sono Awni Nafee, cronista sportivo prelevato da una struttura di quarantena dove alloggiava dopo il suo arrivo dall’Arabia Saudita – aveva criticato il trattamento da parte del governo dei rimpatriati egiziani prima della sua detenzione – Mostafa Saqr e Sameh Hanein.

A maggio, le autorità egiziane avevano costretto la giornalista del britannico Guardian, Ruth Michaelson, a lasciare il Paese dopo aver riferito di uno studio scientifico secondo cui l’Egitto probabilmente aveva molti più casi di coronavirus di quanto fosse stato ufficialmente confermato. Ma sono sempre di più anche i medici, gli operatori sanitari e persino i farmacisti ad aver conosciuto le patrie galere. Un medico è finito in manette dopo aver scritto un articolo sulla estrema fragilità del sistema sanitario pubblico egiziano. Un farmacista è stato prelevato durante l’orario di lavoro poco dopo aver pubblicato online la scarsità di equipaggiamento protettivo per gli operatori sanitari e per sé e i propri colleghi. Un editore è stato prelevato nella camera da letto durante la notte poco dopo aver espresso sui social la propria perplessità circa i dati ufficiali del coronavirus. Una dottoressa invece è stata arrestata per aver prestato il telefono dello studio a un collega che intendeva denunciare alle autorità un sospetto caso di coronavirus allo scopo di far ricoverare in ospedale il paziente molto probabilmente contagioso.

Sarebbero almeno 10 i medici e 6 i giornalisti arrestati da quando il virus ha colpito l’Egitto, lo scorso febbraio, secondo le organizzazioni non governative che si battono per il rispetto dei diritti umani sanciti dalle Convenzioni Internazionali e ratificati anche dal Cairo. Nel frattempo, altri operatori sanitari e giornalisti hanno fatto sapere a queste Onlus di aver ricevuto moniti non proprio blandi da parte degli amministratori pubblici in cui gli intimano di stare in silenzio, altrimenti verranno puniti. Un corrispondente straniero è fuggito dal paese, temendo l’arresto, e altri due sono stati ammoniti per “violazioni professionali”. Il coronavirus intanto continua a diffondersi nel paese di 100 milioni, minacciando di sopraffare gli ospedali. “Ogni giorno che vado al lavoro, sacrifico me stesso e tutta la mia famiglia”, ha detto al Fatto un medico del Cairo, che ha parlato a condizione di anonimato per paura di ritorsioni, come tutti i medici menzionati finora . “All’inizio ne arrestavano pochi ma in modo eclatante per inviare agli altri un messaggio di terrore neanche troppo subliminale. Non vedo alcuna luce all’orizzonte”. I medici affermano di essere costretti ad acquistare maschere chirurgiche con i loro magri salari.

La pandemia ha spinto il Sindacato medico egiziano, un gruppo professionale non politico, a ricoprire il nuovo ruolo di unico difensore dei diritti dei medici. Fino ad ora 117 medici, 39 infermieri e 32 farmacisti sono deceduti per Covid-19, secondo i dati dei membri del sindacato.

Twilight zone. Revival Berlusconi

Berlusconi al governo non è più un tabù”. Il primo ad annunciarlo è stato Prodi, già rivale del Cavaliere, ma a pensarlo e dirlo sono in tanti: nel Partito democratico, nella pattuglia renziana, e perfino nella sinistra di Liberi e Uguali. Per esempio Guglielmo Epifani, ex segretario generale della Cgil: anche lui ritiene “utile e interessante discutere sulla ‘praticabilità’ di un eventuale ingresso di Berlusconi in maggioranza”. Anche lui, probabilmente, ritiene che la vecchiaia porti saggezza. E che Berlusconi sia divenuto, a ben vedere, assai “interessante”.

Strana saggezza, quella che rompe tabù con tanta disinibizione. In genere la saggezza tende a conservarli, ma le eccezioni non mancano. I tabù cadono per stanchezza, o noia, o smemoratezza, o perché c’è chi coltiva lo spirito blasé e ne ha viste tante. Il passato diventa una sorta di nebbia spugnosa, come quella intravista dal vecchietto che d’un tratto appare in Amarcord e osservando i semi piumosi sparpagliati nell’aria dai pioppi – le “manine” annunciatrici della primavera – balbetta tutto scombussolato ma forse contento: “Vagano…gironzano…gironzo-la-no…”.

Come percepire in questa caligine indistinta la solida roccia di un tabù?

