Una vita da Caimano/4

2014. Il 18 gennaio, meno di due mesi dopo la sua espulsione dal Senato in seguito alla condanna definitiva a 4 anni per frode fiscale che l’ha fatto decadere in base alla legge Severino e interdetto dai pubblici uffici, Silvio B. viene ricevuto con Gianni Letta nella sede del Pd dal neosegretario Matteo Renzi. Che alla fine esprime “profonda sintonia” con il pregiudicato ineleggibile. E sigla con lui il Patto del Nazareno sulle riforme elettorale (Italicum) e costituzionale e su altri scambi inconfessabili che resteranno segreti, riportandolo surrettiziamente nell’area di governo, ma soprattutto riabilitandolo e rimettendolo in gioco. Il Camiano, che pareva finito e per cui lo stesso Renzi annunciava il “game over”, è resuscitato un’altra volta per mano dei suoi presunti avversari. Il 22 febbraio, Renzi rovescia il governo di Letta e ne prende il posto. Il 10 aprile Dell’Utri, appena condannato dalla Cassazione per mafia, fugge in Libano per sottrarsi all’arresto. B. dichiara: “L’ho mandato io. Marcello è a Beirut perché Putin mi ha chiesto di sostenere la campagna elettorale di Gemayel”. Ma il suo compare non è un ambasciatore: è un latitante inseguito da un mandato di cattura internazionale con richiesta di estradizione (verrà concessa il 12 giugno, quando il creatore di FI sarà tradotto nel carcere di Parma, a qualche cella di distanza da Riina). Il 14 maggio B. inizia i servizi sociali all’ospizio Sacra Famiglia di Cesano Boscone per scontare il suo residuo pena extra-indulto (10 mesi). Il 18 luglio viene assolto in appello (come poi in Cassazione) al processo Ruby, anche perché la Severino ha modificato il reato di concussione. Nei tre anni di governo Renzi, la rinata FI voterà quasi tutti i suoi provvedimenti, copiati dal programma di B.: Jobs Act, abolizione dell’art. 18, ”Buona Scuola”, responsabilità civile dei giudici; soglie di impunità per frodi ed evasioni fiscali; tetto ai contanti a 3mila euro; riforma costituzionale per un premier più forte e un Parlamento più debole; Italicum, con deputati nominati dai capi-partito e premio di maggioranza abnorme per chi arriva primo (come nel Porcellum); abolizione dell’Imu. Completano il quadro il rilancio del Ponte sullo Stretto, l’occupazione militare della Rai, la guerra ai magistrati più impegnati. Uno sdoganamento politico e culturale del berlusconismo a opera del Pd, che si preclude ogni possibilità di combatterlo in futuro.

2015. Il 31 gennaio l’idillio è momentaneamente rotto dal tradimento di Renzi, che fa eleggere Sergio Mattarella al posto di Napolitano senza il permesso a B. Questi preferiva il più fidato Amato. E si vendica, schierandosi contro l’Italicum e la riforma costituzionale che ha contribuito a scrivere.
Ma il governo Renzi non ha nulla da temere, anche perché continua a regalare favori a B. e alle sue aziende, grazie anche ai teorico del “renzusconismo”, il plurimputato Denis Verdini, che gli ha portato una pattuglia di parlamentari berlusconiani.

2016-2017. Persi il referendum e il governo (passato a Gentiloni), Renzi si vede bocciare l’Italicum dalla Consulta. E riprende a trattare con B. per una nuova legge elettorale su misura per entrambi: il Rosatellum, votato anche dalla Lega, fatto apposta per produrre ingovernabilità, creare finte coalizioni elettorali, far nominare dai capipartito i 2/3 dei parlamentari e soprattutto favorire, dopo le elezioni, un governo Renzusconi: l’ultimo argine dell’establishment contro i 5Stelle. L’inciucio è benedetto dalla grande stampa, compresa quella di sinistra. Da Scalfari a De Benedetti, è tutta una corsa a riabilitare B. come “male minore”, addirittura “salvatore dell’Italia” dal pericolo “populista” e “antieuropeista” (proprio lui, il più grande populista e antieuropeista mai visto).

2018. Alle elezioni del 4 marzo FI scende al minimo storico (14%). Scavalcato dalla Lega di Salvini (17,4), B. perde la leadership del centrodestra e vede stravincere i suoi peggiori nemici: i 5Stelle (32,7). Per il governissimo col Pd non ci sono i numeri. Ci sarebbero per un M5S-Pd-Leu, ma Renzi lo stoppa. Salvini, col permesso di B., va al governo con Di Maio ma a patto che quest’ultimo non sia premier, perchè rifiuta di incontrarlo e pure di parlargli al telefono. Nasce il Conte 1, il primo governo da 40 anni in cui B. non conta nulla: infatti passano leggi che mai nessuno aveva osato varare (Anticorruzione, blocca-prescrizione, voto di scambio, taglio dei vitalizi e dei parlamentari, dl Dignità, reddito di cittadinanza).

2019-2020. Nell’agosto 2019 Salvini rovescia il governo per andare alle elezioni, cancellare i 5Stelle e capitalizzare il trionfo delle Europee. Ma stavolta Renzi e il nuovo Pd guidato da Zingaretti si alleano con M5S e Leu nel Conte 2. Ma Renzi impiega poco a passare da promotore a guastatore del governo giallo-rosa, con la scissione di Italia Viva e uno smaccato corteggiamento a B. in vista di un governissimo Draghi che restauri l’Ancien Regime. Però la popolarità di Conte, soprattutto dopo la buona gestione della pandemia da Coronavirus, blocca l’inciucio per qualche mese. Poi, passata l’emergenza, la voglia di ammucchiata ritorna, su pressione dei poteri finanziari e dei loro giornaloni. Non solo Renzi, ma persino parte del Pd e financo Prodi sognano un governissimo col pregiudicato. Fingendo di dimenticare chi è. E quanti danni ha già fatto all’Italia.
(4- fine)

Le confidenze di Sordi. Le sigarette di Gassman. E il fondoschiena della Vitti

La sua famiglia (allargata) appare come una fiction dedicata alla meglio gioventù del cinema italiano. E così quando Nicoletta Ercole parla, è quasi possibile chiudere gli occhi e immaginare Alberto Sordi mentre cammina con gli zoccoli sul lungomare di Castiglioncello, o Piero Piccioni che si siede a tavola dopo la scarcerazione (“sono stata il suo alibi”); Vittorio Gassman invocare delle sigarette (“Portamele! Diletta me le ha tolte”); Monica Vitti svelarle il segreto per il perfetto fondo schiena, Marcello Mastroianni vestito di timidezza, o Piero Tosi mentre racconta uno dei suoi film.

