Forse Giuliano Amato ha nostalgia del passato. Oggi giudice della Corte costituzionale, pare infatti che abbia ritrovato la passione per la politica. Non si spiega altrimenti come nelle ultime due settimane abbia lasciato da parte la dovuta terzietà del ruolo che ricopre per commentare l’attualità politica. Di ieri è l’intervista al Dubbio, dove tra un monito e l’altro ha trovato il modo di criticare il prolungamento dello stato d’emergenza (“Una cosa sono le urgenze cautelari di tipo sanitario, una cosa le misure d’emergenza che può stabilire la protezione civile e finora, per così dire, l’una si è infilata nell’altro”) e pure il rapporto tra la maggioranza e l’opposizione, richiamando Conte a un maggior coinvolgimento della destra e a “fare in modo che le decisioni si prendano in Parlamento”. Insomma le parti politiche “non riescono ad assumere comportamenti coerenti con l’esigenza di unità”, come peraltro Amato aveva già notato sul Foglio del 30 giugno, quando aveva pure aperto al Mes (“Che problemi dovrebbero esserci con le condizionalità?”) ribadendo – si torna lì – che “purtroppo il modo in cui viene utilizzato il Parlamento non aiuta”. Alla faccia dell’imparzialità.
La grigliata di Ferragosto sarebbe un gran film
Soggetto per un film dal titolo: “Grigliata di Ferragosto”. A Cortina, nella villa di un ricchissimo e potentissimo industriale si svolge una riunione di famiglia per decidere se confermare oppure rinviare la tradizionale grigliata del 15 agosto, in compagnia dei parenti e degli amici più cari. La vigilia è stata funestata da una immane tragedia: a Genova il crollo del viadotto gestito da una società autostradale di cui la famiglia controlla il pacchetto azionario ha provocato decine e decine di morti e di feriti. I tg di tutto il mondo trasmettono continuamente le immagini del ponte che si sbriciola, con le auto e i camion che precipitano nel vuoto mentre si sentono le urla terrorizzate di chi non si capacita che sia tutto vero e prega di svegliarsi dall’incubo.
Anche nella grande villa tutti naturalmente si dicono turbati di quanto accaduto ma non tutti condividono l’idea di annullare gli inviti. Le voci si sovrappongono, poi tacciono quando un signore dall’aria saggia e gentile, probabilmente il patriarca comincia a parlare. Dice: comprendo i vostri sentimenti, che sono anche miei ma la nostra grigliata è stata organizzata da tempo, gli invitati stanno per raggiungerci, e cancellare tutto all’ultimo momento sarebbe complesso e anche poco educato. E poi, aggiunge, rimandare indietro i nostri amici e chiuderci in casa sembrerebbe quasi un’ammissione di colpa, e noi non abbiamo colpa di nulla. La decisione sembra presa quando una voce femminile sale di tono, e nell’osare ciò che osa quasi trema. Appartiene a una giovanissima donna, forse la nipote dell’uomo dalla voce saggia e gentile. Poche frasi soltanto, queste. Ma come possiamo fare finta che non sia accaduto nulla? Fatevi la vostra grigliata, io non ci sarò. Prima però che lasci la villa, il patriarca la ferma e le dice: hai ragione, non possiamo. E tutti si sentono sollevati. Quando ho sottoposto questa idea a un regista amico mi ha detto solamente: “Non funziona, troppo irrealistica”.
“Fondi Covid alle aziende della ‘ndrangheta”
Le mani della ’ndrangheta sui contributi pubblici a fondo perduto per le aziende colpite dal Covid. Con almeno 60 mila euro finiti sui conti correnti di società legate alle cosche. L’indagine della Direzione distrettuale antimafia di Milano – guidata dal procuratore aggiunto Alessandra Dolci – ha portato all’arresto di otto persone, quattro finite in carcere, quattro ai domiciliari. Ventisette gli indagati, accusati a vario titolo di associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale (aggravata dal metodo mafioso e dalla disponibilità di armi), autoriciclaggio, intestazione fittizia di beni e bancarotta.