Quando cade un tabù c’è sempre da temere: sta per aprirsi l’era della Twilight Zone, quella “zona intermedia fra luce e ombra, fra scienza e superstizione, fra il pozzo delle paure umane e la cima della conoscenza”. Difficile difendersi e mantenere la testa a posto, quando irrompe la Quinta Dimensione e cammin facendo hai perso i tuoi tabù e ogni cosa che prima ti pareva indigesta la riscopri, nel crepuscolo, “interessante”. Soprattutto quando ad accogliere gli Interessanti ci sono politici – come Epifani – che stando all’intervista del Foglio parlano “con la loro solita voce garbata e lenta”. Slavoj Žižek ci ricorda che in Cina, se si odia veramente qualcuno, lo si maledice così: “Che tu possa vivere in tempi interessanti!”.

Non mi soffermerò sul curriculum di Berlusconi, sui suoi fatti e misfatti. Non perché quel paesaggio sia annebbiato da manine ma perché li ha già elencati su questo giornale Marco Travaglio, con penna precisa. Quel che si vorrebbe capire è l’origine di questa frana simultanea di memorie e salutari tabù. Tra le cause non va sottovalutato il giudizio quasi unanimemente sprezzante che viene espresso, dai politici di ieri e dai giornalisti mainstream, su Giuseppe Conte o su Cinque Stelle. Stupefacente disprezzo, se esaminiamo dappresso i commenti ricorrenti. Conte innanzitutto: chi era costui? È uscito dal “nulla”, era un “nessuno” – il ritornello viene immancabilmente recitato a mo’ di premessa – ed ecco che governa mica male, è da parecchi mesi molto popolare, negozia con tenacia sia su Autostrade sia in Europa.

Cosa ben strana, perché chi l’avrebbe mai detto visto che era un avvocato proprio sconosciuto. È come quando dicono di un personaggio: “Si è molto sviluppato negli ultimi tempi!”. La sottintesa verità essendo: “È appena ora sceso dagli alberi dove mangiava noci di cocco o banane ed eccolo qui”. Analoghi stereotipi vengono affibbiati ai deputati Cinque Stelle: ignoranti, incompetenti, eccetera. Anche loro sono scesi da qualche pianeta delle scimmie, presumibilmente. Mentre tutti quelli che c’erano prima di loro: da quanto tempo sono bipedi dotati di pensiero concettuale!

Intanto si cantano le lodi del vecchio mondo perduto. Ricco di persone profondamente erudite, di accademici puntuti, di intelligenze smaliziate, comunque di navigati: tipo Giulio Andreotti o Craxi o Berlusconi. Renzi ha mancato quasi tutti gli esami di idoneità, si è perfino inventato un’inesistente poesia di Borges, ma aspetta fiducioso il proprio revival con annesso smacchiatore di tabù: presto sentiremo dire che anche lui ha l’aureola per il fatto che possiede, grazie ai suoi senatori, il potere più infido che è quello di nuocere.

Le verità è che tutti sono venuti più o meno dal nulla, vecchi e nuovi. Per tutti c’è stato un goffo primo giorno di scuola politica e poi tanti giorni di trasformismo. Non erano, gli Antichi, nati competenti e cervelloni. Apparentemente però nessuno dei Nuovi ha la loro intelligenza; nessuno è, come lo furono i più o meno Antichi, “interessante”. Siamo governati da un nugolo di primati appena scesi dagli alberi, dove dovrebbero tornare. Inoltre i Nuovi sono populisti, cioè cercano di ascoltare quel che dice il popolo e di tenerne conto: niente di più incompetente, sentenziano gli Antichi che del suffragio universale farebbero volentieri a meno. Oppure sono sovranisti più o meno confessi: un epiteto ingiurioso che non significa nulla, se l’anti-sovranista non spiega una buona volta quel che significhi, per lui, “sovranità”.

Nel salotto può tornare Berlusconi. Andreotti no perché non c’è ma è di continuo celebrato (ah i bei tempi della prima repubblica!). I loro rapporti con la mafia e il malaffare – certificati da inchieste e verdetti giudiziari – sono quisquilie coltivate da robivecchi. La mafia stessa non fa più quella grande impressione, specie in tempi di Covid. Due inchieste sul Financial Times (7 e 9 luglio) raccontano come la ’ndrangheta infiltri il nostro sistema sanitario e venda bond sui mercati, ma i giornali mainstream non dicono un granché, né si preoccupano di capire l’effetto che notizie simili potrebbero sortire alla vigilia del negoziato Ue sul Recovery Fund (l’effetto di un pizzino, si può supporre). Sono in ben altre faccende affaccendati, come il rassettamento del passato che finirà col concedere il revival magari anche alle mafie.