Lei non solo c’era, ma era ed è parte di quella istantanea, di quella pellicola ancora non conclusa e che da pochi giorni la celebra come nuovo membro dell’Academy statunitense, in quanto acclamata costumista del cinema mondiale.

Da sempre vive in mezzo al cinema.

Sono stata molto fortunata: i miei genitori, e per diverse casualità, hanno incrociato quella realtà, e per me alcuni personaggi straordinari sono diventati come degli zii.

Il primo “parente”.

Piero Piccioni (compositore, autore di colonne sonore, e coinvolto nell’omicidio Montesi. Anni dopo scagionato): il mio battesimo divenne il suo alibi; oltre a lui sono cresciuta con Alberto Sordi, per anni nostro ospite nelle estati a Castiglioncello, poi Armando Trovajoli, Luis Bacalov, Paolo Panelli e Bice Valori; (ci pensa) mamma era anche andata a scuola con Flora Mastroianni e Lina Wertmuller.

Ha vissuto la Castiglioncello de Il sorpasso.

Vivevamo lì da prima del film, e in parte quel capolavoro si è basato sulla nostra quotidianità; (sorride) ho un cammeo, e ogni volta che la televisione lo trasmette, mi chiama Marco Risi: “Oh, tra poco tocca a te”.

Quale cammeo?

Io e Flaminia Sanjust che corriamo sulla spiaggia e rompiamo le palle; alcune scene sono state girate a casa nostra e la sartoria allestita in salotto.

Il cinema in primissima fila.

Ho un ricordo indelebile: il primo cestino della mia vita. Avevo nove anni e mi ritrovai in mano del cibo in scatola. Basita. Lo guardavo come qualcosa di altamente esotico, tanto da scatenare una risata di Dino Risi: “Mangia, non ti spaventare”.

Intorno al cestino c’è una liturgia consolidata.

Il soprannome di Sordi era “la forza del cestino”: appena arrivavano, mandava immediatamente la sua sarta, Mariuccia, ad affrontare la fila. Doveva essere la prima. E doveva prenderne tre.

Tre?

Uno per lei, uno lo consumava subito e il terzo lo teneva per la sera; ma non era tirchieria, solo un vezzo, una liturgia, un modo per spezzare la giornata quando magari sei in piedi dalle quattro e mezzo del mattino.

Sfacchinate.

I set sono così, assorbono tutto di te e senza orario; ribaltano ruoli, costruiscono realtà in teoria parallele, in realtà assolute: quando uno gira esiste solo il film, e l’ho capito presto.

In che senso?

Il mio matrimonio con Andrea Purgatori durò pochissimo perché non c’ero mai (ride).

A cosa pensa?

Sempre al cestino: sia Marco Ferreri che Sergio Corbucci, appena arrivavano sul set domandavano cosa c’era per pranzo.


Torniamo a Piccioni: affrontava mai l’argomento “Montesi”?

Mai toccato. Quando uscì dal carcere venne a casa nostra, e mio padre prima di accoglierlo radunò la famiglia per un discorsetto: “Mi raccomando, lo troverete sciupato e triste; voi fingete normalità e soprattutto alcun accenno alla vicenda. Dategli amore”.

E…

Dopo i primi dieci minuti di convenevoli, la tavola mise a dura prova i confini imposti da papà, e mia nonna diede sfogo alla sua schiettezza: “Allora Piero, la Montesi l’hai uccisa o no?”

Castiglioncello.

Alberto Sordi stava sempre da noi, dormiva nella mia cameretta e io traslocavo da mio fratello: spesso lo sentivamo cantare, il Rigoletto era un classico del suo repertorio, o ci sedevamo in giardino e noi ragazzi gli chiedevamo del suo amore per la Mangano.

Amore sofferto.

Forse è stata l’unica donna della sua vita, la considerava stupenda, florida, “con quei bei coscioni”; però quando la Mangano si è sposata con Dino De Lurentiis, cambiò la prospettiva: “Quel napoletano l’ha rovinata, non è più lei: è magra, smunta!”.

Da dove nasce la sua passione per i costumi?

Marcello Mastroianni aveva allestito in casa una piccola sala cinematografica, e a 14 o 15 anni, con Barbara Mastroianni, affittavamo le pizze di Via col vento o Il gattopardo, e passavamo il sabato sera a studiare i vari abiti.

Il primo film.

Per le antiche scale di Bolognini (1975): andai come volontaria e di nascosto da mio padre; (ci pensa) non avevo la diaria, e allora ogni sera Marcello Mastroianni si preoccupava della mia cena.

Come mai suo padre contrario?

Desiderava una laurea, e poi conosceva, quindi temeva il mondo del cinema. È stato Mastroianni a garantire per me.

Mastroianni e le donne.

Tutte innamorate di lui, e non riusciva a difendersi, era un fragile, quindi cedeva alle loro richieste, con un però: non si è mai separato da Flora, e ogni 14 agosto mandava un mazzo di rose o si presentava per festeggiare con lei il loro anniversario di nozze.

Il costumista detiene un potere verso l’attore…

In questa chiave non ci avevo mai pensato; il problema è che in Italia gli attori spesso non lo sono veramente.

Cioè?

Nel 1976 ero a Los Angeles per un film con John Huston protagonista; al primo incontro lo stesso Huston mi chiese: “Come vedi il mio personaggio?”.

Risposta?

Scoppiai a piangere e ho solo detto: “Non sono in grado”. Ecco, in Italia un interrogativo del genere non lo pone nessuno, quasi sempre gli attori ti trattano di merda.

Con lei l’attore è “nudo”.

E torniamo alla differenza di prima: il vero artista è al servizio degli altri, della storia, del regista; eppure spesso si presentano e credono di poter imporre la loro visione, tipo: “Così non mi ci vestirei mai nella vita”.

Il set è una comunità?

Sì, e all’inizio ho sofferto molto.

Perché?

Mi legavo alla troupe, mi immergevo in quella realtà con una sincerità non necessaria; credevo realmente al per sempre, alle promesse di quelle settimane o mesi, e quando finiva il film mi sentivo persa.

E invece.

Durante il film nasce una famiglia, condividi la vita, la passione, gli amori, poi tutto muore con l’ultimo ciak. Dopo a momenti neanche ti saluti.

Ha spesso girato con Marco Ferreri.

