Dietro quelle divise ci sono drink, soldi, oro e un ciuffo

Le vie della critica cinematografica sono infinite. Tortuose anche, con curve a gomito: alzato. Non stupisce che uno dei più eterodossi, idiosincratici, affrancati saggi critici contempli “zapping” e “ubriacatura”, e nondimeno si riveli una preziosa epifania di senso. Per tutti. “Se accendo la tv e faccio zapping tra i canali, sono sempre felice di trovare Dove osano le aquile. La cosa strana – messa in nota a piè di pagina con notevole sprezzatura, ndr – è che incappo sempre nella stessa parte del film. Se è tardi e sono ubriaco lo guardo per una decina di minuti, il che significa che ho visto questa sequenza che inizia con Richard Burton che esce dalla taverna o Heidi che entra nella baracca più volte di quanto abbia visto altre parti”. Forse, come vorrebbe Geoff Dyer, nella ricorrenza si cela “un ordine nascosto del mondo”, di certo, professa lo scrittore inglese trapiantato in California, Dove osano le aquile è “una proiezione drammatica potenziata di alcune componenti della cultura nazionale che hanno formato la mia generazione”. Natali a Cheltenham il 5 giugno del 1958, Dyer è un fuoriclasse, non conosciuto per quanto meriterebbe, non facilitato dai titoli italiani ai suoi libri: But Beautiful, rivelazione del 1991, diviene Natura morta con custodia di sax. Storie di jazz; questo Broadsword Calling Danny Boy, una famosa battuta di Burton che da noi suona “Fioretto chiama Danny Boy”, Fuga. Su Dove osano le aquile, meritoriamente edito da Il Saggiatore.

Raffinato critico l’ha battezzato Zona Un libro su un film su un viaggio verso una stanza, ovvero Stalker di Andrej Tarkovskij rivisto attraverso il prisma estetico e autobiografico di una predilezione che sconfina nell’ossessione, Dyer lo ribadisce – ancora in nota – nei confronti di Dunkirk di Christopher Nolan, di cui isola lo “Spitfire che plana silenzioso sulla spiaggia dove la materia della coscienza cede alle pretese dell’inconscio e le ammortizza”. Da brividi, e allora perché buttarsi via per un film come Where Eagles Dare, diretto nel 1968 da quel Brian G. Hutton che “non può prendere facilmente posto fra autori del calibro di Tarkovskij, Herzog, Antonioni e simili”. Eppure, “sembra ancora, a cinquant’anni dalla sua uscita, contenere un po’ dell’essenza di quel che significa per me il cinema oggi, quando i film d’azione sono diventati una forma di torpore esplosivo”. Non solo l’analisi puntuale e puntuta dell’opera, ma di chi vi sta davanti: Dyer inchioda i soloni della professione, prova “un piacere perverso nel contestare la critica che senza porsi dubbi dà per scontato che l’ottusità sullo schermo si limiti a riflettere il sottosviluppo delle menti dietro la macchina da presa”. Dunque, il romanzo di Alistair MacLean, Richard Burton, ossia il maggiore Jonathan Smith, Clint Eastwood, il tenente Morris Schaffer, e Mary Ure a sensualizzare Mary Elison: un commando anglo-americano, i nazisti, lo Schloß Adler, e una leggenda in tono minore, un’aura claudicante strappata al castello delle aquile e consegnata alle visioni notturne, perfino alticce.

Dyer mostra sprezzo del pericolo: “Lo riguardo per rimpolpare la mia scorta di dettagli rivelatori e anche, lo ammetto, per divertirmi un sacco”. E per intuire di Burton e Eastwood cose intime, ardite e spassosissime. Del due volte marito di Liz Taylor motteggia a più riprese l’acclarata dipendenza dal bicchiere – “Adesso che si è messo un po’ di fuoco alcoolico nelle vene, è davvero nel suo elemento” – senza dimenticare la busta paga: “Ha problemi economici del tipo che la gente che non è oppressa da montagne di soldi non può minimamente immaginare”; “Un film come questo, che gli farà guadagnare quantità di denaro tali da permettergli di comprare alla sua Cleopatra dei tempi moderni (“soldi facili” fu il verdetto di lei su questo cinefumettone) cose come un jet con troni d’oro brunito al posto dei sedili”. A Eastwood, fresco novantenne, riserva notazioni mirabili: “Capelli folti e lucenti, con l’uniforme sembra alto e flessuoso mentre sbriga l’incombenza di attaccare esplosivi in giro per la sala, offrendoci nel frattempo una lezione magistrale sull’arte del movimento. (…) David Thomson, nella voce che dedica a Fred Astaire nel New Biographical Dictionary of Cinema, ci ricorda “un principio vitale: spesso un attore cinematografico che si muove bene è preferibile a uno che ‘capisce’ la parte”. (…) Eccolo qui dunque (…) che si muove nella Sala Grande con la placida grazia di un Roger Federer in uniforme tedesca, un mitra Schmeisser al posto di una racchetta Wilson. Al pari di Federer, Eastwood ha un rapporto con il tempo leggermente diverso da quello della gente normale, che si affretta e si fa prendere dal panico, mentre lui incede come un cigno”. Già, quella di Dyer è Fuga per la vittoria: critica.

