Mondo nuovo, idee vecchie (e non andrà più tutto bene)

L’Italia si avvia all’autunno povera di idee mentre i dati indicano una recessione senza precedenti. Si stima un calo del Pil di oltre il 10% nel 2020. A maggio si sono persi rispetto a febbraio 500 mila posti di lavori (90% precari), con 307 mila disoccupati in più e il tasso di occupazione che ha fatto un balzo all’indietro di anni. Un terzo delle imprese, dice Istat, è a rischio di sopravvivenza, mentre (dati Bankitalia) un terzo delle famiglie con contratti precari ha visto crollare il reddito del 50% e non ha disponibilità per affrontare per più di tre mesi le spese essenziali.

In tutto questo una vera strategia fatica a emergere. Il governo ha concentrato gli sforzi nell’accelerare gli affidamenti negli appalti pubblici, anche sacrificando la concorrenza. Il resto del dibattito è assorbito dalla “riforma fiscale”, vero evergreen dell’ultimo trentennio. In questo scenario, la parte considerata “di sinistra” dell’esecutivo sta ormai chiudendo il gap ideologico con la destra. La ricetta – espressa da economisti di area dem – è che sarebbe un grave errore prorogare fino a fine anno la cassa integrazione Covid e il blocco dei licenziamenti introdotti nel lockdown. A fronte di uno shock temporaneo, la distruzione stabile di capitale umano è un rischio accettabile per consentire la ristrutturazione del sistema produttivo e va evitata con le “politiche attive”. Per chi soccombe c’è sempre un sussidio. L’ex presidente Inps, Tito Boeri, l’economista preferito da Repubblica, ci dice anche che il blocco dei licenziamenti “penalizza i giovani”, di fatto perché evita di far licenziare i vecchi. È il contrario di quel che la letteratura economica consiglia per evitare che uno shock transitorio generi effetti permanenti. Eppure l’idea che dei lavoratori debba occuparsi il mercato (ma non delle imprese, per carità) resiste anche al Covid. E infatti si chiede pure mano libera sui contratti precari.

A fare da cornice c’è la battaglia europea sul recovery fund, di cui la gran parte dei fondi non arriverà in tempi brevi, mentre i Paesi del Nord spingono per ripristinare il patto di stabilità che impone politiche di austerità. Le possibilità future sono legate alle scelte che si faranno ora. La politica non sembra avere grandi idee. Che almeno non si affidi a quelle (solite) sbagliate.

Calcio ipocrita “Salvate il soldato Sinisa”: liberiamo Mihajlovic dal santino buonista

“Salvate il soldato Sinisa”. Ventidue anni dopo il soldato Ryan di Steven Spielberg, è giunta l’ora, per chi ama il pallone e i suoi personaggi più autentici, di scendere in campo a fianco di Sinisa Mihajlovic: perché di tutto c’è bisogno nel calcio italiano tranne che dell’estinzione di personaggi (addetti ai lavori, persone) come lui. Che a salvarsi da solo tra l’altro è bravissimo: come ha dimostrato nella battaglia intrapresa contro la leucemia acuta mieloide che all’improvviso l’estate scorsa lo ha aggredito costringendolo a una sfibrante chemioterapia e a un lungo periodo di isolamento e di lontananza dal lavoro. Ma se con la malattia l’allenatore del Bologna deve giocarsela da solo, contro l’ipocrisia dilagante una mano gliela possiamo dare tutti.

E lui ne ha bisogno: perché da quando il 51enne ex campione serbo ha deciso di rendere nota la sua malattia commuovendo il mondo con la fierezza del comportamento e la sensibilità delle parole, è partita la gara a trasformarlo nel santino più bello, esemplare, edificante del mondo. Siccome Mihajlovic ha la leucemia e ha deciso di dircelo, non è più la persona che conoscevamo. Se prima era generoso, fiero e combattente ma anche ruvido, insofferente e a volte anche scortese e sgarbato, ora questo secondo aspetto non ha più diritto di affiorare: i media hanno eretto l’altarino e ora Sinisa dev’essere Santa Maria Goretti. Nella migliore delle ipotesi: l’Innominato del pianeta pallone destinato, dopo indicibile travaglio interiore, a riscoprirsi uomo redento. Da cosa, non si capisce bene.

L’avrete letto. Qualche giorno fa, al termine di Bologna-Sassuolo 1-2, Mihajlovic si è presentato ai microfoni di Sky e alla sua maniera, coi modi bruschi che da sempre lo contraddistinguono, ha detto papale papale che era arrabbiato: il club di Caressa, quello con Bergomi, Costacurta e altri noti ex calciatori, non aveva speso una parola di elogio del Bologna, qualche sera prima, dopo la vittoria per 2-1 in casa dell’Inter ottenuta grazie al gol di un ragazzo africano, Juwara, giunto tre anni prima in Italia su un barcone; Juwara che “ho buttato in campo perché sapevo che avrebbe fatto casino”; Juwara che segna a San Siro e manda a gambe all’aria lo squadrone di Antonio Conte, il conducator da 12 milioni netti a stagione. Il 23 giugno, quando Sinisa era tornato in panchina in occasione di Bologna-Juventus 0-2, match pesantemente condizionato dalle decisioni dell’arbitro Rocchi, il buonismo delle sue dichiarazioni post partita, rilasciate a denti strettissimi, era stato elogiato come la conferma del miracolo: Mihajlovic non era più Mihajlovic, era San Sinisa caduto da cavallo e folgorato sulla via della Continassa.

Invece no, Mihajlovic per fortuna è ancora Mihajlovic. Chiama Caressa “il piccolino, quello marito di Benedetta Parodi”, compatisce i suoi ex colleghi oggi opinionisti, dice che è “una vergogna, sembrava di stare a Inter Channel”, e naturalmente tutti tornano di colpo a stracciarsi le vesti, ma come si permette, maleducato, irrispettoso, non è così che si rovina il santino nel quale ti avevamo racchiuso. Poco elegante? Certamente. Rozzo? Può darsi. Irragionevole? Mah. Noi, che La Voce del Padrone la distinguiamo a occhi chiusi, non diremmo proprio. Ma che abbia ragione o no, a noi interessa che Mihajlovic continui a essere Mihajlovic: un personaggio vero in un calcio sempre più finto.