Un genio. Con lui ho capito cos’è il cinema, con lui era fondamentale prevedere l’imprevedibile; ai miei assistenti raccomandavo: “Se ha una richiesta, non portate mai una sola soluzione, pensate anche all’opposto della vostra idea”.

Carismatico.

Mastroianni ne La grande abbuffata lo ha seguito in ogni richiesta, “perché lui è come un capitano al comando della nave. E ti devi fidare”. Ferreri aveva la capacità di leggerti dentro, di toccarti nel profondo.

L’ha mai fatta piangere?

Una volta mi ha massacrata per un maglioncino rosa e stavo per scoppiare in lacrime; per fortuna ho resistito, altrimenti il nostro rapporto si sarebbe rovinato.

Chi le ha insegnato di più?

Quasi tutti, dallo stesso Ferreri, a Visconti, Hopkins, Gassman, o l’allegria sul set di Sergio Corbucci: non prendeva nulla sul serio; (ci pensa) aggiungo la professionalità di Alberto Sordi e la precisione e le malizie di Monica Vitti.

Traduciamo.

Monica aveva le gambe più belle del mondo, un seno perfetto e soprattutto sapeva come vestirsi, portatrice sana di un gusto trasgressivo, talmente moderna da risultare alla moda anche oggi.

Quindi?

Il suo unico difetto era il fondoschiena, e allora mi aveva insegnato a piazzare delle piccole pence in alto, sul culo, e ne usciva fuori un sedere perfetto.

La professionalità di Sordi.

Non tirava mai via una scena, restava sul set fino a quando non considerava soddisfacente il risultato, e se un collega era in difficoltà, si avvicinava e lo consigliava.

Però non ci sono più i divi assoluti.

No, non ci sono più i produttori: gli attori nascono se ci sono gli imprenditori che gli permettono di crescere e di diventare grandi, come accaduto per Loren, Lollobrigida, Mangano o Magnani.

Tra i “grandi” non ha ancora nominato Vittorio De Sica.

(Ride) A Montecarlo sono arrivata dopo che aveva sbancato il casinò con Ljuba Rizzoli, e come da tradizione lo stesso casinò aveva srotolato il tappeto nero; comunque sono cresciuta con Manuel e Christian De Sica; con Christian il sabato pomeriggio scappavamo al Piper; lo stesso con Marco Risi e i fratelli Vanzina (resta in silenzio) Carlo mi manca tanto, persona meravigliosa.

Il Piper di Patty Pravo.

Uscivamo di casa vestiti normali, nelle buste le nostre ribellioni stilistiche indossate nei bagni del locale: una volta Christian acquistò a Porta Portese delle mantelle da carabinieri, e quelle diventarono il nostro outfit.

Con Christian De Sica ha lavorato.

Ha un talento eccezionale, è solo un po’ fregato dalla pigrizia, ma ha senso dello spettacolo, della regia, del ritmo e della musica. Come lui pochi altri.

Chi le manca?

La lista è lunghissima, ma ai nomi di prima aggiungo Vittorio Gassman: una settimana prima di morire mi chiama e con voce spezzata, urla: “Portami le sigarette! Diletta (la moglie) me le ha tolte, io divento pazzo”. Poi aggiunse delle parole incomprensibili.

Così…

È stata l’ultima volta che l’ho visto, e ancora non ci voglio credere.

Insomma, ora è membro dell’Academy.

Da tempo Deborah Landis e Milena Canonero (entrambe celebri costumiste) mi parlavano come se già fossi membro, e ogni volta specificavo l’errore; poi all’improvviso mi hanno comunicato l’ingresso, e di notte ho trovato un messaggio di Favino (anche lui neo eletto): “Te lo meriti”. Bellissimo.

Orgogliosa.

Tanto, ma siamo in Italia e un riconoscimento del genere porta qualche invidia o gelosia, e i produttori temono che il mio onorario sia moltiplicato. Ma non è così.

Chi è lei?

Una donna fortunata che ama molto il suo lavoro, più di prima e meno di domani. E vorrei continuare ancora per degli anni.

(Sosteneva Monica Vitti: “Le donne mi hanno sempre sorpreso. Le donne sono forti e hanno la speranza nel cuore e nell’avvenire”)

@A_Ferrucci

Affare We Charity, Trudeau e i soldi a madre e fratello

Ad imbarazzare, al momento dal punto di vista etico – ma l’opposizione chiede una indagine penale per conflitto d’interessi – il premier Trudeau, sono i soldi presi dalla mamma Margaret e il fratello Alexandre per intervenire a incontri dell’associazione We Charity: 250 mila dollari alla prima, 32 mila al secondo. Come ha riportato la Cbc, il primo ministro e il suo governo sono sotto accusa perché proprio a We Charity il 25 giugno è stato aggiudicato un contratto da 19,5 milioni, per amministrare il Canada Student Service Grant, a sua volta programma da 912 milioni che offre sovvenzioni – tra 1.000 e 5.000 dollari – agli studenti della scuola secondaria, in cambio di ore di volontariato. Dopo che la stampa ha riportato le notizie, We Charity ha deciso di abbandonare l’amministrazione del Canada Student Service Grant, ma ciò non basta all’opposizione; il leader del Bloc Québécois, Yves-François Blanchet: “Trudeau non può creare un programma che sembra essere fatto su misura per un’organizzazione, che ha dato 250.000 dollari di contratti a sua madre, 30.000 a suo fratello, mentre sua moglie è portavoce della stessa organizzazione. Tutto ciò è inaccettabile”. Dal canto suo, il premier ha ammesso che anche la moglie Sophie Grégoire Trudeau, “ha ricevuto 1.500 dollari” per aver partecipato a un evento nel 2012, prima che lui diventasse leader del Partito liberale ma da premier “non ha mai ricevuto pagamenti per eventi con We Charity”. Resta il fatto, e Trudeau non lo nega, di non essersi opposto alla discussione che prevedeva l’assegnazione all’organizzazione di beneficenza di un appalto così remunerativo. Alla Cbc We Charity ha dato due versioni: nella prima ha negato i pagamenti, nella seconda ha ammesso che in alcune occasioni gli oratori ai meeting sono stati remunerati direttamente; un “errore nella fatturazione”.