 

“Nei miei Sentieri Persiani ecco il vero volto dell’Iran”

“Sentieri Persiani” è il reportage in 3 puntate che ho realizzato sull’Iran da oggi disponibile in esclusiva sulla piattaforma tv Loft (www.iloft.it e app Loft). È un reportage che creerà polemiche perché non ricalca la consueta narrazione che viene fatta della Persia. L’Iran è un grande Paese abitato da grandi popoli. Sì, popoli, perché sebbene i persiani siano la maggioranza, in Iran vivono arabi, azeri, turcomanni, beluci, curdi. Ognuno ha la sua lingua, ognuno ha le sue tradizioni, alcuni sono sunniti sebbene l’Iran sia un paese sciita.

Siamo abituati a far coincidere l’Islam con la violenza così come pensare all’Islam come un monolite. Non è così. L’Islam non è un blocco omogeneo di principi o convinzioni religiose e politiche. L’Islam è un universo variegato che abbraccia centinaia di milioni di uomini e donne diversissimi tra loro e spesso in contrasto. Il 90% degli iraniani sono sciiti; i sauditi sono sunniti; i talebani sono sunniti anche se in Afghanistan ci sono molti sciiti. Hezbollah, la forza politica libanese che sostiene la causa palestinese è un partito sciita eppure i palestinesi sono sunniti. L’Isis è un’organizzazione terrorista sunnita radicale tant’è i suoi militanti hanno esultato per l’assassinio di Soleimani, comandante dei pasdaran iraniani, ucciso su ordine di Trump.

La visione sbagliata dell’islam monolitico

Sarebbe corretto parlare di diversi Islam così come di diversi Iran. All’informazione mainstream l’approfondimento importa poco. In Iran ho visto giornalisti arrivare, chiudersi in un hotel di Teheran nord (la parte ricca della città), parlare con un paio di tassisti che conoscono l’inglese o qualche ristoratore della “Persia da bere” e scrivere in fretta e furia un pezzo prendendo spunto dalle breaking news della BBC. Non voglio generalizzare ma spesso il sistema mediatico tradizionale premia il giornalismo più ignavo. Io non sono un giornalista, amo osservare il mondo e sono portato a prendere posizione. Sebbene “Sentieri Persiani” sia un lavoro piuttosto laico solo il fatto di non raccontare l’Iran come viene raccontato abitualmente è già una presa di posizione. Credo nel dialogo, nel superamento dei conflitti, credo nei popoli e nella loro naturale inclinazione alla Pace. Credo che parlare di Iran citando solo le sue contraddizioni o i suoi limiti e non le sue incredibili qualità sia profondamente sbagliato. E non si tratta di un torto fatto solo ai persiani. L’Italia, per esempio, per anni è stato il primo partner commerciale europeo dell’Iran. Poi Trump ha imposto nuove sanzioni a Teheran e l’Europa si è piegata ai diktat di Washington perdendo opportunità commerciali ed economiche fondamentali ancor di più in tempi di post-Covid. Oltretutto perché l’iranofobia spingerà inevitabilmente Teheran sempre più tra le braccia di Pechino e considerando che l’Iran detiene la quarta riserva di petrolio al mondo, non mi sembra una strategia vincente per il Vecchio Continente.

La miopia Occidentale lascia spazio ai cinesi

Nei prossimi mesi tutto ciò che non si allineerà a quella melassa del politicamente corretto tanto cara al Neo-conservatorismo, ovvero a quel movimento liberal-conservatore che ha a cuore il mantenimento dello status quo, sarà discriminato. Ho realizzato “Sentieri Persiani” proprio per non discriminare un’altra parte della verità. Ho realizzato “Sentieri Persiani” per sfidare il pensiero dominante consapevole delle conseguenze che questo comporta e che potrebbe comportare anche alla mia vita politica. Ho realizzato “Sentieri Persiani” per dare un altro punto di vista sulla geopolitica in un momento in cui, data la crisi economica globale, il rischio che i conflitti si trasformino in guerre è sempre più alto. Ho girato l’Iran in lungo e in largo muovendomi con i mezzi pubblici. Ho fatto riprese in Khuzestan, la provincia che si affaccia sul Golfo Persico invasa dagli iracheni nel 1980 e che, probabilmente, in tempi recenti, sarebbe stata invasa anche dai miliziani dell’Isis se i pasdaran non avessero affrontato lo Stato islamico sul fronte siriano contribuendo alla sua sconfitta.

