“Sono bilingui: lumbard ai tavoli che contano e compari coi compari”

Da capo della Direzione distrettuale antimafia di Milano, Alessandra Dolciha vissuto in diretta i mutamenti della ‘ndrangheta in Lombardia. Dai vecchi boss ai giovani eredi. Oggi si assiste a uno svuotamento dei luoghi storici di insediamento mafioso, con i boss che scelgono località molto più riservate e meno controllate.

Dottoressa Dolci, perché questa tendenza?

La trasmigrazione di molte famiglie di ’ndrangheta dalle loro storiche zone, come i comuni milanesi di Buccinasco e Corsico, in centri molto più piccoli è certamente legata alla volontà di sottrarsi dall’attenzione investigativa. Per questo da tempo, in particolare i rappresentanti più giovani delle cosche di Platì, come i Barbaro e i Papalia, ma anche i Marando e i Romeo, si sono spostati nella grande area del Parco Sud-Milano, verso il confine con la provincia di Pavia: qui le forze dell’ordine hanno numeri minori.

A Gudo Visconti ci sono due strade che potrebbero essere definite le “strade della ’ndrangheta”, per il numero di affiliati che vivono lì…

Da sempre, i calabresi in Lombardia prediligono i comuni più piccoli. E molto spesso, come a Gudo Visconti, scelgono contesti territoriali dove sono tutti vicini.

Controllo del territorio e anche maggiore possibilità di infiltrarsi nella politica locale?

Non vi è dubbio che le possibilità di agganciare un politico o di fare eleggere un consigliere comunale aumentino a dismisura nei piccoli comuni, come quelli tra Milano e Pavia. Qui, sempre secondo la nostra esperienza investigativa, con 150 preferenze si può diventare consigliere e assessore. È dunque più facile per i clan avere dalla propria parte personaggi delle istituzioni.

Come è cambiata in questa zona la capacità di gestione degli affari dai vecchi boss ai nuovi eredi, che proprio giovani non sono più?

La ’ndrangheta in Lombardia è cambiata. Vecchi boss come Rocco Papalia hanno sofferto una lunga detenzione e al momento non sono più in grado di rapportarsi con i mutamenti sociali ed economici. Oggi gli eredi della generazione degli anni 80, quella dei sequestri per intenderci, mostrano un carattere certamente più imprenditoriale. Sono economicamente più operativi, anche se poi l’attività principale resta comunque il traffico di droga.

Rispetto ai padri, oggi i figli hanno più dimestichezza con il cosiddetto mondo di mezzo?

Certamente sì. Hanno maggiore consenso sociale, anche grazie alla loro capacità imprenditoriale, il che significa, ad esempio, creare e offrire nuovi posti di lavoro. Hanno poi la capacità di fare girare il contante e oggi, rispetto ad anni fa, sono attivissimi nei reati finanziari, come le false fatture o le compensazioni dell’Iva.

Ricchissimi al Nord, ma quando tornano in Calabria curano l’orto e guidano il trattore?

Una doppia faccia, certamente. Dico sempre che i nuovi mafiosi sono bilingui. Bravissimi a parlare lombardo quando devono sedersi ai tavoli che contano, e di nuovo compari con i compari, parlando il dialetto dell’Aspromonte.

Tra tutti gli eredi su cui ha avuto la possibilità di investigare, chi ha mostrato di avere queste capacità?

Alessio Novella, uno dei figli di Carmelo Novella, il boss che per anni, prima di essere ucciso, ha comandato la Lombardia. Più di altri ha mostrato una grande abilità nei rapporti con il “mondo di sopra”, che resta sempre di più l’obiettivo principale dei clan. Oggi sono tanti gli affari leciti nel mirino della ’ndrangheta lombarda. Dal settore del turismo, a quello dei rifiuti. In tutto questo, è certamente cambiata la percezione della società civile e delle istituzioni. Oggi certo nessuno può più negare l’esistenza della mafia a Milano. Questo però non significa che i mafiosi e i loro emissari siano tenuti a debita distanza da politici e imprenditori.

