“Sul Recovery Fund troppe condizionalità sono una follia”

Usciamo dalla logica di una negoziazione a 27: questo vale sia per il Next generation Eu, sia per il bilancio pluriennale”. Prima di salire sull’aereo che lo riporta a Roma da Berlino, Giuseppe Conte delinea quella che si avvia a essere la linea negoziale in questo rush finale che porta al Consiglio europeo di venerdì e sabato. “Non dobbiamo separare i due tavoli, se no ci ritroviamo a operare un compromesso al ribasso”. Se i Frugali continueranno a insistere per ridurre l’ampiezza del Fondo e aumentare le condizionalità, l’Italia si metterà di traverso sul bilancio europeo. A partire dai rebates, che riguardano in buona parte proprio i Frugali.

Restano seduti un’ora, una di fronte all’altro, Giuseppe Conte e Angela Merkel, nel castello di Meseberg, in giardino, il verde a fare da sfondo. Il rapporto tra i due è solido, l’ascolto da parte della Merkel è più che attento, l’incontro è costruttivo. Ma la strada è ancora in salita. Conte che ribadisce alla Merkel le linee rosse invalicabili per l’Italia. A partire dall’ampiezza del “Fondo” e dal Meccanismo della governance: il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, con la sua proposta, sposta la sorveglianza dalla Commissione, agli Stati membri. Posizione che non piace all’Italia.

Vista da Angela la situazione è complicata, per la posizione dei 5 Frugali (Olanda, Svezia, Danimarca, Austria e Finlandia). Tanto è vero che in conferenza stampa dice di augurarsi che la partita si chiuda “entro la fine dell’estate” (tecnicamente il 21 settembre, un tempo enorme per l’Italia).

Per quello che riguarda le cifre del Recovery Fund, la Merkel appare in linea con le esigenze espresse da Conte. Il punto – per l’Italia – è non toccare i 500 miliardi di euro di sovvenzioni, ma al limite di cedere qualcosa sui 250 miliardi di prestiti. Il timore di una sforbiciata al ribasso anche sui grants resta.

Ora l’obiettivo principale è quello di evitare un’eccessiva sorveglianza sull’utilizzo delle risorse. Introdurre condizionalità impraticabili per l’utilizzo delle risorse del Next Generation Eu, dice Conte “comprometterebbe “l’efficacia” del progetto e “ostacolerebbe la ripresa europea”. Secondo la proposta di Michel sta ai 27, a maggioranza qualificata, l’ultima parola sulla valutazione della Commissione europea per gli stanziamenti. Una “buona soluzione” si limita a dire la Merkel, che punta a non intaccare la quota del fondo, facendo digerire la pillola ai frugali attraverso una serie di paletti sul come e perché verranno spesi. E poi è un vecchio pallino tedesco – fu la dottrina Schaeuble – levare il potere al Consiglio per darlo alla Commissione.

“Nella proposta di Michel ci sono delle criticità”, chiarisce Conte. Troppo potere di veto a pochi Paesi. E come spiega in serata: dopo il primo 70%, “devo sapere se il 30% finale, mi verrà erogato o no”. L’approccio dell’Italia resta collaborativo e disponibile sulle riforme. Ma adesso, il gioco si fa duro.

Quella passione per l’imprenditoria. Perché Renzi è contrario alla revoca

“I populisti chiedono da due anni la revoca della concessione. Facile da dire, difficile da fare. Perché se revochi senza titolo fai un regalo ai privati, ai Benetton, ai soci e apri un contenzioso miliardario che crea incertezza, blocco cantieri, licenziamenti. Questa è la verità. A dire la verità si perdono forse punti nei sondaggi, ma si salvano le nuove generazioni da miliardi di debiti”. A Matteo Renzi la revoca da parte del governo della concessione ad Autostrade proprio non va giù. Oggi l’ex premier si scaglia contro il “populismo” anti aziende. Va detto che negli anni il rapporto con l’imprenditoria privata è stato intenso. Sono molti infatti i finanziamenti arrivati dai grandi gruppi, sempre in modo lecito, nelle casse della Open, l’allora cassaforte dei renzismo.

La Fondazione è stata chiusa. Alcuni nomi dei donatori erano noti, altri sono venuti fuori delle carte dell’indagine della procura di Firenze su Alberto Bianchi, ex presidente della Open, accusato di traffico di influenze e finanziamento illecito (l’inchiesta è ancora in corso e non coinvolge i donatori).

Noto era il finanziamento tra il 2014 e il 2015 della multinazionale British American Tobacco, che in quegli anni ha versato in totale alla Fondazione Open 150 mila euro. Altri 75 mila euro invece sono arrivati dalla Corporacion America Italia, che oggi controlla l’aeroporto di Firenze. In particolare, un primo contributo volontario di 25 mila euro è stato erogato nel 2014, e poi ce n’è stato un secondo, nel 2016, per altri 50 mila euro.

Non manca tra i donatori la Toto Costruzioni Spa, che opera nel settore delle infrastrutture stradali e ferroviarie: tramite la società Renexia, anche il colosso ha finanziato la Open con 25 mila euro, contributo versato nel 2014. Tra i finanziatori della Open ci sono anche gli Aleotti, la famiglia che fa riferimento al gruppo farmaceutico fiorentino Menarini.

Il gruppo Menarini non ha mai finanziato la Fondazione, ma le donazioni sono state fatte nel 2018 da persone fisiche: ossia da Lucia, Alberto Giovanni e altri due membri della famiglia Aleotti, per un importo totale di 300 mila euro.

