La Meloni ricalca in tutto Salvini. Meglio se si smarca

Quanto differiscono, se differiscono, Meloni e Salvini? Purtroppo (per lei), Donna Giorgia ricalca ormai quasi sempre il suo alleato. Soprattutto dalla pandemia in poi, la leader di Fratelli d’Italia pare aver voluto intraprendere la strada del “peggio mi comporto e più cresco”. E i sondaggi, per ora, le stanno dando ragione. Meloni ha dato del “criminale” a Conte. Ha sostenuto che il Mes l’avesse firmato nella notte “Giuseppi”, dimenticandosi che il Mes fu sdoganato dal Berlusconi IV (nel quale lei era ministro) e poi votato da Monti. Ha gridato al “governo servo dell’Europa”, salvo però proseguire coi suoi ottimi rapporti con quei bei giuggioloni dei paesi “rigoristi” e “frugali” che tifano allegramente contro l’Italia. Ha partecipato al colpevolissimo assembramento salviniano del 2 giugno. Ha delirato contro Guccini sul 25 aprile, recitando la parte – che ama – della martire che “la sinistra sogna di fucilare” come accadde con Mussolini (quella sinistra, se esistesse, meriterebbe il gabbio in eterno). Ha proposto Berlusconi al Quirinale, come se non l’avesse già sparata abbastanza grossa quando anni fa con Salvini arrivò a candidare Capo dello Stato – ed era sobria – “l’uomo che sussurrava ai torbati” Vittorio Feltri. Ha inscenato il balletto nannimorettiano “Mi si nota di più se vengo o sto a casa” ogni volta che Conte invitava le opposizioni per collaborare alla rinascita del paese. Eccetera.

È straordinario e quasi commovente come l’ultima Meloni si voglia male. Certo ella è migliore del Cazzaro Verde, ma quella è una pre-condizione che vale per tutti (tranne Renzi). Purtroppo (per lei), Donna Giorgia somiglia a Salvini pure in una delle pratiche più deprecabili di Mastro Ciliegia: cavalcare la cronaca nera per manganellare mediaticamente lo straniero. Una prassi abietta in cui, purtroppo, entrambi paiono eccellere. Soprattutto sui social. È accaduto anche il 9 luglio, quando Meloni ha scritto: “Alice, 32 anni, è stata presa a sassate da un clandestino mentre era alla guida. Aggressione che le ha causato la perdita di un occhio. Spero questo delinquente venga espulso dal suolo italiano e sconti la pena nel suo paese d’origine. Un abbraccio e la mia solidarietà ad Alice”. Meritoria la solidarietà. Assai meno lo sciacallaggio a giorni alterni. Sì, perché Meloni scatta tipo Usain Bolt non appena scorge un fatto di cronaca che possa scatenare il branco contro il clandestino, ma nulla dice quando la cronaca vede l’italiano nel ruolo di cattivo e lo straniero in quello di vittima. Come di recente a Brescia, dove un italiano ha travolto sulle strisce una bambina straniera di 9 anni. L’italiano è scappato e si è costituito ore dopo. Nel frattempo la bambina era morta. Nulla di scritto da Meloni e Salvini. Quel Salvini che, due giorni fa, ha straparlato di un “pakistano nudo che molestava una donna a Gallipoli”, solo che la foto da lui postata era di un italiano nudo a Trapani e il fatto risaliva a gennaio. Che Salvini sbagli tutto è normale, che Meloni faccia lo stesso forse no. Oltretutto Donna Giorgia avrebbe mille modi per distinguersi positivamente. Magari cacciando dal suo partito, quello in cui dominano i La Russa e le Santanché, casi umani conclamati come il tizio che in provincia di Udine si è fatto ritrarre con la divisa nazista. Oppure quell’altro che, in Campania, ha tirato fuori lo slogan (fascio e idiota) “Me ne frego”. E tutti quei camerati mosci che, ogni giorno, dentro il suo partito ne combinano più di Bertoldo. Puoi farcela, Donna Giorgia: basta volerlo.

