“Spiaggia” elettorale: Salvini s’insedia al Forte

Una campagna elettorale dalla spiaggia. L’anno scorso era stato il Papeete di Milano Marittima da cui, tra un mojito e una tintarella, decise di buttare giù il governo gialloverde. Quest’anno Matteo Salvini ci è tornato nel weekend ma l’obiettivo è diverso: la conquista della Regione Toscana. Il set però è sempre lo stesso: il bagnasciuga, gli ombrelloni e le consolle con annessi selfie e bagni di folla. Non più però la costiera romagnola ma le spiagge chic della Versilia da cui farà base insieme alla fidanzata Francesca Verdini per girare in lungo e in largo la Toscana.

Il programma è già scritto: Salvini farà almeno due settimane a Forte dei Marmi ad agosto. Al posto del Papeete, la base della campagna elettorale sarà tra l’Alpemare, lo stabilimento dell’amico Andrea Bocelli, e le “capanne” del Twiga a Marina di Pietrasanta della coppia Briatore-Santanchè. Qui Salvini aveva già alloggiato nel 2015 e l’anno scorso l’ex pasionaria berlusconiana, oggi in Fratelli d’Italia, lo aveva provocato dalla consolle: “Altro che Papeete” diceva sui social con tanto di cuffie e vestito pitonato rivolgendosi al leader del Carroccio. Quest’anno sarà accontentata.

“Le nostre porte sono aperte e se Matteo viene sono contenta – conferma Santanché al Fatto – d’altronde la gente ad agosto sarà in spiaggia e la campagna elettorale si farà lì. Sarà difficile conquistare la Toscana ma noi stiamo tra la gente”. Il rischio del déjà vu della spiaggia però non piace per niente agli alleati di centrodestra, a cui non convince la candidatura di Susanna Ceccardi, considerata una brutta copia della perdente Lucia Borgonzoni. Anzi, se possibile ancora più “estremista”.

A questo si aggiunge che gli alleati di Forza Italia e Fratelli d’Italia hanno il terrore di un remake del Papeete e della campagna elettorale in Emilia, con uscite sulla falsariga delle “citofonate” al tunisino di 17 anni. “La verità è che la natura di Salvini è quella e non si può cambiare – dice un esponente di peso del centrodestra toscano –­ non puoi chiedere al ‘desnudo’ che beve i mojito di fare De Gasperi. Solo che per vincere in Toscana ci vuole moderazione e Salvini non ci aiuta”.

Il timore è confermato dalla partenza flop del tour elettorale di Salvini e Ceccardi sia per le piazze mezze vuote (in questi giorni gira una foto di Arezzo con poche decine di militanti) che per le gaffe accumulate finora dalla candidata governatrice (Imagine di John Lennon è “una canzone marxista” e “non sono né fascista né antifascista”) e dallo stesso Salvini. Pochi giorni fa il leader del Carroccio è sbarcato ad Arezzo per sostenere il sindaco di centrodestra che cerca la rielezione Alessandro Ghinelli, indagato sul caso della partecipata del gas del Comune. “I pm di Arezzo lascino stare Ghinelli – ha azzardato Salvini – sono gli stessi che dormivano durante il crac di Banca Etruria”. Oltre alla nota ufficiale di replica della Procura, è intervenuto lo stesso Ghinelli per prendere le distanze dal leader della Lega: “Quella frase non l’avrei detta – ha detto il sindaco – mi fa solo male”. Ora Ceccardi prosegue il giro per la Toscana da sola ma ad agosto, quando la campagna entrerà nel vivo, Salvini prenderà dimora in Versilia. Con possibile danno alla candidata governatrice: “È una vera zavorra – conclude un alleato – senza di lui, nelle piazze c’è più gente. Ricordo a Salvini che a settembre ci sono altre sei regioni al voto…”. Come dire: meno viene in Toscana, meglio è.

Agcom, sì ai candidati di B. Malumori 5S su Di Maio

Il sudoku, livello difficile, è stato completato con successo. Dopo oltre un anno di stallo sono stati rinnovati i collegi del Garante per la Privacy e dell’Autorità per le comunicazioni. Quest’ultima particolarmente cara a Silvio Berlusconi che a fine giornata è più che felice con l’elezione di componenti non certo ostili alle aziende di famiglia: in particolare Laura Aria, dirigente del Mise il cui nome da mesi circolava come candidata in quota Forza Italia. E Antonello Giacomelli, già sottosegretario alle telecomunicazioni eletto alla Camera con il Pd, da sempre in ottimi rapporti con Gianni Letta. La cui candidatura non è stata ostracizzata dal M5S nonostante l’ostilità da parte dei gruppi parlamentari pentastellati a far transitare deputati e senatori in carica direttamente nelle Autorità indipendenti.