Nel settore dei trasporti c’è poi la Alha Airlines Handling Agents che nel 2014 ha erogato 25 mila euro. Un anno prima, nel 2013, la Aurelia Srl, società di progettazione industriale che ha come “rappresentante legale Beniamino Gavio” ha corrisposto “contributi volontari” per 30 mila euro alla Open. C’è poi la Fingen Spa della Famiglia Fratini di Firenze, attivi nel settore degli immobili: “sia ‘Fingen Spa’ che esponenti della famiglia ‘Fratini’ – è scritto nelle carte della Procura di Firenze – nel periodo dal febbraio 2013 a dicembre 2016, hanno erogato ‘contribuzioni’ volontarie a favore della fondazione per complessivi 210 mila euro”.

E ancora. Nel 2016 arrivano anche 150 mila euro della Getra Power Spa, azienda di trasformatori elettrici di Marcianise (Caserta). Mentre due anni prima, nel 2014, ci aveva pensato l’imprenditore Michele Pizzarotti a finanziare la Fondazione con 50 mila euro in totale.

Tutti ai piedi dei Benetton: così la politica li fece ricchi

“La famiglia Benetton ha sempre rispettato le istituzioni, quando in passato è stata sollecitata ad entrare in diverse società…”. In questa frase sibillina fatta filtrare ieri da Ponzano Veneto è riassunta l’epopea della famiglia dei maglioncini. L’Italia è piena di regalie pubbliche a rentier privati, ma la storia di Autostrade per l’Italia (Aspi) è forse il caso più clamoroso della storia repubblicana. I Benetton rispettano le istituzioni, o meglio i governi, perché queste hanno fatto la fortuna dei Benetton, che poi hanno ricambiato facendo la loro parte su richiamo della politica. Quella di Aspi non ha nulla della storia imprenditoriale. I Benetton entrarono nella società agli inizi del 2000 rilevandone – attraverso la holding Schemaventotto – il 30% dall’Iri. Tre anni dopo erano già saliti al 50% recuperando metà di quanto avevano pagato. Il debito fatto per prendere l’intero capitale, circa 7 miliardi, fu scaricato su Autostrade. La famiglia veneta non ha speso né investito un euro, ma Aspi dal 2005 al 2018 ha distribuito dividendi per 9 miliardi alla controllante Atlantia, di cui i Benetton hanno il 30%: oggi, nonostante tutto, vale in Borsa più del doppio di quanto incassato dallo Stato dalla privatizzazione.

Come ha ricostruito l’economista Giorgio Ragazzi (da ultimo in La svendita di autostrade, Paper First), la fortuna dei Benetton è stato il IV atto aggiuntivo del 2002 – governo Berlusconi, ministro Pietro Lunardi – che dava un’interpretazione assai generosa della formula tariffaria prevista dalla convenzione del 1997 siglata con l’Anas (già di per sé generosa, e in quanto tale dichiarata “illegittima” dalla Corte dei conti). Prevedeva ingenti investimenti per la realizzazione di terze e quarte corsie. Aspi avrebbe potuto ripagarsi gli investimenti con la crescita del traffico, invece furono pagati attraverso gli incrementi tariffari assumendo che non ci sarebbe stato aumento del traffico (che invece è salito, facendo incassare due volte i Benetton). Lo Stato ha remunerato – usando i soldi degli automobilisti – a tasso elevato investimenti che la società dichiarava non dare alcun reddito. Incredibile, ma possibile se il privato cattura il regolatore. A presiedere l’Iri nel 1999, per dire, c’erano Gian Maria Gros Pietro (presidente) e Pietro Ciucci (direttore). Pochi anni dopo li ritroviamo il primo a presiedere Aspi e l’altro l’Anas, la società che affidava le autostrade in concessione ai privati. Berlusconi blindò per legge l’atto aggiuntivo, mossa che fece decollare il valore di Aspi e far partire l’assalto finale dei Benetton e che si è ripetuta pochi anni dopo. La buona sorte di Benetton è continuata con la convenzione del 2007, governo Prodi, ministro Antonio Di Pietro. Un anno prima i Benetton avevano festeggiato le elezioni (vinte dall’Ulivo) finanziando con oltre un milione quasi l’intero arco parlamentare: Prodi, Margherita, Ds, An, Forza Italia, Lega Nord e Udc (solo 50 mila euro all’Udeur di Mastella). Quell’anno Di Pietro bloccò il progetto di fusione tra Autostrade e la spagnola Abertis (nel cui cda è entrato anni dopo l’ex premier Enrico Letta, allora sottosegretario).

Con la nuova concessione viene eliminato qualsiasi rischio per il concessionario di vedersi ridurre la tariffa in caso di aumento del traffico (dalla formula di calcolo sparì proprio il segno meno). Non è l’unica mostruosità. Nell’atto furono inseriti due articoli (9 e 9bis) che impongono allo Stato un indennizzo spaventoso (il valore attuale netto dei ricavi previsto fino al 2038) anche in caso di revoca della concessione per “grave inadempimento”. Una norma che per la Corte dei conti e per la commissione di giuristi del ministero delle Infrastrutture istituita nel 2019 è illegittima perché contraria al codice civile. Contro si erano anche pronunciati gli esperti del Nars, il Nucleo per la regolazione dei servizi di pubblica utilità della presidenza del Consiglio. Caduto Prodi, il governo Berlusconi superò le critiche degli esperti tecnici blindando (di nuovo) la concessione per decreto: in questo modo veniva dato valore di legge a un atto di natura privatistica. Un testo votato senza che ai deputati fossero messi a disposizione gli atti perché le concessioni furono secretate (scandalo a cui ha messo fine il ministro Toninelli solo nel 2018, dopo il crollo del Morandi). I Benetton ricambiarono il regalo di Berlusconi partecipando alla cordata dei “capitani coraggiosi” a cui venne consegnata l’Alitalia. È proprio a questo “rispetto delle istituzioni” che alludevano da Ponzano Veneto.