 

Strage di via d’Amelio, ancora ci sono interrogativi da capire

Perché a distanza di 28 anni ricordare la strage di via Mariano d’Amelio e i suoi caduti, quando il tempo trascorso ha ingiallito e offuscato i ricordi? L’esercizio della memoria è un tributo ai familiari delle vittime e ha una funzione pedagogica e di indirizzo per i vivi, i cittadini e i rappresentanti delle istituzioni, affinché siano vigili e proiettati a tutelare gli strumenti di contrasto al crimine organizzato introdotti nella nostra legislazione, come il regime del carcere duro di cui all’art. 41 bis dell’Ordinamento penitenziario, previsto dal D. L. dell’8 giugno 1992, applicato nei confronti di centinaia di mafiosi all’indomani della strage, che da più parti si vuole affievolire se non eliminare, sebbene sia un presidio fondamentale in nome di pulsioni ipergarantiste. Il mafioso deve sapere che la punizione afflittiva è certa.

È la disattenzione dei principali organi di informazione – con poche virtuose eccezioni, rispetto ai plurimi lari oscuri che ruotano attorno all’eccidio, ai cedimenti che hanno caratterizzato il regime detentivo nella fase dell’emergenza sanitaria di questi mesi e alla capacità penetrativa delle plurime strutture organizzative nel nostro Paese che continuano a comprimere le garanzie collettive della libertà individuale ed economica – che impone di riflettere collettivamente.

Se risulta provato, con sentenza irrevocabile, che la morte di Paolo Borsellino era stata voluta dai vertici di Cosa Nostra e da numerosi mafiosi per finalità di vendetta e di cautela preventiva e per esercitare – cumulando i suoi effetti con quelli degli altri delitti eccellenti perpetrati quello stesso anno – una forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia decisamente più intensa che nel passato e indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica.

Tuttavia, tutto ciò non ricostruisce verosimilmente completamente la verità di una strage, minata dal depistaggio per sviare i sospetti dai veri colpevoli e, forse, dai loro suggeritori e da chi ha avuto interessi convergenti con quelli mafiosi, che ha condizionato la nostra democrazia e contribuito a creare nuovi equilibri di potere. Un attentato ancora in parte enigmatico, caratterizzato da due peculiarità che lo differenziano rispetto agli altri episodi stragisti del triennio 92-94: l’impiego da parte degli attentatori di un esplosivo plastico più sofisticato il Semtex (costituito da T4 e Pentrite), mai rinvenuto nella disponibilità di Cosa Nostra in quantitativi apprezzabili, se non nel lontano 1985 in un deposito riconducibile a Giuseppe Calò e dell’accelerazione della sua esecuzione, avvenuta a 57 giorni dalla strage di Capaci nella stessa città, ponendo in non cale l’agguato nei confronti dell’onorevole Calogero Mannino, per volere di Salvatore Riina.

 

 

I rischi del mes restano ma si possono eliminare

Per chi si occupa di diritto europeo, il dibattito sul cosiddetto Mes sanitario appare sempre più impressionante. Di fronte a uno scontro dai toni spesso esasperati, si sarebbe tentati di dire che esistono due tifoserie contrapposte e che la verità sta nel mezzo o altrove. Ebbene, questa volta non è così, perché c’è una parte (semplificando: il PD, IV, FI e buona parte dei giornali mainstream) che da mesi mistifica la realtà, cercando di presentare un Mes innocuo che ci permetterebbe di ricostruire il nostro sistema sanitario, e un’altra parte (anche qui semplificando: Lega, FdI e sovranisti vari) che, con argomenti più fondati, avverte che lo strumento è tutt’altro che innocuo, potendo a tempo debito essere utilizzato per rafforzare il vincolo esterno e imporre misure di austerità.