 

L’ultimo testimone. Lo “sbirro” centenario che indagava sul bandito Salvatore Giuliano

Ricordate il leggendario film di Francesco Rosi Il bandito Giuliano? Arrivò nelle sale cinematografiche nel 1962 a mostrare all’Italia del boom economico il sangue e i misteri su cui era nata la Repubblica. Fece rivedere con crudezza quel giovanotto di Montelepre, metà brigante metà giovane leader criminale, tenere in scacco lo Stato. Grazie a una rete occulta di alleanze e protezioni (il separatismo degli agrari, ma non solo) e a un’omertà popolare fatta di cemento. Raccontò la strage di Portella della Ginestra e la “cattura” del bandito. E il processo di Viterbo con l’avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta, il cugino di Giuliano che aveva annunciato rivelazioni sui mandanti politici di Portella. Mostrò plotoni di carabinieri dare la caccia al ribelle. Infagottati nelle storiche divise cachi con la bandoliera a tracolla, su grandi camion pronti a diventare facili bersagli per le bombe e le fucilerie dei banditi.

Ecco, nelle immagini del film colpisce quella presenza costante di centinaia di uomini in divisa finiti nel punto più drammatico dell’Italia a lottare contro un nemico feroce e inimmaginabile nell’Europa di allora. Con relativi eccidi, al punto che gli appelli del governo in cerca di volontari per la Sicilia cadevano nel vuoto. Tutto maestosamente in bianco e nero. Film consigliatissimo.

Un’epopea lontana, oltre settant’anni fa. Senza più testimoni. Né il colonnello Ugo Luca, che guidò il Comando forze repressione banditismo, né il ministro dell’Interno Mario Scelba, né i sindacalisti andati a festeggiare il primo maggio del ’47 sui prati di Portella della Ginestra. E nemmeno i cronisti che indagarono sulla messinscena della morte di Giuliano. Nessuno. Nessuno tranne un carabiniere. Che l’altro giorno ha compiuto cento anni. Eccezionale fonte orale, unica memoria vivente di quel periodo.

Si chiama Mario Furnari. Siciliano, nato a Enna nel 1920 da famiglia contadina nelle campagne in cui la terra era un sogno proibito, ancora ragazzo cercò uno stipendio e nuovi orizzonti arruolandosi nell’Arma. Gennaio ’39, poco prima dello scoppio della guerra. I nuovi orizzonti si rivelarono però subito di morte e di stenti. “Ero in Montenegro. L’8 settembre mi diedi alla macchia, dopo un po’ di mesi in fuga sui monti i tedeschi mi catturarono e mi internarono in un campo in Germania. Durò un anno, fino alla fine della guerra”. Al ritorno Mario venne rimandato nell’isola dove fu impegnato nei reparti incaricati di fronteggiare la banda Giuliano. Ancora oggi ricorda spesso, mostrando una sua foto con divisa d’ordinanza e cappello “sulle 23”, come si diceva, quegli anni di rischio e di avventura. “Mi creda, uscivamo con pattuglie di sei e rientravamo in caserma in tre o quattro. E se catturavamo qualcuno i giudici lo mettevano fuori”. Ai figli e ai nipoti che lo ascoltano racconta con qualche piccola variazione – ma tanti particolari inchiodati nella mente – i due conflitti a fuoco con la banda.

Nel 1956, quando la Sicilia sembrò acquetarsi, e fu finita anche la strage dei sindacalisti contadini, venne trasferito in Abruzzo. Prima vicino l’Aquila, poi a Popoli, in provincia di Pescara. Restò nell’Arma fino al ’75. Oggi abita all’Aquila, dove ha festeggiato il suo secolo di vita, con Elia, la moglie, i figli Sabatino e Rosa Maria e le due adorate nipoti Eleonora e Stella. Attestato d’onore del sindaco di Popoli.

“Della Sicilia”, dice, “ricordo in particolare due grandi uomini, tutti e due miei coetanei, tutti e due uccisi dalla mafia: il capitano Carlo Alberto dalla Chiesa di cui fui agli ordini a Corleone per un anno, e Giuseppe Fava. Fava lo conobbi a Siracusa, giocavamo insieme a carte, eravamo due scapoloni. Qualche anno fa ho incontrato a Pescara il figlio Claudio, e gli ho ricordato suo padre che viaggiava in motorino. Indimenticabili quegli anni”.

 

Tradimenti. Coppia aperta, che male c’è? Dire a una donna che è cornuta non è “girl power”

 

“Il mio lui ha l’amante, ma a lei sta bene così e non fa una piega”

Ciao Selvaggia, volevo condividere la mia esperienza perché servisse da monito a quelle donne pronte a sopportare tutto pur di tenersi un uomo. Ho avuto una storia con un ragazzo più giovane, che mi ha fatto sentire bella e desiderata come non succedeva da tempo. Ci siamo frequentati a lungo e non ti nascondo che negli ultimi mesi ho iniziato a pensare che il nostro rapporto stesse evolvendo. Questo fino alla sorpresa di due settimane fa: dopo essere stata con lui rientro a casa, e casualmente Facebook mi suggerisce l’amicizia di una tizia nella cui foto profilo campeggia proprio il mio uomo. Gli chiedo subito spiegazioni e lui mi fa sentire in colpa, perché l’ho aggredito verbalmente malgrado “non abbia nessun tipo di relazione minimamente seria, con alcuna, tale da mancarmi di rispetto”. Per giorni non si fa sentire ed io faccio mille ipotesi… inizio a pensare che sia un’amica o una ex a cui non era passata… fino a quando lui cambia la sua immagine-profilo di Facebook, e mette la stessa identica foto che io avevo visto nel profilo della donna. Sotto il “quadretto”, un commento di lei che non lascia adito a dubbi: “Così forse sarà più chiaro che sei un ragazzo impegnato”. Sono riuscita a risalire al suo indirizzo di lavoro e l’ho aspettata, per ricevere spiegazioni e per informarla. Non avevo nessun’altra intenzione se non quella di essere solidale con un’altra donna. Invece lei era perfettamente consapevole delle scappatelle, anche durature, del suo fidanzato, con cui aveva una semi-convivenza di quasi un anno. Io ero una roba tipo la numero 10. Ma invece di dirmi “ora torno a casa e lo lascio”, lei ha provato a giustificarlo in ogni modo per la sua giovane età. Che a me poi 32 anni non mi sembrano così pochi per capire che non si gioca coi sentimenti. Sono rimasti insieme. Ti ho raccontato questa storia solo perché credo nel girl power, nella forza delle donne, in quelle donne che non giustificano i loro uomini con “era solo uno schiaffo”. Questa storia mi ha insegnato che incontreremo sempre ragazzi come lui, ma non dobbiamo mai essere ragazze come lei, perché nessuno può mai toglierci la cosa più importante che abbiamo: la dignità.