Quando una società genera profitti stellari grazie a un monopolio naturale senza concorrenza o rischi grazie a una concessione intoccabile, cessa di essere un’attività d’impresa e diviene un bancomat. Dopo il crollo del Morandi, i Benetton hanno prima difeso Castellucci, il manager che li ha resi ricchi spremendo utili da Aspi anche a spese della manutenzione, salvo poi cacciarlo per salvare la baracca. E senza mai assumersi un briciolo di responsabilità. Morto Gilberto, l’artefice della trasformazione finanziaria, il fratello Luciano spiegò a Repubblica che “Nessun componente la famiglia Benetton ha mai gestito Autostrade”. Nessuno s’è mai chiesto come mai fosse più redditizia di Google ma coi ponti che cascano.

“Han preso in giro noi e tutti gl’italiani: Conte fa un gesto di serietà”

“Ovunque in Europa una tragedia come questa farebbe da spartiacque. Chi sbaglia paga: è assurdo che dopo due anni Autostrade abbia ancora la concessione”. Egle Possetti, 55enne di Pinerolo, il 14 agosto del 2018 ha perso la sorella Claudia, il cognato Andrea e i nipoti Manuele e Camilla, di 16 e 12 anni. Tutti in auto sul ponte Morandi, gestito da Autostrade per l’Italia e crollato con 43 morti. Ora è la presidente del Comitato familiari delle vittime, quelli che il premier Conte – nell’intervista di ieri al Fatto – ha accusato i Benetton di “prendere in giro” con i loro impegni al ribasso per evitare la revoca della concessione.

Signora Possetti, si è sentita presa in giro?

La presa in giro è verso tutti gli italiani. Non sono un tecnico, ma mi pare chiaro che a far crollare il ponte non sia stato un meteorite né un fulmine. Abbiamo visto la corrosione dei reperti, l’assenza di manutenzione su altri viadotti e gallerie. Elementi sufficienti a cancellare qualsiasi rapporto di fiducia. Se lei presta la macchina a qualcuno e gliela ridanno distrutta, il giorno dopo la presta di nuovo?

C’è in gioco una clausola milionaria, però, e il rischio di un contenzioso infinito.

Sappiamo che non è semplice, il presidente Conte ce lo ha detto chiaramente lo scorso anno. Anzi, ho apprezzato la sua serietà nel non prometterci la luna. Certo, noi avremmo voluto la revoca dal giorno dopo il crollo. Ma la colpa è di chi ha firmato questa concessione-capestro, che prevede indennizzi enormi anche in caso di colpa grave del concessionario. Se io da privata cittadina stipulassi un contratto del genere, probabilmente il giudice lo annullerebbe.

Come pensa finirà?

Non lo posso sapere. Però vedo segnali positivi: ad esempio ora gran parte della maggioranza è a favore della revoca, o comunque possibilista. Mesi fa le posizioni erano diverse. E poi la pronuncia della Corte costituzionale sull’affidamento dei lavori del nuovo ponte ha dimostrato che Autostrade non è intoccabile. Anzi, è stato legittimo escluderla, perché la situazione era eccezionale.

E se invece della revoca i Benetton fossero messi in minoranza, o cedessero tutte le loro quote?

Sono aspetti tecnici in cui non entro. Ma quello che mi sento di dire è che anche un’eventuale revoca sarebbe solo il primo tassello. Se la gestione non cambia – cioè se non vengono fatti manutenzione e controlli adeguati – la revoca in quanto tale non serve.

Ha mai parlato con i rappresentanti di Aspi?

Mai.

L’hanno mai cercata?

No, solo i miei avvocati. Non mi hanno mai offerto nemmeno l’indennizzo di 300mila euro, quello che hanno accettato quasi tutti. Io non ho voluto nemmeno entrare in trattativa. Se devo essere risarcita voglio che sia in seguito a un processo, e a quel processo voglio partecipare.

Ha fiducia nell’accertamento delle responsabilità da parte della magistratura?

Certo. Ma oltre alle responsabilità penali – che speriamo non vadano in prescrizione – ci sono quelle morali, che sono sotto gli occhi di tutti.

E del premier, si fida?

Spero di potermi fidare. Certo il suo non è un compito facile, la mediazione è delicata. Ma spero che le forze politiche dimostrino buonsenso.

Voi chiedete che la decisione arrivi entro il 14 agosto, il secondo anniversario del crollo.

Esatto, è una data simbolica. L’anno scorso abbiamo assistito alla passerella e ascoltato un sacco di promesse. Quest’anno ci piacerebbe ricordare i nostri cari con i fatti.

Atlantia spera nel bluff e minaccia l’apocalisse

La giornata inizia malissimo per Atlantia, la holding controllata dai Benetton che controlla Autostrade per l’Italia (Aspi). Ma a sera più di qualcuno a Ponzano Veneto tira un sospiro di sollievo. La sintesi, brutale, è questa: non resta che sperare che le minacce siano un bluff, e che la paura dei contraccolpi finanziari della revoca della concessione bastino a frenare il governo o a spaccarlo. Cioè la linea che da oltre un anno tiene il plenipotenziario della famiglia Gianni Mion.