La vita agra dei rampolli delle ’ndrine in Lombardia

La nebbia sale dall’acqua del Naviglio, rimonta oltre la strada provinciale verso i campi che un tempo furono del ducato della famiglia Visconti. Tra Milano e Pavia, mondo sospeso oltre il caos della metropoli. Eccolo il nuovo santuario delle cosche. Campi, marcite, cascine abbandonate, piccoli comuni, tre strade, un bar: il Jolly di Calvignasco. Ci passano camionisti e agricoltori, qualche agente di commercio.

È il 14 dicembre del 2018. Luigi Virgara, giovane calabrese di Platì affiliato alla ’ndrangheta con dote di “picciotto” oggi è felice. “Auguri!” dice al telefono appena fuori dal bar. “Ti giuro su Dio sto morendo per la contentezza. Ora si gioca in casa, berrò due bicchieri di vino per te!”. Poi attacca e ridigita un altro numero. “Mi ha chiamato u Sceiccu”. “Ti chiamò? E che ti disse?”, risponde una voce dal chiaro accento dell’Aspromonte. “Lo hanno fatto uscire, ci fu un errore, abbiamo gioito”. Poche ore dopo, i due sono a bordo di una utilitaria bianca. Sul sedile di dietro alcune bottiglie prese al bar Jolly. Da Calvignasco guidano piano verso Gudo Visconti, ancora poche case, le solite tre strade, un sindaco e un assessore. U Sceiccu vive qui. Scarcerato il giorno prima, ora sta ai domiciliari. Virgara e Pasqualino Barbaro, incensurato e fratello minore di Saverio, secondo la Procura trafficante di cocaina affiliato alla mafia di Platì, stanno andando da lui per festeggiare. Già, perché lo Sceicco è il 39enne Domenico Marando, così descritto dal collaboratore di giustizia Domenico Agresta, alias Micu McDonald: “È il picciotto di Micu Murruni ed è affiliato alla ‘ndrina di Platì”. In galera ci era finito per una tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso. U Sceiccu ha diversi fratelli. Uno di loro vive a Calvignasco, un altro, Giuseppe, detto u Parpigliuni viene descritto nelle carte come “affiliato”. E vive sempre a Gudo Visconti. Qualche via più su, hanno domicilio gli Zappia, altro nome noto da inserire negli organigrammi delle cosche della Montagna. Tutte bandierine sulla nuova mappa della ‘ndrangheta di Platì in Lombardia.

La Platì del Nord non è più Buccinasco

Alcuni comuni storici come Buccinasco, definito negli anni Novanta la Platì del nord, si sono svuotati. “Qui – suggerisce la definizione un investigatore esperto – è rimasta solo la sede legale della Mafia spa”. Già perché quella operativa ora sta qua, tra Calvignasco e Gudo Visconti, tra Bubbiano, Casorate Primo, Vermezzo, Zelo Surrigone. Un agro-mafioso al confine con la provincia di Pavia, dove gli spazi da controllare sono vasti e i numeri delle forze dell’ordine molto piccoli. Dove comuni da meno di mille abitanti si trasformano in fortini inaccessibili, circondati solo da campi, cascine, capannoni. Luoghi ideali per summit e trattative. Il tutto in mano ai nuovi eredi della cosca Barbaro-Papalia.

Una rete inedita messa insieme dalla piccola squadra investigativa dei carabinieri di Corsico, guidata dal capitano Pasquale Puca e dal tenente Armando Laviola. Una compagnia al confine, composta da sentinelle in terra di mafia. Sono loro i convitati di pietra durante gli incontri di Luigi Virgara salito a Milano due anni fa con il compito di riannodare la rete delle cosche di Platì dietro la copertura di bidello, in un istituto scolastico di Buccinasco intitolato a don Pino Puglisi, il prete di Brancaccio ucciso da Cosa nostra. Tutto finisce nell’inchiesta “Quadrato bis” coordinata dal procuratore aggiunto Alessandra Dolci ed eseguita pochi giorni fa con 17 arresti. Ma più che la droga sono i contatti. I carabinieri e l’antimafia ripartono da questi. E così ecco Virgara di nuovo a Gudo Visconti, in via XX settembre: stradina a fondo chiuso, casette a due piani in mattoni rossi, il giusto silenzio.