In spiaggia o in chat, l’Africa è l’ultima meta dei pedofili

L’emergenza Covid ha bloccato le frontiere del mondo, ma non è riuscita a fermare i pedofili. In attesa che gli aerei riprendano ad atterrare nelle aree più disagiate del pianeta, specialmente l’Africa, dove i “turisti del sesso” vanno a caccia di minori usando come esche la solidarietà e il denaro, i pedofili si danno da fare via internet. Gli italiani e i tedeschi sembrano essere i più attivi sia sul web sia sul campo. Che si è allargato a tutta l’Africa dopo il debutto in Marocco, dove nel 2013, re Mohammed IV dovette ritirare la grazia da lui accordata al pedofilo spagnolo Daniel Galvan Vina a causa delle proteste della popolazione.

La mappa dei tour pedofili, dopo aver incluso la maggior dei paesi del Sud-Est asiatico e il Brasile, ora segnala alcuni paesi dell’Africa subsahariana. In primis il Kenya. Il gigante africano, tra i più sviluppati del Continente, a causa della vastità del territorio e dell’enorme divario sociale, offre sacche di ignoranza e povertà che i pedofili sfruttano camuffati da amanti dei parchi marini e dei safari fotografici. Altri si spacciano per turisti folgorati dalla pietà per le famiglie emarginate. Le organizzazioni non governative di Nairobi hanno recentemente denunciato un aumento esponenziale dello sfruttamento e abuso di minori da parte di “turisti” e cittadini stranieri, tra i quali vi sono anche dei preti. L’allarme è seguito proprio all’arresto di un missionario, Gregory Dow. Il “religioso”, di 61 anni, il mese scorso si è dichiarato colpevole in un tribunale americano di aver abusato sessualmente di numerose bambine in un orfanotrofio che gestiva proprio nel paese africano. Lo scorso maggio era stata la volta di un cittadino tedesco di 71 anni, condannato per traffico di materiale pedopornografico e atti indecenti.

Mueni Mutisya, ispettore capo del dipartimento contro il traffico di esseri umani e per la protezione dei minori in Kenya, istituito nel 2016, ha dichiarato che tra il 2018 e il 2019, l’unità ha salvato 230 bambini da trafficanti locali e pedofili provenienti da vari paesi, soprattutto europei. L’ispettore ha spiegato al Guardian che “i neri qui vedono i bianchi come esseri superiori, e i bianchi lo sanno e ne approfittano”. Un retaggio della colonizzazione inglese. La WeProtect Global Alliance ha emesso un avvertimento sull’aumento anche degli abusi in streaming live in ambienti domestici durante questi mesi di pandemia. “Questi mostri all’inizio si mostrano buoni e affettuosi con i bambini e dopo aver ottenuto la loro fiducia, agiscono” ha spiegato Paul Adhoch, direttore esecutivo della Ong anti-tratta di Mombasa, Trace Kenya. Gli abusatori, racconta, usano i social media per conoscere adolescenti online e in alcuni casi li pagano per viaggiare in luoghi come Mombasa, una città sulla costa del Kenya, promettendo loro una vacanza al mare. Le idilliache spiagge del Kenya sono diventate il luogo preferito degli stupratori pedofili provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti, dopo che i paesi asiatici più battuti come Thailandia, Cambogia, Vietnam e Filippine hanno deciso di bloccare il turismo sessuale pedofilo. Adhoch spiega anche chi sono gli “stader da spiaggia”: uomini e donne che si avvicinano ai turisti sulla spiaggia per vendere loro attività o esperienze. “Alcuni dicono che vogliono vendere loro un safari o un massaggio, per poi chiedere loro se gli piacerebbe divertirsi con un bambino o una bambina”. Gli stader purtroppo sono spesso visti come eroi locali dalle comunità costiere più povere. “Le famiglie in queste aree sanno cosa fanno gli stader – ha detto Adhoch – ma spesso chiudono un occhio se ai loro figli vengono dati soldi o regali”.

Trace Kenya, che ha aperto una sede anche a Mombasa, provvede a spiegare ai minori come reagire anche alle richieste di essere filmati nudi, per esempio in caso di live streaming con pagamento effettuato in Bitcoin. Questi adolescenti poco più che bambini non si rendono conto di essere delle vittime perché non hanno dovuto subire fisicamente abusi sessuali.

Kelvin Lay, direttore delle operazioni globali di Overwatch, un’organizzazione che ha sostenuto la polizia keniota nelle sue indagini, ha affermato che lo streaming live di abusi identificato in Kenya solleva preoccupazioni sul fatto che potrebbe emergere una tendenza simile a quella in Asia. Anche la Nigeria ha lanciato il primo registro degli autori di reati sessuali. “Individui in paesi come il Regno Unito e gli Stati Uniti intraprenderanno e dirigeranno l’abuso sessuale dei bambini su una videocamera video o telefonica”, ha affermato Lay, che in precedenza ha lavorato come investigatore presso la National Crime Agency del Regno Unito. “Poi, a un certo punto, non è più sufficiente per loro, quindi chiedono alle vittime di raggiungerli per una vacanza pagata, prendendo un aereo in compagnia di un familiare o amico garante, se la vittima è minorenni”.

L’ultimo imbroglio di Stone: fare finta di andare in galera

Dai tempi dei suoi esordi – e che esordi!, il Watergate, lo scandalo degli scandali della politica Usa –, porta ancora tatuata sulla schiena un’immagine di Richard Nixon. Non ne fa mistero; anzi, se ne vanta. Roger Stone, presto 68 anni, è stato consulente di tre generazioni di politici conservatori: dopo Nixon, ha lavorato per le campagne di Ronald Reagan, Jack Kemp, Bob Dole e molti altri (solo i Bush non si sono mai serviti dei suoi uffici); negli anni dispari, fa il lobbista. Amico di vecchia data di Donald Trump, fu a lui che il magnate telefonò quando decise di scendere in campo, nel 2015, fra ironie e diffidenze, per la nomination repubblicana alla Casa Bianca. E quando, l’altra sera, il presidente lo ha chiamato per dirgli che non sarebbe più andato in prigione, perché gli aveva commutato la pena, lui stava già festeggiando con amici comuni: i botti dei tappi di champagne che saltavano erano talmente forti che Stone ha dovuto cambiare stanza per parlare con Trump.