Ho visitato Khorramshahr, la Stalingrado di Persia e poi la provincia di Fars, dove Dario il Grande fondava Persepoli quando Roma era ancora una piccola città. Ho filmato Arg-e Bam – dove Pasolini girò Il fiore delle Mille e una notte – il Santuario dell’Imam Reza a Mashhad, gli angoli più remoti del Golestan, il cimitero di Kerman dove è sepolto Soleimani e le montagne al confine con l’Iraq dove migliaia di curdi rischiano la vita per portare merci sotto sanzioni in Persia. L’Iran va raccontato tutto quanto, non solo quello che fa più comodo all’establishment occidentale. Legge islamica, veli, chador, contrasto del dissenso, manifestazioni anti-governative non consentite. In Occidente se si parla di Iran si parla solo di questo. Cose vere, ma che non devono nascondere le motivazioni reali dietro il tentativo di emarginare la Persia, ovvero interessi economici, geopolitica, questione palestinese e soprattutto petrolio.

Il Covid dilaga, per Trump la colpa ora è del virologo Fauci

Alla ricerca di capri espiatori per allontanare dalla sua figura le critiche sulla pandemia che sconvolge gli Usa – quasi 138 mila morti, 3,5 milioni di casi, Florida in ginocchio e a Miami ospedali al collasso – il presidente Trump punta il dito contro il virologo Anthony Fauci, colui che invece lo ha sempre spinto a prendere misure serie per evitare i contagi. Le frizioni ci sono sempre state proprio perché Fauci sostiene la linea opposta di Trump: ma in questi giorni l’esperto ha espresso critiche per le riaperture anticipate volute dal presidente al fine di far ripartire l’economia e ciò ha indispettito la Casa Bianca. Inoltre, i sondaggi dicono che nella lotta al coronavirus il 67% degli americani ha fiducia in Fauci, mentre solo il 26% si fida del presidente. E questo a meno di quattro mesi dal voto è una pessima notizia per il magnate.

Duda di nuovo presidente di un paese diviso in due

Andrzej Duda si è assicurato altri cinque anni al palazzo presidenziale di Varsavia, battendo con un margine ridotto, come da pronostici, il candidato liberale Rafal Trzaskowski, sindaco di Varsavia. Duda, vicino al governo populista guidato da Mateusz Morawiecki, ha ottenuto il 51,1% dei voti. Nel 2015 superò Bronislaw Komorowski, pure lui liberale, quasi con la stessa percentuale (51,5%).

Per capire le ragioni della vittoria di Duda e dello scarto minimo, di ieri e di oggi, è utile guardare alla distribuzione territoriale del voto. Da quindici anni la Polonia è un paese diviso, quasi due nazioni in una.

I liberali prevalgono nelle grandi città (anche nella Cracovia di Duda) e nelle regioni dell’ovest, le aree del paese più sviluppate e più aperte all’Europa e al mondo. I populisti mietono consensi nelle zone rurali, soprattutto a est. Fuori dalla cintura urbana sanno difendersi anche a ovest, comunque. La loro è la Polonia conservatrice, più povera e più influenzata dalla chiesa cattolica; una Polonia diffidente verso l’Europa, la Germania e le minoranze: etniche e sessuali. Lo scontro tra questi due mondi, mobilitati al massimo dai candidati, prova ne è l’affluenza del 68%, alta per i canoni polacchi, ha dominato anche il voto di domenica. Duda ha condotto una campagna molto ideologica, a tratti violenta. Ha attaccato duramente le comunità Lgbt, per esempio. Ha reso visita a Trump poco prima del voto, cercando la sponda dell’America a trazione sovranista. Al resto ha pensato la radio-tv pubblica, bocca di fuoco dei populisti, presentando Trzaskowski come il candidato delle lobby liberali mondiali e di quelle ebraiche, cavalcando cinicamente un antisemitismo che non riesce a uscire dalla pancia del Paese. Nella notte di domenica, a urne chiuse, al palazzo presidenziale c’è stato un teatrino della post-verità. La figlia di Duda, Kinga, ha tenuto un discorso in cui ha spiegato che “a dispetto di ciò in cui crediamo, del nostro colore della pelle, del candidato che abbiamo sostenuto, siamo tutti uguali. Nessuno merita di essere odiato”. Parole che stridono con la durezza dei toni del padre, un presidente di parte, organico al governo e al leader del populismo polacco, Jaroslaw Kaczynski. Salvo qualche smarcamento cosmetico, nel corso del primo mandato Duda ha sempre appoggiato l’agenda dell’esecutivo. Difficile che cambi idea; difficile che cerchi di unire. Le vittorie di Duda e di Diritto e Giustizia, il partito di Morawiecki e Kaczynski, e da cui Duda proviene (il capo dello stato per prassi non ha tessere), dipendono anche dal nuovo “patto sociale” offerto ai polacchi. Si fonda da un lato sul welfare, potenziato sensibilmente gli ultimi anni: la risposta, da destra, alle crescenti disuguaglianze sociali dei giorni nostri.

Dall’altro lato, i populisti hanno limitato gli spazi democratici, occupando di peso la radio-tv pubblica e svuotando i poteri della magistratura con riforme che hanno irritato la Commissione europea, portandola a lanciare varie procedure d’infrazione, cadute però nel vuoto. Varsavia non vuole uscire dall’Ue, né perdere i fondi strutturali, ma non accetta il controllo democratico di Bruxelles. Programma di governo e postura di questa Polonia sono mutuati dall’Ungheria di Viktor Orbán. “Portare Budapest a Varsavia”, fu del resto il motto di Kaczynski alle elezioni del 2015. Varsavia difficilmente sarà una seconda Budapest: ha corpi intermedi e anticorpi all’autoritarismo più evoluti. Di certo c’è che Andrzej Duda è interprete e fedele esecutore di questo disegno di potere.