Ieri il titolo ha perso il 15% in Borsa, dopo l’intervista di Giuseppe Conte al Fatto in cui ha bocciato l’offerta di Autostrade per chiudere il contenzioso aperto dopo il crollo del ponte Morandi di Genova (“quando l’ho letta pensavo a uno scherzo”). Il premier stronca diversi punti e vuole anche i Benetton, cioè Atlantia, fuori dall’azionariato di Aspi, non basta che cedano la quota di controllo.

Oggi si riunirà in mattinata il cda di Atlantia. Resterà aperto in attesa di capire quel che emergerà dal Consiglio dei ministri, se mai ci sarà. Non c’è intenzione di migliorare l’offerta. Nel pomeriggio si rincorrono voci che parlano di un possibile commissariamento di Aspi sul modello dell’Ilva (ma non si capisce su quali basi giuridiche). In serata tutto si stempera: in Cdm si discuterà solo un’informativa del premier. Ieri il gruppo ha dispiegato tutta la potenza di fuoco. I vertici di Aspi e Atlantia hanno snocciolato il repertorio dell’apocalisse finanziaria: il fallimento di Autostrade, dicono, si ripercuoterebbe sui 9 miliardi di debiti della società e altrettanti di Atlantia (che in realtà garantisce solo metà dei debiti della controllata); poi ci sono i 40 mila azionisti di Atlantia; la presenza tra i creditori della Cassa depositi e prestiti e della Banca europea degli investimenti; gli obbligazionisti e via così.

È soprattutto dagli azionisti di minoranza di Aspi, però, che Atlantia spera arrivi un aiuto, perché non sono nomi qualunque. Ieri, per dire, è filtrato (non smentito dal governo) che il fondo governativo cinese Silk Road, che ha il 5% di Autostrade, ha chiesto spiegazioni all’ambasciatore italiano a Pechino Luca Ferrari. Mentre gli uomini di Atlantia hanno letto nella battuta che ieri si è lasciata scappare la cancelliera Angela Merkel nell’incontro con Conte (“sono molto curiosa di sapere come andrà il Cdm”) come un riferimento ai rischi per la tedesca Allianz, che ha il 7% di Aspi.

Poco importa che sia vero o no. Ad Atlantia non resta che sperare nel bluff, anche perché al momento non è chiaro come dovrebbero uscire dall’azionariato di Aspi e lasciare spazio a Cdp, come auspica il governo visto che l’aumento di capitale li lascerebbe soci di minoranza e l’acquisto diretto delle quote da parte della Cassa sarebbe politicamente indigeribile. Resta l’ipotesi che i Benetton escano direttamente da Atlantia, ma richiede tempo e l’unità della famiglia (che il 21 riunisce tutti i rami nell’assemblea di Edizione, la cassaforte finanziaria). “Abbiamo sempre rispettato le istituzioni: quando in passato siamo stati sollecitati a entrare in diverse società così come oggi”, fanno filtrare in serata. Un segnale di resa. O un’offerta cifrata a Palazzo Chigi. Si vedrà.

Il Pd cede al premier: oggi il via libera alla revoca, poi il decreto

L’unico dubbio, giurano, resta quello di sempre. Ovvero, che farà Italia Viva. Un copione già visto, minimizzano a palazzo Chigi. Ben consapevoli che la vera vittoria, in consiglio dei ministri, sarà aver convinto i ministri del Pd a non opporsi alla proposta che il premier Giuseppe Conte è pronto a illustrare oggi con un’informativa. E che, come anticipato nell’intervista al Fatto, riguarda la revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia. Una scelta obbligata, secondo l’analisi del presidente del Consiglio, “imposta” dalle deludenti controfferte avanzate dalla società quotata in Borsa, che ha come principale azionista la famiglia Benetton.

Ma non sarà oggi, in ogni caso, il giorno in cui si scriverà la parola fine alla querelle iniziata alla vigilia del Ferragosto 2018. Non solo perché tra le opzioni in campo, c’è anche quella di un rinvio. Ma soprattutto perché non ci sarà per ora nessuna conta: all’informativa non seguirà un voto, bensì produrrà l’accordo politico che sarà alla base di un decreto interministeriale (Economia e Trasporti). Un decreto che è tutto da scrivere e su cui Aspi spera ancora di poter esercitare margini di trattativa. Davanti ai ministri, anche la titolare delle Infrastrutture Paola De Micheli farà un’analisi degli eventi, degli adempimenti, dei costi di entrambi gli scenari. Ovvero, sia della revoca sia dell’uscita dei Benetton. Ponendo l’accento, in entrambi i casi, sulla necessità di proteggere il piano sicurezza fatto fare ad Aspi.

La De Micheli, in un primo momento, era orientata a penalizzare i Benetton dal punto di vista finanziario, piuttosto che spingerli ad uscire. Così come buona parte del Pd, almeno quello di governo: consapevole sì, di quanto rischiasse di essere impopolare la difesa a oltranza della società che ha guardato crollare il ponte Morandi, ma pur sempre restio a chiudere in maniera brusca i rapporti con uno dei salotti buoni dell’economia nazionale.