Ora il fatto che i vertici del Movimento non abbiano sollevato il caso, nell’ambito delle trattative di maggioranza sulle nomine, ha creato qualche malumore. Almeno tra quei pentastellati meno propensi ai patti con il Cavaliere che si profilano all’orizzonte. E che faticano a digerire l’idea che Luigi Di Maio abbia incontrato nei giorni scorsi Gianni Letta per discutere di legge elettorale e per chiudere i giochi per l’Autorità così delicata per il gruppo Mediaset. Certo non è sicuramente sospettabile di simpatie berlusconiane Elisa Giomi, pure lei eletta nel collegio Agcom: professoressa universitaria molto attiva negli studi di genere e sul linguaggio sessista nella comunicazione, su di lei ha puntato il Movimento 5 Stelle “per premiare merito e competenza”. In casa 5S la decisione si è accompagnata al solito calvario. Perché si era in prima battuta fatto avanti Emilio Carelli che sognava l’Agcom a coronamento della carriera: dopo lungo dibattere attorno alla questione delle porte girevoli ritenute inopportune (per tacere dell’antico rapporto lavorativo con il Cavaliere), ha fatto un passo indietro forse nel timore che nel segreto dell’urna i suoi lo avrebbero impallinato.

Ma ora qualcuno ha cominciato a dire che in realtà i vertici del M5S avrebbero ceduto alle pressioni dei gruppi parlamentari, di solito inascoltate, solo perché l’elezione di Carelli all’Agcom avrebbe liberato il seggio alla Camera dove è stato eletto in un collegio uninominale. Col rischio di vederlo perso o – si racconta pure nell’ala più movimentista – “per evitare di dare una chance di elezione a Alessandro Di Battista, ipotesi poco gradita a Di Maio”. Che nella partita in questione e nelle altre di cui ha discusso in tandem con Letta, avrebbe delineato una nuova prospettiva per la sua leadership.

Anche la Lega ha avuto la sua parte facendo eleggere all’Agcom Enrico Mandelli, editore di Telecity una tv lombarda che federa una serie di tv locali. Mentre per la presidenza dell’Autorità la cui designazione compete al governo, in pole position è il vicesegretario generale della Camera Giacomo Lasorella. Per il collegio del Garante della Privacy sono stati invece eletti Ginevra Cerrina Feroni (Lega), Guido Scorza (5 Stelle), Pasquale Stanzione (Pd) e Agostino Ghiglia (Fratelli d’Italia che aveva puntato inizialmente su Ignazio La Russa che ha rinunciato non essendo abbastanza anziano per ambire al ruolo di presidente).

Si è trattato per entrambi i collegi di un gioco a incastri in cui non sono mancate le polemiche: a fare più rumore quella di Italia Viva che non ha partecipato al voto per dissenso col metodo e col merito delle scelte. I soliti maligni però sospettano che i renziani giochino ad alzare il tiro mentre in maggioranza ancora si tratta sui nomi per le presidenze delle commissioni parlamentari da rinnovare.

 

Ora anche Repubblica e Carlo De Benedetti riabilitano il Caimano

Doppio colpo del Foglio, in onore e gloria del pregiudicato Silvio. In un giorno solo, pubblica una gemellare riabilitazione di Berlusconi, pronunciata da due che dovrebbero essere per definizione rigorosi e severi con l’ex capo del centrodestra, nonché condannato definitivo per frode fiscale, indagato per strage mafiosa e plurisalvato via prescrizione da una lunga serie di reati. I due sono il neodirettore di Repubblica, Maurizio Molinari, e l’ex arcinemico di Berlusconi, Carlo De Benedetti, neoeditore di Domani. Sottile perfidia, quella dei foglianti: mettono in pagina, uno accanto all’altro, due che dovrebbero essere agli antipodi, zenit e nadir. Cdb si è opposto alla vendita di Repubblica, la sua Repubblica, al gruppo Gedi di John Elkann, che l’ha strappata dalle sue radici e dalla sua storia, come stanno constatando i lettori che l’abbandonano. Sconfitto dai figli, Cdb ha lanciato il cuore oltre l’ostacolo, fondando un nuovo giornale. Aveva addirittura rotto con Eugenio Scalfari, quando il Fondatore aveva detto che giù dalla torre, tra Silvio Berlusconi e Luigi Di Maio, avrebbe gettato il secondo, tenendosi il primo. Tanta fatica annullata nello spazio di un mattino: i registi foglianti addetti alla Grande Riabilitazione infilano Cdb (“Sono pronto a trangugiare un governo col Caimano”) sopra il Molinari strappatore di radici del suo ex giornale. Se è così, poteva anche risparmiare l’investimento nel Domani.

Salvini il selvaggio e Meloni Fascista

“Se si tratta di isolare Salvini e Meloni, trangugio anche Berlusconi al governo con la sinistra”, dichiara De Benedetti infilandosi dritto dritto nell’imboscata di Salvatore Merlo. “Ma accompagnato anche dal benservito a Conte che rappresenta il vuoto pneumatico”. Il Berlusconi che gli ha sfilato la Mondadori grazie a una sentenza comprata e venduta diventa colui che in un colpo solo ci può liberare da Salvini, Meloni e Conte. “Mai avrei immaginato di dire che al mondo esiste qualcosa di peggiore di Berlusconi. E sia chiaro, continuo a pensare che il livello di corruzione morale che lui ha introdotto nel Paese abbia costituito un periodo nero della nostra storia. Se non era per Scalfaro avremmo avuto Previti ministro della Giustizia”. Ma c’è un eppure: “Eppure sono pronto a trangugiare il rospo. Meloni è figlia del fascismo, e io il fascismo me lo ricordo da bambino con orrore. Salvini invece è un selvaggio privo di qualsiasi cultura. E quanto a Conte, basta il caso Autostrade per qualificare la sua nullità”. Alla fine, cade nel tranello che non ha perdonato a Scalfari: al gioco della torre, tra Silvio e Giuseppi, salva il primo.

