Servizi, città, scuola, nuove reti Lo sviluppo che serve all’Italia

Il successo di un programma di politica economica per lo sviluppo presuppone obiettivi definiti e strumenti appropriati. Nel 1954 il Piano Vanoni si propose di promuovere lo sviluppo economico scegliendo come “motore” l’industrializzazione, in particolare del Mezzogiorno, sostenuta da grandi investimenti, privati e pubblici, nella nuova industria leggera, nell’industria di base, nelle infrastrutture, e da un più alto e diffuso livello di scolarizzazione. Il “miracolo” seguì questa strada.

L a Fase 3 è un convoglio carico di proposte disparate, ma è privo di un “motore”. Da decenni la politica economica è così condizionata dall’obiettivo di breve periodo della riduzione del rapporto debito/Pil che ha perso di vista ogni prospettiva di lungo periodo. Non sorprende quindi che Fase 3 sia una miscela un po’ confusa di interventi “keynesiani” per recuperare la crescita persa per covid19 – pensiamo alla riduzione delle imposte, ai trasferimenti di reddito ai lavoratori e alle famiglie, etc. – e di altri per uno sviluppo i cui non si spiega la natura.

Negli ultimi trent’anni il punto debole dell’economia italiana è stata la stagnazione della produttività, non imputabile all’industria ma all’inadeguatezza di alcune reti infrastrutturali e soprattutto alla staticità del terziario, settore che dà lavoro a circa il 70% degli occupati troppo poco produttivi. Un ragionato progetto di sviluppo deve avere come obiettivo il miglioramento delle reti e dei servizi pubblici, a partire dal Mezzogiorno: non vi sarà sviluppo nazionale se il Mezzogiorno non cambia.

Per infrastrutture il governo sembra intendere le grandi opere, elevatissime spese ad alta resa politica ma a bassa resa di sviluppo, se si eccettua la rete nazionale delle fibre ottiche, nuovo sistema nervoso di un’economia aggiornata e più produttiva. Non sono le gettate di cemento, le rotaie e le gallerie – circa l’80% dei costi dell’Alta Velocità – a rilanciare la produttività. Una nuova Alta Velocità sarebbe una costosissima e poco frequentata “cattedrale nel deserto”, un tempio dello speco. Servono opere più fertili di sviluppo. Penso al miglioramento delle reti esistenti di trasporto, delle reti idriche, del sistema di gestione dei rifiuti, e soprattutto a nuovi investimenti per la difesa dell’ambiente, del patrimonio artistico e paesaggistico che migliorano la qualità della vita e sollecitano ricerca e innovazioni tecnologiche, e quindi la produttività.

Oggi l’industrializzazione non è più la priorità. L’industria ha confermato di disporre di una propria forza e deve essere aiutata essenzialmente nella riqualificazione tecnologica e ambientale dei settori in più evidente declino: la metallurgia è un esempio. Il nuovo sviluppo passa per i servizi. Qui le priorità sono due. La prima riguarda i servizi pubblici. L’insostenibile pesantezza della burocrazia viene affrontata con la presunta semplificazione delle procedure, ma non sarà certo il diritto amministrativo ad alleviarla, quanto piuttosto l’abbandono del modello organizzativo di tipo militare della pubblica amministrazione, che la genera. Le condizioni in cui versa l’intero sistema dell’istruzione e della formazione gridano vendetta. Le sue carenze non stanno tanto nei vetusti edifici scolastici, a cui si pensa soprattutto per aiutare l’edilizia, quanto nei contenuti formativi e nei sistemi didattici da rinnovare, e nel personale docente da aggiornare e incentivare. La scuola è una peculiare macchina che produce i propri input (i futuri docenti): se peggiora la qualità della formazione peggiorano anche i docenti, e viceversa. Si parla pure giustamente di riforma della giustizia. Sulla produttività del sistema delle imprese pesa la lentezza delle procedure civili e fallimentari: una loro riforma dovrebbe considerare l’efficienza economica.

Infine e non ultime vengono le grandi città del Nord, Centro e Mezzogiorno. In Italia è mancata una politica nazionale per rimodernarle, renderle più attraenti e produttive. Nei Paesi in cui questa politica è stata implementata le città, distretti in cui si addensano risorse giovani e competenze innovative, sono state i veri motori di uno sviluppo in cui i servizi avanzati hanno un ruolo essenziale. Traccia di questa prospettiva si trova nella riforma del Titolo V della Costituzione dove si parla di “città metropolitane”. Sono però mancati la legislazione applicativa e i fondi per procedere. Le grandi città italiane hanno la capacità di riprogettarsi, ma è necessario che il governo centrale legiferi e aiuti a finanziarne i progetti.

Per promuovere lo sviluppo è necessario spendere, ma ancor più avere idee precise su cosa lo muove.

Telestalking. La stretta contro le chiamate moleste è ferma

Ci sono ancora 5 mesi scarsi di tempo, ma tutto porta a pensare che non basteranno per arginare la più grande politica di violazione dei diritti del consumatore. Il primo dicembre dovrebbe entrare in vigore la nuova e più forte tutela contro il telemarketing selvaggio (sul mercato i dati personali dei clienti si comprano a 5 centesimi a nominativo), il cui iter di approvazione è iniziato nel 2017. Peccato che un paio di settimane fa il Consiglio di Stato abbia espresso perplessità sul decreto del ministero dello Sviluppo economico che rivoluziona il Registro delle opposizioni e dovrebbe consentire di iscrivere attraverso una facile procedura via web o al telefono 117 milioni di numeri fissi e mobili non riportati oggi negli elenchi telefonici pubblici e di cancellare le autorizzazioni date in precedenza e di solito inconsapevolmente magari con la sottoscrizione delle tessere fedeltà al supermercato. Eppure si si tratta di un regolamento che, dopo tanti rinvii, ha avuto l’ok dal Consiglio dei ministri lo scorso gennaio con la promessa che la stretta sarebbe iniziata 10 mesi dopo. Ma ad oggi è tutto in stand by in attesa che vengano fornite le spiegazioni richieste al Consiglio di Stato. E, solo se saranno ritenute soddisfacenti, l’iter del decreto potrà proseguire con un ulteriore passaggio parlamentare, il ritorno del regolamento in Cdm per l’approvazione definitiva e, infine, sarà la volta della sua emanazione da parte del capo dello Stato prima di approdare in Gazzetta Ufficiale. Basteranno meno di 5 mesi?