Benvenuti in tempi interessanti.

 

Smartworking e amnesie: che fine fa il gree deal del sindaco Sala?

Proprio come il senatore Maurizio Gasparri che, attaccando l’Enel e la Banca d’Italia, ha dichiarato che lo smartworking sta uccidendo Roma, anche il sindaco di Milano Beppe Sala deve avere una strana concezione della fisiologia umana. A sentire le sue dichiarazioni, ribadite ieri a Sky Tg24, gli esseri umani che lavorano a casa, in zone distanti da quelle centrali o dalla Milano finanziaria, smetterebbero di mangiare e bere. Altrimenti non si spiega perché, a detta di Sala, lo smartworking (non la pandemia) sarebbe una catastrofe per l’economia e quindi non possa essere la normalità.

Come se, appunto, i lavoratori, facendo girare un’altra economia, non si recassero nei bar e pizzerie sotto casa, oppure non comprassero più cibo a domicilio invece che ai ristoranti sotto l’ufficio. Ignorando il fatto che in mezza Europa lo smartworking è la normalità, così come la pletora di studi che dimostrano come la gente a casa lavori di più e più contenta, il sindaco punta i piedi e dice, con miopia centro-centrica, che “se la città è vuota a essere in crisi sono anche i taxi e pure il lavoratori dello spettacolo” e che “se lo smartworking continua, dovremmo ripensare la città e ripensare la città richiede tempo”.

Ma come: non era lo stesso Sala quello che diceva che la rivoluzione green deve partire dalle città, leader contro la crisi climatica e che la questione ambientale è così centrale che si prendeva il coraggio di scelte impopolari? O intendeva che avrebbero dovuto occuparsene altri? Forse Sala soffre di severe amnesie. Non ricorda che lo smartworking è uno dei pochi strumenti per ridurre le emissioni e rendere le città sostenibili senza drammatiche rinunce. E neanche di essere a capo di una città devastata da un’epidemia, anche legata all’inquinamento. È proprio vero che quando il saggio indica la luna lo stolto guarda il dito. Anzi, in questo caso, la tazzina di caffè.

Mail Box

 

A Roma c’è gente d’oro, ma pure “de fogna”

Ho letto molte indignazioni sul sonetto pubblicato da Beppe Grillo sulla Raggi, in cui fa scandalo che a un certo punto l’autore, Franco Ferrari, la inviti a lasciare questa “gente de fogna”. Tra questi, Alessandro Gassman, risponde elencando tutta una serie di personaggi che hanno reso celebre Roma: Sergio Leone, Anna Magnani, Giulio Cesare , Trilussa, Alberto Sordi e per finire… Totti (sic). Ebbene, mi è venuto il dubbio, se non abbiano capito o facciano solo finta, rispondendo, (per rimanere in tema romanesco), con fischi pe’ fiaschi. Conosciamo tutti l’importanza di Roma e il valore di tanti romani che hanno contribuito a renderla illustre. Quello che si fa finta di sconoscere è che Roma non è solo quello, e non credo che un romano (per bene) faccia difficoltà a individuare qualche “topo di fogna” degno di quell’espressione. Senza andare troppo indietro nel tempo, sono molte le vicende poco edificanti che hanno connotato le cronache di Roma. Loro non le conoscono? Se ci ritroviamo in questa lamentela, è proprio perché Roma non è solo Totti e Leone. A meno che gli indignati, non siano quelli che pensano che i problemi di Roma sono nati 4 anni fa.

Valentina Felici

 

Chi critica Conte invidia la stima di cui gode

Mi sono sentito felice nel leggere l’intervista rilasciata al vostro quotidiano, che leggo ogni giorno, del Sig. Presidente del Consiglio. Sono stupefatto dalla sua limpidezza di espressione e chiarezza nel considerare, come mai fatto da nessun precedente Premier, la preminenza degli interessi pubblici su quelli privati o di singoli privati. Conte è una grande e unica risorsa per la nazione e proprio per questo sono costretto a capire le critiche a lui rivolte da tutti i partiti che però semplicemente, questi ultimi, mi fanno ridere come non mai. Dove saremmo ora, se ci fossero stati loro non lo voglio nemmeno pensare.

