Tre elogi ai militari che arrestarono Cucchi. Il maresciallo: “Dissero che non camminava”

Tre “apprezzamenti” ai carabinieri della stazione di Roma Appia che arrestarono Stefano Cucchi la notte tra il 15 e 16 ottobre 2009, e che poi lo picchiarono all’interno della caserma. Le lettere sono state mostrate in aula dal sostituto procuratore Giovanni Musarò durante l’udienza del processo sul presunto depistaggio dell’Arma (imputati sette ufficiali e un carabiniere scelto) nelle indagini sulla morte di Cucchi tra il 2009 e il 2015: “Prego esprimere ai militari operanti il mio apprezzamento”, scrive il 17 ottobre l’allora comandante provinciale, generale Vittorio Tomasone, per “l’arresto di una persona, per detenzioni ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti”. Due giorni dopo c’è l’elogio via mail del comandante regionale, generale Saverio Cotticelli, e il 26 ottobre, quattro giorni dopo la morte di Cucchi il comandante maggiore Paolo Unali e il maresciallo Giancarlo Silvia, della compagnia, Casilina inviano il loro “personale plauso”. Proprio a Salvia, chiamato in aula a testimoniare, il pm Musarò ha chiesto se fosse usuale una simile nota di merito, per un arresto di spaccio per quasi 24 grammi: “Non è usuale – ha detto Salvia – arresti simili sono fatti spesso in una città come Roma”.

Il teste ha anche raccontato di aver sentito da alcuni colleghi parlare delle condizioni di Cucchi. “Vicino alla macchina del caffè, ho sentito dei colleghi che lo avevano accompagnato alla direttissima, dicevano che aveva difficoltà a rimanere in piedi e deambulare, che era conciato male”.

Poi aggiunge: “Era una frase detta in corridoio, non ho approfondito e non le ho riferite a nessuno, anche se di solito sarebbero oggetto di relazione di servizio. Ho pensato che se fosse successo qualcosa avrebbero agito di conseguenza”. Salvia ha anche spiegato che il fascicolo Cucchi era “nell’armadietto del maggiore Unali, chiuso a chiave”, custodito tra i “documenti più delicati”.

In aula anche il carabiniere Guido Luppino, in servizio a Tor Sapienza, che ha ricostruito l’acquisizione degli atti di Cucchi fatti dal nucleo investigativo dei carabinieri nel 2015. “Vennero e mi fecero fotocopiare tutto – spiega Luppino –, c’era un militare che mi seguiva a ogni mio movimento, ho stampato anche la mail che però non hanno preso”. Si tratta della mail del 27 ottobre 2009, per la quale i militari Alessandro Casarsa, Francesco Cavallo, Luciano Soligo e Massimiliano Colombo Labriola sono imputati per falso ideologico, accusati di aver concordato di modificare l’annotazione redatta da un collega sullo stato di salute di Cucchi, per coprire le violenze subite in caserma.

“Noi Denunceremo”, 50 nuovi esposti ai pm Salvini: “Fango su Lombardia”. È polemica

Sono una cinquantina i nuovi esposti presentati in procura a Bergamo dai familiari delle vittime di Covid, riuniti nel comitato “Noi Denunceremo”. Ne erano attesi circa 100, ma in molti – spiega al Fatto l’avvocato del gruppo, Consuelo Locati – “hanno dovuto rinunciare per impegni personali”. Oltre alle testimonianze dalla bergamasca, stavolta ne arrivano da altri luoghi d’Italia: Piemonte, Liguria, Roma. “Le depositiamo qui perché Bergamo è la città più colpita e perché riteniamo che la non-chiusura di Alzano e Nembro abbia rappresentato l’inizio del disastro. Saranno i magistrati a decidere se inviarle ai colleghi di altre Procure”, dice Luca Fusco, presidente del comitato. “Le zone rosse erano competenza del Governo e se non sono state istituite si spiegherà il perché a questi famigliari, però smettiamola di infamare la Lombardia, o di prendercela col medico di Alzano o di Codogno”, attacca il leader della Lega Matteo Salvini. “Salvini rettifichi”, replica “Noi Denunceremo”: “Le sue sono dichiarazioni scientemente false e strumentali. Segno di intelligenza sarebbe conoscere i fatti, prima di parlare”.

Bengalesi, “esodo” di cura: “Qui non ci farete morire”

“Non lo nascondo: sono tornato qui perché sapevo che, se mi fossi ammalato, non mi avrebbero lasciato morire. Ringrazio l’Italia perché mi ha accolto come lavoratore e come essere umano”. Hashim, 32 anni, è uno dei circa 1.000 bangladesi arrivati in Italia dopo il lockdown e il blocco disposto dal ministro della Salute Roberto Speranza, su pressing della Regione Lazio. Su un volo charter, come gran parte di quei mille. Ora è in quarantena. Il suo contatto a Roma è il cugino, che vive nella Capitale da quasi 15 anni, gestisce una frutteria. Hashim invece è un lavoratore “stagionale”, entrato grazie al contratto di lavoro fatto proprio dal cugino. L’obiettivo era sfuggire al Covid che nel suo Paese sta uccidendo migliaia di persone.