Sempre un filo ostentatamente più elegante di quanto non riterreste opportuno, la lobbia in testa d’inverno, le ghette ai piedi, il fazzolettino che fuoriesce dal taschino, il gessato (un po’ mafioso) per presentarsi in tribunale accompagnato dalla moglie più sobriamente vestita di lui, il sorriso dell’uomo che sa di avere fascino e che recita la parte di chi non ha nulla da nascondere, Stone è l’ultimo dei fedelissimi di Trump a profittare di un concorso di circostanze eccezionalmente favorevoli per evitare, o uscire, dal carcere. Causa coronavirus, ne sono usciti prima del previsto Paul Manafort, un sodale di Stone, manager della campagna di Trump nel 2016, lobbista fedifrago e, per questo, processato e condannato, e Michael Cohen, avvocato paraninfo, l’uomo che comperava in nero il silenzio delle “conquiste” – una pornostar e una coniglietta – del magnate, non ancora presidente, ma già marito di Melania. E grazie a un inspiegabile “testa coda” della magistratura federale, Michael Flynn, ex generale ed ex consigliere per la Sicurezza nazionale, reo pluri-confesso di mene con i russi per favorire l’elezione di Trump e danneggiare Hillary Clinton, ha evitato processo e prigione.

Stone doveva entrare martedì prossimo, 14 luglio, in un carcere federale, per scontare una condanna a 40 mesi per ostruzione alla giustizia nel Russiagate: ha mentito al Congresso, corrotto testimoni e ostacolato l’indagine della Camera; lui non nega l’addebito, ma si fa un merito d’essere stato fedele all’amico Donald. Che lo ha ricambiato: prima d’una missione in Florida ad alto rischio coronavirus – la penisola è attualmente l’epicentro dei contagi –, Trump gli ha commutato la pena: non ne ha cancellato i reati, come avrebbe fatto la grazia, ma gli ha evitato la prigione, riaprendo le polemiche sull’uso dei poteri del presidente da parte del magnate a favore dei suoi sostenitori e collaboratori. Trump aveva sempre bollato come “ingiusta” la sentenza e “vergognoso lo spettacolo” l’arresto di Stone, avvenuto all’alba dinanzi alle telecamere della Cnn. Dal Watergate al Russiagate, il percorso di Stone è eccezionalmente fitto di aneddoti e trappole: lui non è uomo di idee e tanto meno di ideali – del resto, non è mai stato candidato –, ma è ricchissimo di risorse, di conoscenze e di espedienti, da mettere al servizio dei candidati che gli s’affidano. Troppo giovane per essere una figura di primo piano del Watergate – aveva 16 anni quando faceva fotocopie per la campagna di Nixon nel 1968 e vent’anni quando aiutava a organizzare l’agenda della campagna nel 1972 – Stone compare lo stesso nelle cronache dello scandalo: era andato a dare da mangiare ai cani del suo boss, Bart Porter, uno dei manager della campagna, quando il telefono squillò. Uno degli “idraulici” del Watergate, appena arrestato, chiamava dalla guardina e aveva fretta di parlare con Porter. Stone trasmise il messaggio, ma, allora, non infranse nessuna legge. Negli anni Ottanta, Stone, Manafort e altri loro soci fondarono una società di lobby che, negli anni Novanta, era un punto di riferimento per aziende americane e referenti stranieri: fra i suoi clienti, Rupert Murdoch e la sua News Corp e il Tobacco Institute, ma anche lo Zaire di Mobuto, i ribelli dell’Unita dall’Angola e le Filippine di Marcos. Stone si conquista alcuni dei soprannomi di cui va fiero, “parolaio cacciaballe”, “uno che gioca sporco”, “uno che sa camminare sul filo” tra lecito e illecito. Stone presentò Trump a Nixon e lo mandò a lezione di politica dall’ex presidente, con cui mantenne sempre un buon rapporto; suggerì, già nel 1988, al magnate di candidarsi alla presidenza; e nel 2016 – senza altro ruolo che quello di amico e consigliere – fu funzionale alla divulgazione, tramite Wikileaks, di mail sottratte al Partito democratico. La formula del suo successo, tra complottismi, intrighi, pettegolezzi, cinismi? “Molti segreti, nessun mistero”: è di suo conio. Ma non è detto che sia vera: con Stone, non sai mai dov’è il confine tra verità e invenzione.

Matano e la Cuccarini come Yoko Ono e Paul McCartney

Alberto Matano vs Lorella Cuccarini. I due conduttori de La vita in diretta – l’uno vicino ai 5 stelle, l’altra alla Lega – sono stati i protagonisti dello scontro più duro e più “politico” dell’anno. Non si vedevano due persone starsi sulle palle tanto quanto Matano e la Cuccarini dai tempi di Yoko Ono e Paul McCartney. Potremmo dire che Matano e la Cuccarini, nello studio Rai de La vita in diretta, sono stati i precursori del distanziamento sociale: già prima del Covid, i due cercavano di stare ad almeno un metro di distanza e se toccavano la stessa cartelletta, poi si disinfettavano con l’acido solforico. Hanno condotto 9 mesi di trasmissione più o meno nel seguente modo: Matano entrava in studio e salutava il pubblico da casa ponendosi a destra, la Cuccarini entrava dietro di lui e si allargava a sinistra come se tra di loro, in studio, stesse per calare dall’alto una carrucola con su King Kong, finalmente catturato nelle foreste della Tasmania. Nell’ultima puntata, lui era vestito di nero, lei di bianco. Il subliminale cromatico di Matano era: quanto ho dovuto assorbire, megera. Quello della Cuccarini: mi rimbalzi, stronzetto. Nel saluto dell’ultima puntata Lorella ha ringraziato tutti, dai tecnici al pubblico da casa a Teodorico che cadde in battaglia contro gli Unni, tranne Matano. Matano ha ringraziato tutti compreso il suo insegnante di religione delle elementari per poi aggiungere sul finale “Grazie anche a te Lorella”, a cui, si vocifera in Rai, è seguita corsa fantozziana di Matano nei boschi modello “post martellata sul dito al campeggio con Filini” e l’urlo udito fino in Abruzzo: “Vaffffan…”. Sul destino della conduttrice sovranista aleggia ancora un cupo mistero. Pare non tornerà sul set de L’isola di Pietro con Gianni Morandi ma su quello di un nuovo format Rai 1, L’isola di Pietro Senaldi, in cui lei ogni giorno si complimenterà con Libero per i titoli bipartisan e morigerati. Impossibile non citare l’ultimo colpo di scena tra i due, ovvero la lettera pubblica della Cuccarini sull’esperienza in coppia con Matano, la quale per livore è seconda solo a quella della Lario a Repubblica su Berlusconi nel 2007. Una lettera in cui lei, in tv da quando aveva 12 anni, accusava Matano di avere un ego spropositato. Ma soprattutto, accusava Matano di maschilismo buttando lì la frase “E se si volesse cercare il perché di tutto questo, non sarebbe certo necessario rivolgersi alla Bruzzone”. Un’allusione meschina, di quelle che farebbero tifare per Matano pure se si scoprisse che nel camerino de La vita in diretta fabbrica cristalli di metanfetamina come i Breaking Bad. Comunque, la vicenda è finita con una lettera di alcune autrici del programma che sostengono Matano, ma rimane un dubbio: se la Cuccarini non fosse stata silurata dal programma, avrebbe fatto sapere al mondo che Matano è un bieco maschilista o se lo sarebbe fatto andar bene pure se dietro le quinte le faceva asciugare i piatti della mensa Rai?