Chi scrive si sente culturalmente e politicamente vicino al centro-sinistra. Onestà intellettuale induce però ad ammettere che in questa occasione ad aver ragione siano Lega, FdI e sovranisti. Nei mesi scorsi ho collaborato ad un e-book (MES: l’Europa e il Trattato impossibile, a cura di Alessandro Mangia, Morcelliana) in cui si spiega nel dettaglio come il Pandemic Crisis Support (così è denominato il Mes sanitario) sia uno strumento che si colloca all’interno di un quadro di norme tuttora vigenti che può facilmente condurre all’adozione di un programma di aggiustamento macroeconomico (questa la denominazione dei programmi con cui si impongono le misure di austerità agli stati che ricevono assistenza finanziaria). Che non ci siano condizioni, come si ripete da settimane, è una tesi che si fonda su una lettera di Paolo Gentiloni e Valdis Dombrovskis (quindi, a stretto rigore, nemmeno della Commissione in toto, ma del commissario agli Affari economici e del vicepresidente), successivamente fatta propria dall’Eurogruppo. Un documento che sul piano politico riveste una certa importanza, ma che sul piano giuridico non ha rilevanza alcuna. Gentiloni e Dombrovskis avranno le migliori intenzioni, ma è quasi certo che non saranno commissari per tutti i dieci anni in cui il prestito Mes andrà restituito e nessuno garantisce che i loro successori (o loro stessi) non cambino idea. A quel punto basterà scrivere un’altra lettera. O applicare le norme.

A rendere grottesco il dibattito non sono solo le tesi di chi continua ad affermare che le condizioni sono scomparse. Ma anche il fatto che, se davvero si volessero togliere le condizioni, la soluzione sarebbe facilmente percorribile. Sbagliano i sovranisti a dire che per togliere le condizioni è necessario modificare il Trattato del Mes. Secondo il costituzionalista e deputato Pd Stefano Ceccanti, al requisito della “rigorosa condizionalità” di cui parlano gli articoli 136(3) Tfue e 3 Mes si può dare un’interpretazione flessibile, facendo riferimento al mero vincolo di destinazione alle spese sanitarie correlate al Covid-19. Ma le condizioni possono essere aggravate unilateralmente in itinere dalle istituzioni europee e a permetterlo è il regolamento 472/2013. A confermarlo è la stessa lettera di Gentiloni e Dombrovskis, che per buona parte è diretta a “disattivare” molte delle norme del regolamento, salvo non riuscire a farlo in ragione dei limiti formali appena segnalati.

Insomma, se si volessero dissipare incertezze e dubbi (almeno quelli giuridici; su quelli di convenienza economica non spetta a me esprimere valutazioni) basterebbe fare approvare un regolamento di poche righe che, ricalcando il contenuto della lettera Gentiloni-Dombrovskis, sospenda l’efficacia del regolamento 472/2013 in relazione al Mes sanitario. Non dovrebbe essere troppo complicato, visto che l’Eurogruppo si è già espresso a favore all’unanimità e in materia il Consiglio europeo delibera a maggioranza qualificata. Anzi, c’è da chiedersi perché non lo si sia già fatto. Alcuni sostengono che la procedura legislativa ordinaria richiede troppo tempo, ma la tesi pare infondata visto che il regolamento istitutivo di SURE (lo strumento europeo di finanziamento della cassa integrazione) è stato proposto a inizio aprile e approvato il 19 maggio. Insomma, la sensazione è che si voglia mantenere la condizionalità in latenza per poterla attivare appena sarà necessario.

Chiudo con un piccolo consiglio non richiesto al Presidente del Consiglio Conte, che si trova a dirimere il conflitto tra fautori e contrari del Mes sanitario all’interno della maggioranza: dica che la domanda di un prestito Mes sarà proposta il giorno dopo l’approvazione di una sospensione del regolamento 472/2013; a quel punto le reali intenzioni dei partner europei (e di alcuni alleati di governo) diventeranno subito molto più chiare.