Fabio de Bartoli

 

Caro Sala, a prezzi uguali, stipendi uguali

Già dopo la prima perla (Milanesi è una semplice influenza, prendete l’aperitivo), il sindaco di Milano avrebbero dovuto rinchiuderlo per infermità mentale. Non l’hanno fatto, ed ecco che ne ha sparata un’altra. Gli stipendi dei lavoratori calabresi, (sospetto di tutto il sud) dovrebbero essere più bassi rispetto ai lavoratori del nord. Checché ne pensi Sala, i prezzi che lo Stato fa pagare per i suoi “prodotti” sono gli stessi del nord: trasporti, marche da bollo, visite dal medico, libri per la scuola, mutui e carburante.

Antonio Perrone

 

Soldi europei: saperli spendere e rendicontare

“I fondi europei gli italiani se li tagliano da soli, perché non sanno né spendere tutto, né rendicontare bene”. Chi lavora in ambito europeo sa che questa è la vulgata che circola nei nostri confronti. Purtroppo, non è solo un pregiudizio, ma la valutazione consolidatasi in anni di affannosa rincorsa alla piena spesa degli euro-fondi disponibili e alla ancor più di lacunosa rendicontazione di quelli impegnati. Le cose nel tempo sono migliorate, abbiamo imparato dai nostri errori. Morale: bene trattare per avere un Recovery Fund sostanzioso, ma attrezziamoci per una spesa coerente nella destinazione e ineccepibile nella rendicontazione.

Massimo Marnetto

 

Calenda irritante e borioso clone di Renzi

L’ex ministro Calenda del partito Azione, secondo sondaggi attendibili, entrerebbe in Parlamento alle prossime elezioni Politiche. Invece, il suo “maestro”, l’ex “rottamatore”, con Italia viva resterebbe fuori. L’ego di Calenda è abnorme. Anche se ha fatto meno danni economici, sociali, lavorativi, politici, dell’ex “riformista” in camicia bianca, Calenda ha una boria ai limiti dell’irritazione, ai confini del parossismo, convinto com’è che alle future elezioni politiche il suo partito supererà l’8% di Scelta civica. Ma necessitiamo davvero di una riproduzione di Renzi?

Marcello Buttazzo

 

Diritto di replica

Abbiamo letto con dispiacere l’articolo La Siae gli manda un pacco di cibo. L’artista si offende. Innanzitutto precisiamo che il signor Dario Napoli, che probabilmente è alla ricerca di 15 minuti di notorietà, non è un nostro associato ma ha dato esclusivamente mandato alla Siae di tutela delle sue opere. Anche prima dell’emergenza sanitaria, il suo maturato di diritto d’autore era molto basso, tale da far presumere che la sua principale attività non sia autorale ma di interprete esecutore chitarrista. Le azioni di sostegno messe in campo dalla Siae in questo difficilissimo periodo prevedono che, oltre al fondo di 500.000 euro per inviare pacchi alimentari (per i quali abbiamo ricevuto centinaia di mail e telefonate di ringraziamento), la Società ha stanziato altri 500.000 euro che ha erogato a oltre 100 associati, che è cosa diversa dai mandanti, dando la precedenza alle persone anziane (over 75) e/o invalide. In più, visto che i mancati incassi avranno i loro effetti sui diritti del 2021, è stato istituito un fondo straordinario proporzionale per tutti di 60 milioni. Pertanto la polemica del signor Dario Napoli è veramente ingiusta e strumentale.

Ufficio stampa Siae

Vittime Morandi. “Nella nostra lotta avanti uniti e senza matite spuntate”

 

Gentile direttore, non è così semplice dover sopportare il dolore che stiamo provando da quasi due anni, le tante interviste che riteniamo doverose e l’attenzione su di noi. Riteniamo tutto questo, però, necessario per i nostri obiettivi primari: il ricordo e il rispetto dei nostri cari, la profonda necessità di giustizia, equità, rigore, e il perseguimento di politiche forti per la tutela della sicurezza. Con grande dispiacere ho letto, riportata nella mia intervista al Fatto, una risposta che mi è stata attribuita che, oltre a non avere pronunciato, non mi appartiene. Non ho mai volutamente parlato della circostanza dei risarcimenti perché la ritengo una questione molto delicata e personale, con mille sfaccettature e difficoltà nemmeno lontanamente immaginabili da osservatori esterni. Io ho scelto di non voler neanche sentire un’eventuale proposta di risarcimento. Ecco perché non ho mai parlato, e né tanto meno l’avrei fatto nell’intervista, di cifre. Io non voglio essere la prima della classe, non voglio fare la parte dell’eroina, non me la sento cucita addosso. Ho avuto la possibilità di non accettare risarcimenti prima del processo: e questo per me è stato un privilegio. Ma la mia lotta è indirizzata a rappresentare tutti, anche coloro che non potranno essere parte civile nel processo: non saremo soli nelle aule di tribunale, mai! Dietro la nostra presenza, oltre a tutte le famiglie colpite, c’è la coscienza delle persone perbene che ancora esistono nel nostro Paese. Una forza collettiva che, se animata, può essere dirompente e che non può essere scalfita da una leggerezza – sicuramente fatta in buona fede – del vostro giornalista. Perché ci unisce qualcosa di più forte: la convinzione di essere parte lesa in una battaglia enorme nella quale vogliamo proseguire senza matite spuntate. In questi giorni di grande attesa e trepidazione per l’importante partita che si sta giocando sulle concessioni noi abbiamo bisogno di pace, e speriamo che la coscienza sia del governo sia del Parlamento possano dare al Paese una speranza di rigore e di giustizia da tanti agognata.