Brexit e visti: solo manager, niente badanti straniere

Con l’eccezione di turisti e permanenze fino a sei mesi, Londra chiude le porte alla libertà di movimento con l’Unione Europea post Brexit. Dal 1 gennaio 2021, i cittadini europei potranno entrare nel Regno Unito, per lavoro o studio, solo con un visto biometrico, previa dimostrazione di una serie di requisiti. Il piano, presentato nei dettagli mesi fa, è stato confermato ieri dal ministro degli Interni Priti Patel, che ha ribadito l’intenzione di attrarre nel Regno Unito “i migliori e più brillanti del mondo” secondo un sistema a punti che non farà distinzioni fra europei e candidati del resto del mondo. Per ottenere i 70 punti necessari bisognerà avere già una offerta da un datore di lavoro “approvato’ dal governo, guadagnare almeno 25.600 mila sterline l’anno e conoscere l’inglese. Chi guadagna di meno, ma non meno di 20.480 sterline, dovrà fornire altre garanzie: lavorare in un settore dove c’è carenza di personale o avere ottenuto un dottorato in una materia attinente. Maggiore flessibilità per i mestieri e le professioni più ricercate ma con stipendi non alti, inclusi ingegneri civili, e una serie di agevolazioni per le professioni mediche paramediche. Non è invece previsto, ed è polemica, l’accesso di lavoratori considerati non qualificati o con impieghi a salario minimo, fra cui anche alcuni ruoli di assistenza a malati o anziani, addetti alle pulizie, autisti e portieri che si sono dimostrati fondamentali durante l’emergenza Covid. Uno degli obiettivi della riforma, infatti, è “prima i residenti”: incoraggiare i datori di lavoro a privilegiare personale locale, inclusi gli Europei già nel paese legalmente, cioè in possesso del Settled Status, il permesso di residenza permanente che va richiesto entro il 30 giugno 2021. Via privilegiata per scienziati ed esperti: con il global talent scheme candidati svizzeri, di paesi dell’Unione Europea e dell’Area Economica Europea potranno entrare anche senza contratto. Ammessi con visto gli studenti già in possesso di un’offerta in un college e in grado di dimostrare una buona conoscenza dell’inglese scritto e parlato e la possibilità di mantenersi da soli. Dall’estate 2021, se non trovano lavoro, potranno restare per altri due anni dopo la laurea, tre in caso di dottorato. Frontiere sbarrate, invece, ai condannati a pene detentive superiori ai 12 mesi, o a chi venga considerato pericoloso per la società, secondo criteri da chiarire.

“Amazzonia, oro e sangue”. Assalto alle terre indios

Gli ultimi due omicidi sono di pochi giorni fa; indios uccisi dai cercatori d’oro, nel- l’indifferenza generale del governo Bolsonaro. A denunciare ancora una volta è Sônia Guajajara, che si batte da anni a fianco dei popoli perseguitati nelle loro terre.

In Amazzonia nonostante l’esercito abbia pattuglie in aree indigene, non si fermano sia la deforestazione che le attività dei garimpeiros, i cercatori d’oro…

Il numero dei cercatori d’oro è aumentato parecchio. Bolsonaro, già in campagna elettorale aveva promesso di non porre limiti all’estrazione d’oro, quindi, loro si sentono nel diritto d’occupare liberamente i territori. Ma ad invadere, ci sono anche i missionari pentecostali. Impongono la fede, distruggendo culture. La Funai, Fondazione nazionale dell’Indio è in mano a loro ed ha smesso d’essere un organo istituzionale in difesa degli indios.

Il governo vorrebbe approvare una legge per legalizzare l’estrazione mineraria nei territori indigeni. Lei vede una relazione tra garimpeiros e industria mineraria?

No. I garimpeiros sono persone che vivono generalmente prossime ai territori indigeni. È gente che vuole sfruttare l’occasione ed entra illegalmente nelle riserve. Le compagnie minerarie non utilizzano mano d’opera locale.

Eppure i garimpeiros sono ben organizzati; usano armi automatiche e volano persino in elicottero in Amazzonia.

I cercatori d’oro hanno un sostegno da esponenti politici che li sovvenzionano per aiutarli a espandersi nelle aree invase. Nelle terre Yanomami si trovano circa ventimila garimpeiros, senza contare quelli presenti negli altri stati dell’Amazzonia. Lo scorso anno abbiamo avuto scontri armati tra garimpeiros e indios ad Amapá e nel Pará: era iniziata come una operazione della polizia federale per fare sloggiare i cercatori clandestini, ed è sfociata in un conflitto con gli indigeni. Tra l’altro, garimpeiros, trafficanti di legnami, ma anche agenti del governo federale, hanno portato il virus del Covid tra gli indios.