Giancarlo Magalli vs Adriana Volpe

C’è stato un tempo in cui Giancarlo Magalli era un conduttore ironico, una persona sarcastica, un personaggio irriverente e stimabile anche per il coraggio della battuta perfino nei programmi di Guardì, programmi in cui l’ironia è un apostrofo rosa tra le parole “comitato” e “telefonata da casa”. Poi, all’improvviso, la tragedia. Nel 2015 le Quirinarie e una campagna social lo incoronano ironicamente il candidato più desiderato per il Quirinale e accade un fatto inatteso: Magalli ci crede. La sindrome di Napoleone si impossessa di lui. Si presenta in piazza del Quirinale mentre è in corso il voto in Parlamento, rilascia dichiarazioni solenni, tipo: “La mia candidatura è sicuramente un simbolo contro la nomenclatura, segno che i giovani non si vedono rappresentati dalla vecchia classe politica”, insomma, anziché liquidare il tutto con una delle sue battute fulminanti, si prende sul serio. Ma tanto sul serio, tipo Bonaccini che da quando si sente figo con la barba e gli occhiali a goccia si fa fotografare in pose da ufficiale della marina su un sito di incontri galanti. E di lì il declino di un uomo che non solo non ha più il sarcasmo di una volta, ma inizia una guerra livorosa nei confronti della sua ex co-conduttrice Adriana Volpe, rea di non si sa bene cosa. Prima le dà della rompipalle in diretta, e vabbè. Poi : “Se le donne sapessero come ha fatto carriera si sentirebbero offese”. Lei lo querela, lui fa altre battutine piccato, finché la Volpe i primi di luglio non approda nel nuovo programma Ogni Mattina su Tv8, e lui, di fronte agli ascolti non entusiasmanti, gongola così in un post “0,9%, tutti zitti, chi deve capire capisce”. La Volpe gli risponde per le rime, lui replica e ormai l’asilo Mariuccia in cui Magalli ha il ruolo sia della maestra d’asilo che del bambino che frigna perché i Lego sono suoi e guai a chi glieli tocca, chissà quando finirà. Peccato. E pensare che salutava sempre.

Pierluigi Diaco Vs Pierluigi Diaco

Infine, l’ultimo caso, quello più inquietante. Quello di un conduttore, Pierluigi Diaco, che litiga con un personaggio da un ego straripante e ipertrofico, con cui sarebbe difficile una pacifica convivenza per chiunque: se stesso. Immaginate il dramma di questo povero conduttore che ogni volta che deve intervistare qualcuno nel suo programma Io e te, rivolge le domande a se stesso, in una sorta di corto circuito marzulliano, dandosi poi ragione, complimentandosi per il suo acume, stringendosi la mano e dando appuntamento alla prossima puntata con un ospite eccezionale, che ha corteggiato a lungo: se stesso.

Anche il buffone ha leggi, un’etica e una deontologia

Intorno alla croce ci sono 30 o 40 cristiani che dicono: “È un peccato che debba morire”. E Gesù: “Bè, forse non dovrei, se qualcuno avesse una scala e un paio di pinze!” – Sam Kinison

Il ruolo sociale del buffone La teoria della comicità, la prassi professionale e la legge concorrono a definire il ruolo sociale del buffone. La teoria lo fa descrivendo i rapporti fra opera, cultura e ideologia; e studiando i nessi fra opera, canone e sistemi culturali. La prassi divertente e la legge lo fanno influenzandosi a vicenda. Due esempi: 1) la satira è soggetta a vincoli legali; 2) l’inadeguatezza della legge sul copyright portò i comici a implementare un sistema di norme sociali per regolamentare la professione.

Deontologia della professione di comico. La deontologia è l’insieme delle norme oggettive con cui una professione si autoregola. I comici osservano norme sociali, la più importante delle quali è il divieto di copiare sulla stessa piazza il materiale altrui, in modo che sia protetto il vantaggio competitivo. Il concetto di piazza è di origine teatrale: Bologna è una piazza diversa da Roma; oggi indica una cultura linguistica: l’Inghilterra è una piazza diversa dall’Italia. Internet crea piazze digitali internazionali: le comunità virtuali che condividono una stessa passione (Iaia, 2016). Le norme sociali cambiano con le epoche: un secolo fa, nell’America del vaudeville, i comici non avevano alcuna remora a copiare gag altrui, poiché la bravura consisteva nell’interpretazione personale; dagli anni 60, con l’avvento degli stand-up comedian, la personalizzazione riguarda principalmente il materiale comico. La cultura remix, partecipativa, dei social network, di cui i meme sono uno dei tanti prodotti divertenti, collide con le norme sociali dei comici.

Il taccheggio e la ricontestualizzazione del materiale comico di altre epoche e/o di altre piazze è fondamentale per il progresso di una tradizione comica, ed è un modo eccellente per modificare i canoni culturali di un Paese. Lo fecero Plauto e Terenzio con le commedie greche; Shakespeare con Plauto e Terenzio; e Laurents, Sondheim & Bernstein con Shakespeare (West Side Story rifà Romeo e Giulietta): nessuno li sminuisce per questo. Il metodo della traduzione creativa è detto transcreazione (Caimotto, 2014) e ogni comico professionista se ne serve. Lenny Bruce lo usava spesso. Quando Time, nel 1959, lo definì “sick comic” (“comico malato”), Bruce replicò: “Il tipo di malattia di cui avrei voluto che Time