Questa la parabola della nuova legge contro il telemarketing che ancora non riesce a vietare le chiamate indesiderate a tutte le ore, di giorno e di notte, per estorcere contratti di cui non si hanno ben chiare informazioni, clausole e prezzi. Un martellamento da cui nessuno si salva: è stato bollato dal garante delle Privacy come “molestia”, senza poter fare nulla per impedirlo. Nel 2019 le segnalazioni da parte degli utenti in materia di telemarketing selvaggio sono state ancora migliaia, tanto da far inviare un appunto alla Procura della Repubblica. A febbraio Tim è stata multata per 27,8 milioni per numerosi trattamenti illeciti dei dati personali. Troppi gli interessi in ballo e poca la volontà per consentire agli addetti ai call center di lavorare con le giuste tutele, uscendo fuori dal precariato e rilanciare un settore importante per la tenuta economica del Paese.

 

Mozambico, investimenti fossili con garanzia statale

“Il tempo dei dibattiti e delle dichiarazioni è finito, oggi confermiamo di voler agire responsabilmente rispetto al presente e al futuro del nostro pianeta”, diceva dal pulpito delle Nazioni Unite il premier Giuseppe Conte, appena 10 mesi fa, il 24 settembre 2019, alla conferenza sul Clima. L’effetto “Greta” si era fatto sentire in ogni parte del mondo. Conte prometteva di “agire immediatamente per affrontare uno dei più grandi problemi esistenziali per l’umanità” e proponeva poi d’inserire in Costituzione la tutela dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile. Belle parole. Peccato che i fatti non vadano sempre insieme alle parole.

Appena tre mesi prima l’agenzia pubblica di export italiana, Sace, partecipata della Cassa depositi e prestiti (il cui azionista di maggioranza è il ministero dell’Economia) approvava una nuova garanzia da 950 milioni di dollari per l’investimento Saipem (del gruppo Eni), in Mozambico. E tre anni prima, nel 2017, un’altra garanzia pubblica di Sace da 700 milioni di dollari andava a coprire i rischi di Eni nello stesso paese africano per il gigantesco cantiere del Coral South: estrarre gas naturale nel Bacino di Ruvuma, a nord del Mozambico e trasformarlo in gas liquido in una piattaforma galleggiante da 432 metri, alta 66 metri, per poi trasportarlo nei mercati asiatici e perchè no, anche in Europa. Un’operazione da 8 miliardi di dollari dove il 30% lo hanno messo le imprese dell’oil&gas e il resto le banche private, una cordata da 15 banche (per l’Italia Unicredit e Ubi Banca) e 4 agenzie pubbliche di credito all’esportazione.

Eni è arrivata per prima in Mozambico, nel 2010. Insieme all’americana Anadarko ha cominciato a esplorare il bacino di Ruvuma, scoprendo un vero Eldorado del gas. Tra le riserve a mare e quelle a terra, ora conquistate da Total, Shell, Exxon, Saipem – si calcola che ci siano 5.000 miliardi di metri cubi di gas – il Mozambico diventa la terza riserva di gas dell’Africa, dopo la Nigeria e l’Algeria e la nona del mondo. Un tesoro inestimabile, almeno fino alla pandemia covid, che ha fatto precipitare il prezzo del gas e mettere tra parentesi l’utilità di investimenti. Tranne in Mozambico, dove le banche sanno che in caso di default dello Stato, arriva l’agenzia di export credit a coprire il buco. “Le Ecas (export credit agencies, le organizzazioni nazionali di credito) fanno soprattutto derisking: in un momento in cui il debito pubblico mozambicano era junck, spazzatura, la copertura assicurativa offerta da Sace ha permesso alle imprese di reperire fondi, a tassi ridotti, nei mercati finanziari”, spiega Alessandro Runci di Re:Common. Altrimenti le banche private non si sarebbero imbarcate in un progetto così rischioso. Nefasto per il cambiamento climatico, visto che si prevede una produzione di gas metano – 86 volte più nocivo dell’anidride carbonica su 20 anni – molto elevata in un paese come il Mozambico già tra i più vulnerabili per le catastrofi naturali legate al clima. Il premier Conte lo scorso 9 luglio ha accolto a Roma il presidente mozambicano Filipe Nyusi a Roma, elogiando “gli importanti investimenti energetici di Eni e Saipem”. Meno contente le popolazioni locali, le 550 famiglie di pescatori, sfrattate dal nuovo sito “Mozambique Lng” (Saipem) a cui sono stati dati terreni aridi nell’entroterra, a 20 km dal primo villaggio, come documenta un recente rapporto di “Friends of the Earth”. Il sito gasiero si trova tra l’altro in una zona continuamente sotto attacco dei ribelli islamisti di Al-Shabab. Il governo mozambicano ha inviato l’esercito a protezione dei cantieri, ma questo, scrive “Friends of the Earth”, non fa che aumentare il malcontento delle popolazioni locali, che vedranno tra l’latro il 90% del “loro” gas partire all’estero.

Sull’estrazione di gas naturale nel Bacino di Ruvuma, Eni ha risposto al consorzio Investigate-Europe che “il gas naturale è la fonte fossile più sostenibile in grado di favorire la necessaria transizione dall’attuale uso intensivo di carbonio, una delle leve del percorso di decarbonizzazione di Eni”. Sull’impatto sociale dei cantieri il cane a sei zampe promette di assumere almeno 800 persone nella piattaforma galleggiante e sull’utilità economica di investire nel gas oggi, la società risponde: “Eni ha già firmato accordi vincolanti per la vendita dell’intera produzione di Gnl di Coral South per almeno 20 anni”.

L’uso delle agenzie pubbliche di credito per investimenti fossili comincia a mettere in imbarazzo i governi. In Olanda, in marzo si è tenuto un vivo dibattito nel parlamento per il divieto di garanzie all’esport per le energie fossili. Ma il ministro delle finanze Wopke Hoekstra si rifiuta di approvare una riforma, in nome della concorrenza mondiale delle società olandesi. Ma di fermare le Ecas per i fossili si parla sempre di più dopo il successo della campagna per la banca europea degli investimenti che ha finalmente deciso di non versare più soldi alle energie fossili. L’Europarlamento ha approvato una risoluzione nel novembre 2019, dove chiede ai governi si seguire l’esempio della Banca europea per gli investimenti per le export agencies. Sace nel 2019 ha garantito progetti in oil&gas per il 34% del suo portafogli.