Meglio il pregiudicato del premier conte

I foglianti gongolano. Incassano volentieri la telefonata del Fedele Confalonieri, che protesta per i giudizi, ritenuti duri e inaccettabili, sull’amico Silvio, creatore delle tv private e inventore di Forza Italia. Ma conta il titolo: Cdb riabilita il Nemico. E lo sdogana come protagonista della politica di domani (minuscolo): “Se Berlusconi si stacca dalla destra sovranista è possibile che si formi una maggioranza in grado di esprimere un presidente del Consiglio finalmente capace di fare il suo mestiere”. E Merlo evoca il solito nome: Mario Draghi? “Magari. Se tutto va bene è in arrivo nel nostro Paese una quantità di denaro che non si vedeva dal primo dopoguerra. Un’occasione unica. E c’è bisogno di un governo, e di una personalità al governo, che questa occasione storica la sappia cogliere. Ora o mai più”. L’eterna illusione italiana: Mussolini usato dai liberali che poi furono invece mangiati in un sol boccone; Berlusconi considerato disponibile a dare gratis il suo soccorso, lui che gratis non ha dato mai niente. Ma poiché “Giuseppe Conte non è adatto”, porte aperte al Caimano, che pure Cdb conosce bene. Ricordate il marito che si evira per far dispetto alla moglie? Perché mai il Cavaliere che “non ha idee, ma calcoli personali” dovrebbe contribuire a fare oggi le mirabolanti riforme (fisco e “modernizzazione del Paese”) che piacciono a De Benedetti? Per il paradosso del suo stesso conflitto d’interessi, sostiene Cdb: per salvare la sua roba (Mondadori e Mediaset) può contribuire a far sì che non siano sprecati i soldi pubblici e quelli in arrivo dall’Europa. Tanti auguri.

Più facile Molinari: alle ortiche la Repubblica delle dieci domande a Berlusconi, per fare un altro giornale, “sulle notizie e non sul colore delle notizie”. Un foglio “verde e blu”, una “palestra di idee” che non divida più “il mondo nelle vecchie categorie destra-sinistra”. Basta “asprezze ideologiche”, porte aperte a giornalisti “non prigionieri del passato”: dunque fuori dalla storia di Repubblica.

Soldi, spot e vecchie amicizie: la stampa (rin)grazia Benetton

Il Ponte Morandi è crollato il 14 agosto del 2018. Il giorno dopo, il nome della famiglia Benetton non comparve neanche una volta sulle 11 pagine di Repubblica dedicate alla tragedia, mentre sul Corriere della Sera l’unica menzione fu in un trafiletto a proposito del tonfo in borsa di Atlantia. Uno schema che rispecchiava su carta quanto (non) mostrato in tv da Tg1 e Tg5, che nelle edizioni serali del 14 agosto non fecero mai menzione della famiglia veneta. Due anni più tardi, a ridosso della revoca, il dibattito politico e giornalistico non può più fare a meno di palesare i protagonisti della storia, ma restano parecchie scorie di quel cortocircuito informativo.

Dal crollo a oggi. Durante tutta la trattativa sulla revoca, l’atteggiamento dell’opinione pubblica – grandi giornali in testa – è stato piuttosto indulgente nei confronti dei Benetton, mentre si paventavano per lo Stato scenari nefasti nel caso avesse proseguito la battaglia sulla concessione. Non a caso, meno di un mese dopo il crollo, Gilberto Benetton affidò le proprie confessioni al Corriere, giustificando il fatto che nessuno della famiglia avesse aperto bocca nelle 48 ore successive al disastro (mentre però organizzavano una grigliata a Cortina) perché “dalle nostre parti il silenzio è segno di rispetto”. È la stessa intervista in cui la gestione della rete autostradale, con introiti miliardari e concessioni decennali, veniva fatta passare per un insostenibile peso di cui i Benetton si facevano carico, come cirenei, per tutti noi: “Avremmo potuto fermarci tempo fa, goderci la vita con quello che avevamo creato. Invece siamo ancora qui, coinvolti nel lavoro a tempo pieno”.

Non stupiscono allora i toni con cui il Corriere ieri ha raccontato gli ultimi aggiornamenti. Il colpo d’occhio fa già molto. Primo titolo: “Autostrade, rebus revoca. Spunta ipotesi commissario”. Come dire che è tutto in alto mare. Sotto, parla Ettore Rosato di Iv: “Sarebbe un boomerang. Il conto sarà pagato dagli italiani”. Si gira pagina e c’è il governatore della Liguria Giovanni Toti: “Ma poi chi gestirà la rete?”.

Su Repubblica, restando in tema, ieri ci si preoccupava del destino dei concessionari: “I Benetton si sentono accerchiati: ‘Sempre rispettato le istituzioni’”. Lunedì invece, tanto per dare l’idea, sulla questione si titolava così: “Già pronto il decreto per la revoca, costerà miliardi”.