 

 

Tecniche di seduzione in treno, dedicate a viaggiatrice graziosa

Il capotreno di un regionale Bologna-Ancona ha dovuto far scendere una trentina di passeggeri perché le carrozze erano troppo piene. (FQ, sabato 20 giugno)

Causa coronavirus, molte cose non saranno più come prima, e già ne proviamo nostalgia. Per esempio, i viaggi in quel meraviglioso gabinetto di osservazione sociologica, specie se gremito, che Leopardi chiamava siderodromo: il treno. Quando arrivava al convoglio una viaggiatrice giovane e graziosa, con trolley alla moda, subito 80 viaggiatori, traboccanti dalla cornice dei finestrini, si sforzavano di emettere dalle pupille fluidi calamitati per attirarla dentro il proprio vagone. La bella di Lodi, un meraviglioso insieme di ossa e di luce non ancora lavorato dal tempo, ignorava i colli protesi a elemosinarle un sorriso, e saliva in carrozza. All’unisono, tutti gli affacciati di quel vagone si toglievano dai finestrini per guardare in corridoio, colmi di speranza; ma lei entrava da te, e loro si rassegnavano, augurandoti a mezza bocca una morte cruenta. (All’invidia bisogna credere, altrimenti poche cose si spiegherebbero.)

Il treno parte, infiocchettato di fazzoletti al vento, ma tu vieni distratto dalle evoluzioni di quel cataclisma psichico che, in tacchi alti e gonna aderente, poggia il trolley sulla poltrona di fronte a te e le si siede accanto con un sospiro, a leggere un tomo di Agamben, che manco sai chi è. Dopo un pensiero fugace al reggiseno inesistente, noti che la bella misteriosa ha la fede al dito. Ti chiedi pertanto se il marito sia restato in città, o cosa cazzo stia succedendo. Escogiti dunque di parlare di te stesso, della tua vita, degli scopi del tuo viaggio, con abbondanza, per costituirti un ampio diritto a ricevere confidenze da lei, e intanto approfitti di un suo sguardo al paesaggio in corsa per eseguire un gesto che significa: “Mi scusi, non voglio importunarla. Desidera il finestrino aperto o chiuso? Coi miei muscoli d’acciaio potrei abbassarlo. Sono a sua completa disposizione. Se vuole le lecco pure la figa.” A tanta generosità gestuale, la viaggiatrice incantevole replica con un piccolo cenno che significa: “Lei può anche aprire il finestrino e buttarsi di sotto, non potrebbe fregarmene di meno.” Allora le chiedi, sempre a gesti, se desidera il suo trolley sulla reticella. Con un altro cenno ti risponde di no, si faccia i cazzi suoi. Tutto ciò espresso nel mutismo più garbato. E mentre stai immaginando un’avventura memorabile con lei, senza consultare altro che i ricordi di operette ambientate in Ungheria, si arriva a Forlì. Qui penetra nello scompartimento – proprio nel tuo – un bellimbusto. Dentro di te dai di matto, perché l’intruso è venuto a interrompere il più appassionato degli idilli. Ti senti leso nel tuo jus primae stationis. E naturalmente la testa di cazzo si siede proprio di fronte alla procace silenziosa, dopo averti guardato con la sua faccia da stronzo. Il treno riparte dolcemente, come una mano di ladruncolo che si ritrae cauta da una tasca altrui. L’intruso chiede alla giovane se desidera che il trolley ingombrante finisca sulla reticella, e – sorpresa! – riceve non solo un sorriso – il primo sorriso del viaggio – ma addirittura un soavissimo “grazie”, offendendo il tuo orgoglio virile nel modo più ignobile. Il resto del tragitto fino a Cattolica lo impiegavi nello studio etnologico della troia.

 

Dov’è l’Oms quando serve?