Isteria da antenne: rischi per la salute e molte fake news

È dimostrato che il 5G è un grande pericolo per la salute, che non pone alcun rischio, che le antenne 5G sono correlate ai focolai di Covid. Che porterà benefici enormi e quindi bisogna mandare giù il rospo degli eventuali rischi. Anzi no, vale il principio di precauzione: senza dati certi sugli effetti sulla salute umana ci vuole una moratoria. Ecco: quale di queste affermazioni è vera? Probabilmente nessuna completamente, escludendo le panzane totali come la correlazione tra antenne 5G e Covid. I rischi, certo, ci sono, ma giustificano il livello di isteria? No, se si guarda agli studi scientifici indipendenti.

Intantoesistono tre tipi di 5G: quello che opera alla frequenza di 700 megahertz, quello a 3.600 e l’ultimo, che genera i maggiori timori, a 24mila megahertz, una velocità 50 volte superiore all’attuale 4G europeo. Per il 5G, in Italia, la frequenza che l’utente medio userà di più sarà quella dei 3.600. A questo gruppo andrà il 66% delle frequenze. Un 30% circa andrà a quella di 700 megahertz e il restante alle cosiddette onde millimetriche. I primi due gruppi rientrano nelle famiglie delle onde elettromagnetiche già in uso per il 4G, su cui esistono migliaia di studi sui ratti e sull’uomo, tra cui quello dell’Istituto Ramazzini di Bologna, simbolo di eccellenza e indipendenza nel campo della ricerca sulla relazione tra tumori e ambiente. “Oltre al nostro, altri due grandi studi internazionali confermano che c’è un rischio biologico, da esposizione a campi elettromagnetici con energia superiore a 25 volt per metro – spiega al Fatto Fiorella Belpoggi, epidemiologa, direttrice di ricerca del Ramazzini – come l’aumento statisticamente rilevante del numero di tumori, rarissimi scwhannomi, al cervello e al cuore”. Fino al 2011, in Italia c’era una delle leggi più restrittive d’Europa, spiega. Contemplava cioè la protezione anche del rischio biologico, e non solo di quello termico che è l’unico riconosciuto dalla Commissione Internazionale per la Protezione dalla Radiazione non ionizzante (Icnirp). La legge italiana prevedeva cioè di non superare il limite dei 6 volt al metro sulla media di valori raggiunti ogni 6 minuti nelle ore di maggior traffico telefonico, contro i 61 V/m fissati dalla Comunità europea. Ma nel 2011, il Governo Monti modificò il limite, assumendo come valore di esposizione limite la media dei valori misurati in 24 ore e non più in 6 minuti. Tradotto: i picchi diurni possono tranquillamente sforare il valore di sicurezza di 25 volt metro stabilito dal Ramazzini. E non esiste controllo, che invece c’è, per dire, per le emissioni di particolato sottile. Nonostante questo, la legge italiana resta una delle migliori e se rispettata, non comporterà nulla di nuovo per le prime due famiglie di frequenze.

Il gruppo delle onde millimentriche è quello veramente rivoluzionario. Consentirà di trasferire dati alla velocità di mille megabits per secondo permettendo imprese impensabili, come la chirurgia a distanza o l’agricoltura di altissima precisione. Gli studi sull’esposizione a queste onde ancora non ci sono, è vero. “Il punto non è la frequenza – spiega la Belpoggi – ma il campo di emissione dell’antenna, che non deve superare i 6 volt per metro”. E per non sforare, servono tantissime antenne posizionate in modo molto fitto. “Se la legge viene rispettata, il rischio può essere governato come per il 4G”. Se invece si vuole evitare di tener conto del rischio biologico, allora bastano meno antenne. E meno soldi. É ciò che invoca il piano della task force guidata da Vittorio Colao: la necessità di “adeguare i livelli di emissione in Italia ai valori europei” così da alzare le soglie. “Per tutelare i cittadini, i sindaci possono pretendere che vengano installate centraline per il monitoraggio delle emissioni”. Rassicurerebbe tutti, garantirebbe il rispetto delle regole e fornirebbe la certezza di essere protetti, anche dal 5G.

Comuni e ostacoli a Pechino. Ricomincia la guerra sul 5G

Una parte d’Italia si oppone al 5G in generale, la rete ultraveloce di quinta generazione che tutti si aspettano possa permettere mirabolanti imprese digitali nel futuro prossimo, e una parte di Europa e d’Italia si oppone al 5G dei cinesi, con l’aiuto del governo che nei giorni scorsi ha esercitato (di nuovo) la golden power su alcune forniture e degli operatori che scelgono anche in funzione dell’orientamento che arriva dall’alto. Insomma, le auto senza conducente, le operazioni chirurgiche a distanza, i sensori per i terremoti, la trasmissione veloce di dati video sotto assedio nonostante gli ingenti investimenti. Per l’assegnazione delle frequenze, lo stato italiano nel 2018 ha ricavato dalle aste 6,5 miliardi di euro e avviato sperimentazioni insieme ai maggiori operatori a Milano, Prato, L’Aquila, Bari e Matera.

Eppure, nel verbale dell’ultima riunione del Cobul (il Comitato per la Banda Ultra Larga) è stato segnalato che 500 comuni hanno “già vietato la posa di antenne 5G sul proprio territorio, ponendo seri rischi per la diffusione della tecnologia”. Gli operatori hanno parlato della necessità di “semplificazioni procedurali”, l’Anci, l’Associazione nazionale dei comuni italiani, del bisogno di una comunicazione più efficace “a supporto dei processi decisionali a livello locale”.