Ma il tabù è caduto ieri alle cinque e mezza del pomeriggio, quando il segretario Pd Nicola Zingaretti ha diffuso il comunicato in cui “condivideva” i rilievi del presidente del Consiglio, rompendo un silenzio che aveva accompagnato l’intera giornata. L’unico a parlare era stato il sottosegretario all’Ambiente Roberto Morassut: “Chi prende in gestione una infrastruttura e firma un contratto con lo Stato deve sapere che questo comporta oneri e onori, altrimenti giustamente lo Stato può rivalersi”, aveva detto anticipando la rotta. Eppure nel Pd continuano a esserci dubbi, a partire da quelli espressi da Lorenzo Guerini: Dario Franceschini, il capo delegazione, ha passato la giornata di ieri a far capire ai ministri che su questa questione bisogna cedere, perché in ballo c’è la caduta del governo. Ci sarà una riunione stamattina, per blindare una posizione.

Mentre Renzi provocava, dando a Conte e ai giallorosa dei “populisti”, perché “la verità è che con la revoca si danno i miliardi ai Benetton”, si sono invece ben guardati dal commentare le parole di Conte, i ministri Cinque Stelle. Una scelta comunicativa, par di capire, fatta per evitare che la strada della revoca apparisse come imboccata per primo dal premier. “Noi lo diciamo da settimane, finalmente lo ha detto anche lui”, è lo spin del Movimento, ben attento a rimarcare che questa volta sarebbe il resto del governo a convergere su una posizione dei 5 Stelle e non il contrario. Una sottolineatura necessaria, insistono, in vista dei prossimi mesi quando già si preparano a dover “spiegare” scelte dolorose, su cui “sarà difficile tenere il punto” (leggi Mes). Così, in serata è il capo politico reggente Vito Crimi a ricordare che “due anni fa in questa battaglia il Movimento era solo” e che gli alleati dell’epoca “frenavano”. Ce l’ha con la Lega, che pure adesso si mette sulla scia dei favorevoli alla revoca, ma annuncia pure due mozioni parlamentari, la prossima settimana, per mettere in difficoltà la maggioranza: vuole far leva sulla questione dei risparmiatori, che ieri, dopo le parole di Conte, hanno visto crollare in Borsa il titolo di Aspi del 15 per cento.

Rumori fuori scena

L’altroieri, mentre Giuseppe Conte rispondeva alle mie domande sulla faccenda Autostrade facendo a pezzi i Benetton con la durezza ponderata e documentata che tutti i lettori hanno potuto constatare, si accavallavano un bel po’ di pensieri.

1) Mai un presidente del Consiglio italiano aveva detto parole così nette e definitive contro uno dei veri poteri forti che ammorbano l’Italia dalla notte dei tempi.

2) Chi dipinge Conte come un democristiano indeciso a tutto fuorché ai rinvii, che tira a campare a ogni costo senza mai decidere nulla per non scontentare nessuno, non ha capito nulla.

3) Forse non avevamo tutti i torti quando, in beata solitudine, tentavamo di spiegare a un Paese che ha digerito di tutto che l’attuale presidente del Consiglio, pur con i suoi errori, è la figura che più si avvicina a ciò che dovrebbe essere un presidente del Consiglio.

4) Per queste ragioni, il rischio di una crisi di governo è concretissimo, perché è su questioni di sostanza – quelle che toccano gli interessi privati e le pretese di impunità del Partito degli Affari&Malaffari, non le chiacchiere politichesi dei retroscenisti da giornalone – che in Italia cadono i governi: il Conte1 venne giù sul Tav e la prescrizione; il Conte2 sarebbe caduto sulla prescrizione se non fosse arrivato il Covid-19; ora le concessioni autostradali miliardarie ai prenditori trevigiani sono un’ottima ragione per un ribaltone (basta misurare i litri di bava alla bocca di Sabino Cassese, grande sponsor dei Benetton dopo aver fatto parte del Cda del gruppo autostradale dal 2000 al 2005, per poi uscirne – secondo dati mai smentiti – con 700 mila euro fra gettoni di presenza e consulenze). Così come potrà esserlo il Mes, il prestito europeo (da restituire) che tutti dipingono come manna dal cielo perché troppi sognano di mettere le mani su quei 37 miliardi destinati alla sanità: i ras delle cliniche private (spesso editori di giornali), i presidenti di Regione e i loro partiti a caccia di un bancomat per le loro campagne elettorali, non avendo fra l’altro capito che quei soldi non andrebbero comunque in spese e debiti aggiuntivi (i nuovi investimenti nella sanità sono già stati finanziati dal governo e il Mes, se mai arriverà, andrà a coprire tutt’altre spese).

5) Il vero discrimine che fende trasversalmente la politica italiana non è né quello tra destra e sinistra, né quello fra populisti e antipopulisti, ma quello fra chi persegue l’interesse pubblico e chi gli interessi privati. E qui, oltre alle reazioni ampiamente prevedibili del Pd (svenimenti e pigolii in ordine sparso) e dell’Innominabile (Forza Benetton) all’intervista di Conte, colpisce quella dei 5Stelle. Che non hanno proprio reagito: encefalogramma piatto.