Tre giornifa l’ambasciata cinese in Kazakistan ha dato una notizia che ha fatto tremare le vene ai polsi al mondo intero: ben 1.700 polmoniti atipiche provocate da un virus sconosciuto. Dopo ventiquattro ore, è arrivata la smentita: erano polmoniti da Covid. Sono passate ancora ventiquattro ore ed è giunto un chiarimento, sempre dall’Oms.

“Probabilmente” sono polmoniti erroneamente diagnosticate, state tutti tranquilli. Tutti tranquilli? Credo che la vera notizia bomba sia proprio questa: il fatto che autorità di quel calibro non siano in grado di fare una corretta diagnosi di polmonite in piena pandemia. Ci avevano rassicurati dicendoci che i tecnici dell’Oms sono in ogni area del mondo, pronti a cogliere il minimo focolaio. E invece qui parliamo di ben 1.700 casi, altro che focolaio! Dove sono i tecnici? E perché tante informazioni così contraddittorie?

Se questo è il contributo dell’Organizzazione mondiale della Sanità, stiamo freschi.

 

Nel 63% pro Conte c’è molta gente che vota a destra

Il 10 luglio scorso, il 63% di popolarità record del premier Giuseppe Conte ha ispirato a Liberoquotidiano.it questo titolo: “Il sondaggio Ipsos dà ‘pieni poteri’ al premier: il report sulla scrivania prima dello stato d’emergenza?”. Parliamo di un testata assolutamente critica nei confronti del governo ma proviamo a considerare non infondata l’ipotesi che il presidente del Consiglio abbia deciso di protrarre fino al 31 dicembre lo stato d’emergenza Covid anche perché forte del consenso degli italiani. Che del resto hanno sostenuto la sua scelta del lockdown, fin all’inizio e in tutte le fasi successive.

A questo punto però un organo apertamente schierato con l’opposizione che va da Matteo Salvini a Giorgia Meloni potrebbe porsi una domanda e darsi una risposta: quanti elettori di destra contiene quel 63% favorevole a Conte, visto e considerato che nei sondaggi il centrosinistra non tocca neppure il 50%? Se la matematica non è un’opinione, avremmo dunque una percentuale consistente di italiani orientati a destra ai quali i “pieni poteri” del premier nella guerra alla pandemia non dispiacciano affatto. Come notizia, in fondo, è il cane che morde l’uomo poiché la presenza a palazzo Chigi di un “uomo forte” non potrebbe certo dispiacere a chi chiede “legge e ordine”, tanto più dopo lo choc dei mesi scorsi e quando “nel doman non v’è certezza”. Suscita quindi una certa ilarità assistere allo spettacolo della destra politica, giornalistica e televisiva che si straccia le vesti, disperata per il “rischio democratico” e l’“attentato alla costituzione” di cui si starebbe macchiando il premier, con una scelta di salute pubblica, condivisa nel paese a sinistra ma anche a destra. Siamo alla comica finale dove un turbogiurista come Sabino Cassese paragona Conte a Orbán senza strozzarsi dalle risate. Dove Giorgia Meloni si trasforma in Michela Murgia, pronta per l’iscrizione all’Anpi. Dove la presidente del Senato Elisabetta Casellati si erge a sentinella della democrazia, del mausoleo di Arcore e delle nipotine di Mubarak. E dove Matteo Salvini, tornato al Papeete Beach giura che impedirà all’usurpatore di assumere quegli stessi pieni poteri che giusto un anno fa egli trionfalmente annunciava da una consolle smutandata.