Secondo gli inquirenti, le società – attive nel commercio dell’acciaio – ottenevano i fondi tramite un sistema di false fatture che attestavano un volume d’affari non veritiero. Seppur intestate a prestanome, a gestirle era Francesco Maida, considerato vicino alla cosca della ’ndrangheta capeggiata da Lino Greco, boss di San Mauro Marchesato. L’11 giugno scorso, Maida – coadiuvato da Simone Cipolloni, titolare di alcune delle imprese in questione – “si cominciava ad attivare” presso “Monte Paschi di Siena, Bpm e Deutsche Bank” per ottenere i contributi. “Abbiamo fatto la richiesta per fare quella cosa lì dei 150 mila euro, no? Mi ha mandato quella per i 25 mila, io invece avevo fatto la richiesta dell’altro”, si lamentava Cipolloni con un funzionario della Bpm, chiedendo il finanziamento previsto dal decreto Liquidità al posto del semplice prestito da 25 mila euro garantito dallo Stato nel Cura Italia.
L’inchiesta, spiega il procuratore di Milano Francesco Greco, ha svelato “una complessa frode all’Iva” realizzata attraverso società “cartiere” e “filtro”, anche all’estero, intestate a prestanome. In particolare, gli affiliati alla ’ndrangheta si sono avvalsi della “collaborazione” di un cittadino cinese (arrestato) residente in Toscana, “interessato a riciclare importanti somme” in contanti verso la Cina.
Il Lazio deroga al regolamento anticorruzione
La norma è la stessa e anche l’incarico da assegnare ma le prescrizioni dell’Autorità Nazionale Anticorruzione no. In pochi mesi l’Anac ha espresso due indicazioni differenti sui requisiti che deve avere la figura del responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza. Il 18 dicembre ha pubblicato una delibera che sottolineava la necessità che tale ruolo in un ente pubblico fosse ricoperto da un dirigente di prima o seconda fascia interno, censurando un ente regionale, non specificato, che aveva scelto dirigenti non di ruolo esterni.
Una delibera in netto contrasto però con quanto accade in Regione Lazio. Da anni qui il responsabile Anticorruzione è Andrea Tardiola, segretario generale della giunta, dirigente esterno. Da gennaio, anche in consiglio regionale tale figura è ricoperta dal segretario comunale Barbara Dominici. Roberta Bernardeschi, segretario regionale della Fedirets DirerLazio, sindacato dei dirigenti regionali, ha inviato una segnalazione all’Anac denunciando il fatto. Ma l’Anac ha sconfessato la sua delibera di pochi mesi fa, precisando che “le Amministrazioni debbono effettuare la scelta tenendo anche conto delle proprie caratteristiche strutturali e sulla base della propria autonomia organizzativa”, si legge in una lettera inviata al sindacato a fine maggio.
“Una risposta inspiegabile – sottolinea Bernardeschi – anche perché in Regione ci sono decine di dirigenti di ruolo con i requisiti necessari per ricoprire l’incarico di responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza”.
Tre consiglieri sul caso Lucarelli “Il presidente dà versioni inesatte”
Tre consiglieri dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, Lucia Bocchi, Fabio Cavalera e Rossella Verga, chiedono al presidente Alessandro Galimberti di fare “chiarezza” sul caso che ha portato al deferimento di Selvaggia Lucarelli, alla quale viene contestato di aver violato la Carta di Treviso pubblicando un video nel quale il figlio 15enne della giornalista, il 5 luglio, viene identificato dalla polizia dopo aver contestato Matteo Salvini nel corso di una manifestazione a Milano. I tre hanno chiesto un consiglio straordinario per capire “l’esatta dinamica dei fatti”.
“La decisione di deferire la collega Selvaggia Lucarelli è stata presa sulla base di una ricostruzione fornita dal presidente Galimberti che la vedeva come prima attrice (in senso temporale) dei fatti che hanno reso riconoscibile il figlio minorenne. Gli attacchi di queste ore partono invece dalla premessa che gli avvenimenti non si siano svolti così, o meglio non in tale sequenza”.