Il timore di chi si oppone è che questa nuova tecnologia possa nuocere, con le sue antenne e le sue onde, perché non esistono certezze sui suoi effetti. Il timore di chi invece si oppone alle forniture cinesi è soprattutto di indispettire gli Stati Uniti che sul 5G da mesi portano avanti una guerra contro Pechino. Ma andiamo con ordine.

barricate e l’emendamento. Per accelerare la pratica nazionale, nel decreto Semplificazioni approvato il 6 luglio (salvo intese, dunque con la possibilità che venga ancora modificato) è stato inserito un emendamento che modifica la legge quadro sull’esposizione ai campi elettrici, elettomagnetici e magnetici del 2001. Si legge: “I comuni possono adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici”. Qui si fermava la vecchia norma. Ora, invece, prevede che i comuni possono ancora decidere autonomamente sulle infrastrutture di rete ma solo “con riferimento a siti sensibili individuati in modo specifico” ed escludendo così la possibilità “di introdurre limitazioni alla localizzazione in aree generalizzate” e “di incidere sui limiti di esposizione”. In pratica, i comuni non potranno vietare le infrastrutture per la rete in modo generalizzato né intervenire sui limiti di esposizione dei loro cittadini. “Così – spiega l’avvocato Fulvio Sarzana – si privano i sindaci dei poteri in materia di salute impedendogli di esercitare il diritto di precauzione. Questo porterà sicuramente a una esplosione di ricorsi e alla possibilità concreta che la questione venga sottoposta alla corte costituzionale”. L’Italia è stata finora cauta. I limiti di emissione delle onde elettromagnetiche sono molto al di sotto di quelli previsti dalle norme Ue e della media europea (6 Volt per metro, a fronte di 41). “Più bassi sono i limiti, più richiedono un maggiore utilizzo di stazioni radio, di antenne, per coprire la connettività” ha spiegato la ministra dell’Innovazione Paola Pisano. Secondo Bruxelles, poi, i limiti Ue di esposizione ai campi elettromagnetici sono 50 volte inferiori alla soglia oltre la quale l’evidenza scientifica suggerisce che vi possa essere un potenziale effetto sulla salute. E per accelerare ancora di più, a giugno è stato emanato il regolamento sui punti di accesso wireless su aree di piccole dimensioni che prevede che l’installazione non debba aver bisogno di richieste d’autorizzazione urbanistica.

I sindaci e le ordinanze. Intanto, i primi cittadini provano a opporsi a colpi di ordinanze, tanto nei territori, dove da oltre un anno è partita la sperimentazione della nuova rete, tanto in quelli dove ci si prepara a nuove elezioni. Tra gli ultimi in ordine di tempo c’è il comune di Reggio Calabria: il 6 luglio il sindaco dem Giuseppe Falcomatà ha firmato un’ordinanza appellandosi al principio di precauzione. Lo stesso è accaduto a Vicenza, Udine, Grosseto e Siracusa. Ci sono stati anche i ricorsi di Telecom e Wind Tre, che facevano notare di aver vinto un bando valido su tutto il territorio nazionale. Ad alimentare le tensioni, la disinformazione durante il lockdown su una improbabile (perché priva di qualsiasi conferma) relazione tra 5G e coronavirus. La norma nel dl Semplificazioni, però, secondo l’Anci, non cambia lo stato delle cose: un’ordinanza sindacale, sostengono, non riesce a limitare una infrastruttura che per sua natura non è locale. Nel piano della task force guidata da Vittorio Colao si parlava invece della necessità di “adeguare i livelli di emissione elettromagnetica in Italia ai valori europei” così da alzare le soglie “per accelerare lo sviluppo delle reti 5G”, insieme all’ “escludere l’opponibilità locale se i protocolli nazionali sono rispettati”.

Gli investimenti. Finora, l’investimento più alto nel settore ha riguardato l’assegnazione delle frequenze su cui dovrà passare il segnale. L’asta di due anni fa è stata ripartita così: Telecom e Vodafone con 2,4 miliardi ciascuno, 1,2 miliari da Iliad, 516,5 milioni da Wind Tre e 32,6 milioni da Fastweb. Un dato che ha fatto schizzare le statistiche sulla media degli investimenti italiani ed europei: come spiega l’ultimo rapporto di Mediobanca sulle Telecomunicazioni, tra il 2016 e il 2018 la media degli investimenti industriali con il suo 30,1% sul fatturato ha superato anche gli operatori cinesi. A luglio 2019, Tim ha firmato accordi con Vodafone Italia per massimizzare la copertura geografica per oltre 800 milioni ciascuno nei prossimi 10 anni. Gli operatori, in Italia, non lavorano da soli: ogni sperimentazione prevede fornitori e partner. Tra i maggiori ci sono le cinesi Huawei e Zte che hanno già investito milioni in centri di ricerca e progetti sperimentali. In questi campi la dinamica anti-cinese è la stessa da più di un anno: gli Usa accusano Huawei di spionaggio tramite la propria rete (senza però aver ancora fornito prove), segue un estenuante tiro alla fune di reazioni, mediazioni, pressioni e affiliazioni all’una o l’altra parte a seconda degli interessi in gioco. L’ultimo esempio: la Gran Bretagna minaccia di fermare gli accordi con Huawei per il 5G sulla base delle segnalazioni dei suoi 007 ma in realtà risponde così alle tensioni su Hong Kong. L’alternativa che potrebbe piacere agli Usa è quella composta da expertise europee come Nokia ed Ericsson, che stanno sviluppando la loro tecnologia e sono gli altri competitor nel mercato. Finora l’Italia è riuscita a mantenere lo status quo, a non offendere nessuno e a mantenere buoni rapporti con gli amici cinesi (Zte, che è praticamente una propaggine statale cinese, ha a L’Aquila il suo quartier generale europeo) e statunitensi, e a dividere le forniture. Ma qualcosa inizia a scricchiolare. La settimana scorsa il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha incontrato l’ambasciatore americano Lewis Eisenberg per parlare, tra l’altro, del 5G mentre venerdì è arrivato il colpo più duro: Tim ha escluso Huawei dalla lista dei fornitori ammessi alla gara per le apparecchiature 5G. “Una scelta industriale in linea con il nostro approccio di diversificazione dei fornitori” hanno spiegato. Già nel Consiglio dei ministri di lunedì era stato esercitato il golden power su una vecchia fornitura di Huawei per Tim e Wind, non un veto totale ma alcune prescrizioni di cui però non c’era traccia nel comunicato di palazzo Chigi. Qualche giorno fa, poi, è arrivata la scelta di Tim. Di certo, se saranno gli operatori a sfilarsi dalla partita cinese, per il governo sarà molto più facile tenere in piedi i rapporti con Pechino.