“Qui – scrivono i magistrati – risultano risiedere parecchi soggetti calabresi con legami diretti con esponenti di vertice della ’ndrangheta platiota”. È impossibile arrivarci senza essere notati. I carabinieri piazzano una microtelecamera e fanno bingo. Virgara – e non solo lui – da lì passa spesso. Solita utilitaria bianca, si ferma davanti al civico 43 e incontra Domenico Papalia, alias Micu u Bruttu, nessuna condanna per mafia, ma, secondo gli investigatori, contatti importanti con vecchi e nuovi boss. Braccio operativo, sostengono i carabinieri, degli eredi di Micu Barbaro detto l’Australiano, deceduto nel 2016, con rapporti diretti, a leggere le carte, con il boss di Platì Rocco Papalia oggi tornato nella sua casa di Buccinasco, dopo anni di carcere.

Del resto, qui abita Rosario Barbaro con la moglie, qui si è trasferita Serafina Papalia, consorte di Salvatore Barbaro, altro figlio dell’Australiano, oggi in carcere per mafia dopo una breve latitanza. Qui ha abitato Antonio Barbaro, nipote del padrino di Platì Beppe Barbaro u Nigru, e già titolare di un negozio di frutta e verdura nel comune di Gaggiano, non distante da Gudo.

Quattro mesi di indagini. E una Tlc nella nebbia

Immortalata per quattro mesi da una telecamera, quindi, la via della ’ndrangheta, con la sua vita e i suoi incontri. Dopodiché una soffiata indica a Papalia il luogo in cui è installata la telecamera. Un po’ di vernice e lo schermo si fa nero.

Eppure in quei 120 giorni, molto emerge e si chiarisce. In particolare la rete di relazioni e nuove figure come quella di Francesco Romeo detto u Pettinaru, anche lui residente a Gudo e un fratello, Pasquale, in contatto, secondo il pentito Agresta, con Giuseppe Molluso definito “una vera macchina da guerra per la cocaina”.

Ora Molluso abita a Bubbiano, a qualche chilometro da Gudo. Molluso viene definito dagli investigatori “soggetto di elevatissimo rilievo investigativo”. E se lui sta a Bubbiano, suo zio Francesco, dopo una galera trentennale per droga e sequestri di persona condivisi con i compari di Platì, ha il suo buen ritiro pochi chilometri dopo, a Zelo Surrigone che, assieme ai Gudo e a Calvignasco, costituisce un altro punto in questa nuova linea di confine.

L’agro-mafioso: l’ultimo tassello

E arriviamo all’ultimo paese di questo inedito agro-mafioso lombardo. Si tratta di Casorate Primo. Qui vive il boss Saverio Agresta, uno degli ultimi vecchi platioti ancora attivi, secondo la procura di Milano.

Agresta oltre a essere il suocero di Molluso, frequenta abitualmente un bar assieme ad altri personaggi legati, leggendo le carte, al mondo criminale. Un perfetto ufficio dove pianificare affari: i compari lo chiamano “il praticello”. Agresta senior è poi il padre del pentito Micu McDonald che con le sue dichiarazioni ha rimesso in ordine i tasselli di questo nuovo santuario mafioso, dove tutto si tiene, rapporti e interessi.

“Sto bastardazzo di merda ha voluto rovinarci, lo ammazzo”.

Così disse il padre.

Alfano arruolato al meeting di Cl per difendere la sanità privata

Dietro a un punto interrogativo ci sono mesi di emergenza, disastri e accuse a un intero sistema: “Sanità pubblica: una integrazione possibile tra statale e privata?”. Questo il nome di uno dei dibattiti previsti nel Meeting di Rimini organizzato da Comunione e Liberazione ad agosto.

Al confronto dovrebbero partecipare il ministro della Salute Roberto Speranza e Angelino Alfano, oggi presidente del Gruppo San Donato, il colosso delle cliniche private della famiglia Rotelli che oltre all’ex delfino di Silvio Berlusconi ha arruolato pure Roberto Maroni e l’ex vicedirettore dell’Aise (i servizi segreti esterni) Giuseppe Caputo.