Non sembrano esserci dubbi, infatti, che i primi video in cui il minore è identificabile siano stati diffusi dalle agenzie Local Team e Agtw. Qualche ora dopo è uscito quello con le precisazioni di Selvaggia Lucarelli su Tpi. Alla domanda se abbia deferito anche le due agenzie, Galimberti non risponde. Dice solo: “Oggetto dell’indagine del Consiglio di disciplina saranno tutti i fatti e tutti i comportamenti in violazione della Carta di Treviso”. Bocchi, Cavalera e Verga scrivono però a Galimberti: “O la collega Lucarelli ha divulgato per prima il coinvolgimento del figlio minorenne (come hai sostenuto nella relazione del consiglio del 6 luglio) o la collega Lucarelli da madre (come da lei scritto), è intervenuta in difesa del figlio stesso e ha reagito a posteriori alla pubblicazione da parte di altri siti giornalistici e non giornalistici. La certezza sui fatti e sulla successione dei fatti è essenziale al fine di mettere a tacere fastidiose polemiche e strumentalizzazioni e al fine di stabilire se vi siano stati oppure no situazioni e comportamenti da segnalare al consiglio di disciplina”.
Borghezio e il colpo grosso all’Archivio: “Volevo solo fotocopiare, non ruberei mai”
Beccato a trafugare libri e documenti storici dall’Archivio di Stato, si è difeso dicendo di volerli “solo fotocopiare”. Al centro della singolare vicenda l’ex eurodeputato leghista Mario Borghezio, celebre per le uscite politicamente scorrette (quando non apertamente razziste) collezionate in trent’anni di carriera politica: l’ultima, sull’ex ministra Cécile Kyenge (“ci vuole imporre le sue tradizioni tribali”) gli costò l’espulsione dal suo gruppo a Bruxelles. Lo scorso novembre Borghezio è all’Archivio di Stato di Torino – nella centralissima piazza Castello, a due passi dal Palazzo Reale – a consultare alcune carte risalenti alla Seconda Guerra Mondiale. Alcune descrivono misure di protezione dai bombardamenti, altre parlano di razza, nazismo ed ebrei. Valore? Circa 100 mila euro. Il leghista raccoglie i documenti con delle comode graffette e sta per portarseli via, quando è sorpreso da un’impiegata dell’Archivio. Denunciato per furto ai Carabinieri del Nucleo tutela patrimonio culturale, si giustifica in quanto “grande appassionato di storia” e sostiene di voler “fotocopiare” quei documenti “che rappresentano un unicum. Ma le pare che possa rubare qualcosa?”, chiosa alla funzionaria.
I militari, però, segnalano la vicenda alla Procura torinese che apre un fascicolo e perquisisce l’abitazione del politico: dove, in effetti, ci sono circa 700 pagine di documenti storici fotocopiati. Ricevuto l’avviso di chiusura indagini, Borghezio chiede di essere sentito e spiegare le sue ragioni. E ieri, davanti al sostituto procuratore Francesco Pelosi, ribadisce l’assenza di dolo: “È vero, ho portato via dei libri. Ma è stato solo per fotocopiarli a uso personale. Li avrei restituiti”. Tesi che non convince del tutto, se è vero – come scrive Repubblica – che alcuni libri non sono mai stati portati indietro (o almeno, all’Archivio di Stato non si trovano più) mentre le fotocopie trovate a casa Borghezio dimostrano un sicuro passaggio nelle sue mani.
Una passione – quella dell’ex onorevole per gli archivi storici – che ha quasi mezzo secolo: “Ho cominciato a frequentarli negli anni dell’università, quando ho scritto la tesi, in Storia del diritto, basata soprattutto su materiali d’archivio”, raccontava al sito del Fatto. Ma non c’è solo la storia antica: “Sono stato anche negli archivi dell’Antimafia a cercare documenti sui legami tra mafia, politica e massoneria”. E poi il vanto della sua collezione di libri antichi, tutti scovati sui banchi dei mercatini dell’usato. “Sono un grande acquirente, ma anche un consulente, de facto,di molti venditori”. E un grande fotocopiatore, certo. Ma questa è un’altra storia.