Antichi legami. Oggi i Benetton non hanno quote in nessun quotidiano, eppure il legame tra la famiglia e l’editoria è da sempre ben radicato e prosegue in altre forme. Autostrade per l’Italia, per esempio, è stato partner fino all’ultima edizione del Giro d’Italia, dunque Rcs (Corriere della Sera, Urbano Cairo), organizzando traguardi intermedi, premi e pedalate amatoriali per gli appassionati.

Allo stesso modo, per anni Atlantia ha finanziato la Repubblica delle Idee, il festival del quotidiano che ospita dibattiti e interviste. Al momento del crollo del ponte Morandi, peraltro, la vicepresidente del gruppo Gedi (Repubblica, Stampa, l’Espresso ecc.) era Monica Mondardini, la stessa che nel frattempo era consigliere indipendente nel cda di Atlantia.

Per non dire di Sabino Cassese, che nel cda di Autostrade è stato dal 2000 al 2005 (guadagnandone 700 mila euro secondo un’inchiesta de La Verità) e che negli ultimi due anni ha riempito pagine di giornali di buoni motivi – secondo lui – per non revocare la concessione: “è una sproporzione”; “un paradosso”; “uno stato senza tecnici come può gestire le autostrade?”; “nelle autostrade è stato investito dai privati più che in altri Paesi”.

Ma anche il rapporto tra i Benetton e le tv non è da meno. Insieme a Sky, Autostrade ha prodotto Sei in un Paese meraviglioso, programma arrivato alla quinta stagione. Con Mediaset i Benetton sono invece stati soci, attraverso la società 21 Investimenti, nell’operazione dei multisala The Space, la catena creata nel 2009 e rivenduta cinque anni dopo a oltre 100 milioni.

Piovono milioni. Tutto questo mentre la famiglia dei maglioncini teneva ben presente l’importanza della pubblicità su giornali e tv. Per avere un ordine di grandezza, si consideri che nel 2016 United Colors of Benetton dichiarò di aver investito 60 milioni in campagne promozionali, a cui poi si aggiungono quelli spesi dalle altre società del gruppo. Autostrade, per esempio, nell’ultimo bilancio disponibile online dichiara costi per 7 milioni e mezzo per pubblicità – non solo sui media –, in crescita rispetto ai 4,4 milioni del 2018. Un cliente niente male per gli editori.

Altantia fuori da Aspi l’ultima mediazione (e i tempi si allungano)

Mentre andiamo in stampa il Consiglio dei ministri su Autostrade per l’Italia (Aspi) è in corso. Giuseppe Conte arriva al vertice dopo aver invocato la revoca della concessione, bocciato la proposta transattiva di Atlantia e messo come condizione che la holding controllata dai Benetton esca da Aspi, perché “lo Stato non può essere socio dei Benetton”. Ma un ultimo tentativo resta sul tavolo.

Atlantia ha l’88% di Aspi. Finora ha proposto di scendere al 37%, perdendo il controllo e diluendosi in un aumento di capitale che permetterebbe l’ingresso alla Cassa depositi e prestiti. Conte chiede che esca del tutto dall’azionariato. Come? Che Cdp possa acquistare le sue azioni è precluso; un aumento di capitale che diluisca Atlantia è possibile ma non fino a portarla a zero. L’ipotesi che si riduca a una soglia sotto il 10% costerebbe intorno ai 7-8 miliardi. Ieri il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha portato sul tavolo un’ipotesi in extremis, dando mandato a Cdp di negoziare prima un aumento di capitale, con ingresso della Cassa, e poi lo scorporo di Aspi da Atlantia per quotarla in Borsa e permettere agli azionisti, diventati di minoranza, di vendere sul mercato. Il piano, su cui non c’è la preclusione di Atlantia, è finito ieri sul tavolo del Cdm. Se arrivasse il via libera, i tempi si allungherebbero. Altrimenti scatterà la revoca e il contenzioso. Questo è il vero spauracchio. Nella lettera a Conte la ministra De Micheli ricorda che un parere dell’Avvocatura dello Stato non esclude il rischio di dover pagare l’intero risarcimento previsto dall’articolo 9bis della concessione (20 miliardi). Ma tace sul fatto che i parere legali hanno sempre riconosciuto la nullità della clausola.

Il terzo nodo riguarda il dopo. In caso di revoca, il Mit prevede di commissariare Aspi. Circola anche l’ipotesi che la si commissari senza revoca, ma andrebbero cambiate le norme.

“Letta, Draghi, Mion: è lavoro, parlo con chi non la pensa come me”

Gentile Direttore, la seguente perché da qualche giorno ho notato che sta facendo notizia la mia agenda di appuntamenti, con ricostruzioni fuorvianti che con dispiacere ho letto – in parte – anche dalla sua penna.