L’intento, secondo l’unità di crisi regionale, accomuna gran parte dei bangladesi che nelle scorse settimane hanno raggiunto l’Italia e, in particolar modo, la Capitale. Qui vive la comunità più grande d’Europa, circa 36.000 persone. “Sapevano che ci saremmo subito occupati di loro e che in Italia avremmo tutelato la loro salute, facendo la quarantena in luoghi sicuri”, racconta Francesco Vaia, direttore sanitario dell’Istituto Spallanzani di Roma e coordinatore dello staff che interviene sugli arrivi all’aeroporto di Fiumicino. Gran parte di queste persone hanno ottenuto il visto lavorativo, alcuni quello sanitario (per patologie diverse dal Covid). Quasi tutti hanno usufruito del “gancio” italiano – un familiare o anche un amico – per entrare in maniera regolare. Chi è stato trovato positivo è finito “al sicuro” in quarantena in albergo, costantemente monitorato dai sanitari. Il flusso però non era più sostenibile. E lunedì scorso è stato disposto il blocco dei voli – poi esteso ad altri 12 Paesi – e i tamponi a tappeto su tutta la comunità. Ancora ieri, l’assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato, parlava di 20 casi con link sui voli dal Bangladesh. Si punta a testare oltre 10.000 persone. Ad oggi siamo a quota 5.000. “Un lavoro senza precedenti”, l’ha definito D’Amato: “L’attività si concluderà questa settimana con la ricostruzione dei contatti stretti e dei tracciamenti dei viaggiatori di ritorno rimasti nel Lazio per i voli speciali”.

Ma restano i problemi. C’è chi non si fa trovare, fornisce indirizzi e numeri di telefono falsi, elude la quarantena pur di lavorare e non perdere il posto. “Voglio lanciare un appello ai datori di lavoro italiani e non”, dice Vaia a Il Fatto: “Non licenziate queste persone, permettetegli di farsi visitare, di fare i 15 giorni di isolamento. Trattateli come persone di famiglia”.

La comunità bangladese a Roma sta collaborando. Gli Imam del quartiere Prenestino hanno chiesto ai fedeli di saltare la preghiera del venerdì e, in sostituzione, di recarsi alla clinica Santa Caterina delle Rose per il tampone. “Da quello che mi risulta nessuno tra i contagiati ha avuto bisogno di cure in ospedale, sono in casa”, spiega Bachcu storico portavoce della comunità bangladese romana. “Sono aumentate però le segnalazioni – dice – di datori di lavoro che chiedono un certificato di test negativo ai cittadini del Bangladesh prima di farli entrare sul luogo di lavoro. È giusto fare attenzione e non rischiare i contagi, ma evitiamo di alimentare pregiudizi”.

Torna positiva dopo due tamponi negativi

Ammalata durante la fase acuta della pandemia, negativizzata e ora di nuovo positiva al Covid-19. È il percorso clinico di una donna di Pozzuoli (Napoli) la cui storia è stata resa nota ieri dal sindaco Vincenzo Figliolia, dopo che il bollettino di domenica dell’Unità di crisi anticoronavirus della Regione Campania (da giorni sotto i 10 casi quotidiani dopo lo spegnimento dei focolai di Mondragone e in Irpinia) aveva per l’appunto segnalato, a margine di un asterisco, che “una persona già guarita è tornata positiva”.

Positiva, però, non è in questo caso sinonimo di ammalata e dalla task force dei tecnici del governatore Vincenzo De Luca arrivano informazioni e precisazioni improntate alla prudenza e alla calma: “La signora è quasi asintomatica e potrebbe trattarsi di residui virali – spiega un esperto dell’Unità di Crisi al Fatto quotidiano – non sappiamo se sia contagiosa, non sappiamo se si riammalerà, sappiamo ancora troppo poco del funzionamento di questo virus per trarre conclusioni affrettate. I tamponi che effettuiamo sono solo qualitativi e non ci dicono molto sulla quantità e la pericolosità del virus rintracciato”.