Il pm del Cairo non molla Zaki: altri 45 giorni di detenzione

C’era ottimismo ieri al Cairo attorno al caso di Patrick Zaki, lo studente egiziano iscritto al programma Erasmus a Bologna, arrestato all’inizio di febbraio di rientro proprio dall’Italia. Molti si aspettavano che la Procura scarcerasse il 28enne nel suo 158° giorno di detenzione nella famigerata prigione di Tora, alla periferia sud della capitale egiziana. Patrick è stato arrestato a causa di due post antiregime pubblicati alla fine di agosto del 2019. In tarda mattinata è arrivato l’ennesimo verdetto beffardo: Zaki resterà in carcerazione preventiva per altri 45 giorni. La difesa dello studente di diritti civili e Lgbt, aveva presentato una richiesta ufficiale alla Procura di New Cairo. Il regime mantiene la barra a dritta sul fronte dei diritti umani e dei cosiddetti “prigionieri di coscienza” utilizzando la giustizia per sfinire la rete del dissenso. Patrick non è il primo e non sarà l’ultimo ad essere sottoposto a ripetuti rinnovi della detenzione, un cliché del sistema penale egiziano. Il fotoreporter Mahmoud Abu Zeid “Shawkan” ha subìto 54 rinvii in 5 anni di carcere a Tora prima di essere messo in libertà vigilata. Le reazioni al rinnovo detentivo di Zaki sono subito arrivate: “Sono a pezzi, basta. Non ho altro da dire” è il commento della sorella minore di Zaki, Marise, mentre Amnesty International parla di decisione: “assurda, atroce, arbitraria e crudele. Se l’Egitto pensa che ci scorderemo di lui si sbaglia”.

Zaki ieri non è stato l’unico a vedersi rinnovata la carcerazione. La stessa sorte è toccata al dottor Ahmed Safwat, del sindacato dei medici. Safwat aveva criticato su Facebook il presidente Abdel Fattah al-Sisi secondo cui la colpa delle morti e della raffica di contagi da Coronavirus (il bilancio della pandemia in Egitto è di oltre 82mila casi e 4 mila morti di cui 130 medici) era da attribuire alla negligenza dei dottori. Ieri, intanto, l’esperto giornalista Mohamed Mounir, arrestato il 17 giugno e rilasciato pochi giorni fa, è morto. Era positivo al Covid-19.

“Riaprite i musei”. Il flash mob dei lavoratori

“Tintoretto vorrebbe esporre”. Hanno scelto l’ironia i dipendenti dei Musei Civici di Venezia, utilizzando questo slogan sopra la foto del sindaco Luigi Brugnaro, sorridente e incorniciato dalla finestra di uno dei palazzi settecenteschi, in un volantino che oggi a mezzogiorno distribuiranno durante un flash-mob al Ponte della Paglia, con vista sul Ponte dei Sospiri. “Il rilancio della città passa dalla cultura. Riaprire subito i Musei” chiedono al primo cittadino che, inopinatamente, i musei non li ha ancora riaperti, anche se albergatori, commercianti e operatori economici si lamentano che a Venezia il turismo non sia tornato. Il Comune, invece, aspetta i turisti, prima di riaprire i suoi gioielli.

Al momento si possono visitare solo Palazzo Ducale (tre giorni e mezzo alla settimana), il Vetro e il Merletto (solo sabato e domenica). Ancora serrati tutti gli altri. I lavoratori Filcam e Funzione Pubblica Cgil, Fisascat Cisl e UilFpl chiedono la riapertura immediata, un piano per il rilancio dell’offerta dei Musei Civici e il rientro al lavoro di tutto il personale, oltre 400 dipendenti in cassa integrazione, nonché la salvaguardia dei lavoratori in appalto nei prossimi bandi di gara.

Intervistata da Il Fatto Quotidiano la presidente dei Civici, Maria Cristina Gribaudi aveva detto: “Siamo pronti a ripartire, ma siamo flessibili. Se il pubblico cresce, noi ci siamo”. Daniele Giordano della Cgil spiega: “Noi andiamo in piazza perchè su questo tema cruciale c’è solo il silenzio delle istituzioni. Ma in questo modo non muore solo la cultura, muore anche Venezia”.