“Il mercato non è Dio e la meritocrazia è solo un grande bluff ”

“Il mercato non è Dio, come si pensava, e dovrà vedersela con lo Stato. Il Covid ha ammaccato il turbo capitalismo. E per me è una buona notizia”.

lIl banchiere Pietro Modiano, che ha appena ridato da commissario straordinario un po’ di fiato al corpo quasi esanime di Carige, la banca di Genova caduta sotto il ponte dei suoi crediti ammalorati, era – prima del Covid – un turbo milanese.

“Anch’io pensavo che fosse giusto dire ‘Milano non si ferma’. Anch’io pensavo che il virus non potesse intaccare una cultura, una modalità di vita, il rating sociale ed economico della città”.

La capofila del Pil.

L’idea sbagliata ma consacrata nei sacri testi del “turbocapitalismo” di una ascesa senza limiti, senza correzioni, senza condizioni.

Il Covid ha messo in mutande le economie più ricche del mondo.

lHa disvelato la fragilità della convinzione posta a premessa: la certezza che il mercato – grazie anche alla crisi dei titoli sovrani del 2011 – fosse l’unico altare al quale inginocchiarsi. E le sue regole fossero così perfette che niente poteva ingiuriarlo. Mercato uguale Dio.

Voi banchieri ne avete di colpe.

Io ho fatto carriera durante gli anni di tangentopoli. Le privatizzazioni significavano anche (e giustamente) la liberazione dalla manomorta dello Stato e da un po’ di giudici. Era un processo di emancipazione civile contro il clientelismo di Stato, l’etica macchiata dalle mazzette, il risultato operativo dalle convenienze.

Il privato bello e pulito, il pubblico sporco e cattivo.

Ecco la lezione del Covid.

Il Covid ha preso di mira voi ricchi.

Wuhan, Milano, Londra, New York. Ha messo paura anche perché ha colpito gli anziani, e la classe dirigente mondiale è over sessanta. Non so se questo ha contribuito ad attivare una risposta così possente. Ci sarebbe stata la stessa risposta se invece fosse toccato ai giovani? Adesso il virus fa strage nei Paesi poveri e continua la sua rivoluzione.

Negli anni Settanta e oltre per garantire la pace si investiva nell’industria bellica.

Quanti miliardi spesi! Vinceva l’idea che più armi girassero meno voglia di fare guerre ci sarebbe stata. Io mi riarmo, tu anche. L’equilibrio della forza. Ora il Covid ci ingiunge di badare di più alla nostra salute e a evitare la catastrofe ecologica. Mi sembra che il punto di vista stia cambiando di molto.

Voi banchieri ve ne accorgete sempre per ultimi delle rivoluzioni.

Le banche procedono come un gregge, non hanno politiche diversificate, processi autonomi e originali di decisione. L’apertura o la chiusura del rubinetto dei finanziamenti è un procedimento quasi collettivo, una spedizione comunitaria. Non li troverà mai in ordine sparso. Le banche come tanti altri soggetti hanno creduto che non ci fosse altro Dio che il mercato.

E invece ci sono gli ospedali da riparare.

Ecco, per esempio. Noi lombardi vivevamo l’età dell’eccellenza. Increduli, abbiamo notato quante falle avesse il sistema sanitario.

Vi siete stupiti che toccasse a voi e non ai napoletani.

Anche molto stupiti, sì.

C’è stato il tracollo della supremazia, dell’idea della vita verticale, una corsa a gonfiare il conto in banca senza mancare l’aperitivo delle sette di sera.

E infatti ora siamo a dire che la crescita economica dev’essere sostenibile con l’ambiente, e che alcuni compiti non possono essere delegati ai privati ma garantiti dal pubblico. Che dev’essere un competitor e non una macchietta.

Quante cose dovremo cambiare.

Tra le tante cose da cambiare c’è anche la professione di fede assoluta nella meritocrazia.

Ah, il merito!

Le società più ferme, dove l’ascensore sociale è bloccato al pian terreno, sono le britanniche e le statunitensi perché la diseguaglianza tra le classi sociali lì è più evidente. E perciò il merito, tra diseguali, avvantaggia spesso chi ne ha di meno. Dobbiamo spiegarlo una buona volta.

Nell’Italia di oggi lei verrebbe classificato come un pericoloso estremista di sinistra.

Lei dice?

“Altro che gabbie salariali al Nord, la sfida è il riscatto delle città medie”

Interpreto il pensiero del sindaco di Milano Beppe Sala come preoccupazione per la sua città dove, come nel resto d’Italia, la necessità di rimettere in moto virtuosamente l’economia locale spinge anche alla strenua difesa di esigenze particolari. Ma il tema è stato alimentato negli Anni ‘50 e ‘60 proprio dal sistema delle “gabbie salariali”, contestatissime e inique. Una sorta di “pezza a colori” messa lì per coprire l’incapacità dello Stato o per derogare alla responsabilità politica degli amministratori pubblici. Il problema non è guadagnare di più, ma raggiungere l’obiettivo di vivibilità. L’obiettivo deve essere il riequilibrio generale che non passa per interventi temporanei, ma per investimenti che rilasciano alle aree interne il loro surplus. Sono quelle che durante l’emergenza Covid hanno dimostrato di essere isole felici, e che corrono il rischio di rimanere schiacciate nel “conflitto” secolare tra Nord e Sud. Con la Carta dell’Aquila, promossa il 23 novembre scorso insieme ad altri Comuni terremotati (come Avellino, Carpi e Ascoli Piceno), e sottoscritta da circa 100 tra sindaci, intellettuali ed economisti, abbiamo posto l’accento sul contesto interno, luogo di decongestione e sempre più attenzionato non solo per svaghi turistici, ma anche per insediamenti produttivi, ricerca, alvei di cultura sperimentale. Ci sono 4 assi su cui concentrare le politiche pubbliche: cultura, turismo, innovazione e formazione. È l’Italia delle aree interne che non chiede un aumento di stipendio, pur dovendo combattere con la carenza delle infrastrutture, la mancanza di servizi e peso fiscale da nababbi. Oggi lo Stato deve infrastrutturare, materialmente e immaterialmente, queste aree, renderle raggiungibili, promuovere la detassazione per incentivare il ripopolamento. La sfida è il “glocale”, sono i servizi, le gabbie – questa volta sì – fiscali, la creazione di luoghi dove è bello nascere, vivere e invecchiare, e non lotte individuali che hanno tanto un sapore desueto e affatto futuribile.