Insomma, potrebe essere nulla di nuovo sotto al sole dei tanti casi di tamponi positivi di persone clinicamente guarite e prive di sintomi. Casi intorno ai quali si è sviluppato il dibattito sulle nuove linee guida dell’Oms secondo le quali per considerare i pazienti guariti sarebbe sufficiente non presentare sintomi della malattia per tre giorni consecutivi, mentre gli asintomatici risultati positivi al primo tampone dovrebbero restare isolati per 10 giorni. Anche chi non presenta più sintomi da diversi giorni, infatti, può continuare a risultare positivo ai tamponi RT-PCR e, secondo l’Oms, è improbabile che sia infettivo. L’Italia non ha recepito le nuove direttive e continua a liberare i pazienti dalla quarantena soltanto dopo che sono risultati negativi a due tamponi consecutivi realizzati a più di 24 ore l’uno dall’altro.

Tornando alla signora puteolana, non avrebbe mai lasciato la città in questi mesi. Quando è risultata positiva per la prima volta non è stata ricoverata. I tamponi risultati negativi furono fatti attraverso l’Asl Napoli 2 Nord. Ora è in corso l’analisi del link epidemiologico per capire se il caso possa essere collegato a quello della positività di un informatore scientifico, rilevato la settimana scorsa.

Nel bollettino regionale diffuso domenica – 3 positivi su 1.212 tamponi – è stato evidenziato il dato di 4.094 guariti in Campania, uno in meno rispetto al giorno precedente, a fronte di zero nuovi guariti. Figliolia ha ricordato i numeri di Pozzuoli: 98 in tutto le persone che hanno contratto il coronavirus dall’inizio dell’epidemia: 3 attualmente contagiate, 82 le persone guarite definitivamente e 13 le persone decedute.

Intanto il numero dei tamponi effettuati in Campania è in caduta libera: il bollettino diramato ieri ne indicava solo 530, con 7 positivi. Anche ieri, come domenica, zero morti. Ma anche zero guariti. Il virus arretra, ma non molla la presa.

L’allarme da Yale: “Si può avere il Covid e non guarirne più”

C’è un enorme problema legato al Covid che non era stato ancora intercettato, ma che potrebbe rappresentare una bomba. Quello di pazienti che, tornati negativi al SarsCov2, potrebbero non guarire mai, per quanto ne sanno al momento gli scienziati, o cronicizzarsi e, in futuro, tornare positivi sotto certi stimoli, innescando nuovi focolai. È un particolare sottogruppo di quei pazienti che hanno sviluppato il Covid in forme lievi e moderate. Potenzialmente un numero enorme: fino al 10% di quell’80% di pazienti, che, appunto, si sono ammalati senza che fosse necessario il ricovero. Sono giovani o super attivi, maratoneti, atleti, calciatori perfino, che non riescono quasi più a muovere e ad alzarsi dal letto da mesi. Si sono infettati, hanno apparentemente superato il Covid a casa, sono guariti, sono tornati negativi al tampone e poi si sono riammalati. Sono tornati i sintomi che persistono da mesi, ma la maggior parte di loro continuano a essere negativi sia al tampone, sia al test sierologico che rileva la presenza di anticorpi. Non riescono più a respirare bene, non riescono a camminare, sono talmente debilitati che non riescono a riappropriarsi di una vita normale o tornare al lavoro. Anche da 4 mesi.

Non dipende da danni irreversibili ai polmoni o altri organi causati dalle forme gravi di Covid, quelle che richiedono ospedalizzazione e terapia intensiva (il 20% dei malati). Sono i gravi danni dovuti dalla tempesta citochinica tipica delle forme severe di Covid, cioè da una sorta di attivazione smodata del sistema immunitario contro il virus, che sì lo uccide, ma al contempo distrugge i tessuti degli organi, a volte in modo irrreversibile o causando la morte. Non è il caso di questi pazienti, come mostrano le loro lastre al polmone. Lo racconta al Fatto Alessandro Santin, oncologo della Yale University (Usa), che ha seguito centinaia di pazienti Covid. “Tutto ciò che sappiamo fino ad oggi sul Covid deriva dallo studio di quel 20% che ha sviluppato la forma severa ed è quindi stata ricoverata in ospedale – dice. Non ci si è concentrati per niente su chi era malato a casa. Ma ora vediamo che c’è un numero di persone enorme fuori dagli ospedali che non guarisce e che non sappiamo ancora se guarirà mai. Lo sappiamo dalle chiamate che da mesi continuano a fare ai pronto soccorso, negli Usa”. Chiedono aiuto perché da mesi non riescono a rimettersi in piedi. In molti casi vengono liquidati come malati immaginari, come se fossero solo impressionati, ma in realtà perfettamente guariti. Sono stati così marginalizzati che in questi mesi, negli Usa, questi pazienti chiamati “long haulers” hanno costituito delle associazioni.