Giorgia

 

Cara Giorgia, se a “lei” sta bene così, non trovo che si debba giudicare. Chi ti dice che la ragazza subisca standosene a casa a vedere C’è posta per te? Magari lei fa altrettanto, e anche a lui sta bene così. Inoltre perdonami, ma non è aspettando una donna fuori dal lavoro per dirle che è cornuta che si esprime la solidarietà femminile. Più che solidarietà a me è parso uno sgarro a lui e no, questo non è girl power, ma una debolezza, anche un po’ meschina.

 

Gli anti-Salvini e il G8 di Genova

Ciao Selvaggia, ho pensato a quanto accaduto a tuo figlio e mi ha fatto ricordare un episodio. A diciassette anni fui convinta da mia madre a non festeggiare il compleanno della mia migliore amica per andare a Genova, al G8. Ho sempre avuto una certa propensione per le tematiche sociali: con gli anni e gli studi, questo è divenuto il mio lavoro (forse anche grazie a quel 21 luglio). Ricordo che quando arrivammo a Napoli, con un treno orribile di Trenitalia, ci fecero scendere perché la Digos doveva controllare non vi fossero armi o addirittura ordigni. Ricordo bene quella interminabile attesa, ore e ore, prima di riprendere la corsa: io e mia madre con tantissimi manifestanti, sedute a terra ad aspettare. Alla fine ripartiamo, ma a un certo punto arriva la notizia che nessuno avrebbe voluto sentire: un ragazzo morto ammazzato dalla polizia. Furono attimi di tensione, la lotta per l’uguaglianza passò in secondo piano, un giovane era stato ammazzato dallo Stato. Più ci avvicinavamo a Genova, più saliva la tensione e con il senno del poi, direi giustamente! Mia mamma era abituata ai cortei, negli anni ’70 partecipò a scioperi e battaglie, ma nulla paragonabile a Genova. Ricordo persone ferite che invocavano aiuto, cordoni e cordoni di polizia, mia madre spaventatissima, gente che correva, occhiali rotti, elicotteri che lanciavano lacrimogeni. Insomma il mio corteo è durato circa mezz’ora, per tranquillizzarmi mi diedero il megafono e mi dissero di non fare altro che cantare Bella ciao e io così feci. Ad un certo punto iniziarono le cariche, lacrimogeni che non ti lasciavano respirare e spintoni, urla… alcuni ragazzi cercarono di proteggermi e ci nascondemmo dentro una Chiesa. Sentivo battere le mani sul portone della chiesa, gente come noi che chiedeva aiuto e il parroco fece quello che umanamente poteva fare, accoglieva le persone e chiudeva subito il portone. Mia madre restò scioccata da tutto questo, tanto che al rientro scrisse al presidente della Repubblica. Ricordava di quando era giovane e ai cortei partecipavano personaggi importanti del panorama politico, invece a Genova non c’era nessuno, eravamo soli. Durante le cariche pensa che io dissi a tutti: “Perché non chiamiamo la polizia?”. Mi guardarono in silenzio, anziché rispondermi “povera scema, la polizia c’è ma ci sta inseguendo”. Grazie a quel giorno io compresi che la lotta per i diritti non sarebbe stata facile, ma mi avrebbe portata sempre nella giusta direzione. Ho ascoltato tuo figlio, ho rivisto me quando ero ragazzina, la voglia di gridare, di dire al mondo “ci sono, anche per gli altri”. Un abbraccio a te e tuo figlio.

L.

 

E un abbraccio da me e dal vendicatore “mascherinato”.

 

Inciucio. Da Draghi a Salvini (senza Conte e Zinga). Il Meeting Cl di Rimini promuove l’unità nazionale

Il nome più forte non compare nel programma presentato venerdì scorso alla presenza, tra gli altri, del governatore dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, “destro” post-renziano che aspira alla leadership del Pd.

Il nome, cioè, dell’ex presidente della Bce Mario Draghi. Dovrebbe essere lui, infatti, l’ospite più prestigioso e atteso della breve edizione post-Covid del tradizionale Meeting ciellino di Rimini, dal 18 al 23 agosto. E l’invito che gli è stato recapitato dal numero uno del Meeting, Bernhard Scholz, riguarda soprattutto il profilo da super-premier di un governissimo di unità nazionale incarnato da Draghi. Ché questa sarà soprattutto un’edizione “preparatoria” della svolta autunnale sperata dal Sistema. Del resto il raduno annuale di Comunione e Liberazione, per l’intera Seconda Repubblica, è stato l’incubatore perfetto per il dialogo bipartisan tra il centrodestra di B. e il centrosinistra.

L’arrivo di Draghi, sempre che l’ex governatore di Bankitalia non ci ripensi, fa il paio con il dibattito clou della politica previsto per il 21 agosto. A discutere sul fondamentale quesito “Il Parlamento serve ancora?” sono stati “invitati” (anche per loro la presenza non è sicura) Maria Elena Boschi per Italia Viva; Graziano Delrio per il Pd; Luigi Di Maio per il M5S; Matteo Salvini per la Lega; Giorgia Meloni per Fratelli d’Italia; Roberto Speranza per Articolo 1; infine Antonio Tajani per Forza Italia. Qualora Di Maio dovesse accettare, sarebbe la prima volta in assoluto di un leader pentastellato al Meeting. Non solo, dagli ambienti ciellini trapela che l’invito è stato rivolto direttamente al ministro degli Esteri, scavalcando volutamente l’attuale reggente del Movimento, Vito Crimi. Così come sono stati “ignorati” i due avversari principali del governissimo di unità nazionale: il premier Giuseppe Conte, ovviamente, e il segretario del Pd Nicola Zingaretti.