 

Migranti, stavolta la dem dice no

Decine di cittadini di Amantea (Cosenza) hanno protestato ieri contro l’accoglienza di 13 migranti positivi al Coronavirus, all’interno del Centro di accoglienza straordinario. Tra loro anche la deputata Pd Enza Bruno Bossio.

“Non ci possiamo mai sottrarre al dovere di mantenere i diritti, la cooperazione, l’accoglienza”. Scriveva così 20 giorni fa su Twitter la deputata Enza Bruno Bossio, la stessa parlamentare del Pd che fa riferimento all’area di Matteo Orfini, più volte polemico con la gestione dell’immigrazione del governo giallorosa. Quando i migranti, però, arrivano nella località turistica dove la Bruno Bossio trascorre le vacanze estive è proprio lei a storcere il naso.

La puntata del film “Va bene tutto ma non vicino a casa mia” è andata in scena ad Amantea dove “casa mia” in realtà è la villa di Enza Bruno Bossio e del marito, pure lui ex deputato del Pd, Nicola Adamo. L’occasione l’ha data il trasferimento nella cittadina in provincia di Cosenza di una parte dei migranti pakistani sbarcarti a Roccella Jonica. Ventotto di loro, tutti asintomatici, sono risultati positivi al Covid: 13 di loro stati posti in quarantena proprio all’interno del centro di accoglienza straordinaria di Amantea, dove ieri mattina, è scoppiata una protesta di cittadini contrari all’arrivo dei migranti. E lo stesso – su Facebook – fa la parlamentare Pd, smentendo le battaglie che, almeno sui social, dice di aver sempre sostenuto. Nel suo post si legge: “È evidente l’allarme che immediatamente questa notizia ha creato nella popolazione. Anche perché Amantea non è una cittadina qualsiasi”.

Il discorso di Enza Bruno Bossio assume un sapore sempre meno politico e sempre più personale: “Chi ha avuto l’idea di scegliere un luogo con queste caratteristiche certamente non ha fatto la scelta più logica. Seguirò passo passo l’evoluzione della situazione”. Contro l’esponente del Pd si scaglia anche il comitato spontaneo “Amantea Libera”: “Oggi la Bruno Bossio vuole che il problema ad Amantea venga risolto rapidamente. Forse perché ha interessi privati su questo territorio”.

Alla giostra delle parole in libertà si è aggiunta anche la governatrice Jole Santelli di Forza Italia. Ignorando che i migranti risultati positivi dovranno rispettare la quarantena obbligatoria, la presidente della Regione ha scritto al premier Giuseppe Conte e, in pieno stile Salvini, ha minacciato di vietare gli sbarchi in Calabria. “Ho l’obbligo di difendere i calabresi e chi ha scelto di passare le vacanze in Calabria”. Per farlo fornisce anche la ricetta al governo: requisire le “unità navali, da dislocare davanti alle coste della regione, a bordo delle quali potranno essere svolti i controlli sanitari sugli immigrati e potrà essere assicurata, in caso di positività, l‘effettuazione del periodo di quarantena obbligatoria”.

Grillo fa arrossire Raggi. “Roma non ti merita”

Giurano che fosse davvero un gesto per sostenerla, perché voleva e vuole la sua ricandidatura. Dicono che abbia deciso d’impulso di rilanciare tramite post quel sonetto che la esorta a “lasciare perdere”, ma che è innanzitutto un’invettiva, contro la gente “de fogna” e la città “bella e zoccola” che non si meriterebbero la sindaca.

Però stavolta Beppe Grillo, il Garante del M5S, non ha proprio fatto un favore a Virginia Raggi. Costretta a precisare e smussare in serata: perché Grillo può pure giocare di epiteti ed enigmi come fosse la Pizia del Movimento, la prima cittadina di Roma no. “Grazie di cuore, ma quel ‘gente de fogna’ non mi piace, se puoi toglilo, sono il sindaco soprattutto di chi mi critica.” scrive Raggi alle sette di sera su Facebook, cercando di raddrizzare la sua domenica.

Ufficialmente si rivolge a tale Franco Ferrari, sostenitore del M5S e autore del sonetto in romanesco in suo onore: ma di fatto parla anche a Grillo, che quei versi li ha diffusi sui social, aprendo una cataratta di sospetti e proteste. “Ha scaricato Raggi” urlano a pieni polmoni Pd e Italia Viva, appena leggono il testo che inizia così: “A Virgì, pijia na valigia, tu fijio, tu marito, famme un fischio, che se n’annamo via da sta gente de fogna. Lassa perde”. Può suonare anche come un invito a ritirarsi. Ma fonti del Campidoglio negano, subito: “Questo sonetto girava su alcune chat di consiglieri, e Beppe lo ha ripreso per affetto”. Sabato sera lo aveva pubblicato su Facebook anche Max Bugani, capo staff della sindaca. E anche diversi big del Movimento assicurano che sì, “Beppe la sostiene, solo che lui si esprime così…”. Criptico, anche quando riprende un testo come quello di Ferrari, che fa l’elenco degli avversari della sindaca: dai Casamonica e CasaPound fino alla Lega, mettendoci in mezzo anche il Pd. “Non è un dettaglio, vuol dire che Grillo l’accordo con i dem almeno a Roma non lo vuole” fanno notare dal M5S. E nell’incertezza il Pd picchia, sodo. Anche con la senatrice Monica Cirinnà, di cui crescono le quotazioni come candidata sindaca: “Raggi è stata scaricata da Grillo e nel modo peggiore, addossando alle romane e ai romani le responsabilità di un’amministrazione con irripetibili insulti ai cittadini”. E a scrivere che “l’era Raggi si chiude qui” è anche Marco Miccoli, dem vicinissimo al segretario Nicola Zingaretti. Perché lo stesso Zingaretti che ai 5Stelle chiede ogni giorno e ad alta voce alleanze nelle Regioni per la “sua” Roma ha idee molto diverse. A meno che il M5S non costringa Raggi al passo di lato. Ma non succederà. Non dopo che lo scorso maggio il capo politico reggente Vito Crimi sul Fatto ha aperto alla cancellazione del vincolo dei due mandati per i sindaci. E infatti in serata lo stesso Crimi esce a sostegno: “Virginia e i consiglieri avevano un abisso da scalare per restituire dignità a Roma, ma la città è tornata a marciare, perché è stata strappata al caos. Il percorso di cura e rinascita deve proseguire”. Ed è un altro via libera informale alla ricandidatura di Raggi, decisa a correre per il bis.