In Regione con il camice: “La giunta Fontana infanga l’indumento simbolo dei medici”
Camici bianchi, indossati o semplicemente mostrati, per chiedere “chiarimenti a Fontana”. È la protesta del M5S della Regione Lombardia, che ieri si è presentato in Consiglio regionale con l’indumento “simbolo dei medici” per richiamare l’attenzione sull’inchiesta sulla fornitura di dispositivi per oltre mezzo milione di euro da parte di Dama Spa, l’azienda del cognato del governatore Attilio Fontana. “Portiamo in aula – ha dichiarato Massimo De Rosa, capogruppo del M5s Lombardia – un simbolo che è stato infangato da questa Giunta che non ha lavorato in trasparenza. Chiediamo che il presidente e l’assessore vengano a riferire e chiarire su questi eventi”, “Non posso riferire in quest’aula con dovizia di particolari quello che è successo in quel periodo – ha risposto l’assessore all’Ambiente Raffaele Cattaneo – perché come è noto c’è un’indagine in corso. Qual era l’alternativa in quei giorni? Lasciare i nostri medici senza protezione, rimanere sul divano e scegliere la strada dell’irresponsabilità. Sapevo avremmo corso dei rischi ma rifarei tutto, in coscienza ritengo sia stata la cosa giusta”, ha concluso.
Speranza alle Camere.“Restrizioni fino a 31 luglio”. Salvini: “Ma ora smettetela”
Di qua l’eloquio fin troppo pacato del ministro della Salute Roberto Speranza che proroga tutte le restrizioni fino al 31 luglio perché “non esiste il rischio zero senza il vaccino” e rivendica che “sul Servizio sanitario nazionale abbiamo investito più negli ultimi cinque mesi che negli ultimi cinque anni”. Di là la spregiudicata demagogia di Matteo Salvini: “Smettetela di spaventare gli italiani, smettetela di tenere chiusi in casa gli italiani che vogliono vivere, lavorare, amare e sperare senza distanziamento sociale”. Il dibattito sulle comunicazioni del ministro al Senato è tutto qui, senza particolari sussulti. E una risicatissima maggioranza di 154 sì e 129 no alla risoluzione approvata dal governo. Un decreto del presidente del Consiglio, si suppone oggi in Gazzetta Ufficiale, confermerà fino a fine mese le misure in vigore dall’11 giugno per la Fase 2, scadute ieri sera: mascherine obbligatorie nei luoghi chiusi, distanziamento fisico di almeno un metro, misure igieniche e protocolli di sicurezza per la riapertura dei luoghi di lavoro, divieto di assembramenti; sanzioni penali per chi viola l’obbligo di quarantena. Speranza prorogherà anche il blocco dei voli e il divieto di ingresso per chi proviene dai 13 Paesi più colpiti (Armenia, Bahrein, Bangladesh, Brasile, Bosnia Erzegovina, Cile, Kuwait, Macedonia del Nord, Moldova, Oman, Panama, Perù, Repubblica Dominicana) e l’obbligo di quarantena di 14 giorni per chi arriva da tutti gli altri Paesi extra-Schengen.
Mascherine donate alla Cina: e alla fine siamo rimasti senza
A febbraio l’Unione europea ha donato alla Repubblica popolare cinese cinquantasei tonnellate di mascherine e guanti. Proprio quando l’Italia Settentrionale si trovava all’inizio dell’epidemia mortale, nonostante le rassicurazioni fornite a gennaio e febbraio sul contenimento europeo del contagio. Già nei mesi precedenti, in Europa, le scorte di Dispositivi di protezione individuale (Dpi) erano carenti. Le scorte di mascherine previste dai piani pandemici europei, mai aggiornati dal 2010, erano scadute. Sono state distrutte e mai sostituite. La Francia nel 2011 ne aveva 1,7 miliardi. A gennaio 2020, erano 117 milioni. Tra gennaio e marzo 2020 ne ha bruciate 1,5 milioni. Nel 2017 il Belgio ne ha distrutte 38 milioni, mai rimpiazzate.