“Non ci sono ancora dati, ma da quello che vediamo a Yale sono fino al 10% di quell’80% di pazienti che ha sviluppato forme lievi o moderate di Covid, cioè un numero enorme in tutto il mondo”, spiega Santin. L’ipotesi è che non sviluppino anticorpi. Ci sono due possibili spiegazioni: “La prima è che il virus non sia più presente nell’organismo, ma il sistema immunitario continua a mantenersi attivato perché ‘vede’ ancora pezzetti residuali di virus, non più attivi, ma ancora in circolo. La seconda è che il virus ci sia ancora, ma annidato in alcune cellule dei polmoni dette macrofagi alveolari dove si va a nascondere, come un cavallo di Troia. I tamponi risultano pertanto negativi, perché il virus è nascosto. Ma i sintomi non passano, potrebbero addirittura cronicizzarsi, trasformarsi in portatori cronici asintomatici. “Alla prima influenza stagionale che abbassa la risposta del sistema immunitario, potrebbero tornare positivi, perché il virus rientrerebbe in circolo”.

Cosa distingue queste persone dai pazienti che, come loro, hanno sviluppato solo una forma lieve o moderata di Covid e sono definitivamente guariti? Non si sa ancora con certezza, ma sembrano avere un denominatore comune: non sembrano sviluppare anticorpi contro il virus e, al contempo, soffrono di qualche allergia. “È come se il sistema immunitario di questi pazienti, di fronte alla presenza del SarsCov2, reagisse come alla presenza di un allergene, rispondendo non con gli anticorpi e la tempesta citochinica che causa le forme gravi, ma scatenandogli contro l’arma che l’organismo utilizza in risposta a reazioni allergiche, all’asma e alle infezioni da parassiti: gli eosinofili al posto degli anticorpi. Quindi, ironia della sorte, patologie respiratorie come l’asma allergica proteggono il paziente dalle forme gravi, e potenzialmente mortali, di Covid. Ma il sistema immunitario continua a rimanere attivo per mesi, causando i sintomi in forma moderata, come se fosse di fronte a una reazione allergica persistente. Negli Usa – dice Santin – vediamo che da 4 mesi queste persone non riescono ad alzarsi dal letto. E non sappiamo ancora se ci riusciranno”.

Ecco i testimoni di Palamara: ex ministri e uomini del Colle

Un documento di 34 pagine e un elenco di 133 testimoni. Luca Palamara chiede al Csm di accettare la lunghissima lista testi con una duplice conseguenza. Se il Csm accetta sfilerà mezza giustizia italiana – dall’ex vicepresidente del Csm Nicola Mancino agli ex ministri Andrea Orlando e Giovanni Maria Flick, passando per gli ex presidenti dell’Anm Francesco Minisci ed Eugenio Albamonte e all’attuale procuratore capo di Milano Francesco Greco – correndo il rischio di dimostrare che la gestione Palamara non era l’eccezione nella procedura delle nomine. Se rifiuterà, darà l’impressione di non volersi sottoporre a una operazione verità. Palamara chiama a testimoniare anche Guido Lo Forte, tra i favoriti per la Procura di Palermo fino allo stop inferto, nei fatti, dalla richiesta del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, di procedere seguendo un inedito ordine cronologico. Intervento che portò la consiliatura successiva a nominare a Palermo Francesco Lo Voi (anch’egli nella lista testi). Lo Forte potrebbe dover spiegare perché, in seguito, revocò la candidatura alla Procura generale del capoluogo siciliano. Ma c’è di più. Palamara chiama a testimoniare due consiglieri del presidente della Repubblica Sergio Mattarella – Francesco Garofani e Stefano Erbani – per due distinte vicende. La prima: le interlocuzioni con Luca Lotti relative alla nomina – poi saltata – del procuratore generale di Firenze, Marcello Viola, alla Procura di Roma. Tra le accuse rivolte a Palamara c’è quella di aver discusso della nomina di Viola alla presenza di Lotti il 9 maggio 2019. Palamara sostiene che Lotti fosse estraneo “agli orientamenti maturati dai gruppi di Unicost e Magistratura Indipendente”. Resterebbe indigeribile che ne discutesse alla sua presenza. Ma Palamara va oltre e vuole che Garofani riferisca “sulla posizione processuale” di Lotti al 9 maggio 2019 e “sui rapporti e colloqui intrattenuti” con il Parlamentare del Pd “in ambito istituzionale” e “anche con riferimento alle vicende relative al Csm”. Con il Fatto, lo scorso anno, Garofani ha smentito qualsiasi interessamento alle vicende in questione.

Palamara chiede che altri testimoni – per esempio l’ex vice presidente del Csm Giovanni Legnini e l’ex consigliere laico Paola Balducci – confermino che la sua frequentazione con Lotti (indagato dalla Procura di Roma nell’inchiesta Consip e poi imputato per rivelazione del segreto e favoreggiamento) era iniziata a livello istituzionale con incontri avvenuti anche alla presenza dell’ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone.