avesse scritto è che gli insegnanti in Oklahoma ricevono uno stipendio annuo di 4000 dollari, mentre Sammy Davis Jr. prende 10.000 dollari per una settimana a Las Vegas”. Questa battuta riutilizza un’idea satirica che circolava almeno dagli anni ’20 (Figura in basso pagina). Un altro esempio: “Se Gesù fosse stato ucciso venti anni fa, i bambini della scuola cattolica porterebbero piccole sedie elettriche intorno al collo, anziché delle croci” (Lenny Bruce). Bill Hicks, vent’anni dopo, ne fece una sua versione: “Molti cristiani portano croci intorno al collo. Credete che quando Gesù tornerà, vorrà vedere una croce del cazzo? È un po’ come andare da Jackie Onassis con il ciondolo di un piccolo fucile da cecchino. ‘Ehi Jackie, sto solo pensando a John’”. La versione di Heinrich Böll, premio Nobel per la letteratura 1972: “È una fortuna per gli esteti che la croce fosse lo strumento di morte abituale in Palestina, altrimenti dovrebbero appendere in camera da letto una ghigliottina o una forca”. Nel 1983 ci riprova Benigni, futuro premio Oscar, ma ancora Benignaccio: dice che la Madonna potrebbe dispiacersi del fatto che i cristiani si fanno il segno della croce, poiché questo potrebbe ricordarle il modo cruento in cui è morto il figlio. Battuta: “Sarebbe come andare dalla madre di uno morto impiccato dicendole ‘Buongiorno Signora!’” E qui Benigni dà uno strattone a un cappio invisibile, simulando un’impiccagione. La mia variazione del celeberrimo joke di Bruce: “I cristiani si fanno il segno della croce in memoria di Gesù, morto crocefisso. Sono fortunati che non l’hanno impalato”. All’epoca ignoravo che ci fosse già arrivato Paolo Poli: “Se Gesù fosse stato impalato, i Santi dove le avrebbero le stimmate?”. Lo ricorda Leonardo Tondelli, che cita anche la versione forse più antica, quella del filosofo Celso (II sec.): “E dovunque da loro troverai l’albero della vita, e la resurrezione della carne dall’albero: questo, credo, perché il loro maestro fu inchiodato alla croce ed era di professione carpentiere. Così, se per caso egli fosse stato buttato giù da un dirupo, o spinto in un burrone, o strangolato con un capestro, o fosse stato ciabattino oppure scalpellino o fabbro, al di sopra dei cieli vi sarebbe un dirupo di vita? Un burrone di resurrezione? O una corda di immortalità, una pietra beata, un ferro d’amore, un cuoio santo?”. La fonte di Bruce, però, penso sia un’altra: Giovanni Papini, polemista antireligioso d’inizio secolo, tradotto e noto negli USA, che nel libro “Schegge” (1913) scriveva: “Se Cristo fosse morto impiccato avremmo la soddisfazione di vedere una forca sopra gli altari e al collo degli ecclesiastici”. (Sette anni dopo, rinnegava tutto e si convertiva.)

La deontologia dei comici non collima con la legge sul copyright. Per esempio, il copyright tutela solo l’espressione, non l’idea; e prevede che, trascorso un certo tempo, le opere creative diventino di dominio pubblico, cioè siano utilizzabili da chiunque. Le norme sociali dei comici, invece, proibiscono il riutilizzo anche dell’idea, e in perpetuo. Non è obbligatorio aderire alle norme sociali, comunque, anche se c’è chi si accanisce nella gogna del “reprobo”. Quando uscì il film di Chaplin Tempi moderni, la società produttrice del film di Clair A nous la liberté fece causa alla United Artists perché Chaplin aveva copiato Clair. Clair però rifiutò di costituirsi parte lesa: “Tutti abbiamo imparato da Chaplin. Tutti dobbiamo qualcosa a quest’uomo che ammiro. Se egli si è ispirato al mio film, per me è un grande onore” (Charensol & Régent, 1952).

L’etica è l’insieme delle norme morali soggettive che fondano il comportamento responsabile, rispettoso di sé e degli altri. Deontologia ed etica, in tutte le professioni, possono entrare in conflitto. In quella dei comici ne è un esempio lo sfottò fascistoide: se la deontologia richiede di far ridere, l’etica esige di non schierarsi con i carnefici.

Le leggi dello Stato sono superiori alla deontologia: non si può provocare la risata calunniando, diffamando, o facendo apologia di reato. L’etica diventa una questione sociale quando, con i propri atti, ci si affranca da leggi e norme che si considerano ingiuste. Nel caso, ci saranno conseguenze da affrontare: il vignettista satirico Scalarini, per esempio, fu condannato al confino dal fascismo.

(12. Continua)

L’assemblea: “Beni comuni nel codice civile”

“Approvare subito la legge per introdurre i beni comuni nel codice civile”. È questo il messaggio che il comitato Rodotà, dedicato al giurista scomparso nel 2017, ha voluto mandare alla politica nell’assemblea “Appello per i beni comuni” che si è tenuta ieri via zoom. All’incontro, patrocinato dalla Camera dei Deputati, hanno partecipato anche i tre parlamentari che hanno presentato proposte di legge sul tema, Stefano Fassina (Leu), Giuseppe D’Ippolito (M5S) e la senatrice del misto Paola Nugnes, oltre all’ex ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti. I parlamentari sono stati introdotti dagli interventi di due membri del Comitato: Carlo Alberto Graziani che ha presentato la legge di iniziativa popolare che ha raccolto 51.700 firme e il vicepresidente del Comitato, l’economista, Ugo Mattei che ha chiuso la discussione sul disegno di legge. “Quando i beni comuni saranno inseriti nel codice civile, l’Italia sarà il punto di riferimento anche per gli altri paesi – ha spiegato Graziani – questa legge è la madre di tutte le battaglie politiche”. Idea condivisa da Mattei che ha lanciato un appello per istituire subito una commissione “per modificare il codice civile”. Nel mezzo l’intervento del vicepresidente emerito della Corte Costituzionale Paolo Maddalena secondo cui “i beni comuni sono già in Costituzione e si basano sul rispetto degli interessi del popolo”. Approvate anche quattro mozioni su Beni Culturali, referendum regionali sul servizio sanitario, disabilità e dignità del lavoro.

Un film su Feltri sul giornale di Feltri: “Che bel direttore!”

Verrebbe da citare Fantozzi, se non fosse persino troppo poco. Il caro vecchio geometra Calboni – per i non appassionati alla saga: l’arrivista leccapiedi che urla “è un bel direttore!” al cospetto del Conte Catellani – è infatti un pallido precursore di quel che accade oggi a Libero, il quotidiano fondato da Vittorio Feltri. Il Vittorio Feltri medesimo che ieri era protagonista su sul giornale di un articolo a due pagine: ma non nel senso che lo ha scritto lui, nel senso che l’articolo parlava proprio di Feltri. A compimento del capolavoro, si aggiunga l’oggetto del pezzo, ovvero l’imminente uscita “gratis solo per i nostri abbonati” (nostri di Libero, è meglio precisare) di “un film su Vittorio Feltri”. Titolo didascalico, ma degno dell’ego del direttore: “Io, Vittorio Feltri”.