A metà febbraio l’Ente europeo per il controllo e la prevenzione delle malattie (Ecdc) stava ancora finalizzando le linee guida per la preparazione e contrasto di eventuali pandemie. Quella bozza, mai pubblicata e ottenuta dal Bureau, rileva il problema della carenza di Dpi in Europa. E che la “capacità produttiva [europea] di mascherine chirurgiche verrebbe rapidamente superata dalla richiesta” nel caso scoppiasse una pandemia. L’Ecdc lavora a queste linee guida dal 2018, ma febbraio 2020 non erano ancora pronte. Quando a gennaio 2020 la commissione, il governo dell’Unione, ha iniziato a chiedere agli Stati membri informazioni sul loro stato di preparazione rispetto a una eventuale epidemia da coronavirus, nessun Paese ha segnalato problemi e carenze.
Il 5 febbraio la commissione ha avviato una valutazione formale delle reali carenze interne. Ci sono volute due settimane, e una serie di scadenze non rispettate, perché i governi fornissero le informazioni. L’attenzione politica europea era tutta concentrata su come aiutare la Cina, non sulle gravi mancanze interne. E il 13 febbraio, quando i ministri della salute europei hanno discusso per la prima volta il problema del nuovo coronavirus, il commissario alla salute Stella Kyriakides ha detto che l’Unione europea aveva già inviato dodici tonnellate di Dpi alla Cina e stava “mettendo in contatto le autorità cinesi con le aziende che produttrici di Dpi presenti in Ue”.
Appena cinque giorni dopo, il 17 febbraio, è emersa l’esistenza di un pericolo carenza di Dpi in Europa, quando gli esperti dell’Ecdc si sono riuniti alla sede di Stoccolma (sarà l’ultima volta). In quella riunione, Osamah Hamouda dell’Istituto Robert Koch in Germania avverte che il mercato europeo dei Dispositivi di protezione individuali è “già svuotato”. Ma per tutto il mese di febbraio, il team per la gestione delle crisi della commissione Ue guidato da Jean Lenarcic ha continuato a inviare Dpi donate dagli Stati membri alla Cina attraverso il meccanismo della protezione civile dell’Ue.
All’inizio di febbraio un aereo inviato in Cina per rimpatriare cittadini francesi e tedeschi ha trasportato dodici tonnellate di Dpi in Cina. A metà febbraio, Italia e Francia hanno inviato rispettivamente 1,5 tonnellate e 20 tonnellate di mascherine, guanti, termometri e disinfettanti. L’ultimo volo è partito da Vienna il 23 febbraio, trasportando 25 tonnellate di Dpi. Il 26 febbraio l’Italia richiedeva mascherine alla commissione europea. Ma la sua richiesta di aiuto è caduta nel vuoto, perché non c’era più nessun Dpi da poter fornire.
(Bureauof Investigative Journalism)
Errori Covid: euro-pasticci da Macron a Bruxelles
Dallo scoppio dell’epidemia di coronavirus a Wuhan, l’Unione europea – mentre cerca di darsi linee guida per scongiurare futuri lockdown – è passata dal considerare il virus un “problema cinese” a essere dichiarata dall’Oms “epicentro” della pandemia globale. Il coronavirus ha scosso le fondamenta della solidarietà europea e si è rivelato essere la più grande crisi collettiva affrontata dal continente dalla seconda guerra mondiale. Come è potuto succedere? Cosa non ha funzionato quando c’era ancora possibilità di evitare il disastro? Oggi su diversi media europei e in Italia in esclusiva sul Fatto, l’organizzazione Bureau of Investigative Journalism ricostruisce passo paaso la tragica catena di errori europei. Dall’esame dei verbali delle riunioni dei funzionari ed esperti europei è emerso come all’origine del disastro ci siano compiacenza — verso la Cina, con l’invio di 56 tonnellate di Dispositivi di protezione medica (Dpi) a febbraio, per poi rimanerne completamente sprovvisti — confusione, mancanza di coordinamento, scarsa comunicazione tra i Paesi, riunioni troppo brevi, aver completamente ignorato la lezione impartita dall’epidemia di influenza H1N1 (la suina) del 2009/’10, e aver optato per protezionismo invece che cooperazione, nei primi mesi del Covid europeo.