Fra i big solo Di Battista – quello che nel fumettone retroscenistico sarebbe il più anti-Conte e comunque non sta né nel Parlamento né al governo – plaude al premier, notando che parla come dovrebbe parlare un 5Stelle, ma come nessun 5Stelle parla più. Dagli altri, solo silenzi: come se Conte non l’avessero scelto loro, con formidabile ritorno di immagine e di sostanza che ha spazzato via tutti i luoghi comuni sul M5S inaffidabile e incompetente. Se il premier, anche due mesi dopo la fine del lockdown, mantiene consensi così alti (ben oltre il recinto la coalizione giallorosa), chi lo ha scelto dovrebbe sventolarlo come una bandiera. Invece, anziché vantarsene e appropriarsene, è come se i 5Stelle non lo sentissero come il “loro” premier e temessero la sua popolarità: un “premier amico” e nulla più, per usare la gelida definizione che De Gasperi diede nel 1953 del governo Pella per prenderne le distanze (“governo amico”). Anche quando Conte parla la loro lingua delle origini e mette la testa sul tagliere di una loro battaglia identitaria come quella su Autostrade. Colpisce soprattutto il silenzio di Luigi Di Maio. Non che il suo nuovo stile di ministro degli Esteri sia sbagliato, anzi. Un anno fa inseguiva il Cazzaro Verde nelle gare di rutti e perdeva sempre, perché il campione nazionale di quello sport è solo uno. Ma un conto è parlare poco e soprattutto di affari internazionali, un altro è incontrare Mario Draghi e Gianni Letta senza spiegare il perché. Che c’entra l’ex governatore Bankitalia ed ex presidente Bce con la Farnesina? E che ci azzecca il vecchio lobbista del Partito Mediaset, privo d’incarichi politici e istituzionali? Lo sanno anche i bambini scemi che Draghi è suo malgrado il candidato dei poteri forti per il governo di larghe imprese che nei loro sogni dovrebbe rovesciare il Conte 2; e che Letta sr. è l’emissario (reo confesso di una tangente e salvato dalla prescrizione) del pregiudicato B., delle sue aziende e delle sue trame per rientrare in gioco, farsi gli affari suoi nelle tv e nella fibra e magari scegliersi pure gli arbitri dell’Agcom.
Due anni fa Di Maio si giocò la premiership per non stringere la mano pubblicamente né parlare privatamente a B.. Ora si scopre che, tra il lusco e il brusco, stringe la mano e parla segretamente al braccio destro di B.. Intanto, da dieci giorni, né lui né alcun altro big M5S dicono una parola contro la vergognosa riabilitazione di B. a opera di mezzo Pd, dell’Innominabile e dei giornaloni al seguito. Gli elettori, se non alle mitiche dirette streaming, avrebbero diritto almeno a una spiegazione. Diceva Agatha Christie: “Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova”.

La guerra fredda di mafia e Stato

Viviamo in uno dei Paesi più violenti d’Europa, in cui quello che Giovanni Falcone definiva il “gioco grande” – il gioco del potere – è stato condotto per anni con stragi, con omicidi politici che si sono susseguiti ininterrottamente.

La strage dell’Olimpico del 23 gennaio 1994 doveva suggellare la fine della storia della Prima Repubblica, tenuta a battesimo da un’altra strage, quella di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947. Una strage politico-mafiosa che ha uno scopo politico: pochi mesi prima l’unione delle sinistre aveva vinto le elezioni regionali, e si voleva dissuadere da una replica di questo successo nelle elezioni nazionali che si dovevano tenere l’anno successivo. Una strage dissuasiva, che inizia la strategia della tensione. Da Portella della Ginestra, la strategia della tensione si snoda per tutti i decenni della storia repubblicana, con una sequenza di stragi che non ha uguali in nessun Paese europeo. Peteano, Milano, Brescia, Bologna, il rapido 904: stragi con un comune denominatore, i depistaggi. (…) E perché si depista una strage? Per nascondere una verità inconfessabile. Per nascondere la mano dei mandanti eccellenti.

(…) Tutte stragi, quelle che ho elencato, che erano stragi politiche, con delle menti politiche che usavano di volta in volta come braccio armato la mafia, esponenti della destra eversiva, esponenti della criminalità comune, restando sempre dietro le quinte. E che avevano un unico filo conduttore. La strategia delle tensione voleva orientare il processo politico evitando un evento che veniva considerato catastrofico: il possibile avvento delle sinistre al potere. Ogni volta che si manifestava questo pericolo, il “linguaggio delle bombe” tendeva a stabilizzare lo status quo attraverso una destabilizzazione. Questo pericolo, che ha caratterizzato tutta la storia repubblicana – il sorpasso a sinistra, che non poteva verificarsi sia per gli equilibri nazionali, sia per quelli internazionali – è un evento che rischia di verificarsi nuovamente alla fine della storia della prima Repubblica. Infatti io definisco le stragi del ‘92 e del ‘93 come le stragi degli orfani della Guerra fredda. Con la caduta del muro di Berlino, la fine del bipolarismo internazionale, si scioglie il collante che aveva tenuto insieme il sistema di potere della Prima Repubblica. Il montanelliano “votiamo turandoci il naso”: votiamo un sistema di potere che sappiamo patologicamente corrotto, perché altrimenti le sinistre vanno al potere. Ecco: una volta che finisce il pericolo comunista a livello internazionale, si scongelano i serbatoi del voto ideologico, quel sistema di potere rischia di crollare – sta crollando – sotto i colpi di Tangentopoli e di un voto di opinione che va in libertà. A quel punto si crea una situazione drammatica per tutte le organizzazione criminali italiane che nel sistema di potere della Prima Repubblica avevano goduto di protezioni, d’impunità e avevano fatto affari d’oro. (…) E lì sarebbe stata la fine non soltanto per i capi della mafia, ma sarebbe stata la fine di tanti soggetti che durante la Prima Repubblica avevano collaborato a stragi e omicidi. E si verifica quindi una convergenza di interessi tra queste lobby criminali che viene subito evidenziata, in un’informativa della Direzione investigativa antimafia dell’agosto 1993 che dice attenzione, queste stragi non sono soltanto stragi di mafia. (…)