Pare che la pellicola si sviluppi intorno a parecchie testimonianze di scrittori, giornalisti, politici che raccontano l’amato fondatore, “forse il giornalista più popolare del Paese”, a sua volta immortalato in redazione e tra i selfie per strada. Al quadretto partecipano una commossa Michela Vittoria Brambilla (“adoro Feltri”), un soddisfatto Pietro Senaldi (“Ho voluto fortissimamente lavorare con Feltri, perché ritenevo fosse un investimento per la mia professione”), un ammirato Francesco Alberoni (“è il giornalista più coraggioso e il più sincero”), un ispirato Gabriele Albertini (“Se Montanelli è il principe dei giornalisti, Feltri è il duca”). La chiusa la dà Pino Farinotti, autore dell’attesissimo film, che racconta di quest’uomo che “assume una direzione e le copie si moltiplicano”, di questo “intellettuale capace di uno stile di scrittura da romanziere, di un’analisi di un testo accademico, di un’umanità semplice e profonda”. La stessa “umanità semplice e profonda”, per dire, che accolse così Silvia Romano: “Abbiamo liberato un’islamica”; “Se stava bene in Africa, perché è tornata?”. Ma di questo, magari, si parlerà nel sequel.

Dopo S. Sofia, il Sultano vuole anche Gerusalemme

A scherzare con la storia ci si brucia, come ha spiegato benissimo ieri su queste pagine Filippomaria Pontani a proposito di Santa Sofia, la cattedrale cristiana edificata mille anni prima di San Pietro, riconsacrata moschea per alimentare i sogni di grandezza del nuovo sultano Erdogan.

Bisanzio divenuta Costantinopoli divenuta Istanbul resta da sempre la più importante metropoli del Mediterraneo. E per quanto lo si voglia disconoscere, continuerà a legare in un destino comune Europa e Asia. Il passo indietro della storia con cui si revoca la secolarizzazione di quel luogo sacro trasformato in museo nel 1934 dal laico Atatürk, decreta probabilmente “la fine della Turchia come nazione laica”. Parole amare pronunciate ieri dal premio Nobel Orhan Pamuk. Tanto più che Erdogan, nel mentre in inglese rassicurava che le porte di Ayasofya resteranno aperte a tutti, nel messaggio diffuso in lingua araba usava ben altro tono: “Questo è un passo verso la liberazione di al Aqsa”, ovvero la grande moschea di Gerusalemme. Naturalmente gli è giunto subito il plauso di Hamas.

Come già rilevato da Pontani, l’iniziativa dell’aspirante sultano si presenta come risposta islamica a Trump che, nel dicembre 2017 annunciò lo spostamento dell’ambasciata statunitense in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Quando la diplomazia provoca la storia, determina ripercussioni imprevedibili. Le proteste internazionali cozzano con lo spirito di rivincita dei musulmani.

Troppo lunga è la memoria di questo conflitto. Corre fino al 1236, quando la reconquista cristiana della penisola iberica fu suggellata dalla trasformazione della Mezquita islamica di Cordoba in cattedrale dell’Immacolata Concezione. Solo pochi anni prima, nel 1208, il doge veneziano Enrico Dandolo, alla testa della quarta crociata, aveva fatto sedere una prostituta sul trono dell’imperatore bizantino, capo della Chiesa ortodossa. Uno sfregio che i cristiani d’Oriente ripagarono nel 1453 preferendo a furor di popolo il turbante del sultano Maometto II alla tiara papale, allorché Santa Sofia fu trasformata in moschea.

Istanbul diventò per quasi cinque secoli la capitale indiscussa del mondo islamico, restando la Mecca solo un luogo di pellegrinaggio.

Oggi che le lacerazioni dell’islam danno luogo a potenze regionali contrapposte, l’ideologia imperiale neo-ottomana torna a proporsi in contrapposizione alle petromonarchie wahabite del Golfo, all’ortodossia sunnita di al Azhar al Cairo, al jihadismo dell’Isis e all’islam sciita di Teheran. Una destabilizzazione che insanguina da oltre un decennio il Medio Oriente, con epicentro nella martoriata Siria. Ma che ha ondate successive minaccia tutte le nazioni vicine, dalla sponda settentrionale del Mediterraneo alla Russia. E isola ancor di più lo Stato d’Israele.

Non fu certo un caso se Erdogan, all’indomani dello spostamento a Gerusalemme dell’ambasciata Usa, decise di espellere da Ankara l’ambasciatore israeliano, non prima di averlo sottoposto davanti alle telecamere a un’umiliante perquisizione.

Ora che la sua sfera di egemonia si allarga fino alla Libia di Serraj, l’Italia e l’Europa sono costrette a scendere a patti. Pagano, dapprima, la miopia con cui chiusero le porte in faccia a una Turchia ancora laica che trattava per l’ingresso nell’Ue. E poi, dopo aver favorito il risveglio dell’integralismo neo-ottomano, il cinismo degli accordi economici con cui hanno consegnato in mano a Erdogan la chiave dei flussi migratori.

Un’altra occasione ghiotta per gli irresponsabili fomentatori del conflitto di civiltà, populisti speculari al sultano, pronti a rispondere pan per focaccia rispolverando l’armamentario delle crociate e di Lepanto. Con la complicazione che la Turchia fa parte della Nato e la sua fuoriuscita farebbe saltare i sistemi di difesa occidentali, nel mentre Ankara non esita a fare il doppio gioco con Putin.

I duemila fanatici che dopo l’annuncio di Erdogan pregavano e sbraitavano contro i greci e i cristiani davanti a Santa Sofia (o Ayasofya che dir si voglia) per nostra fortuna non rappresentano l’insieme della società civile turca. Il processo di laicizzazione che aveva perfino introdotto l’alfabeto latino viene brutalmente stoppato, la libertà d’espressione conculcata, molti intellettuali e oppositori incarcerati. Ieri, solo il partito filocurdo ha osato esprimere la sua condanna al decreto del Consiglio di Stato di Ankara. Gli altri, anche a sinistra, tacciono intimiditi. Ma c’è ancora un’“altra Turchia” sulla quale far leva, con saggezza, per scongiurare una frattura antistorica che sarebbe irreparabile.