Quale è il nodo che lega il presidente Bolsonaro ai cercatori d’oro?

Bolsonaro è stato anche lui un garimpeiro, per questo ha presentato la legge che legalizzerebbe lo sfruttamento minerario delle terre indigene.

Lei crede che i garimpeiros saranno i reali beneficiari dalla proposta di legge?

No, li stanno ingannando. Il governo afferma che consentirà l’estrazione dell’oro a tutti, ma in realtà la legge permetterà lo sfruttamento minerario solo a compagnie come Vale, Anglo American Niquel Brasil o i colossi minerari canadesi. Distruttori dell’Amazzonia di lunga data.

Quindi i garimpeiros sono strumentalizzati?

È chiaro che lo sono; come ha detto il ministro dell’Ambiente, Ricardo Salles, bisogna approfittare della pandemia per far passare la “Boiada” (mandria) e per boiada s’intende liberalizzare tutto, e non solo lo sfruttamento minerario, ma anche il disboscamento, l’agro business e la vendita di terre indigene ai privati.

Non è possibile bloccare questa proposta?

Sarebbe necessaria una forte pressione internazionale.

Voi contate su questa mobilitazione?

L’anno scorso ho accompagnato una delegazione indigena in Europa, dove abbiamo incontrato imprenditori e investitori. Abbiamo parlato delle loro responsabilità in Brasile, allertandoli sull’impatto che causano i loro investimenti in Amazzonia. Li abbiamo avvisati anche dell’agenda politica del governo Bolsonaro che è distruttiva e genocida. Il dialogo è stato positivo, certo non con tutti, ma con alcuni continua ancora oggi e ha dato i suoi frutti, dato che la proposta di legge, con cui si sarebbe legalizzata la vendita illegale di terre federali, è stata bocciata, anche a causa della pressione internazionale.

Quali sono i paesi europei dove avete trovato una risposta più positiva?

Abbiamo trovato disponibilità in Germania, Francia e Norvegia. Ma temiamo l’accordo economico tra Mercosur e Comunità Europea, poiché le eventuali facilitazioni di scambio tra i paesi aumenterebbero gli investimenti in Brasile e ciò comporterebbe una maggiore domanda di terre per l’aumento della produzione.

La sanatoria per braccianti regolarizza colf per il 90%

“Ho chiesto a cinque imprenditori di mettermi in regola, offrendo di pagare io i 500 euro della pratica. Nessuno ha detto di sì”. È la storia di uno dei tanti braccianti del foggiano che descrive il fallimento della sanatoria contenuta nel decreto Rilancio, annunciata da una commossa Teresa Bellanova come la svolta per liberare dal lavoro nero gli invisibili nei campi. In realtà è proprio per loro che non sembra funzionare affatto. Al 9 luglio – a quaranta giorni dall’avvio della procedura – erano solo 93.371 le richieste completate, di cui appena 11.697 per lavoro agricolo (le altre riguardano colf e badanti). L’obiettivo di 220 mila regolarizzazioni sembra un miraggio, per non parlare della famosa stima di 600 mila interessati attorno a cui si è concentrato, per mesi, il dibattito politico. Di più: secondo uno studio della fondazione Leone Moressa, le spese per la sanatoria – 75,2 milioni – diventano sostenibili per l’erario solo sopra le 200 mila emersioni. Sotto questa quota, è lo Stato che ci perde. Per scongiurare l’ipotesi, il termine per le domande è stato posticipato al 15 agosto (dapprima era il 15 luglio).

A parlare con gli interessati, però, l’intoppo sembra chiaro: i “padroni” non regolarizzano perché, nonostante tutto, non conviene. Prendiamo Abdul, che ha 33 anni e viene dalla Sierra Leone: nel 2018 scade il suo permesso di soggiorno. Da allora continua a lavorare nei campi pugliesi, ma in nero: raccoglie asparagi, pomodori, uva, olive. Dieci ore al giorno per 30 euro. Quando ha saputo della sanatoria è corso allo sportello della Flai Cgil, lo stesso sindacato in cui la Bellanova ha militato per anni. Ma nessuna delle tante aziende per le quali ha lavorato ha voluto saperne di farlo emergere. “Mi dicono di no perché sarebbero costretti a farmi un contratto, a pagarmi uno stipendio giusto”, lamenta.

Ma c’è un problema ulteriore: le aziende non si auto-denunciano perché non sanno quanto costa. Ai 500 euro per la pratica va infatti aggiunta una somma forfettaria per coprire tasse e contributi non versati, che non si conosce ancora: il decreto ministeriale che la quantifica, firmato il 6 luglio, è ancora al vaglio degli organi di controllo. E ci vorranno altre settimane. “La regolarizzazione procede a velocità da tartaruga”, denuncia Jean-Renè Bilongo di Flai Cgil. “Solo pochi temerari si avventurano al buio, senza indicazioni precise dei costi cui potrebbero andare incontro. Così non può andare”.