Erbani è invece chiamato a testimonare sul procedimento disciplinare su Woodcock (è stato assolto il mese scorso) iniziato con la consiliatura guidata da Legnini e rinviato a quella successiva. Fonti del Quirinale precisano al Fatto che Erbani non sa nulla sull’argomento. Diversa la posizione di Legnini, che Palamara cita come testimone, affinché racconti il “contenuto di una conversazione avuta con l’onorevole Paolo Cirino Pomicino”, proprio su Woodcock, “nel periodo di svolgimento” del suo “procedimento disciplinare”. Conversazione che fu poi “oggetto di un’intercettazione ambientale nell’ambito del procedimento Consip”. In sostanza Pomicino, in un’intercettazione ambientale, racconta di aver incontrato Legnini e di aver parlato con lui di Woodcock. E questa intercettazione – secondo la ricostruzione di Palamara – finisce proprio nel fascicolo Consip gestito inizialmente da Woodcock. Palamara vuole che Legnini spieghi le “ragioni del rinvio del procedimento disciplinare” nei confronti di Woodcock. In effetti, intercettato mentre parla con Legnini, già nel maggio 2019 Palamara gli dice che vuol riferire alla stampa le reali ragioni del rinvio. “Non lo puoi dire” gli risponde Legnini. Palamara lo rassicura: “Senza mettere in mezzo te”. Legnini spiega al Fatto che Palamara si riferiva a un’intercettazione – che non ha mai letto – nella quale Pomicino raccontava di averlo incontrato e nella quale avrebbe sostenuto, sempre a detta di Palamara, che lo stesso Legnini avrebbe parlato in termini non lusinghieri di Woodcock. Legnini era in quel momento giudice in sede disciplinare e avrebbe potuto rischiare una ricusazione. Ricusazione mai avvenuta. E intercettazione al momento sconosciuta. Legnini conferma al Fatto di aver incontrato Pomicino, che gli parlò di Woodcock, lamentandosene, ma spiega: “Gli dissi che non potevo far nulla”. Versione confernata da Pomicino. “Non mi sono lasciato condizionare – conclude Legnini – dalle parole di Palamara né dall’esistenza di questa presunta intercettazione. Il rinvio è stato giusto, fisiologico, richiesto dalla stessa difesa di Woodcock”.

Sullo stesso argomento Palamara chiama a testimoniare anche il procuratore capo di Napoli Giovanni Melillo. Poi passa ai finanzieri che hanno indagato su di lui, a partire dall’ex ufficiale del Gico Gerardo Mastrodomenico, al quale vorrebbe chiedere di alcune intercettazioni non riportate nelle informative, il perché non sia stata fermata la registrazione di Lotti e Cosimo Ferri, nonostante il divieto espresso dalla Procura di intercettare parlamentari e, infine, quali incarichi rivestisse dal maggio 2018 al giugno 2019. Mastrodomenico, al quale era stata delegata l’inchiesta, da settembre 2018, e fino al successivo incarico come comandante provinciale della Gdf di Messina, è stato alla Scuola di Perfezionamento per le forze di Polizia: è da lì – è la domanda sottintesa – che ha condotto le indagini? Tra i testimoni citati anche Sebastiano Ardita e Piercamillo Davigo ai quali vuol chiedere cosa sappiano dell’esposto presentato dal pm di Roma Stefano Fava su Pignatone e dei colloqui intrattenuti con il magistrato Erminio Amelio (Amelio era tra i candidati di Palamara a Perugia come procuratore aggiunto).

Caldoro candida Sica, che lo colpì col dossier-trans

Il Benjamin Malaussène del centrodestra in Campania ha la faccia gioviale di Armando Cesaro, 38enne capogruppo di Forza Italia in consiglio regionale e, ahilui, figlio del chiacchieratissimo senatore Gigino ’a Purpetta e degli altrettanto chiacchierati zii, tutti finiti al centro di inchieste sui rapporti tra politica, camorra e imprenditoria nel ventre del napoletano. Cesaro jr, come Nicola Cosentino sette anni fa, sfibrato dal rinfaccio di un processo per voto di scambio a Napoli Nord, ha abbracciato il ruolo di capro espiatorio. Stavolta del furore giustizialista della Lega di Matteo Salvini, che ha preteso “liste pulite” per accettare l’investitura ad aspirante governatore dell’azzurro Stefano Caldoro. Così ha deciso di non ricandidarsi. Ma, come allora Cosentino (ma lui fu fatto fuori), è l’unico.