E tutto questo ce lo confermano tanti collaboratori di giustizia, i quali ci raccontano che alla fine del 1991 un gruppo ristretto di capi della mafia si riunisce nelle campagne di Enna per discutere di un progetto politico che è stato suggerito da entità esterne, estremamente complesso, che deve restare segreto, che prevede appunto l’inizio di una serie di azioni destabilizzanti dell’ordine politico esistente, con stragi e con omicidi, per farlo crollare – perché questo sistema non garantiva più le protezioni del passato – e per creare spazio alla creazione di un nuovo soggetto politico. Questo piano segreto è conosciuto soltanto da alcuni capi della mafia, quella che Riina chiama la “super-cosa”, di cui facevano parte Riina, Graviano, Matteo Messina Denaro, ma viene taciuto agli altri capi della mafia, viene taciuto agli esecutori materiali, ai quali viene invece data una spiegazione tutta interna a Cosa Nostra: si fanno queste stragi perché dobbiamo vendicarci di Falcone, di Borsellino, dobbiamo punire i politici che ci avevano promesso protezione e non ce l’hanno più garantita. Esistono quindi due livelli di conoscenza (…).

Chi aveva ordito questo piano aveva previsto una strategia di destabilizzazione che sarà portata avanti con grande lucidità, e che vedrà la sua massima espansione quando per la prima volta, col governo Ciampi, a cui Padellaro dedica una parte del libro, si crea un laboratorio politico che anticipa quello che si temeva sarebbe avvenuto, l’avvento delle sinistre al potere, perché è il primo governo della storia repubblicana dove ci sono tre ministri che appartengono all’ex Partito comunista. Il governo Ciampi ottiene la fiducia, due giorni dopo c’è l’attentato a Costanzo (14 maggio), il 27 maggio c’è la strage di Firenze, il 2 giugno viene fatta trovare in via dei Sabini una macchina piena di esplosivo – e quest’attentato, attenzione, nessun collaboratore ci ha detto che fu preparato dalla mafia – in una strada in cui doveva passare il presidente Ciampi, il 27 luglio c’è la strage di Milano e l’esplosione delle chiese a Roma, e nel giugno del 1993 iniziano i preparativi per la strage all’Olimpico che doveva essere attuata nel ‘94. Si fanno i primi sopralluoghi. Una sequenza di stragi che mette in fortissima crisi il governo Ciampi: Ciampi dice di rendersi conto che si vuole creare un colpo di Stato, e prende un’iniziativa significativa: azzera i vertici dei servizi segreti, li sostituisce e mette in campo una riforma degli stessi servizi segreti. (…) Nel frattempo (…) si sta creando una nuova forza politica che vedrà la luce qualche mese dopo e che vincerà le elezioni del 1994, e in quel gennaio del 1994 – come dirà Graviano, uno degli strateghi e dei conoscitori della strategia che c’è dietro le stragi del 1992-1993 – bisognava dare “un colpo di grazia definitivo”. (…) Quella strage – una strage con circa 200 morti – avrebbe veramente messo in ginocchio l’Italia, determinato la caduta del governo, creato una situazione di panico collettivo, aperto la strada a qualunque nuova forza politica si fosse presentata, in quel momento, come forza in grado di riprendere in mano le redini di un paese stremato e in ginocchio. (…)

È motivo di riflessione il fatto che nel processo ‘ndrangheta stragista Graviano rappresenta se stesso come uno che è stato tradito. “Io sono stato tradito. Volete sapere chi sono i veri mandanti delle stragi? Andate a cercare quelli che mi hanno fatto arrestare”. (…) Quando Graviano dice questa cosa, in qualche modo indica un sistema criminale che in qualche modo, insieme alla mafia, era composto da pezzi di potere deviato, servizi segreti e altre entità. Quindi tu, Antonio Padellaro, sei un sopravvissuto, e potevi essere l’ennesima vittima del gioco grande del potere (…) un gioco del potere condotto da persone di estrema crudeltà, che hanno sempre considerato gli altri come moneta di scambio per mantenere un sistema che si fondava su poteri marci.

 

Carlo Quartucci. Quando il palco si divora tutto e New York bisbiglia: “Vuoi vedere o essere teatro?”

Ci sono epoche affollate di pittori. Il Rinascimento italiano. Ci sono momenti della Storia in cui per scrittori e poeti c’è solo posto in piedi. L’Ottocento francese. Ci sono tratti di percorso culturale in cui il teatro si mangia tutto, non nel senso di egemonia (guidato da nuove tecnologie per nuovi talenti). Ma nel senso di vastità.

Accade in due Paesi soprattutto, gli Stati Uniti e l’Italia. Qui esplodono 2 fenomeni simmetrici e paralleli, con grandi debiti reciproci, la Pop Art e il Teatro. Parliamo di alcuni decenni straordinari, dagli anni ’50 alla fine dei ’70. Ma anche l’arte figurativa, pur nella sua sicurezza (anche economica) di dominare il campo, è succube del teatro. Quando, arrivato a New York alla fine degli anni ’50 ho voluto iniziare il racconto del mio nuovo Paese, il primo libro è stato su Kennedy, ma il secondo sul Nuovo Teatro Americano. Perché tutto era teatro e il teatro si impossessava della realtà, trasformandola nel mai visto e nel mai sentito, occupando tutto lo spazio dalla politica alla musica, con la forza di far percepire in modo diverso gli eventi.

