Le vie della critica cinematografica sono infinite. Tortuose anche, con curve a gomito: alzato. Non stupisce che uno dei più eterodossi, idiosincratici, affrancati saggi critici contempli “zapping” e “ubriacatura”, e nondimeno si riveli una preziosa epifania di senso. Per tutti. “Se accendo la tv e faccio zapping tra i canali, sono sempre felice di trovare Dove osano le aquile. La cosa strana – messa in nota a piè di pagina con notevole sprezzatura, ndr – è che incappo sempre nella stessa parte del film. Se è tardi e sono ubriaco lo guardo per una decina di minuti, il che significa che ho visto questa sequenza che inizia con Richard Burton che esce dalla taverna o Heidi che entra nella baracca più volte di quanto abbia visto altre parti”. Forse, come vorrebbe Geoff Dyer, nella ricorrenza si cela “un ordine nascosto del mondo”, di certo, professa lo scrittore inglese trapiantato in California, Dove osano le aquile è “una proiezione drammatica potenziata di alcune componenti della cultura nazionale che hanno formato la mia generazione”. Natali a Cheltenham il 5 giugno del 1958, Dyer è un fuoriclasse, non conosciuto per quanto meriterebbe, non facilitato dai titoli italiani ai suoi libri: But Beautiful, rivelazione del 1991, diviene Natura morta con custodia di sax. Storie di jazz; questo Broadsword Calling Danny Boy, una famosa battuta di Burton che da noi suona “Fioretto chiama Danny Boy”, Fuga. Su Dove osano le aquile, meritoriamente edito da Il Saggiatore.
Raffinato critico l’ha battezzato Zona Un libro su un film su un viaggio verso una stanza, ovvero Stalker di Andrej Tarkovskij rivisto attraverso il prisma estetico e autobiografico di una predilezione che sconfina nell’ossessione, Dyer lo ribadisce – ancora in nota – nei confronti di Dunkirk di Christopher Nolan, di cui isola lo “Spitfire che plana silenzioso sulla spiaggia dove la materia della coscienza cede alle pretese dell’inconscio e le ammortizza”. Da brividi, e allora perché buttarsi via per un film come Where Eagles Dare, diretto nel 1968 da quel Brian G. Hutton che “non può prendere facilmente posto fra autori del calibro di Tarkovskij, Herzog, Antonioni e simili”. Eppure, “sembra ancora, a cinquant’anni dalla sua uscita, contenere un po’ dell’essenza di quel che significa per me il cinema oggi, quando i film d’azione sono diventati una forma di torpore esplosivo”. Non solo l’analisi puntuale e puntuta dell’opera, ma di chi vi sta davanti: Dyer inchioda i soloni della professione, prova “un piacere perverso nel contestare la critica che senza porsi dubbi dà per scontato che l’ottusità sullo schermo si limiti a riflettere il sottosviluppo delle menti dietro la macchina da presa”. Dunque, il romanzo di Alistair MacLean, Richard Burton, ossia il maggiore Jonathan Smith, Clint Eastwood, il tenente Morris Schaffer, e Mary Ure a sensualizzare Mary Elison: un commando anglo-americano, i nazisti, lo Schloß Adler, e una leggenda in tono minore, un’aura claudicante strappata al castello delle aquile e consegnata alle visioni notturne, perfino alticce.
Dyer mostra sprezzo del pericolo: “Lo riguardo per rimpolpare la mia scorta di dettagli rivelatori e anche, lo ammetto, per divertirmi un sacco”. E per intuire di Burton e Eastwood cose intime, ardite e spassosissime. Del due volte marito di Liz Taylor motteggia a più riprese l’acclarata dipendenza dal bicchiere – “Adesso che si è messo un po’ di fuoco alcoolico nelle vene, è davvero nel suo elemento” – senza dimenticare la busta paga: “Ha problemi economici del tipo che la gente che non è oppressa da montagne di soldi non può minimamente immaginare”; “Un film come questo, che gli farà guadagnare quantità di denaro tali da permettergli di comprare alla sua Cleopatra dei tempi moderni (“soldi facili” fu il verdetto di lei su questo cinefumettone) cose come un jet con troni d’oro brunito al posto dei sedili”. A Eastwood, fresco novantenne, riserva notazioni mirabili: “Capelli folti e lucenti, con l’uniforme sembra alto e flessuoso mentre sbriga l’incombenza di attaccare esplosivi in giro per la sala, offrendoci nel frattempo una lezione magistrale sull’arte del movimento. (…) David Thomson, nella voce che dedica a Fred Astaire nel New Biographical Dictionary of Cinema, ci ricorda “un principio vitale: spesso un attore cinematografico che si muove bene è preferibile a uno che ‘capisce’ la parte”. (…) Eccolo qui dunque (…) che si muove nella Sala Grande con la placida grazia di un Roger Federer in uniforme tedesca, un mitra Schmeisser al posto di una racchetta Wilson. Al pari di Federer, Eastwood ha un rapporto con il tempo leggermente diverso da quello della gente normale, che si affretta e si fa prendere dal panico, mentre lui incede come un cigno”. Già, quella di Dyer è Fuga per la vittoria: critica.