Sia ben chiaro, la stampa fa il proprio mestiere. Diceva qualcuno che il dovere dei giornalisti fosse quello di “girare la penna nella piaga”. E quindi il mio non vuole essere un attacco a chi dà le notizie. Come prima cosa voglio dire che confermo gli incontri che ho avuto e personalmente da Ministro degli Esteri credo proprio che ne avrò tanti altri. Perché da quando sono Ministro ho sempre tenuto un contatto diretto con membri di maggioranza e opposizione, come ho sempre tenuto incontri con coloro che rappresentavano e rappresentano istituzioni internazionali e nazionali. Ognuna di queste persone si rivela preziosa per uno scambio di opinioni, soprattutto quando finiamo a discutere con forza perché non la pensiamo allo stesso modo.

Ciò che sta diventando insopportabile invece è il livello di retropensiero che in questi giorni si cela dietro ad ognuno dei miei incontri. Come ad esempio l’ipotesi che sarebbe stato il mio staff a far trapelare la notizia. I giornalisti che hanno firmato gli articoli e i loro direttori possono facilmente testimoniare il contrario.

Sia con l’ex presidente della Bce Mario Draghi, sia con Gianni Letta non ci eravamo mai incontrati prima e il tutto rientra in un sano e tradizionale spirito dialogante. Nella fattispecie, peraltro, come lei ben sa, l’Italia si appresta ad affrontare una delle più importanti partite mai giocate sui tavoli europei e la Farnesina lavora in prima linea sul negoziato Ue.

In questa cornice, e in virtù del particolare momento che stiamo attraversando, non trovo sconvolgente che io veda l’ex presidente della Banca Centrale Europea, visto anche il ruolo svolto dall’Eurotower negli ultimi anni a sostegno della zona euro. Per quanto riguarda il dottor Letta, invece, smentisco categoricamente i contenuti riportati nel retroscena pubblicato su La Stampa. D’altronde, Direttore, lei stesso nel suo editoriale ha parlato di numerose “chiacchiere politichesi dei retroscenisti”…

Riguardo ad Autostrade, colgo l’occasione per riferirle che corrisponde al vero anche il mio incontro con il manager Gianni Mion, al quale ho ribadito la posizione espressa dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, secondo cui “le autostrade non possono più essere gestite dalla famiglia Benetton”. Posizione, questa, che non viene espressa o improvvisata oggi, ma che io per primo ho portato sui tavoli governativi e in Parlamento.

Nell’ambito dell’esperienza di governo, io per primo, infatti, ho combattuto contro la famiglia Benetton. Io per primo sono finito nel mirino della speculazione mediatica per portare avanti una battaglia che nessun altro aveva il coraggio di intraprendere. Sono stato accusato di aver fatto crollare il titolo in borsa di Atlantia, il M5S è stato deriso e colpito solo per aver difeso un principio fondamentale che, dopo la tragica morte di 43 persone, a nostro avviso equivale al senso di giustizia.

L’encefalogramma, mi permetta, non è stato piatto. E lo dimostra anche la mia uscita pubblica in serata sui miei profili social a supporto delle parole del Presidente Conte. Ho forse peccato per non essermi palesato prima delle 21? Me ne dispiaccio, ma ero a Trieste con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al rientro ho effettuato un punto sull’incontro tenuto ieri pomeriggio con il presidente della Camera dei rappresentanti di Tobruk, Aguila Saleh, e il giorno prima ero a Bruxelles per un mini vertice a 4 con i colleghi Le Drian, Mass e l’Alto rappresentante Borrell sempre sulla Libia. Insomma, possiamo dire che non ci si annoia mai.

Infine, e concludo, lei ha anche scritto che io due anni fa mi giocai la premiership per non stringere la mano pubblicamente a Silvio Berlusconi. Devo ringraziarla, perché indirettamente mi riconosce lo sforzo di aver contribuito a costruire due governi. Le confesso tuttavia che la mia rinuncia fu motivata dalla convinzione che non sono i volti a cambiare un Paese, bensì i fatti e le idee (ed è per questo motivo che per ben due volte ho rinunciato al ruolo di premier e una terza a quello di vicepremier). Non le so dire se oggi ci stiamo riuscendo. Le posso dire però che stiamo facendo il massimo e qualche risultato, me lo conceda, a casa lo abbiamo portato.

 

De Micheli e mezzo Pd contrari alla revoca, ma Conte non molla

È notte fonda quando il consiglio dei ministri si chiude: la convocazione notturna, ufficialmente dovuta alla volontà di non destabilizzare i mercati e attendere gli impegni della squadra di governo, è un pessimo segnale per la trasparenza e per la stabilità dell’esecutivo. Così, quando questo giornale andava in stampa, la sorte della concessione di Autostrade per l’Italia era ancora sul tavolo della discussione interna ai giallorosa. E che discussione: a quarantotto ore dall’intervista con cui il premier Giuseppe Conte ha annunciato al Fatto l’intenzione di proporre la revoca, lo scontro nella maggioranza s’è fatto tale da costringere il Quirinale ad esercitare la moral suasion delle grandi occasioni: troppo alto il rischio che il governo venisse giù dopo la dura presa di posizione del presidente del Consiglio. Un pressing, quello di Sergio Mattarella, che non sarebbe arrivato direttamente al presidente del Consiglio, pur consapevole che per tutta la giornata si sono rincorse le voci sull’ipotesi di sue dimissioni in caso di mancato accordo sulla linea dura.