La quarantunesima edizione del Meeting si svolgerà con un format variabile – alcuni incontri live, altri online – e la consueta frase a tema quest’anno è del filosofo ebreo Abraham Joshua Heschel (1907-1972): “Privi di meraviglia restiamo sordi al sublime”. Oltre alla torsione “unitaria” e post-contiana, i dibattiti sono all’insegna del regionalismo più spinto, nel solco della sussidiarietà “sanitaria” predicata da Cl e che ha partorito il modello Formigoni in Lombardia. A due riprese, il 21 e il 22 agosto interverranno tanti governatori (e anche in questo caso spicca l’assenza di Zingaretti, stavolta come presidente della Regione Lazio): Vincenzo De Luca, Michele Emiliano, Attilio Fontana, il citato Bonaccini, Luca Ceriscioli, Nello Musumeci, Jole Santelli, Giovanni Toti, Luca Zaia, Massimiliano Fedriga.

Governissimo e regionalismo: il tutto irrorato da fiumi di sano europeismo dem con Paolo Gentiloni, commissario Ue agli Affari economici; David Sassoli, presidente del Parlamento europeo; un probabile collegamento video con l’europremier Ursula von der Leyen. A completare la “delegazione” del Pd in altri incontri saranno i ministri Roberto Gualtieri e Paola De Micheli, la sottosegretaria Anna Ascani, il sindaco di Milano Beppe Sala.

 

Dalla galera di Pellico alla New York di Edgar A. Poe

“È irritabile, schietto, generoso, cavalleresco, molto attaccato ai suoi amici, e si aspetta da loro la stessa devozione, l’amore per il suo Paese è sconfinato, ed affronta con entusiasmo il compito di diffondere in America la letteratura italiana”. Così Edgar Allan Poe, a Nuova York uno degli intellettuali di punta, descrive Piero Maroncelli distinto musicista e letterato di Forlì (1795-1846) noto a tanti per l’eroica detenzione nel cupissimo carcere austro-ungarico dello Spielberg dove senza anestesia una gamba gli era stata amputata per un tumore. E lui, resistendo senza un grido, compensò il vecchio cerusico con un sorriso e una rosa. Così nelle Mie Prigioni il compagno di Carboneria e di supercarcere Silvio Pellico.

Ginnasio nella sua città studiando latino e greco, anche il francese, letteratura e musica. Viene mandato dai genitori a studiare musica a Napoli con una sorta di assegno di studio dell’Istituto cittadino di Carità, ed ha maestri quali Paisiello, Zingarelli, Gerolamo Crescentini, il più grande forse degli “evirati cantori”, insegnante straordinario pure la star Isabella Colbran, prima moglie di Rossini. Compagni di studio al Collegio di San Sebastiano, Saverio Mercadante e un basso presto famoso, il baritono Luigi Lablache, napoletano. È la Napoli vivace, europea, di Gioacchino Murat.

A Forlì, dove è rientrato, l’Istituto di Carità glie chiede, come prova degli studi sostenuti, nientemeno che una Messa a grande orchestra eseguita con successo nel 1816. Nello stesso anno Maroncelli, buon violoncellista, frequenta a Bologna il Liceo Musicale col severo padre Stanislao Mattei. Vi conosce Gaetano Donizetti (1797), già amico di Gioachino Rossini.

Il suo trasferimento a Milano e l’impegno nella Carboneria avranno l’esito che sappiamo: arresto, processo, condanna all’incatenamento nel cupo Spielberg. Ne esce infiacchito e invecchiato, ma certamente non domato. Edgar Allan Poe lo descrive “piccolo e magro. La fronte piuttosto bassa ma ampia. Gli occhi sono azzurri e stanchi. Il naso e la bocca sono larghi. I suoi lineamenti hanno tutta la mobilità italiana; l’espressione è animata e piena di intelligenza. Parla velocemente e gesticola all’eccesso”. In Italia non è potuto rimanere. A Roma lavora come medico, unico sostentamento della famiglia, il fratello Francesco, ma la polizia pontificia è spaventata dall’effetto “patriottico” di un eroe, emblema vivente della repressione austro-papalina. Anche il fratello Francesco viene arrestato e subito dopo decidono di prendere nel 1831 a Livorno il mare per Tolone e poi la strada di Parigi. Dove al dispotico Carlo X è succeduto un Borbone di Sicilia, Louis-Philippe d’Orleans detto Philippe Egalité.

Maroncelli viene accolto con simpatia dai fuorusciti italiani, in specie nel salotto di Cristina Trivulzio di Belgiojoso, esule anch’essa, dove incontra il meglio della cultura francese e pure musicisti quali Listz,Rossini, Bellini. Nel 1833 pubblica le sue Addizioni alle Mie Prigioni del Pellico, senza però conquistare il vasto pubblico. Parigi poi è piena di spioni austriaci. Maroncelli ha un disperato bisogno di soldi. La stessa regina Amalia si interessa per fargli avere un sussidio, ma senza esito. Il fratello Francesco, medico, finisce per esercitare la professione soltanto fra i fuorusciti quindi con scarsi guadagni. Piero ha però incontrato una giovane, deliziosa, brava cantante, Amalia Schneider.

I due si sposano e scelgono nel 1833 per l’avventura americana. E a New York diventano grandi amici dell’ottuagenario Lorenzo da Ponte, librettista della trilogia italiana di Mozart. Insegna italiano, ha aperto una biblioteca italiana, ha un piccolo teatro nel quale ospita compagnie soprattutto italiane. Ad uno dei più celebri libertini fra ’700 e ’800 – che per Don Giovanni ha chiamato a Praga, dove si dava la “prima”, quale consulente l’amico Giacomo Casanova – uno dei nuovi ricchi di New York ha detto: “Io in genere all’opera dormo, mi svegli lei quando c’è una bell’aria”. La sera di Don Giovanni Da Ponte nota però che il miliardario non chiude occhio. Perché? “A don Giovanni non si dorme”, risponde quello sicuro. Da Ponte e Maroncelli diventano tanto amici da sottoscrivere l’atto di costituzione della New York Philarmonic Orchestra (l’ho fatto verificare presso quell’archivio storico).