Le stesse difficoltà denunciano le associazioni datoriali, Il presidente Cia-Agricoltori Italiani, Dino Scanavino, se la prende con il modulo da compilare, che chiede di attestare l’“idoneità alloggiativa” del lavoratore. “Gli imprenditori non sono assistenti sociali”, si sfoga, “perché devo garantire io per l’alloggio del mio dipendente? Non svuoteremo mai i ghetti se non possiamo mettere in regola chi ci vive”.

Il silenzio/assenso che ci fa male

Al ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini deve girare la testa o deve essere sparita da qualche parte la bussola. Infatti ha detto di no, come Ministero, al voto (un emendamento) col quale il Consiglio Regionale del Lazio si è opposto al testo del Piano paesaggistico del Lazio appena co-pianificato col suo MiBACT e come tale, in altri casi, pacificamente vigente. La pretesa regionale: interferire nella pianificazione urbanistica del Comune di Roma.

Con un precedente dunque distruttivo: un Piano Casa regionale che gonfiava le cubature dei Villini appena al di là dell’ammirato e fantasioso quartiere liberty Coppedè e autorizzava la speculazione su Villa Paolina. A quel punto lo stesso ministro e Ministero dà il via ad un vincolo generale che copre la direttrice Nomentana fra generali (quasi commossi) consensi di urbanisti e studiosi di storia di Roma.

Lo stesso ministro però, a causa del coronavirus, sospende per un certo numero di mesi la validità degli interventi della “sua” Soprintendenza statale nella spinosa questione dei tavoli e tavolini dei locali del centro storico, lasciati dilagare per ogni dove nel disperato tentativo di non impoverire troppo i consumi del tempo libero o del turismo, in attesa del ritorno a una circolazione internazionale.

E a livello governativo, ahinoi, accetta nei decreti di semplificazione alcuni principi che scardinano la tutela. “All’articolo 10”, rileva il coordinatore dei Verdi Angelo Bonelli, “autorizza infatti la demolizione e ricostruzione di edifici con aumenti di cubature previsti dai Piani Casa regionali che vanno dal 20 al 30 per cento, consentendo così l’aumento delle altezze oltre che la modifica delle sagome. E include anche i centri storici, vietandone l’applicazione solo agli edifici puntualmente vincolati che sono una piccolissima parte del totale”. Roma inclusa, vincolata a macchia di leopardo (solo a Urbino vige un vincolo generale entro le mura). Oppure nomina alle grandi opere pubbliche Commissari che potranno scavalcare norme e leggi, in particolare il Codice degli appalti. Negli elenchi delle opere allegati ai decreti, poi, se ne leggono di ogni colore, come ammucchiate alla rinfusa: ecco quelle stradali, quelle autostradali e quelle ferroviarie.

Verranno rivisti, selezionati, razionalizzati in qualche fase successiva? C’è da augurarselo vivamente. Altrimenti saremmo al “salvinismo” più spinto, al Salvini che, attribuendo a sé i meriti e le decisioni per il nuovo Ponte di Genova disegnato da Renzo Piano, ripete instancabile: niente gare, niente appalti, niente di niente. Come se così si potesse sul serio combattere la corruzione.

Del resto Matteo Salvini è coerente: ricordo ancora un suo dibattito pre-elettorale con l’allora sottosegretario del governo Gentiloni Maria Elena Boschi, in quell’epoca ancora iscritta al Pd, dove, furibondo col soprintendente lombardo, per la bocciatura dell’ennesima variante lacuale (alla Tremezzina) minacciava la cancellazione delle Soprintendenze stesse e la sottosegretaria Boschi gli andava a ruota, dicendo: “Noi, del resto, abbiamo cercato di ridimensionarne i poteri”. Come vuole l’altro Matteo, Renzi, autore del libretto Stil Novo che si compendia in uno sprezzante “sovrintendente, ma de che?”.

Negli elenchi dei cantieri da sbloccare attorno a Roma, ce n’è per tutti i gusti: una autostrada vera e propria (a pedaggio) per Latina, non una ben attrezzata e gratuita superstrada che a Latina finisce. Mentre l’autostrada a pedaggio è destinata a proseguire con un percorso di vero e proprio sfondamento a Sud. Oppure la bretella autostradale Cisterna-Valmontone, essa pure avversatissima da comitati di base e dalle maggiori associazioni ambientaliste.

Ci sono progetti da portare a conclusione, finalmente, dopo anni di frustrante attesa (non si sa perché) come la chiusura dell’anello ferroviario dopo il rilevato di Tor di Quinto: cinque chilometri appena ma decisivi. Non che esso possa dare alla Capitale il respiro metropolitano che avrebbe consentito invece l’anello ferroviario (austro-ungarico) di Milano, se il fascismo non avesse fatto la fesseria storica di interrare il tratto Centrale-Garibaldi, rendendo indispensabile l’omonimo costosissimo passante sotterraneo poi realizzato nel capoluogo lombardo qualche anno fa.