Perché per Conte, la strada resta una: o Aspi accetta senza se e senza ma le condizioni del governo – che prevedono, tra le altre cose, l’uscita totale dei Benetton dalla compagine azionaria – o la revoca della concessione è l’unica via percorribile.

Sono falliti, dunque, i tentativi di mediazione di uno dei due azionisti di governo, quel Partito democratico che fa ancora fatica a parlare di revoca, nonostante sia stato lo stesso segretario Nicola Zingaretti, lunedì, a condividere la posizione di Conte. E in particolare è la titolare delle Infrastrutture, la dem Paola De Micheli, la più restia a seguire la via tracciata dal presidente del Consiglio. “Troviamo una soluzione di compromesso o mi dimetto”, si è sfogata ieri con amici e colleghi, anche se al ministero non risulta sia arrivato alcun ultimatum. Di certo, la De Micheli è sotto pressione (“Ho sopportato di tutto, ho pagato gli errori degli altri, Toninelli compreso, che non aveva fatto altro”, va ripetendo da giorni), si sente il capro espiatorio di questa vicenda, sente che in molti la stanno spingendo fuori, l’accusano di non aver costruito un’alternativa, l’additano come amica dei Benetton.

Non ha giovato, ieri, la diffusione della lettera riservata con cui, quattro mesi fa, chiedeva a Conte di “valutare una soluzione transattiva” per evitare il rischio di un risarcimento “integrale”, fino a 23 miliardi, ad Atlantia. Lettera, fanno notare, di cui sono stati resi pubblici soltanto gli stralci del parere dell’avvocatura dello Stato meno favorevoli alla revoca.

Ieri sera, in Cdm, è comunque toccato anche a lei illustrare le posizioni sul tavolo. Il problema è che nemmeno nel Pd si sono sciolte le ambiguità che vanno avanti da giorni. Zingaretti, dicevamo, si è detto pronto ad accettare una revoca tout court. Ma le sue dichiarazioni di lunedì pomeriggio hanno mandato in escandescenza il partito. Sia la parte parlamentare (da Andrea Orlando a Graziano Delrio), ma anche tutta la corrente di Base Riformista, Lorenzo Guerini in testa. Più per il metodo (Zingaretti non si era consultato con nessuno), che per il merito. Anche se nelle file dei Dem i contrari sono più d’uno.

Da giorni Dario Franceschini continua a sostenere che lui non segue il dossier. E in generale il Pd scarica tutta la responsabilità della scelta sulla De Micheli e su Roberto Gualtieri. Il ministro dell’Economia ha tenuto tutte le opzioni sul tavolo per giorni, ma ora sembrerebbe pronto ad accettare pure lui la revoca.

Da parte dei Cinque Stelle resta la posizione irremovibile, ripetuta dall’agosto di due anni fa, quando il ponte Morandi è crollato: nessuna trattativa con i Benetton è presa in considerazione. Ieri sera, prima del Consiglio dei ministri, era in programma un incontro di Conte con i capi delegazione delle forze di maggioranza, saltato poi all’ultimo minuto. “Niente approssimazioni”, fa sapere via Twitter la renziana Teresa Bellanova, che in consiglio dei ministri rappresenta con Italia Viva l’ala più favorevole all’accordo con Aspi. “Se vogliono aprire la crisi siamo qui, vediamo”, è il ragionamento che filtra da palazzo Chigi. Nelle stesso ore, a qualche centinaio di chilometri più a Nord, a Genova, era ancora in corso la trattativa per il candidato alle regionali. Il nome condiviso più accreditato è quello del giornalista del Fatto Ferruccio Sansa. Certo non sarà un dettaglio come si sveglierà oggi la maggioranza. Che proprio su Genova e sul suo ponte crollato rischia di venire giù.

Grazie, Ingegnere

Detto senz’alcuna ironia, dobbiamo immensa gratitudine a Carlo De Benedetti. Quando c’è nell’aria qualcosa di torbido e losco, di cui si sente la puzza ma non si vedono i contorni e non si conoscono i dettagli, puntualmente arriva lui e lo racconta per filo e per segno, anzi lo rivendica e se ne vanta. Era accaduto nel gennaio 2018, quando la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche scoprì che due anni prima l’Innominabile gli aveva spifferato l’imminente decreto Banche popolari, facendogli guadagnare 600 mila euro sull’unghia in Borsa con un insider trading che solo la Procura di Roma riuscì a non vedere (se non a carico del suo povero broker). Nei palazzi del potere anche le pietre sapevano che il Genio Rignanese era un prodotto creato in laboratorio dalla premiata ditta DeBenedetti-Repubblica, allevato e leccato fin da quand’era sindaco di Firenze e poi, scalati il Pd e il governo, coperto di saliva dai giornali del gruppo e di cattivi consigli dal padrone. Ma nessuno poteva dimostrarlo. Poi l’Ingegnere fu ascoltato dalla Consob. E, anziché negare tutto, non solo confessò di aver saputo in anteprima del decreto dal fido premier e di averci investito 5 milioni con 600 mila euro di plusvalenze (parole definite sul Fatto “un’ammissione dell’assenza di ogni vincolo etico” dall’attuale direttore del suo futuro giornale Domani); ma aggiunse pure che il suo Matteo era spesso “un cazzone”, “di economia capisce onestamente poco”, il suo “non è un governo, sono quattro persone”, inclusi Padoan e la Boschi, teleguidate da lui “advisor gratuito” a pranzo e cena, tant’è che “il Jobs Act gliel’ho suggerito io”.