Così si torna alla sindaca, che nel pomeriggio leggono agenzie e siti sul Grillo che l’avrebbe scaricata. E che si ritrova con i mal di pancia pure in casa propria. “Chiedo scusa ai romani per il post di Grillo e prendo le distanze dal testo” fa sapere il consigliere comunale Marco Terranova. E la sua collega Simona Ficcardi si associa: “Come poeta sempre preferito Trilussa…”. Per questo la sindaca interviene su Facebook. Rilanciando: “Amo Roma con tutta me stessa: questo mi fa andare avanti insieme all’affetto di tutti voi”. Tradotto, ci vuole riprovare. E Alessandro Di Battista commenta con un like: “Sei una signora, complimenti”.

 

“Lo Stato non può essere socio di chi prende in giro le famiglie delle vittime”

Presidente Giuseppe Conte, è soddisfatto delle proposte di transazione di Atlantia, cioè della famiglia Benetton, per il nuovo assetto di Aspi, cioè di Autostrade per l’Italia?

Per nulla e le spiego perché partendo dall’inizio. Due anni fa, dopo il crollo del ponte Morandi, abbiamo avviato la procedura di contestazione, mettendo in discussione la concessione ad Aspi. La mia sensazione è che Autostrade, forte dei vantaggi conseguiti nel tempo e di una concessione irragionevolmente rinforzata da un intervento legislativo, abbia scommesso sulla debolezza dei pubblici poteri nella tutela dei beni pubblici. A un certo punto Aspi si è irrigidita confidando, evidentemente, nella caduta del mio primo governo. Con questo nuovo governo si è convinta di avere forse delle carte da giocare e ha continuato a resistere. Solo all’ultimo si è orientata per una soluzione transattiva. La verità è che le varie proposte transattive fatte pervenire da Aspi non sono soddisfacenti. Lo Stato ha il dovere di valutarle per lo scrupolo di tutelare l’interesse pubblico nel migliore dei modi possibili. Ma adesso dobbiamo chiudere il dossier ed evitare il protrarsi di ulteriori incertezze.

Ma l’ultima proposta sembra migliorativa per lo Stato.

No. Proprio al fine di completare il procedimento, il 9 luglio si è svolta una riunione tecnica con il concessionario Aspi: lì i tecnici del governo hanno esposto i contenuti minimi e assolutamente inderogabili che devono caratterizzare la proposta transattiva perché possa essere portata e discussa in Consiglio dei ministri. E sabato è arrivata una risposta ampiamente insoddisfacente, per non dire imbarazzante: tutto meno che un’accettazione piena e incondizionata delle richieste del governo.

Ma l’azienda dei Benetton dice il contrario.

Le faccio qualche esempio. Manca l’impegno a manlevare la parte pubblica per tutte le richieste risarcitorie collegate al crollo del ponte Morandi. La somma di 3,4 miliardi offerta a titolo risarcitorio e compensativo per quella immane catastrofe è stata in buona parte imputata da Aspi a interventi di manutenzione che comunque il concessionario ha già l’obbligo di realizzare.

Ma hanno accettato l’adeguamento a un regime tariffario più conveniente per gli utenti, no?

Sì, ma dopo che l’Autorità di riferimento, l’Art, ha adottato il nuovo piano tariffario, anche questo adeguamento era dovuto. E per giunta la loro proposta tariffaria non contempla gli effetti sui minori ricavi per l’emergenza Covid-19, lasciando aperta anche questa partita. Non solo. È altrettanto inaccettabile la pretesa di Aspi di perpetuare il regime di favore in caso di nuovi inadempimenti degli obblighi di concessione.

Che vuol dire?

Anche in caso di gravissime compromissioni della funzionalità della rete autostradale imputabili ad Aspi, lo Stato non potrebbe sciogliere il contratto con Aspi, ma soltanto obbligare il concessionario a ripristinare la funzionalità della rete. Con la conseguenza che, se crollasse un altro ponte, non potremmo sciogliere la convenzione e, se mai lo facessimo, dovremmo rifondere Aspi con 10 miliardi di euro, e solo per l’avviamento. Quando ho letto la proposta ho pensato a uno scherzo.

Si sente preso in giro dai Benetton?

I Benetton non prendono in giro il presidente del Consiglio e i ministri, ma i famigliari delle vittime del ponte Morandi e tutti gli italiani. Non hanno ancora capito, dopo molti mesi, che questo governo non accetterà di sacrificare il bene pubblico sull’altare dei loro interessi privati.

Non c’è stata anche un’apertura dei Benetton a cedere la governance di Autostrade, cioè il 51% a una cordata pubblico-privata, e a far scendere la quota di Atlantia dall’88 al 37%?

Questo prescinde dall’aspetto tecnico-giuridico e investe quello squisitamente politico.

Lo Stato, se una parte della quota di Atlantia la rilevasse Cassa depositi e prestiti o un’altra società pubblica, entrerebbe in società con i Benetton.

Appunto, ci ritroveremmo “consoci” dei Benetton, i quali conserverebbero le prerogative dei soci e continuerebbero a partecipare alla ripartizione degli utili. Le pare normale?

La disturba che lo Stato diventi consocio dei Benetton?

Se devo esprimere una valutazione personale, alla luce di tutto quanto è accaduto, sarebbe davvero paradossale se lo Stato entrasse in società con i Benetton. Non per questioni personali, che non esistono, ma per le gravi responsabilità accumulate dal management scelto e sostenuto dai Benetton nel corso degli anni fino al crollo del Morandi e anche dopo.

Quindi ora che succede?