Mai come quest’anno l’attualità mette in crisi uno dei pilastri della dottrina di Cl, quella sussidiarietà secondo cui – in sintesi – servizi come la Sanità funzionano meglio se il pubblico è affiancato da privati. Nulla di diverso dalla direzione presa dal ciellino Roberto Formigoni alla guida della Lombardia. Il Covid ha però palesato i rischi di queste scelte ed ecco allora che al Meeting arriva Alfano. Per tentare di dimostrare che la sussidiarietà lombarda non ha fallito e il sistema non deve cambiare.

Camici di famiglia: attesa la deposizione dell’ex dg

“Il contributo di ciascuno è prezioso”. Così scriveva a marzo l’assessore lombardo all’Ambiente Raffaele Cattaneo alle aziende a cui chiedeva Dpi. Era lui, infatti, l’addetto di Fontana a fare incetta di mascherine, tute e, soprattutto, camici. Perché proprio lui non è mai stato chiarito. Di sicuro, però, fu Cattaneo – ciellino di ferro – a “segnalare” ad Aria la società del cognato e della moglie di Fontana. Cattaneo è stato fra i primi ad essere sentito dai magistrati che indagano sull’affidamento da 513 mila euro trasformato poi in donazione, per turbata libertà nella scelta del contraente.

“Consideriamo la gravità del momento, avevamo il dovere di provvedere – ha dichiarato ieri l’assessore – Mi sono impegnato a individuare le imprese e di fornire prodotti di qualità. Questo è un valore pubblico”.

Frasi che generano più domande che certezze: se il momento era tanto grave, perché Aria non ha chiesto a Dama di completare la fornitura di tutti i 75 mila camici? Invece, come rivelato giorni fa dal Fatto, nella mail del 20 maggio 2020 alla controllata regionale, l’ad Dini, oltre a trasformare l’affidamento in donazione, aggiungeva che non avrebbe consegnato più nulla (“Consideriamo conclusa la nostra fornitura”, si legge). Una sospensione unilaterale a quota 49.353 camici, cioè quanto fornito fino a quella data. Ne mancavano oltre 25mila, per circa 153 mila euro.

Inoltre, Cattaneo, varesino, poteva forse ignorare chi fossero i proprietari della Dama, società che controlla il noto e storico marchio Paul & Shark? Un interrogativo che assume importanza capitale alla luce dell’omessa firma da parte di Dama del “Patto di integrità” richiesto a tutti i fornitori di Regione per scongiurare possibili conflitti di interesse.

Quesiti ai quali stanno tentando di dare una risposta i pm Luigi Furno, Paolo Filippini e Carlo Scalas, con l’aggiunto Maurizio Romanelli. Dalla lettura delle carte una cosa sembra certa: che quel contratto a Dama non fosse una grande idea lo sapevano tutti. I documenti lascerebbero anche pochi dubbi sul fatto che l’affidamento diretto sia stato tramutato in donazione solo per neutralizzare Report.

Non solo, le carte dimostrerebbero anche come Dini avrebbe tentato di rivendere i 25 mila camici “avanzati” a terzi. A prezzi maggiorati. Al momento sono indagati Filippo Bongiovanni, dimessosi da dg di Aria e Dini. Ma non è escluso che la lista possa allungarsi. Altro punto che i pm vogliono chiarire è se Fontana, non indagato, abbia avuto un “ruolo attivo”. Ci sarebbero elementi che lo farebbero ipotizzare, sebbene lui abbia sempre dichiarato di non aver saputo nulla.

Molto attesa è la deposizione di Bongiovanni, l’uomo che ha gestito gran parte degli affidamenti diretti nel periodo di crisi. Un universo di contratti – 343 solo tra febbraio e giugno – che ha toccato la cifra di 275.906.020 euro, come si legge nel “Rendiconto generale di Aria” che il Fatto ha visionato in esclusiva. Da quel resoconto un dato salta agli occhi: in 5 mesi il Pirellone compra 24.129.181 camici, per 108.431.390 euro. Il costo medio di ogni camice è quindi 4,49 euro. Molto meno dei 6 euro concessi a Dama.