Però l’anello ferroviario di Roma, secondo trasportisti come l’ex vice-sindaco Walter Tocci, può dare alcuni vantaggi pure alla città e soprattutto con l’Alta Velocità per il carico merci a Fiumicino. Qui però spunta (dagli attuali elenchi dei decreti) la quarta pista aeroportuale del Leonardo da Vinci che andrebbe a invadere (sai che indennizzi…) la tenuta di Maccarese dei Benetton e, ovviamente, il Parco del Litorale. Mentre la nuova pista di Malpensa cancellerebbe gran parte del Parco regionale del Ticino. Tutte opere aeroportuali davvero ugualmente indispensabili? E l’economia green a che cosa si riduce allora? A un “business verde” da giocarelli.

ma torniamo alla filosofia del decreto semplificazione che è quella che conta davvero e che dovrebbe stare a cuore sia a Dario Franceschini, ministro ai Beni Culturali e paesaggistici, sia al collega Sergio Costa dell’Ambiente e magari pure a Roberto Speranza, ministro della Salute e sostenitore di un “partito rossoverde”.

C’è un altro passaggio molto contestato: quello relativo al silenzio/assenso nella Valutazione di Impatto Ambientale (VIA). Dopo un certo numero di giorni cioè si approva a babbo morto e buonanotte. È noto ai più che i progetti non subiscono ritardi per “colpa della burocrazia”, di funzionari incapaci o scrupolosi fino all’acribia, bensì per le gravi carenze dei progetti che esigono indagini, integrazioni, ecc. Insomma, il silenzio/assenso andrebbe a vantaggio dei proponenti più lacunosi e inadeguati. Se tutti i progetti, anche di grandi e difficili opere, fossero completi, potrebbero essere approvati – si assicura – entro i centocinquanta giorni dalla presentazione con un massimo di trecentotrenta giorni in condizioni decisamente particolari.

E ci sono tanti cantieri che si potrebbero subito allestire. Penso al Foro Italico dove sta andando in rovina la splendida Accademia della Scherma di Luigi Moretti.

Mail Box

 

Quanta ipocrisia nelle accuse di Silvio e Matteo

Non c’è più limite al senso del pudore e della dignità umana: sentire Berlusconi invocare contro il Presidente del Consiglio Conte il rispetto delle garanzie costituzionali, oppure Salvini dire che l’eventuale proroga dello stato di emergenza è un pretesto per esercitare i pieni poteri, è come sentire Dracula diffidare un vegano dal mangiare carne al sangue. Ma queste persone si guardano allo specchio, al mattino, quando fanno la barba?

Giancarlo Faraglia

 

In tempi di peste, Newton scoprì la gravità. Da noi?

Nel 1665, in Inghilterra un’epidemia di peste bubbonica chiuse le università, e gli studenti furono costretti a ritirarsi nei posti piu remoti, e qui nella campagna del Lincolnshire il matematico Isaac Newton cambiò la storia, elaborando la legge di gravità. Speriamo che anche da noi, causa il tragico Covid, qualche geniale studente possa cambiare la storia…

Giuseppe Marcuzzi

 

Della legge elettorale si curi Mattarella

Ho letto che si riprova a scrivere la legge elettorale. Farlo fare ai politici è come se un operaio metalmeccanico si scrivesse da solo il rinnovo contrattuale o se un pensionato decidesse ogni anno di quanto deve aumentare la pensione. Ecco, allora, la mia proposta indecente: il nostro Presidente della Repubblica Sergio Mattarella formula due o tre proposte e il popolo italiano le vota.

Umberto Bonfigli

 

Erdogan come il leghista manipola la religione

Parlare di laicità nel 1935 era segno di preveggenza e saggezza. Quella che venne poi riconosciuta in Turchia al “Padre della Patria”, Mustafa Kemal Atatürk. Che, tra le altre modernizzazioni del suo paese, trasformò la contesa chiesa-moschea di Santa Sofia in un museo, con una scelta neutrale che pose fine alla disputa religiosa. Ora Erdogan – come spesso fanno gli antidemocratici – vuole utilizzare la forza identitaria della religione, per conquistare altro potere. Non ostenta rosari o invoca madonne come fanno i suoi emuli catto-sovranisti nostrani, ma sequestra l’intero complesso di Santa Sofia per riportarlo al culto religioso. Questa è una decisione grave non contro la cristianità, ma contro la laicità. Ovvero, l’equilibrio e la pari dignità che lo Stato assicura alle confessioni religiose, purché non lesive dei principi costituzionali. La laicità è un affidabile indicatore di tolleranza e pace sociale. È il canarino in miniera: se muore, vuol dire che manca l’ossigeno alla democrazia.

Massimo Marnetto

 

Anche gli sbagli politici possono esser mostruosi

Caro Direttore. Quando leggevo le nefandezze del mostro di Firenze, mi chiedevo come persone normali potessero riunirsi, discutere e programmare quello che avrebbero combinato la prossima volta. Ora non me lo chiedo più, leggendo i suoi articoli e non mettendo in dubbio la veridicità dei fatti che ormai nemmeno loro riescono più a nascondere. Sono convinto che chi ha governato fino a qualche anno addietro abbia consociato con tutti i poteri dello stato (alla faccia della Costituzione) una indegnità paragonabile agli atti del mostro di Firenze, se non peggio in alcuni casi. Non è possibile che, dopo tutto quello che è accaduto, la stampa e la politica degenerata attacchino la parte sana del paese e che la magistratura tentenni a procedere, come se aspettasse il vincitore prima di modificare un struttura che altrimenti andrebbe sostituita quasi per intero. Con la scusa del giustizialismo hanno cancellato il Codice Penale. Abbiamo subito abbastanza.