Egle Possetti
Presidente Comitato Vittime Ponte Morandi

 

Gentile signora possetti, ha ragione: nel nostro colloquio non aveva citato l’entità dei risarcimenti né fatto riferimento a scelte di altri. L’inciso è stato aggiunto da me nel tentativo di contestualizzare la risposta, senza pensare a quanto fosse inopportuno attribuire a lei quelle parole. Me ne scuso, profondamente, con lei e tutti gli altri familiari.

Paolo Frosina

“Scontro tra civiltà”: una fake news nata dopo Srebrenica

Il venticinquesimo anniversario del massacro di Srebrenica poteva essere l’occasione per tentare di rispondere alla domanda implicita che ci lasciò l’Alto rappresentante Onu Paddy Ashdown: “Avremmo potuto evitarlo. Ma non lo facemmo”. Perché? Se l’argomento non appassiona le opinioni pubbliche è anche per cattiva coscienza. L’inazione europea fu il prodotto di pregiudizi, pavidità, ipocrisie in parte tuttora acquattati nella destra e nella sinistra. Alla maggior parte dei governi non piaceva l’idea di un Paese a maggioranza musulmana in Europa (quando chiesi all’ex premier bosniaco Hasan Muratovic se le cose sarebbero andate diversamente qualora i musulmani si fossero chiamati “cristiani”, mi rispose: “Sicuramente”). Inoltre la Serbia aveva relazioni storiche con Francia e Italia, perciò disponibili ad accordare a Belgrado una certa segreta tolleranza; e la sua alleanza tradizionale con la Russia incuteva timore. Con maggiore impudicizia Austria, Germania e Italia proteggevano la Croazia. L’avevano spacciata per una democrazia liberale, finsero di non sapere che le milizie dirette da Zagabria erano coinvolte nell’aggressione alla Bosnia (valga in proposito la sentenza contro Jadranko Prlic del Tribunale internazionale per i crimini nell’ex Jugoslavia).

L’effetto combinato di tutto questo fu un embargo Onu sulle armi che colpiva soltanto gli aggrediti; e una missione Onu tanto vile quanto intenzionalmente inefficace. E quando l’unico comandante Onu dotato di senso dell’onore, il generale britannico Smith, propose di sbloccare con i suoi mortai l’assedio di Sarajevo, l’inviato speciale delle Nazioni Unite lasciò cadere quella proposta.

Srebrenica cambiò tutto, l’opinione pubblica americana insorse e Clinton fu costretto controvoglia a lanciare l’aviazione Usa sulle postazioni serbe. Tuttora il pacifismo depreca quella settimana di bombardamenti che costrinse i serbi alla resa. Ma per quanto 500 uccisi siano una cifra spaventosa, è infinitamente più bassa delle vittime che avrebbe fatto la guerra se fosse proseguita. Nei tre anni e mezzo della sua durata era costata la vita a quasi centomila esseri umani, per l’80 per cento musulmani uccisi dalle milizie serbe e croate; queste ultime assassinarono anche un significativo numero di anti-nazionalisti della propria etnia (lo scrittore Predrag Matvejevic mi raccontò di suo nipote, fucilato a Mostar perché rifiutava di arruolarsi nelle milizie croate). Se a questo aggiungiamo che nelle maggiori città bosniache la percentuale di matrimoni misti era alta, e che le milizie etniche di fatto nacquero per impulso degli stati maggiori serbo e croato, non è difficile comprendere che il conflitto non fu affatto una spontanea deflagrazione di “odii atavici”, di animosità tra religioni e civiltà.