La carriera di cantante della moglie procede. Nel 1835 nasce loro una figlia, Silvia. Piero incrementa sempre più la propria già cospicua collezione di libri musicali. Ormai è tutto bianco. Purtroppo quando egli spira, la stessa verrà venduta per poter pagare i debiti e Poe parlerà di “una vera perdita per la cultura di New York”. In quegli ultimi anni coltiva l’utopia socialista di Saint-Simon e di Fourier. Lo scrittore americano Epes Sargent che lo conosce a Boston, ormai con le grucce, riferisce un pensiero sempre attuale di Maroncelli: “L’Italia rimarrà schiava finché i suoi figli saranno ignoranti ed egoisti”. Muore nel 1846. Le sue ceneri riposano a Forlì.

Il tradimento dei chierici che non salvano l’ambiente

Martedì 7 luglio il Consiglio dei ministri approva il decreto Semplificazioni. Ancora ieri, gli uffici del Mibact (cui l’ho domandato come membro del Consiglio Superiore dei Beni Culturali) mi comunicavano che non ne esiste un testo definitivo, e che le bozze commentate negli scorsi giorni sui quotidiani sono tutte ampiamente superate in nodi cruciali. Mentre sembra evitato l’abisso di un nuovo condono edilizio, per di più delegato ai comuni, rimangono incerte le norme sulle autorizzazioni paesaggistiche, sulle valutazioni di impatto ambientale, su punti cruciali dell’edilizia (tra cui quello che concederebbe di mettere le mani sui centri storici, bomba libera tutti per la speculazione edilizia). E sulla testa del patrimonio culturale continua a incombere il silenzio assenso: che farebbe funzionare la burocrazia non nell’unico modo sano (assumendo le migliaia di storici dell’arte, archeologi e architetti che oggi consegnano le pizze), ma spianando la strada ai vandali.

Lavori pubblici, passerelle e il senso della modernità

Il senso del decreto è riassunto nell’elenco di 130 Grandi Opere che dovrebbero “portare l’Italia nel futuro”, secondo il presidente del Consiglio Conte. Una chiave di lettura esaltata, sul piano simbolico, dalla scena in cui l’“avvocato difensore del popolo” venerdì scorso schiaccia il pulsante che alza le paratie del Mose a Venezia, dichiarando (con una faccia tosta degna di Alberto Sordi): “Non siamo qua per fare passerelle”. Agli ambientalisti che protestano, Conte risponde: “Di fronte all’ultimo miglio la politica si assume le proprie responsabilità e decide che con un ulteriore sforzo finanziario si completa, e si augura che funzioni”. La cassa aperta e il corno rosso in mano: intramontabile ritratto dell’impotenza politica italica.

Sono decenni che la bandiera delle semplificazioni viene sventolata: da tutti, da Berlusconi a Renzi. Naturalmente si gioca sull’equivoco: si lascia intendere che ad essere semplificata sarà la vita del cittadino, che conterà di più. E invece a contare sempre di più sono pochi centri di interesse e potere (a garantire i quali servono i commissariamenti delle grandi opere), e ad essere più semplice è la devastazione dell’ambiente (e dunque della salute) dei cittadini.

Io, che sono un ingenuo, continuo a sbalordirmi (e a incazzarmi) per il tradimento senza fine del Movimento 5 Stelle. Nel metodo: un Movimento che in nome della democrazia diretta sta pesantemente contribuendo al vilipendio del Parlamento, accetta poi che un decreto decisivo per il futuro dell’ambiente venga scritto nemmeno dall’esecutivo, ma dalla sorda burocrazia ministeriale che a parole si vorrebbe combattere. È la corridoiocrazia, perché è nei corridoi romani del potere che in queste ore si tolgono e si mettono commi: in una oscurità democratica in cui le lobbies del cemento ottengono quello che vogliono.

E poi nel merito. Perché dopo anni di seminari in cui il Movimento invitava a parlare tutto il pensiero critico ambientalista, quando è arrivato al governo tutto questo si è squagliato come neve al sole. La protesta era creativa e sorretta dalla conoscenza dei luoghi, dalle lotte dei comitati e dagli esperti, almeno quanto il governo è delegato all’eterna burocrazia romana e ai grumi di interesse privato. Prima il Movimento si è fatto complice della resurrezione del Tav in Val di Susa e ora blinda una lista in cui si allineano pressoché tutte le Grandi Opere contestate dai suoi meetup fondativi.

Non c’è traccia, nell’elenco di Conte, dell’unica Grande Opera utile, la messa in sesto del dissestatissimo territorio italiano: l’unica cosa che una politica che davvero si assumesse le proprie responsabilità, dovrebbe decidere. Non si arrestano le frane, non si governano i fiumi, non si fa manutenzione nelle foreste (anzi, secondo Italia Nostra le si minaccia mortalmente). E poi non si pensa alle aree interne, all’Italia dei margini, ai borghi spopolati da riabitare. Né c’è traccia dell’altra Grande Opera davvero vitale: trovare aule scolastiche per un milione di alunni. Ma invece ci sono, tra l’altro, tutti i totem dei renziani: l’aeroporto e lo sventramento Tav di Firenze e la maledetta Tirrenica.

Il simbolo di questa gattopardesca perpetuazione dell’ovvio consumo di Italia è proprio quel Mose a cui Conte ha voluto legare così indelebilmente la propria persona. Bisognava avere la forza di dichiararlo perento, di prendere atto che non funziona già e non funzionerà mai, e di destinare il fiume di soldi, che il Mose continuerà a mangiare per decenni, alla manutenzione della Laguna, tracciando finalmente una via sostenibile per il futuro della morente Venezia. Invece, nulla: l’inerzia conservatrice del Pd si è definitivamente mangiata i Cinque Stelle, mentre Conte semplifica proprio come Berlusconi e Renzi, augurandosi “che funzioni”.

Saranno le piogge, le alluvioni, le frane e le relative, (in)evitabili morti del prossimo autunno a dirci che, come sempre, non funzionerà.

La sai l’ultima?