“Per chi arriva basta il doppio tampone. Inutile fermare i voli”

Sul virus è ottimista: “Le cose vanno bene, è inutile guardare alle oscillazioni di Rt che possono dipendere da piccoli focolai: su base settimanale i nuovi casi diminuiscono, non è vero che aumentano perché un giorno sono 180 e l’indomani 220”, dice Pierpaolo Sileri, viceministro M5S della Salute. È invece preoccupato per l’economia e in particolare per il turismo: “Ha girato per Roma? Li vede i ristoranti e gli alberghi chiusi?”. E allora Sileri avanza una proposta per attenuare le misure che stabiliscono la quarantena di 14 giorni per chi arriva da Paesi extra-Schengen e vietano l’ingresso a chi proviene dai 13 Paesi ritenuti più a rischio, bloccando anche i voli: “Fare subito il tampone in aeroporto a quanti arrivano da Paesi extra-Ue, metterli in isolamento solo per 5 giorni e poi rifare il tampone. Penso agli statunitensi, ai canadesi, ma anche ai cinesi: chi vuol venire per pochi giorni non ha interesse, chi viene per periodi più lunghi sì. Come gli stranieri che lavorano qui: potrebbero fare l’isolamento breve in strutture protette anziché nelle precarie o indigenti condizioni abitative di molti di loro”. Sileri, chirurgo e “reduce” dal Covid-19, l’ha scritto al Comitato tecnico scientifico e ne ha parlato al ministro Roberto Speranza: “Penso che ci rifletterà”. L’obbligo di quarantena di 14 giorni scade il 14 luglio, il ministro sta valutando cosa fare dal 15 in poi.

Sbagliato bloccare i voli?

Bloccare i voli dal Bangladesh, con quei numeri, era necessario, come da altri Paesi molto colpiti. Però nel mondo occidentale il virus diminuisce, i dati degli Usa o del Brasile vanno anche commisurati agli abitanti.

Circola un allarme da Cremona, si moltiplicano i focolai, il rischio sale da “basso” a “moderato” in varie Regioni.

Ci sono i focolai ma anche la capacità di contenerli. E i positivi scoperti con lo screening non sono malati. Poi, certo, qualcuno va in ospedale, qualcuno è più grave, ma non sono numeri allarmanti. Così ci dicono anche da Cremona.

Abbiamo le strutture per fare il doppio tampone a tutti quelli che arrivano? E i costi?

Le strutture si possono approntare. Mesi fa non eravamo in grado di fare il tracciamento e lo screening, ora sì. Abbiamo superato molte carenze e con il doppio tampone si può risparmiare: 5 giorni di quarantena per coloro che hanno alloggi promiscui costano meno di 14. Un tampone costa meno di 50 euro e il turista può pagarlo. In alcuni Paesi si muovono in questo senso e servirebbe una strategia europea. L’Islanda ad esempio offre due opzioni: quarantena di 14 giorni o test molecolare a 100 euro a carico del viaggiatore. Anche il Regno Unito sta optando per il tampone all’arrivo per accorciare la quarantena. Ma non solo. In altri casi si può prenotare o fare il tampone prima della partenza. Però la sicurezza vorrebbe almeno un doppio tampone in questa fase di convivenza col virus ma anche di ripresa.

Il ministro Speranza ha detto che il tampone non sostituisce la quarantena di 14 giorni.

Prima pensavamo a tempi di incubazione più lunghi, ora sappiamo che in genere sono 4-5 giorni. Il doppio tampone basta per chi non ha sintomi, ha compilato la scheda sanitaria e si sa dove va. Ragiono sui prossimi mesi: proseguiremo con il distanziamento, le mascherine, il lavaggio delle mani, ma non possiamo tenere chiusa e bloccata l’Italia.

Serve lo stato d’emergenza fino a fine anno?

Agevola la gestione dei focolai, l’approvvigionamento e la distribuzione dei materiali e la tutela dei lavoratori più fragili, anche con lo smartworking.

Alcuni focolai non hanno fatto i danni temuti, dal Veneto alla festa di Napoli per la Coppa Italia. Perché?