Ma all’Europa conveniva credere allo scontro tra forze inarrestabili che risalivano dal profondo della storia. Se il conflitto era ineluttabile come un terremoto non si poteva fare molto per arrestarlo, tanto più perché tutti risultavano colpevoli, tutti vittime di un odio incomprensibile, metafisico. Su questa narrativa il politologo americano Samuel Huntington ricavò una tesi di straordinario successo, lo “scontro tra civiltà”, che tuttora va fortissimo, non solo a destra. L’ultimo a farvi riferimento è stato Massimo D’Alema. Ma il primo che mi introdusse ad Huntington fu, nel 1997, un imam di Giacarta. Aveva allestito nella sua moschea una mostra sulla persecuzione dei musulmani nel mondo: lo “scontro tra civiltà” si confaceva perfettamente alle sue mistificazioni.

 

Denatalità. I giovani non fanno figli o espatriano: colpa del precariato

È passata un po’ sottotraccia, un po’ nascosta, un po’ spazzata sotto il tappeto, la notizia che siamo meno, sempre meno. Noi italiani, si intende. Nel 2019 abbiamo fatto 19 mila bambini in meno dell’anno precedente, toccando così, dice l’Istat, il punto più basso dall’unità d’Italia. Una curva in discesa, perché i bambini hanno questo vizio di abbassare l’età media, e se non arrivano loro l’età media si alza un bel po’, e poi la prevalenza dell’anziano fa in modo che la popolazione fertile sia sempre meno numerosa, e allora si fanno meno bambini e via così.

Non è solo a causa della carenza strutturale di nuovi italiani col pannolino che ci stiamo assottigliando. Bisogna aggiungere al bilancio i 126 mila italiani che nel 2019 hanno fatto ciao ciao con la manina trasferendosi all’estero, e poi, a questi, sommare 56 mila stranieri residenti in Italia (altri italiani, quindi) che hanno deciso di cambiare aria, magari verso Paesi dove non vengono diuturnamente insultati e minacciati da un pittoresco baciatore di salami e dai suoi tifosi. Esilarante in proposito il titolo di Libero: “Anche gli stranieri ci snobbano”. C’è da capirli, avranno letto certi titoli di Libero.

Cabaret sovranista a parte, il saldo dei cittadini che pagavano tasse e contributi qui e che ora pagano tasse e contributi in altri Paesi è di 25 mila in più nel 2019 sul 2018), che già era stato un anno record. In una logica trumpiana cara ad alcuni pupazzi della destra bisognerebbe fare un muro ai confini, non per impedire l’ingresso agli immigrati brutti sporchi e cattivi, ma per non fare uscire gli italiani.

Ah, già. Prima gli italiani, certo. Il dibattito (un po’ stitico, si diceva) si avvita un po’, e i massimi pensatori si arrovellano per cercare di spiegare come mai facciamo meno figli, dannazione. Ma è un dibattito antico e noioso, mentre la domanda dovrebbe essere ribaltata: perché diavolo due italiani normali, medi, onesti, che vivono del proprio lavoro (meglio, dei loro mille lavoretti appiccicati con lo scotch, solubili e precari, revocabili) dovrebbero fare un bambino? In generale, uno sceglie imprese più facili, tipo scalare l’Everest con le infradito. Il problema è anche che questa faccenda dei bambini che mancano all’appello per mancato concepimento diventano qui e là, periodicamente, nel modo carsico della politica italiana, oggetto di propaganda, e ancora ricordiamo l’esilarante “mille asili in mille giorni” di quello là, parlandone da vivo.

Poi tutti incrociano grafici, disegnano tabelle, e a nessuno che venga in mente di sovrapporre la curva del calo demografico alla curva della sicurezza del posto di lavoro, insomma agli effetti delle leggi che in questi ultimi dieci anni (e più) hanno reso il lavoratore una variabile dipendente sacrificabile e comprimibile a piacere, mentre i profitti sono sacri e intoccabili. Bizzarro strabismo davanti a una verità incontestabile: se fai un figlio devi essere sicuro di dargli da mangiare, di farlo studiare e di assicurargli una vita almeno decente, tutte cose su cui una coppia intorno ai trent’anni, oggi, fa sempre più fatica a scommettere. La logica del “tutti licenziabili, hurrà!, così assumeranno altri!”, dicono le tabelle, non funziona e fa danni. Però, strano a dirsi, l’analisi si ferma quasi sempre all’elenco dei numeri e ai sospiri preoccupati, che è un po’ come stupirsi dell’allagamento dopo aver aperto tutti i rubinetti e sigillato gli scarichi. Poi, con l’acqua alle ginocchia, tutti a stupirsi: non fate più figli. Ehi! Voi! Come mai?