Per un piccolo Cesaro che fa un passo indietro (“di lato”, precisa lui), ci sono frotte di imputati, indagati o figure imbarazzanti su cui la Lega fa finta di niente. A cominciare dall’uomo che prima delle elezioni del 2010 fabbricò un dossier proprio contro Caldoro. Un dossier che nacque su input di Cosentino e che fu visionato da Denis Verdini. Rieccolo, Ernesto Sica (nella foto), l’autore di quel plico di cartacce diffamatorie spedite qui e lì e pubblicate su un sito, l’ex sindaco di Pontecagnano, l’ex giovane promessa della Margherita e del Pd in quota De Mita, poi folgorato da FI dopo alcune notti estive nella magione in Sardegna di Silvio Berlusconi, alla quale fu introdotto da un imprenditore di Battipaglia.

Sica sarà candidato a Salerno in Fratelli d’Italia: negli anni scorsi ha chiesto scusa a Caldoro, che le ha accettate e si è accontentato di un risarcimento simbolico di un euro a margine della sua condanna a 10 mesi in primo grado. Quindi, per lui nulla osta. E poi FdI starebbe diventando una sorta di refugium peccatorum: a Napoli ha annunciato come capolista Michele Schiano di Visconti, indagato per voto di scambio con l’aggravante camorristica, nonché discreto trasformista. Eletto nel 2015 in FI, Schiano si è fatto quasi tutta la consiliatura in maggioranza con Vincenzo De Luca sotto il simbolo di Scelta Civica. È tornato nel centrodestra giusto in tempo per un nuovo giro. Dovrebbe essere accompagnato da Marco Nonno, otto anni e sei mesi in primo grado nel 2014 per le devastazioni antidiscarica del 2008 a Pianura (processo d’Appello nel 2021, giustizia speed…), e da Pietro Diodato, uno che in consiglio regionale ci è già stato e poi fu rimosso – caso più unico che raro – per le scorie di una vecchia condanna per disordini elettorali.

In uscita da FdI Luciano Passariello, forse perché archiviato dalle indagini in cui era coinvolto – rapporti coi clan casalesi, corruzione sulla gestione dei rifiuti – quindi si candiderà in FI. Dove dovrebbe trovare un posto una donna sulla quale i salviniani avevano posto un veto: Annarita Patriarca (nella foto), ex sindaco di Gragnano, burrascosa consiliatura comunale, divieto di dimora per accuse dalle quali è stata assolta, su di lei pesa un cognome ingombrante, è figlia di un ex senatore gavianeo che fu condannato con sentenza definitiva per concorso esterno alla camorra del clan Alfieri. Si chiamava Francesco Patriarca e nella guerra tra bande che caratterizzava la Dc degli anni 80 era un acerrimo nemico di Armando De Rosa, l’assessore del tangentone da 300 milioni di lire nelle mani di Antonio Gava (“Arma’, ma cheste so’ pampuglie”). La vedova di De Rosa, Flora Beneduce, primario, consigliera regionale uscente di FI ed ex fedelissima dei Cesaro’s coi quali divide il processo per voto di scambio, si ricandiderà. Ma in Campania Libera. La civica di De Luca. “Lui è l’albero della vita” ha detto. Miracoli del Covid.

Senatore a vita? Pure eurodeputato in bulgaria e nobel

Non si può dire che nei suoi 84 anni Silvio Berlusconi si sia annoiato – cemento, antenne, stalle, calcio, giornali, burlesque, politica, in ordine sparso – eppure per lui escono sempre suggestioni nuove. L’ultima l’ha pensata il quotidiano Libero di Vittorio Feltri, cui è sembrata geniale l’idea di nominare Silvio senatore a vita. Ipotesi fantasiosa, ma perfino timida di fronte a ciò per cui Berlusconi è stato proposto negli anni: sindaco di Milano, eurodeputato della Bulgaria, perfino Premio Nobel.

Per quest’ultimo proposito si fecero le cose in grande. Nel 2010 il volenteroso Giammario Battaglia organizzò il Comitato della Libertà allo scopo di promuovere la candidatura di B. a Nobel per la Pace. C’era anche l’inno pronto: “L’Abruzzo si sveglia incredulo – eravamo nel post-sisma dei miracoli targato Berlusconi&Bertolaso – la neve e il sole che si incontrano e la tua mano è qua. C’è un presidente sempre presente che ci accompagnerà. Silvio grande è, siamo qui per te”.

Non andò come sperato, ma forse per addolcire la delusione ecco che Berlusconi venne proposto come presidente della Repubblica. Al proposito val la pena citare il sillogismo con cui nel 2013 il giornalista Piero Sansonetti ripropose l’idea: “Per uscire dal berlusconismo bisogna anche uscire dall’antiberlusconismo. La pacificazione, credetemi, ha un solo nome: Berlusconi al Quirinale”.