Per questo è importante tener conto di Stravedere la scena, Carlo Quartucci, il viaggio nei primi vent’anni, 1959-1979 di Donatella Orecchia, storica (e docente) del teatro contemporaneo e (conta molto in questo campo) di storia orale. A questo libro vorrei riconoscere, prima di tutto, il merito di avere riportato documentatissima attenzione: sia all’insieme del teatro italiano ed europeo, in quegli anni; sia ai dettagli di uno straordinario modo fare teatro, raccogliendo reperti preziosi di un mondo attraversato con furia e entusiasmo dai protagonisti (molti e bravi al punto da cambiare radicalmente la scena), indicando come guida, scout e caposcuola che guida a sapere e a capire, Carlo Quartucci. La scelta è felice. Come è felice la tecnica narrativa di Orecchia che passa di storia in storia, aneddoto in aneddoto, di lavoro in lavoro. E anche (è la forza del libro) di dettaglio in dettaglio, dando un peso grande alle cose minime.

Perchè Quartucci appartiene a un’importante cerchia di artisti: da Judith Malina a Julian Beck, da Josè Quintero ad Edward Albee (il celebre Circle in the Square di Manhattan dove tutto avveniva) fino al Minneapolis fire house e a Le Cirque du Soleil, che senza esitazione trasformano la comune forma di comunicazione in “lingua di teatro”.

Ovvero tutto è teatro e la febbrile rappresentazione scenica, visiva e parlata, forte della sua libertà dalla logica e dalla riproduzione del reale, acquista una potenza che cambia la rappresentazione ma anche la percezione di ciò che – si diceva – realmente accade. Il senso del fare teatro con quel coraggioso rincorrere e inquadrare (che qui è narrato) fatti, persone, situazioni che altrimenti non si vedono, mi ha ricordato la risposta che si doveva dare entrando nel teatro sottosuolo della Minneapolis Fire House di Manhattan: “Vuoi vedere il teatro o essere teatro?”

 

Il Tfr contro tutti Brilla per redditività rispetto a titoli di Stato, depositi bancari e fondi pensione

Come tutti i salmi finiscono in gloria, così interviste, articoli, interventi sul Trattamento di fine rapporto (Tfr) si concludono regolarmente con il consiglio di trasferirlo a un fondo pensione. Un consiglio interessato: il Tfr non fa guadagnare nulla a banche, assicurazioni, sindacati e associazioni padronali; i fondi pensione invece sì.

Per questo i sedicenti esperti della cosiddetta educazione finanziaria e previdenziale evitano di segnalarne gli aspetti positivi. In particolare il fatto che attualmente è uno degli investimenti più redditizi oltre che più sicuri, in virtù anche della garanzia dell’Inps. Anche se non è il Tfr a essersi rinvigorito, ma gli altri ad avere perso forza. Rende, infatti, l’1,5% l’anno più tre quarti dell’inflazione nello stesso periodo, se positiva. E tali rendimenti a ogni fine anno sono acquisiti. Addirittura si capitalizzano, al netto dell’imposta. Cioè cominciano a fruttare anch’essi interessi, più correttamente denominati rivalutazioni.

Confronti. I Btp a tasso fisso rendono regolarmente meno. Per il Btp Futura appena emesso abbiamo un 1,3% a scadenza, a parte il modesto premio di rimborso, e comunque senza qualsivoglia difesa del potere d’acquisto. Manca poi ogni tutela per il suo valore di smobilizzo, per cui fine anno potrebbe benissimo quotare sotto 90. Prendiamo allora i Btp Italia. Qui arriviamo a rendimenti circa sull’1% l’anno oltre l’inflazione, però piena e non decurtata di un quarto come per il Tfr. Ciò significa che quest’ultimo continua a rendere di più finché il costo della vita non sale oltre il 2%. Siamo sotto da parecchi anni e anche in prospettiva. Anche qui c’è il rischio di flessione dei prezzi, tant’è che si sono visti Btp Italia scendere a 93 euro. È vero che si tratta sempre di rendimenti lordi, ma passare ai netti non capovolgerebbe le conclusioni. Logicamente va male anche con le poche alternative a capitale garantito in caso di prelievo o riscatto: conti correnti, libretti e buoni fruttiferi postali. Gli interessi sono di regola molto bassi e comunque manca sempre qualunque protezione dall’inflazione, tranne per alcuni buoni non più sottoscrivibili. I Bot sono ritornati a rendimenti negativi e il maggior rendimento dei titoli in dollari viene annullato, se si copre il rischio di cambio. In tale contesto è inevitabile che la quota a reddito fisso dei fondi pensione, che è quella preponderante, renda meno del Tfr.

Autodifesa. Peccato che non sia permesso riportare in azienda quanto un lavoratore ha nella previdenza integrativa o almeno bloccare il trasferimento a essa del Tfr che matura di mese in mese. Sarebbe proprio il momento di farlo.

Tutt’al più chi cambia ditta può scegliere presso il nuovo datore di lavoro di non aderire a nessun fondo pensione o simile, tenendo però nascosto che prima vi aveva aderito. Ciò significa essere disonesti? No, questa si chiama legittima difesa.