 

Va in questura a rifare la carta d’identità ma viene arrestato: era ricercato da un anno
Viaggio in questura: solo andata. Un cittadino torinese che aveva smarrito i documenti si è presentato agli uffici di via Grattoni per ottenere un duplicato della carta d’identità, come scrive il Quotidiano Piemontese. Non una brillante idea: il nostro era ricercato dalla polizia da più di un anno. Nella banca dati della questura infatti risultava un ordine di esecuzione per la carcerazione risalente a luglio 2019. L’uomo era a tutti gli effetti ricercato, ma essendo senza fissa dimora e disoccupato era riuscito a evitare l’arresto. Prima di consegnarsi, di fatto, spontaneamente. Non è nemmeno il primo caso del genere: a marzo era successo un episodio identico ad Ascoli Piceno. Un 28enne pachistano si era rivolto alla questura locale per ottenere dei documenti in arrivo da Arezzo. Così è venuto fuori che nella città toscana il ragazzo era ricercato per una condanna di 2 anni per reati contro il patrimonio. Pure lui è finito in carcere. È un viziaccio criminale, farsi fare la carta d’identità.

 

Il titolo della settimana Libero: “L’amore secondo Boldi Cipollino, per sempre devoto. L’attore lascia la fidanzata”
Tra le tante perle della settimana, si segnala sulle colonne di Libero il ritratto sentimentale di Massimo Boldi, noto intellettuale e avanguardista del cinema italiano. Il tema sarebbe pure serio, perché Boldi a cuore aperto racconta il ricordo doloroso della moglie scomparsa. Ma la cornice che ci mette intorno Libero è naturalmente spettacolare e cialtronesca. A partire dal titolo, meraviglioso: “Cipollino, per sempre devoto”. Ovvero: “L’amore secondo Boldi”. L’ex spalla di Christian De Sica ha raccontato in un’intervista a Oggi di aver lasciato la sua fidanzata – la 40enne Ilaria Fornaciari, di trent’anni più giovane – proprio per il ricordo struggente della consorte defunta. Vittorio Feltri ha giustamente ritenuto di dover riprendere tanta notizia sul suo giornale. Per raccontarci del “destino, in certo modo tragico, di un grande comico”. “Un bravo sceneggiatore da questa vicenda avrebbe tratto un bellissimo, commovente film”. Il devoto Cipollino.

 

Stati Uniti, porta i topi in albergo per non pagare la stanza. Ora però rischia di andare in prigione
Uomini e topi, come nel romanzo di Steinbeck. In questo caso però i roditori sono quelli che un simpatico signore dello Utah – lo stato mormonico degli Usa – portava con sé per truffare gli alberghi dove andava a dormire. Secondo la polizia il trentasettenne Ryan Sentelle State aveva un piano consolidato: faceva il check in tenendo topi e criceti nascosti dentro ai bagagli, poi li liberava nella stanza. Dopo qualche ora chiamava il personale dell’albergo per lamentarsi dell’igiene, mostrando gli escrementi e in alcuni casi i roditori stessi. Con questo misero espediente riusciva a non pagare. Meglio che minacciare recensioni negative su Tripadvisor. Alla fine però il giochetto è stato scoperto, come scrive l’emittente locale Kutv. Anche perché il genio della truffa non era esattamente un incensurato: su di lui pendevano già altre due accuse di truffa. Per il signor State rischiano di aprirsi del carcere. E stavolta purtroppo non dovrà portarsi i topi da casa.

 

Siena, grosso maiale abbandonato sulla strada statale Interviene la polizia per metterlo in salvo: sta bene
C’è chi si scorda un mazzo di chiavi e chi si perde un suino di un paio di quintali. Qui parliamo del secondo caso: succede a Siena, dove la polizia locale è stata impegnata nelle operazioni di salvataggio di un maiale abbandonato sulla strada. La bestia, più o meno come in una barzelletta di Gigi Proietti, era caduta dal carrello di un’autovettura senza che il proprietario se ne accorgesse. Le telefonate di alcuni cittadini allarmati hanno segnalato la curiosa presenza di un maiale sulla carreggiata della strada statale 73 Ponente a Costalpino. L’animale “di grosse dimensioni” – come scrive Adnkronos – era finito nell’area adiacente ad un parcheggio. “Non è stato facile per i poliziotti agganciare con una corda il maiale per metterlo in salvo ed in sicurezza – scrive l’agenzia –. Una volta legato si sono subito assicurati che stesse bene e, a parte qualche lieve escoriazione, hanno constatato che non aveva nulla di rotto”. Un grande sospiro di sollievo, la porchetta è solo rimandata.

 

Rimini, adesca una donna ma scopre che è una trans: tra il cliente e la prostituta scoppia una rissa furibonda
A metà tra un racconto di Tondelli e La Zanzara di Cruciani, c’è una struggente storia d’amore e violenza che si svolge su e giù per la via Emilia. Leggiamo il titolo da Rimini Today: “Padre di famiglia cerca una lucciola ma si trova a letto con un trans, parapiglia nel residence”. Il protagonista, come avrete capito, è un classico marito italiano. 55enne bresciano in vacanza sulla riviera romagnola, ha aspettato che moglie e figli tornassero a casa in Lombardia e si è andato a cercare un po’ di sesso mercenario. “Forse per combattere la noia – leggiamo – il 55enne ha concordato una prestazione sessuale per 30 euro” con quella che credeva una prostituta “ed entrambi si sono avviati al residence per consumare”. Tornato in stanza, l’uomo ha fatalmente scoperto la natura sessuale della sua partner. Ritenendosi in credito, il bresciano avrebbe chiesto alla trans di rimediargi un po’ di cocaina. Poi, in mancanza dello stupefacente, è iniziata una rissa furibonda, tra pugni e colli di bottiglie rotte. e in ospedale, sono stati denunciati entrambi.

 

Un gatto si addormenta nel cestello della lavatrice però sopravvive per miracolo a un ciclo di 12 minuti
In questa pagina vi raccontiamo ogni settimana, con un certo orgoglio, i record più inutili e bislacchi del mondo (ricorderete ad esempio l’uomo che è rimasto con il volto coperto da uno sciame di api per oltre quattro ore). Per la prossima notizia non crediamo che esista un’apposita categoria del Guinness dei primati, ma eventualmente il gatto Oscar potrebbe sottoporre la sua candidatura. Il felino infatti è sopravvissuto a un bagno nella lavatrice dei suoi padroni, una coppia di Mudjimba, località di mare australiana. Ogni tanto sucmacede, ma raramente i proprietari vanno a raccontarlo ai giornali: quando si chiude il portellone della lavatrice, il gatto che rimane dentro è un gatto morto. Stavolta è successo il miracolo: il felino è sopravvissuto a un ciclo di lavaggio di 12 minuti. La “mamma” di Oscar l’ha raccontato a Abc News: “Il mio povero micetto aveva le zampe sul vetro della lavatrice, mentre la centrifuga ruotava. Mi guardava. È stato terribile”. E invece il gatto è uscito come nuovo. O lavato con perlana.