Ma la malasorte era dietro l’angolo, pronta a far decadere Silvio da senatore per colpa della condanna per frode fiscale. Ancora una volta fu l’ingegno a venire in soccorso ai forzisti: se Silvio è incandidabile in Italia, facciamolo eleggere altrove. L’occasione erano le europee del 2014 e la trovata era quella di inserire Berlusconi nelle liste della Bulgaria, da dove gli tese una mano Yane Yanev, leader di un partito di destra: “È più patriota lui di tutti i nostri eurodeputati messi insieme”. Buona idea, mai realizzata.

Due anni dopo, un’altra folgorazione: perché non convincere Silvio a fare il sindaco di Milano? Gabriele Albertini, primo cittadino fino al 2006, provava a spiegare: “Quando mi chiese la disponibilità, gli dissi: perché non lo fa lei? Mi spiegò che aveva dei problemi con l’immunità parlamentare”. E chi l’avrebbe mai detto.

Il Caimano non è solo: Chi s’imbarca anche questi?

Ora che sono tutti in ginocchio in attesa di un cenno, il Re Sole può tornare dal buen retiro dove ha sfangato il corononavirus, assieme alla nuova favorita Marta Fascina, la deputata trentenne che gli ha rubato il cuore un tempo di Francesca Pascale. E del resto con quel “e accattatevìll” pronunciato da Romano Prodi, sognano una nuova ribalta anche i fedelissimi di B: aspirante senatore a vita, responsabile dei responsabili, kingmaker di un governissimo e perché no, candidato al Colle. Di persona o per procura.

La sua Maria Elisabetta Alberti Casellati sarebbe disponibilissima. Dal tempo dei picchetti pro-Silvio davanti al Palazzo di giustizia di Milano ha sempre fatto parte della guardia presidenziale in Parlamento: che si trattasse di giurare su Ruby nipote di Mubarak o approvare una delle leggi ad personam. Che portano le impronte di Niccolò Ghedini o dell’altro senatore-avvocato Giacomo Caliendo che si è messo al servizio di un’altra buona causa: ripristinare il privilegio dei vitalizi per gli ex inquilini del Senato. Dove Berlusconi ha premiato con il laticlavio Adriano Galliani rimasto orfano del Milan e Alfredo Messina, oggi tesoriere di FI per decenni al servizio delle aziende di famiglia. Come pure Salvatore Sciascia già direttore dei servizi fiscali di Fininvest finito per questo nelle maglie di Tangentopoli. E che dire di Paolo Romani? Ex ministro di fiducia alle telecomunicazioni ha mancato l’elezione a presidente del Senato per via di una condanna per peculato. Da allora con Renata Polverini, medita di abbandonare la casa madre, ma sta sempre lì. Come Renato Brunettapiù defilato di un tempo: oggi il capogruppo alla Camera è Mariastella Gelmini, quella che da ministro dell’Istruzione aveva teorizzato il tunnel dei neutrini tra il Gran Sasso e Ginevra.

La corte, vecchia e nuova (B. ha trovato uno strapuntino pure per l’ex morosa di suo fratello Paolo, Patrizia Marrocco) spera in un nuovo rinascimento. Specie dopo che il Riformista della deputata azzurra Deborah Bergamini, ha svelato gli audio postumi del giudice Amedeo Franco a Palazzo Grazioli con cui si tenta di riabilitare il capo. Pochi mesi dopo la beatificazione di Bettino Craxi su cui sua figlia Stefania si impegna da vent’anni, gran parte dei quali in Parlamento grazie a Berlusconi. Che spera in una sorte migliore: basteranno le preghiere dell’ultrà cattolica Paola Binetti che in Forza Italia ha resistito nonostante la lunga stagione delle “cene eleganti” del Capo? Che in Parlamento ha voluto pure Carlo Fatuzzo. E che importa se le amazzoni come Elvira Savino fanno finta di non conoscerlo quando urla “pensionati, all’attacco!”. Tanto c’è Enrico Costa a badare al sodo: difendere la prescrizione sempre cara a B. E non solo a lui.

Per via delle inchieste giudiziarie i fratelli Occhiuto (Mario, sindaco di Cosenza e Roberto eletto alla Camera) hanno dovuto rinunciare a prendersi la guida della regione Calabria. Renato Schifani è nei guai per il caso Montante in Sicilia. E che dire del ras di Fondi Claudio Fazzone contrario allo scioglimento del comune infiltrato dalle cosche? L’ex governatore sardo Ugo Cappellacci rischia il processo invece per una tangente ottenuta approfittando del suo ruolo. E Antonio Angelucci patron del gruppo Tosinvest coinvolto in diverse sanitopoli. Poi c’è Luigi Cesaro, al secolo Gigino ’a Purpetta: dopo oltre due anni di melina in giunta delle immunità presieduta dall’altro forzista Maurizio Gasparri, la Casellati non ha ancora calendarizzato in aula sulle intercettazioni compromettenti che lo riguardano.

Quando si dice gli amici.