Omero Muzzu

 

Il “digital divide” persiste in Italia: risolviamolo

C’è una categoria di bambini e ragazzi che ha subito gravi danni dall’emergenza Covid, quelli le cui famiglie non hanno mezzi economici per l’accesso al digitale o a cui mancano i dispositivi, o che non sono connessi o lo sono in modo inadeguato. A fronte del lavoro importante svolto dalla grande maggioranza dei docenti, talvolta i problemi economici delle famiglie sono stati un grande ostacolo. Qualcuno ha calcolato che un 20% di ragazzi non ha potuto usufruire, del tutto o quasi del tutto, della didattica a distanza. Un numero così elevato di cittadini non può mancare l’appello con la cultura, l’educazione, la democrazia! Non si può rinunciare ai loro talenti. Ci vuole un piano nazionale per la fornitura di dispositivi e connessioni, che consenta sia di affrontare possibili nuove emergenze, sia di incrementare il livello di alfabetizzazione digitale per le materie scolastiche e per le altre occasioni culturali.

Lorenzo Picunio

Gli operai e il Covid. Più sicurezza e nazionalizzazione della siderurgia

 

Lettera al Ministro della Salute Speranza, del Lavoro e delle Politiche Sociali Catalfo, dello Sviluppo Economico, Patuanelli.

Segnaliamo alla vostra attenzione problemi sui quali occorrono interventi seri e urgenti.

1. Igiene e sicurezza sul posto di lavoro. Nelle aziende siderurgiche le misure anti-Covid-19 sono applicate solo parzialmente e talora neppure applicate. La misurazione della temperatura serve a poco se non vengono fatti tamponi e prelievi sierologici. L’autodichiarazione di non contagiosità non deve scaricare sui dipendenti le inadempienze dell’azienda. L’applicazione di tali misure deve avvenire sotto lo stretto controllo di RSU-RSA, RLS, ASL e di comitati di dipendenti designati dalle assemblee di azienda con l’ausilio di organismi di loro fiducia quali Medicina Democratica ed Emergency. Il Governo deve abolire con procedura d’urgenza la “legge sulla fedeltà aziendale” (art. 2105 del codice civile) che espone a sanzioni, ricatti, licenziamenti in nome della “tutela dell’immagine dell’azienda” quei dipendenti che denunciano pubblicamente la mancata applicazione delle misure di sicurezza.

2. Diritti sindacali. la “necessità di prevenire i contagi da Covid-19” viene utilizzata dalle aziende per limitare i diritti e l’agibilità sindacale in continuità con la linea inaugurata da Marchionne a partire dal 2010 nel gruppo Agnelli-Elkann e ora propugnata dal Presidente di Confindustria C. Bonomi.

Segnaliamo episodi inaccettabili come quelli occorsi il 6 maggio e il 10 giugno alla TNT di Peschiera Borromeo (MI): gli operai in sciopero sono stati buttati fuori dall’azienda dalle forze dell’ordine. I decreti del governo affermano che in questo periodo di emergenza non si può licenziare: perché TNT lo ha fatto e la polizia è accorsa a difenderla? Cosa aspettano il Governo e il Ministro del Lavoro a far valere la Costituzione del 1948 ancora in vigore?

3. Aziende siderurgiche e posti di lavoro a rischio. Durante il lock-down gran parte delle aziende siderurgiche sono rimaste aperte perché “essenziali” e “strategiche”: allora non devono essere chiuse, ridimensionate o delocalizzate. Eppure è quello che sta avvenendo per l’ex Ilva e la Sanac, per l’ex Lucchini, per l’AST di Terni, per le Ferriere di Servola-Trieste. Non è più il tempo di piani industriali messi in piedi solo per attingere alla “gallina dalle uova d’oro” degli aiuti statali ed europei; né di truffe a danno dei lavoratori (vedi Ex Embraco di Riva di Chieri). La soluzione è nazionalizzare la produzione siderurgica. Non finte nazionalizzazioni, buone solo a scaricare sulle spalle della collettività le perdite dei capitalisti. Bisogna nazionalizzare per far funzionare le aziende, per produrre i beni e servizi che già fornivano o per convertirle ad altre produzioni utili. Di acciaio c’è bisogno: cosa aspetta il Governo a nazionalizzare e a gestire secondo un piano d’insieme la produzione siderurgica? Se il Governo non interverrà in tempi rapidi, ne trarremo le dovute conclusioni e agiremo di conseguenza.

Alcuni operai e delegati della ex Lucchini – Piombino; ex Ilva (GE e TA), Alfa Acciai e Fonderie di Torbole (BS), Dalmine Tenaris (BG), Ferriere di Servola (TS), AST (TR), Marcegaglia (RA), Sanac (MS e Vado Ligure)