 

Ansia da lockdown Ventenne greco ha nostalgia di casa: parte dalla Scozia in quarantena e arriva ad Atene in bicicletta
La lunghissima quarantena da Covid ha regalato un sacco di storie interessanti da ogni angolo del mondo. Il Mirror ci racconta quella di un ragazzo greco che è partito in bicicletta da Aberdeen, in Scozia, per tornare a dai suoi genitori ad Atene. Il 20enne Cleon Papadimitriou, a quanto pare, aveva nostalgia di casa e non ce la faceva più a restare chiuso in una stanza nella città dove è andato a studiare per l’università. Così ha preso la sua bici, si è caricato un bagaglio di 30 chili sulle spalle e ha iniziato il suo viaggio. È partito da Aberdeen il 10 maggio, ha preso un traghetto per l’Olanda, poi ha attraversato in bicicletta Germania, Austria e Italia, dove ha preso una seconda nave per Patrasso. È arrivato ad Atene dopo 7 settimane di viaggio, durante le quali ha dormito in tenda e si è cibato per lo più di pane, burro e alici. D’altra parte, dopo questo modesto sforzo ha potuto riabbracciare i genitori. “Ho un po’ di mal di sella – ha commentato Cleon alla fine dell’avventura – ma tutto sommato sto bene”.

Himalaya. India, Modi giura vendetta al rivale di Pechino

Se è vero che i conflitti tra le grandi potenze spesso deflagrano dove nessuno se li aspetta, sarà saggio non perdere di vista la regione hymalayana formata dal Kashmir e dal Ladakh. Montagne altissime, incombenti su villaggi c schiacciati dall’enormità del paesaggio. l più alto terreno di battaglia della storia (dai 4000 ai 6000 metri), secondo una nomea che torna ad essere attuale. Laggiù ne stanno accadendo di tutti i colori.

L’ultimo episodio all’inizio di luglio, quando alcune centinaio di soldati cinesi e indiani si sono affrontati con mazze e pietre nell’incerta zona-cuscinetto nella valle di Galwan che separa India e Cina dal 1962, l’anno della guerra sino-indiana. Ignote le perdite cinesi, quelle indiani assommano a venti morti, molti dei quali scaraventati nell’abisso che costeggia il luogo di quell’antica battaglia. Nell’accordo di fine-delle-ostilità raggiunto da Pechino e da Delhi, l’India ha accettato di arretrare i suoi attendamenti di un chilometro. Questo dato tecnico ha scarso valore militare ma ha una ricaduta simbolica: il governo di Nareendra Modi di fatto ha accettato le imposizioni cinesi. Modi ha giurato che l’India si vendicherà. Al momento può rifarsi sulla popolazione del Kashmir, cui un anno fa ha strappato la larga autonomia e inflitto ulteriori restrizioni dei diritti, inclusa una legge che reprime come fake-news le notizie ‘contrarie allo spirito nazionale’. In aggiunta ai guerriglieri che combattono per il Pakistan la sua guerra per procura un numero crescente di civili kashmiri sta impugnando le armi contro l’esercito indiano (229 morti in scontri occorsi nei primi sei mesi del 2020), i cui metodi secondo Amnesty includono stupri. tortura e omicidi. L’indipendentismo kashmiro vuole liberarsi dell’India ma anche della tutela pakistana. Quanto alla Cina, teme che il recente attestarsi nel Ladakh dell’esercito indiano minacci il traffico di merci cinesi dirette al porto pakistano di Gwadar, nell’Oceano indiano, primo segmento di quella nuova ‘via della seta’ che non piace ai due nuovi partner, Modi e Trump.

 

In Egitto i medici non sono eroi: anzi, finiscono pure in prigione

Imedici del Cairo si sono radunati a qualche centinaia di metri dalla piazza Tahrir lo scorso 27 giugno, circondati da decine di agenti delle forze dell’ordine. La conferenza stampa del sindacato che doveva essere trasmessa in diretta Facebook è stata annullata, ufficialmente per “motivi tecnici”. Ma “il vero motivo è stato politico”, ci ha detto un sindacalista. Quel giorno un medico del delta del Nilo, Mohamed Fawal, è stato arrestato per “appartenenza a un gruppo illegale” e “diffusione di notizie false”. Tre giorni prima, Fawal aveva duramente criticato il primo ministro egiziano, Moustafa Madbouli, per il quale se l’epidemia di Covid-19 continua a crescere in modo esponenziale in Egitto, dove il virus ha ucciso almeno 3.300 persone, è per colpa dell’assenteismo dei medici. “Ci insulta accusandoci di contagiare e di uccidere le persone! Il governo ha fallito e sta cercando di scaricare su altri le sue responsabilità. Nelle ultime settimane – dice Khaled Samir, docente di medicina -, gli ospedali sono stati sommersi dai pazienti. Ma il governo sostiene che gli ospedali sono occupati solo al 23% e rifiuta di aprire delle strutture da campo”. Samir è medico chirurgo all’ospedale Aïn Chams del Cairo occupato al 90% da pazienti malati di Covid-19. Dopo le parole del primo ministro, il sindacato dei medici ha chiesto al governo delle scuse pubbliche ricordando “l’eroismo e i sacrifici” dei camici bianchi. Da settimane il profilo Facebook del sindacato si è trasformato in necrologio. Ogni giorno vi compaiono nuovi volti su sfondo scuro con la scritta “martire”. Da marzo, almeno 106 operatori sanitari sono morti di Covid-19 e più di 900 sono stati contagiati, secondo il sindacato. Il ministero della Salute rifiuta da due mesi di rivelare il numero reale delle vittime. Ufficialmente i medici e gli infermieri morti di Covid-19 sono solo undici. In Egitto, dove si pensava che l’epidemia non sarebbe arrivata per via dell’età media molto bassa della popolazione (il 60% ha meno di 30 anni), l’elevato numero di morti tra gli operatori sanitari, vicino a quello registrato in Italia (dove sono morti circa 200 sanitari), è diventato un segnale d’allarme. Il pediatra Mohamed Hashad, morto a 35 anni a giugno, è diventato il simbolo dell’abnegazione di un’intera professione.