 

I Benetton e l’omertà di giornali e sinistra

Domenica scorsa, lo stesso giorno in cui Giuseppe Conte consegnava al Fatto il suo atto d’accusa contro Atlantia ed esprimeva la sua contrarietà a mantenere i Benetton fra i soci della futura società autostradale, un editoriale del Corriere della Sera a firma Ferruccio de Bortoli dipingeva un quadro assai pesante delle responsabilità della famiglia di Ponzano Veneto. “Ingombrante e spregiudicato” vi era definito il “vigilato”, cioè Aspi, che aveva esercitato una “vigilanza inefficiente” sulla rete autostradale dopo averla “per certi versi catturata”, cioè sottratta al ministero delle Infrastrutture cui spettava. Non basta. In conclusione de Bortoli ricordava che Aspi ha “per anni goduto di tariffe alte, fatto pochi investimenti (e per giunta con società controllate in house) e messo in pericolo l’incolumità pubblica”.

Ciò non di meno, l’editorialista del Corriere nega che la revoca della concessione o l’estromissione dei Benetton da Aspi siano oggi una soluzione necessaria e vantaggiosa. Ammetto di non avere competenza sufficiente per entrare nel merito delle scelte che il governo è chiamato, con grave ritardo, ad assumere. In aggiunta ai rilievi di de Bortoli, vale la pena di citare i tentativi di manomissione dei documenti messi in atto da manager della concessionaria e scoperti dalla magistratura dopo il crollo del ponte Morandi; nonché la buonuscita di 13 milioni liquidata (solo in parte) all’amministratore delegato uscente, Giovanni Castellucci.

In ogni caso, leggendo de Bortoli, viene da dire: alla buon’ora. Perché le critiche severe rivolte dal Corriere all’operato dei manager nominati dai Benetton giungono fuori tempo massimo. Ricordiamo bene quale fu l’atteggiamento dei grandi giornali dell’establishment nei giorni successivi alla tragedia. Invano, nei loro titoli, si sarebbe potuto rintracciare anche solo il nome degli azionisti di Aspi. Con eccesso di zelo, si cercò di coprirli benché tale reticenza finisse per alimentare deprecabili pulsioni di giustizia sommaria. Pesava, certo, il fatto che i Benetton erano parte del capitalismo di relazione insediato nelle proprietà dei giornali, che l’ad dell’editoriale Gedi sedeva anche nel cda di Atlantia (holding dei Benetton), e che questi ultimi erano ottimi inserzionisti pubblicitari. Ma quell’istinto di subalternità è stato alla base di un’informazione distorta che solo oggi trova parziale e tardiva riparazione.

Un’omertà, chiamiamola col suo nome, che ha influenzato anche i vertici del centrosinistra, restio ad ammettere che pur di convincere i Benetton a prendere in gestione le autostrade erano state concesse loro condizioni di favore esagerate. Mi soccorre, in proposito, l’ammissione di un importante dirigente del Pd, Goffredo Bettini, sempre sulle pagine del Corriere: “La sinistra nel passato (per fortuna non ora) è stata troppo subalterna e intimorita di fronte alle grandi imprese globali industriali e finanziarie. Abbiamo usato i guanti bianchi con i grandi poteri, considerando, invece, le piccole e medie imprese radicate nei territori come i primi responsabili dell’evasione. Questa impostazione va radicalmente rovesciata”.

Anche qui, meglio tardi che mai. Si potrebbe obiettare a Bettini che l’auspicato rovesciamento di impostazione non è riscontrabile nel recente prestito agevolato concesso a Fca Italia senza condizionalità sufficienti riguardo al suo impiego. È difficile liberarsi della soggezione esercitata per tanti anni dalle centrali del potere economico su una sinistra che cercava sostegno ai suoi governi, disposta per questo a chiudere un occhio sui vizi del capitalismo italiano. Il prezzo pagato è stato alto: la recisione di legami storici con il mondo del lavoro dipendente, e il conseguente dimezzamento del peso elettorale del Pd. Se una quota maggioritaria del voto operaio nel 2018 è andata alla Lega, lo si deve anche all’illusione sbagliata che solo un nazionalismo economico mascherato da propaganda antiborghese potesse ormai tutelarne gli interessi.