“L’idea che l’Olanda detti le condizioni a Italia o Spagna è antidemocratica”

I leader dell’Unione europea si riuniranno questa settimana a Bruxelles per cercare un accordo sulla proposta della Commissione di un Recovery Fund da 750 miliardi, finanziato attraverso l’emissione di bond europei. Tra le diverse forze che plasmano il destino dell’Europa, ce ne sono alcune su cui l’Ue ha ben poca presa, come l’unilateralismo americano e l’autoritarismo cinese. Ma mettere in comune risorse per tutelare i posti di lavoro, sostenere il mercato unico e salvaguardare l’euro, questo è senz’altro nelle facoltà dei paesi Ue. Sempre che riescano a guardare oltre il proprio miope interesse nazionale.

Per aiutare l’Europa a superare una crisi così straordinaria, qualunque fondo per la ripresa deve essere abbastanza corposo da avere un impatto macroeconomico reale. Deve essere ridistributivo per essere finanziariamente vantaggioso rispetto al mercato dei prestiti o ai fondi di salvataggio europei già esistenti. E deve erogare i fondi rapidamente. La proposta della Commissione Ue nasce da un accordo tra Parigi e Berlino e non è perfetta. La formula di ripartizione del denaro tende a ricompensare i Paesi che avevano una disoccupazione elevata prima della crisi, ma che non sono stati colpiti in modo troppo grave dalla pandemia. I prossimi negoziati dovrebbero servire a emendarla. Ma Bruxelles sembra combattuta anche sullo scopo ultimo da dare al Recovery Fund: sottrarre alla recessione le economie europee o piuttosto spronare i governi ad attuare quelle riforme strutturali che ancora non hanno realizzato. Il piano costituisce almeno uno stimolo tempestivo. Va dato merito alla Germania di aver riconosciuto le circostanze eccezionali dovute allo choc sanitario. Lo stesso non si può dire di Olanda, Svezia, Austria e Danimarca che, forse perché non gravati dallo stesso pesante fardello storico, non hanno mostrato la lungimiranza del vicino tedesco. I cosiddetti frugal four, i “paesi frugali”, fannoresistenza sul piano di rilancio europeo nella sua attuale formulazione. Sono contrari a erogare finanziamenti a fondo perduto invece che sotto forma di prestiti pretendono condizioni severe e controlli rigorosi.

Leader non ufficiale degli irriducibili “frugali” è il primo ministro olandese Mark Rutte. Il quale, essendosi forse reso conto che non potrà resistere per sempre, ora insiste nel chiedere che l’ultima parola sulla decisione di quali paesi avranno accesso agli aiuti del fondo spetti ai parlamenti nazionali, cioè anche a l’Aia. Nella sua mente, un veto nazionale è il prezzo democratico da pagare per la solidarietà. Ma l’idea che il parlamento olandese possa dettare le condizioni ai parlamenti italiano o spagnolo è in sé profondamente antidemocratica. Sarebbe anche controproducente e avrebbe l’effetto di politicizzare l’intero processo, aprendo la strada a soluzioni bilaterali tra governi.

A parole, Rutte sostiene la visione di un’Europa più forte e più influente geopoliticamente, ma non è disposto ad accettare il prezzo che ne deriva, soprattutto quando tra un anno dovrà affrontare le elezioni politiche nel suo Paese. Gli euroscettici di estrema destra rappresentano una minaccia concreta per il suo partito, anche se la maggioranza degli olandesi sembra rimanere molto legata all’Ue. La contrarietà al Recovery Fund espressa da Rutte gode di forte sostegno in parlamento. Il suo moralismo fa presa su una popolazione che deve il suo benessere a un’impostazione economia aperta e liberale e a una partecipazione della prima ora all’Ue. Una popolazione che pensa che greci e italiani dovrebbero assomigliargli di più. Ma stavolta la crisi non è colpa di nessuno.

In gran parte dell’Europa del Sud sono disperatamente necessarie riforme per aumentare la produttività. D’altra parte, i membri del Nord devono riequilibrare le loro economie ed evitare eccedenze eccessive. Altrimenti, a Sud dell’Aia qualcuno potrebbe cominciare a chiedersi se le finanze del suo Paese non sarebbero oggi in condizioni migliori se l’Olanda non gli avesse sottratto legittime entrate fiscali attraendo imprese straniere con un regime di tassazione molto favorevole. Ogni Paese deve fare la sua parte. E tutti dovrebbero utilizzare il Recovery Fund per ridurre le emissioni di carbonio e dare un impulso alla digitalizzazione. Sarebbe un costoso errore scegliere di vincolare gli aiuti a riforme strutturali complesse e controverse, per di più imposte da lontano. E a farne le spese sarebbero tutti gli europei, senza distinzione.

 

Traduzione di Riccardo Antoniucci