Così tutto fu chiaro a tutti, fuorché ai lettori di Repubblica che, essendo un giornale libero e indipendente, il primo giorno non scrisse una riga e nei seguenti non pubblicò una sillaba del verbale del padrone. Ora la scena si ripete. Da mesi avvertiamo un gran fetore di poteri marci dietro gli attacchi concentrici al governo giallorosa, dietro il risiko editoriale degli Agnelli-Elkann che hanno prima ingoiato e poi snaturato il gruppo Stampubblica, dietro i traffici per liberarsi di Conte e mettere le zampe sui miliardi in arrivo dall’Europa con un’ammucchiata di larghe imprese & intese guidata da Draghi (peraltro ignaro di tutto), previa riabilitazione del Caimano. Perfino Andrea Orlando, non proprio un tupamaro, ha denunciato la manovra. E tutti si sono affrettati a smentire tutto. Poi ieri ha provveduto un’altra volta De Benedetti a confermare tutto al Foglio, per non dare troppo nell’occhio. Sentite che delizia: pur di dare “il benservito a Conte”, “trangugio anche Berlusconi al governo con la sinistra”.

In realtà l’aveva già trangugiato nei governi Monti e Letta, ma a 85 anni un po’ di rincoglionimento ci sta. Infatti aggiunge: “Mai avrei immaginato di dire che al mondo esiste qualcosa di peggiore di Berlusconi” (dimenticando che nel 2005 l’aveva invitato a cena e a diventare socio del suo nuovo fondo “private equity” salva-imprese). E chi sarebbe peggio di B.? Conte, “il vuoto pneumatico”, “l’unico che ha beneficiato del Covid”, “basta il caso Autostrade per qualificare la sua nullità” (a CdB piange il cuore che chi ha lasciato crollare il Ponte Morandi con 43 morti sotto perda la concessione, con i cui guadagni Autostrade sponsorizzava le feste della sua Repubblica). E attenzione: per lui B. rimane “un grande imbroglione” che ha segnato “un periodo nero” con la sua “corruzione morale”, oltre ad avergli fregato la Mondadori comprandosi un giudice. Però dài, in fondo resta “un grande”, “sempre sul pezzo, non perde mai un’occasione, non si ferma mai. E questo è straordinario”. Quindi i 40 anni di battaglie della sua Repubblica sula questione morale, la legalità, la Costituzione, Libertà e Giustizia, le 10 domande di D’Avanzo, gli appelli di Saviano, le invettive di Cordero sul Caimano e l’Egoarca, le tirate dei moralisti repubblichini erano esche per gonzi. Saranno contenti gl’interessati, almeno quelli vivi, oltre ai lettori rimasti a Repubblica e quelli eventuali di Domani. Casomai qualcuno non avesse ancora capito, l’Ingegnere invoca una nuova “un presidente del Consiglio finalmente capace di fare il suo mestiere” (tipo spifferargli i decreti in anteprima o farsi scrivere le leggi da lui). E completa la confessione con il movente: “È in arrivo nel nostro paese una quantità di denaro da investire che non si vedeva dal primo dopoguerra”, “un’occasione storica: ora o mai più”, “denaro pubblico da non sprecare” per “modernizzare il Paese” (magari con le telescriventi Olivetti obsolete rifilate alle Poste in cambio di mazzette). E vorrete mica far gestire tutto quel bendidio a un premier che non ruba, non fa insider trading, non si fila i Benetton o i De Benedetti e, quando gli mandano emissari per agganciarlo, li spedisce a quel paese? Per chi era uso fare e disfare governi nel salotto di casa sua o dei suoi direttori, è dura ritrovarsi a Palazzo Chigi uno che non ti chiama, non ti richiama, anzi non ti si calcola proprio. Molto meglio il “vecchio imbroglione”: fra colleghi ci s’intende sempre.
Ps. Massima solidarietà ai giornalisti di Domani. Avevano capito da una sua precedente intervista di essere un giornale di sinistra, ora che Molinari ed Elkann “portano Repubblica a destra”. E si ritrovano un padrone che riabilita B. senza neppure il brivido dell’esclusiva.

“Per essere felici”, basta poter suonare

“Lo devo fare davvero questo disco? È necessario?”: Marina Rei ha avuto l’estremo buon senso di rivolgere a se stessa una domanda che, se diventasse una prassi, ripulirebbe la scena da un bel po’ di produzioni musicali. Lei, però, lo ha fatto con l’arrivare del venticinquesimo anniversario dell’uscita del suo primo omonimo disco in italiano, con una consapevolezza lontana “dalla libertà che mi sono presa quando ero più giovane”. Il suo ultimo Per essere felici, racconta, “è stato una fatica immane”. Prima ci sono state le domande sull’opportunità stessa di dare alle stampe “qualcosa del genere in un momento in cui la musica ama essere catchy e veloce” e poi c’è stato il buio di chi fa e disfa tracce su tracce. “Quando l’ho riscritto per la seconda volta da capo, ho deciso di parlarne con Riccardo Sinigallia, che ha capito la mia frustrazione e mi ha detto di andare avanti”.