Pochi giorni prima della sua morte, un collega lo aveva fotografato mentre saliva le scale dell’ospedale portando a mano un’enorme bombola di ossigeno. “Ho paura di morire, ma è mio dovere lavorare e non conosco nessun medico che ha smesso di lavorare, contrariamente a quanto sostiene il governo”, osserva un medico generico, che ci dice di essere remunerato 150 euro al mese. “Non vedo più la mia famiglia e non parlo più ai vicini per evitare di contaminarli”, aggiunge il giovane dottore, sulla trentina, che si è messo in isolamento di sua iniziativa per quattordici giorni dopo aver sviluppato i sintomi del Covid. Ma, avendo solo febbre e tosse, non può sottoporsi al tampone, riservato ai casi più gravi. I medici egiziani denunciano in tutto il paese la carenza di mascherine e di tute. Il governo, che in un primo tempo ha promesso loro dei compensi bonus, è passato alle minacce. Il sito di informazione al Manassa ha rivelato che un responsabile del ministero della Salute ha minacciato di portare davanti al tribunale militare i medici che osavano protestare. È stato inoltre ordinato a tutti i medici, indipendentemente dalla loro specializzazione, di farsi carico dei pazienti Covid e di rimandare a casa tutti gli altri. La capo redattrice di al Manassa è stata arrestata il 25 giugno scorso. Le minacce a parole si sono trasformate in atti. Da dati di Amnesty International, oltre al sindacalista fermato il 27 giugno, sono stati arrestati da marzo in Egitto sei medici e due farmacisti. Il crimine commesso? Avere espresso timori e rabbia nel vedere l’esercito egiziano inviare casse di mascherine in Italia e negli Stati Uniti mentre non ce n’erano abbastanza per gli egiziani. Ormai, dall’elezione del maresciallo Abdel Fattah al-Sissi nel 2014, e col pretesto della lotta contro il terrorismo, la legge egiziana consente di mettere in prigione, senza processo, per “attacco alla sicurezza nazionale” chiunque si mostri critico nei confronti del governo. Un membro del comitato dei giovani medici è “scomparso” per una settimana, sequestrato dalle forze di sicurezza. Un clima di paura si è instaurato negli ospedali dove, secondo i sindacati, la pressione e le sanzioni disciplinari sono in aumento.

“Molti operatori sanitari preferiscono pagare di tasca propria i dispositivi personali di protezione per evitare di essere sanzionati. Ci costringono a scegliere tra la prigione e la morte”, denuncia un membro del sindacato dei medici nel rapporto di Amnesty. I medici dell’ospedale Mounira, al Cairo, volevano cominciare a fare sciopero dopo la morte di un collega di 32 anni. Per dissuaderli sono intervenuti degli agenti della polizia politica. I media asserviti al potere hanno inoltre accusato i medici ribelli di appartenere al movimento dei Fratelli Musulmani, un’organizzazione classificata come terrorista dal ritorno dei militari al potere. Secondo i bollettini ufficiali, quasi 74 mila persone sarebbero state contagiate dall’inizio dell’epidemia in Egitto. Ma i numeri sono molto al di sotto della realtà anche per il ministro egiziano dell’Istruzione superiore, Khalid Abdul Ghaffar, per il quale il numero effettivo di contagi deve essere tra cinque e dieci volte superiore. All’ospedale Bakri del Cairo, una delle 440 strutture del paese autorizzate a ricevere pazienti malati di Covid-19, i tamponi si fanno col contagocce. “La metà dei pazienti che muoiono con i sintomi del nuovo coronavirus non vengono conteggiati. Con molti infermieri ammalati, anche i laboratori di analisi sono a corto di personale, i tamponi effettuati sono pochissimi e ci vuole quasi una settimana per ricevere i risultati”, spiega il ginecologo Hamada al-Jiouchi. L’afflusso di pazienti negli ospedali è cresciuto da fine maggio. Da un giorno all’altro il governo ha decretato che quasi tutti gli ospedali pubblici del paese avrebbero ormai dovuto farsi carico dei pazienti Covid, fino a quel momento inviati solo in alcune cliniche specializzate. Ma questi centri, mal preparati e spesso reticenti ad accogliere questi malati, si sono trasformati in focolai e nel giro di poco tempo erano già saturi. “È una catastrofe sanitaria. Ogni giorno 500 malati si presentano in ospedale, ma noi possiamo ricoverarne massimo una decina, se sono abbastanza fortunati da arrivare quando si liberano dei letti”, aggiunge il medico. Un giorno, racconta, si è trovato a dover trasferire d’urgenza una donna che aveva appena partorito per non farle incrociare i malati in fila che tossivano. “Il 70% del personale medico è contagiato. Dal momento che non ci sono abbastanza letti per tutti, alcuni pazienti tentano di corromperci”, dice Mariam (nome di fantasia), un’infermiera dell’ospedale copto del Cairo. Intanto su Facebook si moltiplicano le richieste di aiuto. Una dottoressa disperata di Assuan ha scritto di essere stata costretta a “scegliere” quali pazienti salvare a causa della carenza di respiratori. Nonostante il numero dei contagi sia in aumento, il governo, per paura di una crisi economica ancora più devastante, ha deciso di allentare il coprifuoco e di far ripartire molti settori dell’economia. Caffè, ristoranti, cinema e luoghi di culto sono stati parzialmente riaperti. Un sollievo per migliaia di lavoratori sprofondati nella miseria dal lockdown. “Lo Stato dovrebbe trasformare scuole, moschee, campus universitari in ospedali da campo per poter assorbire tutti i pazienti”, propone Hamada al-Jiouchi, diplomato alla facoltà islamica dell’università Al-Azhar. Ma le autorità restano sorde alle critiche e ai consigli dei medici e si mostrano anzi soddisfatte. Stando all’ufficio stampa del governo egiziano, sentito dall’agenzia Reuters, la gestione della crisi sanitaria in Egitto è “una delle migliori al mondo”.

(Traduzione Luana De Micco)