“Non possiamo prendere decisioni”
L’Ue non ha un mandato legale sulla salute, che rimane una questione nazionale sotto il controllo dei singoli Stati membri. Per questo, la commissione ha dato vita all’Health Security Committee (Hsc), un gruppo consultivo, a cui dopo l’epidemia di influenza H1N1, ha però affidato la responsabilità di coordinare le risposte alle minacce transfrontaliere. Il 17 gennaio si è tenuta la prima conference call sul coronavirus dell’Hsc, composto da rappresentanti dei ministri della sanità. Ma solo 12 rappresentanti dei 27 Stati membri, oltre a Regno Unito, hanno partecipato. Meno della metà. Wolfgang Philipp, che ha presieduto la riunione, ha informato i presenti della situazione in Cina: alcune decine di persone a Wuhan sarebbero state infettate da un nuovo ceppo di coronavirus; tre casi, due in Thailandia e uno in Giappone, erano stati confermati fuori dalla Cina, e tutti e tre erano stati a Wuhan. In quel momento, l’Oms non aveva ancora dato conferma che il virus potesse trasmettersi da uomo a uomo. Ma con 300 mila persone attese in Europa dalla Cina per il Capodanno cinese il 25 gennaio, la questione era cosa fare per i voli diretti da Wuhan a Londra, Parigi e Roma. Un rappresentante del Centro europeo per il controllo e la prevenzione delle malattie (Ecdc) presente alla riunione dichiarò che il monitoraggio agli aeroporti con termometri per la febbre e rilevazione dei sintomi fosse considerato poco efficace per impedire al virus di entrare in Europa, l’Hsc ha deciso di raccomandare queste misure per i 12 voli settimanali da Wuhan. Paesi come Francia e Regno Unito hanno fornito informazioni sulle misure già prese per i loro aeroporti nel corso di quel meeting. Mentre non c’è stata alcuna comunicazione, in tal senso, da parte dell’Italia. Il rappresentante italiano nominato dal ministro per la Salute Roberto Speranza, Francesco Maraglino, non ha nemmeno partecipato all’incontro. Il motivo, secondo il Ministero, è che non avrebbe visto l’email.
I singoli governi sono obbligati a informare l’Hsc delle misure che intendono intraprendere nel contrasto delle epidemie. Invece, le hanno messe in atto senza informare né l’Hsc né gli altri Paesi.
Il commissario della sanità europea Stella Kyriakides avrebbe poi dichiarato che “le misure vengono attuate in modi diversi nei punti di ingresso nell’Ue”. E che “le informazioni su tali misure non sono condivise abbastanza rapidamente”. Il 30 gennaio l’Italia ha deciso in autonomia di bloccare tutti i voli da e per la Cina e di prendere la temperatura di tutti i passeggeri agli arrivi.
Una risposta rapida ed efficace?