La Siae gli manda un pacco di cibo. L’artista si offende

“Altro che umiliazione, se penso che ai miei amici musicisti che abitano a Berlino in due giorni dalla loro richiesta sono arrivati €5 mila euro sul conto a fondo perduto. Io ho chiesto alla Siae un sussidio economico e ora mi ritrovo con Gocciole, tonno e riso in quantità industriale”. Nella drammaticità della crisi da Coronavirus, tra ritardi della cassa integrazione e categorie lavorative rimaste ancora senza aiuti, c’è anche la surreale storia di Dario Napoli, di professione chitarrista, e dell’aiuto non richiesto che ha ricevuto dalla sua associazione di categoria, la Siae, a cui ogni anno versa la quota associativa e paga i contributi affinché le proprie opere siano salvaguardate dal diritto d’autore. La denuncia è partita da un post pubblicato da Napoli su Facebook. A maggio, subito dopo la fine del lockdown, il chitarrista contatta per mail la Siae per chiedere “un sussidio o una qualsiasi forma di aiuto finanziario”. Una forma di compensazione come quella prevista dall’Inps con il bonus 600 euro per le partite Iva. La Siae gli risponde che a marzo sono stati deliberati 60 milioni, ma bisognerà aspettare settembre per l’erogazione. È però disponibile un pacco alimentare. L’associazione ha, infatti, stanziato un fondo di solidarietà di 500 mila euro per acquistare 2.500 pacchi da distribuire agli associati in condizioni di indigenza, invalidità o precarie condizioni. Napoli però risponde che “più che del pacco”, ha bisogno del sussidio economico. Di soldi non se ne vedono, i mesi passano e pochi giorni fa il chitarrista riceve due scatoloni pieni di cibo. Una consegna che Napoli giudica “fuori luogo”: “Tutto quel cibo sarebbe potuto andare a una famiglia bisognosa, io non l’ho chiesto. Mi sarei aspettato che la Siae aiutasse noi artisti con soldi in mano”. Dal canto suo l’associazione respinge le accuse e spiega al Fatto che la mail che Napoli ha inviato conteneva la descrizione di una “situazione di disagio” e “perciò gli è stato destinato il pacco”.

ManCity, basta pagare e il Fair play finanziario torna per magia

Ricordate quando il presidente FIGC Franco Carraro tenne nel cassetto il plico delle intercettazioni di Calciopoli avuto da Guariniello, salvo tirarlo fuori quando dall’alto arrivò, si dice, addirittura il placet della Real Casa a benedire la loro diffusione? Più o meno quel che è successo all’UEFA a proposito dei bilanci taroccati del Manchester City con le sponsorizzazioni gonfiate dello sceicco Mansur che negli anni ha pompato sterline a go-go nelle casse del club in spregio alle regole (farlocche) fissate dal presidente UEFA Michel Platini: acqua in bocca sempre e poi, messo alla porta il lestofante Platini, l’apertura di un’indagine interna decisa solo dopo le rivelazioni di Football Leaks, l’esclusione del club da ogni competizione europea per due stagioni e ora la cancellazione della squalifica decretata ieri dal TAS perchè i reati contestati sono o “prescritti” (datano 2014, ma tu guarda la jella) o “scarsamente provati”. E così, come da copione, il City che per due stagioni avrebbe dovuto rinunciare alla Champions paga un obolo di 10 milioni e più spavaldo che mai si ripresenterà in autunno al via del torneo come se nulla fosse successo. Tutti contenti. Il FPF di Platini, che doveva garantire equilibrio e parità di opportunità, ha in realtà creato un esclusivo circolo di club ricchi che ogni anno diventano sempre più ricchi a danno di tutti gli altri; e se hai il pelo sullo stomaco (e i petrodollari) di City e PSG, puoi entrarci e non uscirne più. Notizia triste in assoluto e addirittura infausta per i tifosi juventini; in caso di stangata attendevano Guardiola a Torino come il Messia e invece se lo ritroveranno contro già ad agosto, ai quarti di finale, se la Juve farà fuori il Lione e il City (già sulla buona strada dopo il 2-1 al Bernabeu) il Real Madrid.