Ricordo con disagio i fischi rivolti ai dirigenti del Pd durante i funerali delle 43 vittime di Genova, mentre Salvini profanava il lutto con i suoi selfie. Continuo a trovare inaccettabile il linciaggio preventivo degli indagati, gli attacchi sgangherati a Oliviero Toscani (che ahimè, provocato, altrettanto sgangheratamente rispose), gli indici puntati contro le Sardine sol perché fotografate vicino a Luciano Benetton. Ma le tendenze forcaiole hanno trovato alimento nella pavidità con cui buona parte dell’informazione e del sistema politico sono venuti meno al dovere di prendere posizione con chiarezza sui guadagni facili e sulle inadempienze di Aspi. Il futuro del governo dipenderà in buona misura dal saper rimediare questa inadempienza.

 

La spectre dei gatti che decide per Atlantia: Povero pesciolino rosso

L’altro giorno, il gatto dei Benetton, un persiano bianco che è la mente diabolica dietro ogni decisione della Spectre (Atlantia-Autostrade-Ponte Morandi-Aeroporti di Roma), ha consigliato il suo boss, che se lo accarezzava in grembo, di approfittare della congiuntura politica italiana (dove alcuni del Pd si stanno apparecchiando lo scivolo per il dopo Conte, dato per imminente; e Di Maio incontra Gianni Letta), anche perché lo stigma con cui Mattarella bollò la concessionaria autostradale dopo il crollo del ponte Morandi (“incuria, omesso controllo, consapevole superficialità, brama di profitto”) chi se lo ricorda più, a parte i familiari degli assassinati?

Senza rivendicare i propri meriti (grazie al contenimento della spesa in manutenzione e in investimenti, e al sistema tariffario congegnato per garantire tariffe sempre crescenti, +27 per cento dal 2009, tutte sue idee, negli ultimi 15 anni Aspi ha staccato dividendi per 9 miliardi ad Atlantia; sempre sua la clausola oscena, vietata dal codice civile, che garantisce alla Spectre un indennizzo mostruoso anche in caso di revoca per colpa grave), il persiano ha suggerito al boss di adottare la strategia preferita da un suo gemello, il gatto di Zuckerberg: temporeggiare. (Ha 12 gemelli, fra cui i persiani di Bezos, Page, Brin, Gates e Jobs). E così Aspi ha promesso al governo di aumentare le manutenzioni del 40 per cento al 2023, e altre cazzatelle. A questo punto, il pesciolino rosso di Roberto Tomasi, direttore generale di Autostrade per l’Italia, per chiudere il cerchio ha chiesto al gatto dei Benetton se intendesse dunque appoggiare con investimenti pubblicitari i giornaloni che spingono per la caduta di Conte, in modo da mantenere la concessione lucrosa.

Allora il gatto, alzati gli occhi al cielo, gli ha spiegato la situazione, e la nuova idea che gli frulla in testa: la partita Autostrade è persa, dato che il governo s’è accorto degli inadempimenti gravissimi (decenni di cattive o mancate manutenzioni, ordinarie e straordinarie, della rete autostradale) che hanno portato al crollo del ponte e a 43 omicidi. Per evitare che lo Stato avanzi pretese risarcitorie legittime e ingenti (solo Renzi fa ancora finta di non sapere che non è lo Stato che deve soldi alla Spectre, ma viceversa), il governo Conte va sostenuto.

Era evidente che il pesciolino rosso non capiva (stop delle bollicine). “Il governo” ha proseguito quindi il gatto, le fusa venate di indulgenza, “sta varando una società a controllo pubblico per gestire la rete unica di Internet in banda larga con il denaro statale di Cassa depositi e prestiti e le infrastrutture di Telecom. Dobbiamo diventarne soci assieme a Cdp, cioè allo Stato, per assicurarci una rendita eterna e sicura, al posto del bancomat autostradale. Il governo Conte, con questi chiari di luna, ha bisogno di tutto l’appoggio possibile: Prodi non disdegna neppure quello di Berlusconi, la solita smania ipocrita di dimenticare l’offesa quando c’è un tornaconto. Mentre tutti stanno ancora parlando di riduzione dei pedaggi, dimenticando che le autostrade dovrebbero essere gratis da un pezzo, occorre che noi ci muoviamo d’anticipo, pensando al dopo.” Il pesciolino rosso restava dubbioso: “E il dissenso interno dei grillini? Non accetteranno la Spectre come socia dello Stato”. Il gatto, sornione, gli ha risposto: “Se cade Conte, il M5S sparisce. Basterà un tweet di Grillo e tutti torneranno a cuccia, come sempre”. E se l’è mangiato.