Quello che ne esce è un vero “Marina Rei Official”: il marchio si sente, come si sente una saggezza ritrovata. E poi basta dare un’occhiata ai credit – in cui compare una quantità notevole di strumenti – per capire quanto ci si sia dedicata. È stato non solo composto, ma anche registrato nella sua abitazione (pre lockdown), dando, come lei stessa ammette, “una certa spontaneità al tutto”. E da quella casa escono tracce molto intime, come Bellissimo, dedicata al distacco – naturale e sano, quando tutto va bene – di una madre con il figlio adolescente: “È qualcosa di molto viscerale, se vuoi anche di contrasto, il momento in cui recidi il cordone ombelicale e vedi l’altra persona crearsi il suo punto di vista, i suoi pensieri”. Proprio con suo figlio ha diviso “tempo e silenzi” in questa fase di isolamento, visto che anche lui suona ed era necessario non sovrapporsi. Probabilmente la traccia sarà il nuovo singolo: “Certo che mi piacerebbe che nel video ci fosse anche lui (il figlio, ndr), ma manco glielo chiedo!” (ride).

A proposito di live, Marina Rei smania: “Non sono una dalla grande esposizione mediatica, promuovo i dischi, suonando. In queste settimane è stato accolto bene, ma non vedo l’ora di suonare, sto impazzendo”. L’appuntamento per la presentazione con molti ospiti è per il 7 settembre all’Auditorium Parco della Musica (Cavea), di Roma.

Diodato, Elisa, Fabi: nell’estate 2020 si canta poco ma bene

Strana estate. Movida impazzita, spiagge da carnaio, calcio con gli stadi vuoti ma con i giocatori aggrovigliati. Il dazio più rigoroso del post lockdown continua a pagarlo la musica, anche se la politica ora tende una mano con emendamenti ad hoc (dieci milioni di fondo per la ripartenza dei live). Artisti e impresari provano a non condannare al silenzio una stagione posticipata nel migliore dei casi al 2021, sperando in qualche colpo di scena sensato sui voucher per gli show annullati.

Tra quanti che hanno accettato la scommessa c’è Diodato che, dopo l’incetta di premi (ultimo il Nastro d’Argento), ha rodato il set dalla Val d’Aosta e si prepara a una tripletta all’Auditorium Parco della Musica di Roma (25-26-27 luglio, ma tra le serate alla Cavea pure un doppio Alex Britti, Irene Grandi, Enzo Avitabile), con traguardo finale al Cinzella Festival di Grottaglie a Ferragosto. L’itinerario del vincitore di Sanremo è significativo per almeno altri due appuntamenti: il 4 agosto all’Indiegeno Festival di Tindari, dove lo spettacolo è previsto alle quattro del mattino, mentre il giorno dopo ci sarà Elodie, ma di sera; e prima ancora (il 31 luglio) Diodato canterà al No Borders Festival di Tarvisio, ai laghi di Fusine. Tra le foreste e gli altopiani friulani, il No Borders ospiterà anche la tappa della tournée di Brunori SAS (26 luglio) ed Elisa (1 agosto). I raduni musicali non abbondano, ma quelli confermati valgono il viaggio, come Torino Jazz (21-30 agosto e poi ottobre) o come Umbria Jazz che dopo aver cancellato il cartellone originario annuncia quattro concerti con l’élite nazionale dal 7 al 10 agosto. O come il Locus festival a Locorotondo (Bari) dal 7 al 15 agosto, in una limited edition con Vinicio Capossela, Ghemon, Niccolò Fabi, Colapesce & Dimartino (i due cantautori siciliani hanno sfornato un album d’eccellenza, I mortali, ospite Carmen Consoli) e i Calibro 35. Samuel è invece all’Abbabula Fest a Sassari (4-7 agosto): ma il frontman dei Subsonica sarà tra il 16 e il 27 luglio in barca a vela tra Stromboli, Filicudi e Vulcano per dei live speciali e dj set in acqua, salvo proseguire il giro sulla terraferma. Saldamente agganciato al suolo Daniele Silvestri in partenza con La cosa giusta tour il 18 luglio da Villafranca di Verona (“Si suona”, dice, “con attenzione e pudore ma anche con coraggio ed energia”), e si è già messo in moto da Roma Max Gazzè (prossima fermata Benevento 3 agosto) che dedica spazio ai lavoratori non garantiti del settore. Così come Nek, sul palco da solo con la chitarra in una stringa di date dal 28 luglio a Peccioli (Pisa) e i proventi devoluti ai precari della filiera. Francesco Gabbani va in giro con la band in acustico dal 26 luglio da Majano (Udine); Francesca Michielin apre i suoi Spazi sonori da Treviso il 3 agosto, e tre giorni più tardi Raphael Gualazzi si prende la scena da Pistoia. E poi l’immancabile carovana vagabonda dei Nomadi: senza di loro dovremmo davvero preoccuparci.