Martedì porterò queste valutazioni, insieme ai ministri con cui stiamo seguendo il dossier, in Consiglio dei ministri e ne discuteremo con tutti i colleghi di governo.

Cioè, se Atlantia non esce da Aspi lei proporrà la revoca della concessione.

Non mi faccia anticipare la proposta che porterò in Consiglio dei ministri. Dico solo che, allo stato dei fatti, intravedo una sola decisione, imposta proprio da Autostrade.

Chi la accusava di appiattirsi sul Pd ora dirà che è appiattito sui 5Stelle.

Mah, se ne sentono di tutti i colori. Un giorno sono appiattito su una forza di maggioranza, l’indomani su un’altra. La verità è che sono e mi ritroverete appiattito sempre e soltanto sull’interesse pubblico e sul bene comune.

Mezzo Pd e tutta Italia viva pensano che l’interesse pubblico sia lasciare la concessione ai Benetton con qualche ritocco.

Non ho dubbi che tutti i ministri e le forze di maggioranza, quando saranno chiamati alla decisione ultima – e adesso ci siamo – sapranno valutare i conclamati inadempimenti commessi da Aspi e l’incredibile dispendio di risorse pubbliche a vantaggio del privato che questa concessione ha prodotto nel tempo, con gravissimi danni per tutti i cittadini.

Molti, a cominciare da Iv, paventano in caso di revoca un contenzioso complicato che potrebbe costare allo Stato molti miliardi.

Pochi giorni fa la Corte costituzionale ha giudicato pienamente legittima la norma che avevamo confezionato per escludere Autostrade dalla ricostruzione del ponte Morandi, a causa della “eccezionale gravità della situazione”. Quel crollo, le 43 vittime, i gravi danni causati alla comunità genovese, costituiscono un gravissimo e oggettivo inadempimento del concessionario. In aggiunta abbiamo una lunga lista, accumulata nel tempo, di cattive o mancate manutenzioni, ordinarie e straordinarie, della rete autostradale. Senza contare che in questi quasi due anni abbiamo acquisito vari pareri giuridici che ci confortano ai fini della revoca della concessione: anzi, ci legittimano ad avanzare pretese risarcitorie molto consistenti. Non è lo Stato che deve soldi ai Benetton, ma viceversa.

Il suo governo rischia grosso e lei lo sa bene.

Io occupo una poltrona per risolvere questioni cruciali come questa nell’interesse dei cittadini, non per tirare a campare o regalare privilegi ai privati.

Ma lei, Benetton a parte, vuole statalizzare le imprese?

Sono cresciuto e sono stato educato nella cultura del libero mercato. Che però sia depurato da comportamenti predatori e pratiche commerciali scorrette. Detto questo, per favorire una pronta ripresa, dobbiamo e possiamo valutare azioni di sostegno alle imprese in difficoltà anche tramite interventi diretti dello Stato. Come stanno facendo anche altri Paesi europei. E per periodi limitati.

Voltiamo pagina. Molti ora la accusano di voler aggirare il Parlamento per prolungare lo stato di emergenza fino a fine anno, prendere i pieni poteri, forse anche rinviare le regionali sine die, con la scusa del Covid. La presidente del Senato Elisabetta Casellati dice che lei ha reso “invisibile” il Parlamento. Il giurista Sabino Cassese sul Corriere la paragona al modello Orbàn.

Chi evoca il modello Orbàn dice una sonora stupidaggine. Io non ho né voglio pieni poteri. Le elezioni regionali si terranno nella data stabilita. E il Parlamento non è mai stato né sarà mai scavalcato. Ho già chiarito che, sulla proroga o meno dello stato di emergenza Covid, abbiamo tempo per decidere sino a fine luglio. Sarà una decisione collegiale del governo, che verrà poi sottoposta al doveroso passaggio parlamentare con un’ampia discussione pubblica. Questo governo ha dimostrato con i fatti, non a parole, di aver sempre rispettato le Camere, riferendo su ogni decisione e limitando, anche nella fase più acuta dell’emergenza, le misure precauzionali allo stretto necessario, all’insegna dei criteri di adeguatezza e proporzionalità.

A che punto è il negoziato europeo sul Recovery Fund dopo il suo tour tra Spagna e Olanda?

Il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel ha formulato una proposta di mediazione in vista del vertice del 17 e 18 luglio. L’aspetto positivo è che la sua proposta conferma l’ammontare del Recovery Fund e la sua ripartizione fra sussidi a fondo perduto e prestiti. Ma contiene alcuni aspetti critici che vanno superati. Confido che ciò avvenga già nella prossima riunione: il negoziato va finalizzato già entro questo mese.

Però il suo incontro col premier olandese Rutte è andato male.

Non direi, anzi, il clima era positivo. Sono orgoglioso per l’Italia nel leggere che sia Rutte sia il premier austriaco Kurz riconoscono il nostro ruolo di apripista per le riforme strutturali e l’accelerazione della spesa per investimenti, in modo da garantire una pronta ed efficace ripresa non solo all’Italia, ma a tutta l’Europa.

Lei gira l’Europa e intanto in Italia i topi ballano. Di Maio incontra Draghi e, pare, Gianni Letta. Molti, da Prodi e Renzi a un pezzo del Pd, corteggiano Berlusconi perché entri in maggioranza. La preoccupa questa frenesia di incontri fuori dal seminato della maggioranza?

Mah, l’unica “frenesia” che avverto io è quella di chiudere al più presto il negoziato europeo e far ripartire l’Italia con il “Piano di rilancio” che stiamo ultimando. Mi curo poco degli incontri altrui. Io i miei li ho già fatti, insieme ai ministri, nelle due settimane degli Stati generali: con 122 sigle associative, 34 personalità della società civile e molti cittadini, a cui abbiamo presentato e con cui abbiamo discusso 180 progetti. L’unica frenesia che adesso dobbiamo concederci è quella di attuare il maggior numero possibile di progetti nel minor tempo possibile.

Lei oggi incontrerà Angela Merkel. Che cosa le dirà?

Le dirò che le altre Istituzioni europee hanno saputo cogliere l’importanza di questa fase storica e interpretare il proprio ruolo anche sul piano politico. Adesso tocca a noi: ai capi di Stato e di governo. Il Consiglio europeo non potrà né dovrà essere da meno.