L’Ecdc ha da subito iniziato a studiare la minaccia coronavirus di Wuhan. I suoi primi rapporti mettevano in guardia dal trarre conclusioni sul rischio che questo ceppo di coronavirus, sconosciuto, potesse rappresentare per l’Europa, suggerendo che fosse ancora in gran parte confinato in Cina e che rimanesse una minaccia esterna. La commissione europea ha un team per la gestione delle crisi, guidato da Janez Lenarcic. Alla fine di gennaio la squadra aveva partecipato a una sola delle quattro riunioni indette dalla commissione, nonostante sia stata invitata a tutte. In sua assenza, il Dipartimento sanità della commissione ha dovuto provvedere a una propria “valutazione preliminare” riscontrando un “forte livello di preparazione” al contrasto di un’eventuale epidemia, sulla base delle informazioni fornite dagli Stati membri, secondo i verbali delle riunioni ottenuti dal Bureau.
Il 27 gennaio l’Italia ha richiesto una riunione del Consiglio dei ministri della sanità europei sul coronavirus. Il governo italiano spingeva per l’introduzione di misure di screening più severe in tutta Europa, nonostante l’Ecdc suggerisse che fossero inefficaci. Ci sono volute quasi tre settimane per ottenere la riunione, avvenuta il 13 febbraio, c’erano solo una manciata di casi di coronavirus confermati in Ue.
Il gran ballo delle definizioni
Il 22 gennaio il Ministero della salute italiano aveva stabilito la definizione di caso sospetto da Covid, cioè dei pazienti da controllare ed eventualmente sottoporre a tampone, seguendo le regole dell’Oms. In quel momento includeva anche un criterio puramente clinico, cioè chiunque “mostrasse un decorso clinico insolito o inaspettato, senza tener conto del luogo di residenza o della storia del viaggio”, in base ai consigli dell’Oms. Ma l’Oms e l’Edcd hanno poi cambiato le definizioni, indicando di testare pazienti che avessero sintomi ma solo se avessero avuto contatti con la Cina. E così il 27 gennaio l’Italia adegua la sua definizione alle linee guida Oms, stralciando quel criterio che avrebbe permesso, invece, di partire subito con una ricerca attiva dei potenziali infetti, a partire dagli ospedali del Nord. Proprio quello che prevedeva il criterio del 22 gennaio. Così il 27 febbraio, quando un uomo di 38 anni, con tosse, febbre e fiato corto, si è presentato al pronto soccorso di Codogno per la seconda volta, la dottoressa Annalisa Malara che era di turno, ha deciso di non rispettare più le linee guida che imponevano i test solo ai sintomatici con storia di viaggio o contatto con cittadini cinesi e ha proceduto con il tampone. Quello che ha aperto il vaso di Pandora italiano: i contagiati erano già centinaia. Solo il 2 marzo Ursula von der Leyen, presidente della commissione, ha dichiarato: “L’Ecdc ha annunciato che il livello di rischio è salito a livelli da moderato ad alto per i cittadini dell’Ue”. Von der Leyen ha annunciato in quell’occasione un nuovo team per l’emergenza. Ma i Paesi europei stavano imponendo restrizioni all’esportazione di forniture mediche ai vicini. Il 3 marzo, il presidente della Francia, Emmanuel Macron, ha annunciato la requisizione di “tutte le scorte e la produzione di maschere protettive”. Il giorno dopo, il governo tedesco ha vietato l’esportazione di Dpi. Lo spirito di cooperazione era svanito e anche la speranza di una risposta euro-coordinata. I camion carichi di mascherine, guanti e camici venivano bloccati alle frontiere. I leader europei si sono accusati a vicenda di minare la solidarietà dell’Ue e il mercato unico. Una fonte dell’Ue affermache la chiusura delle frontiere è stato il “problema più grande” durante la crisi. “Nonostante il fatto che la commissione abbia solo un ruolo di sostegno in materia di salute, protezione civile e gestione delle frontiere, ha preso l’iniziativa nelle prime reazioni caotiche degli Stati membri alle loro frontiere e ha impedito il peggio”, ha dichiarato un’altra fonte, interna alla commissione. Ha impedito “il blocco della circolazione della maggior parte delle merci e delle persone essenziali”. E ora a Bruxelles si pensa a una “modalità di crisi”, che darebbe alla commissione, il governo dell’Ue, più potere per misure efficaci in una pandemia, per evitare protezionismi.