Credo che oggi, quando vediamo due o più persone vicine, in realtà i contatti siano limitati nello spazio e nel tempo. Quasi tutti abbiamo imparato a evitare il bacetto o la stretta di mano, a mettere la mascherina, a non stare troppo a contatto. E forse un aiuto ce l’ha dato il caldo, come mi sembra anche in Spagna e in Grecia.

Casellati non sa per cosa si vota e attacca Conte con le fake news

La presidente del Senato Elisabetta Casellati ieri al Tg5 annuncia: “Martedì in Aula si voterà sulla proroga dello stato d’emergenza”. Ma si tratta di una gigantesca fake news, perché il voto non sarà sui poteri speciali al governo causa coronavirus, ma sulla prorga alle misure anti-Covid, perché il relativo dpcm è in scadenza il 14 luglio, in seguito alle comunicazioni ai parlamentari del ministro della Salute Roberto Speranza.

Per la proroga dello stato d’emergenza, invece, lo strumento legislativo è diverso: serve una delibera del Consiglio dei ministri. Cosa che, per adesso, non è in agenda. Dopo le polemiche politiche e le accuse di spinte autoritarie mosse al presidente del Consiglio Giuseppe Conte da parte delle opposizioni, Palazzo Chigi ha precisato con una nota alle agenzie di stampa. Una ricostruzione che, pur non citando mai le parole della Casellati, di fatto la smentisce categoricamente.

Addirittura la presidente del Senato, la stessa politica cnel 2011 credeva e sosteneva che Ruby fosse la nipote dell’allora presidente d’Egitto Mubarak, al telegiornale Mediaset ha usato termini non molto istituzionali: “Mi auguro che sia l’inizio di una democrazia compiuta, perché in Parlamento e al Senato siamo ormai gli invisibili della Costituzione”.

Sul dpcm, che dovrebbe in sostanza prorogare le norme esistenti, Conte ha delegato Speranza a riferire martedì, prima – spiegano fonti di governo – che il provvedimento venga firmato. Mentre sullo stato d’emergenza, se il governo si orienterà come probabile per la proroga, sarà Conte stesso a riferire prima del 31 luglio. Una precisazione di merito e di metodo, quindi, che ha fatto seguito a quella fatta circolare neanche 24 ore prima, con la presidenza del Consiglio che aveva sottolineato come la decisione sulla proroga dello stato d’emergenza non era stata ancora presa e che prima ci sarebbe stato un passaggio doveroso in Parlamento. Rassicurazione che però non aveva placato il centrodestra, che ha attaccato duramente il governo e chiesto al Pd e a Italia Viva di dire no alla proroga. Appello caduto nel vuoto, visto che Zingaretti l’ha subito rispedito al mittente, assicurando che “il Pd è pronto a sostenere qualsiasi scelta del governo”. Nello stesso Partito democratico, però, ci pensano gli ex renziani, come Andrea Marcucci, capogruppo al Senato, ad agitare un po’ le acque: “Non intendiamo dare una cambiale in bianco al presidente del Consiglio. Credo che sia una proroga di natura preventiva, non c’è alcun segnale di una nuova ondata del coronavirus”. E poi ci sono i renzianissmi di Italia Viva che “sollecitano un coinvolgimento di Camera e Senato”, battono le agenzie. I Cinque stelle sembrano meno “appassionati” alla vicenda. La proroga è una “questione prettamente tecnica” ha commentato in prima battuta il capo politico Vito Crimi. Il centrodestra ribadisce la contrarietà: i dpcm danno troppi poteri al governo e confinano il Parlamento in un angolo. “Lo stato di emergenza blocca l’Italia”, dice la capogruppo dei senatori di Forza Italia, Anna Maria Bernini, mentre Antonio Tajani chiede al governo di confrontarsi con Camera e Senato e non si capisce in che altro modo rispetto a quanto annunciato dal governo stesso. La capogruppo forzista alla Camera, Mariastella Gelmini, lancia un appello “a Pd e Italia Viva, affinché dicano no a questa inutile incoronazione pretesa da Conte”. La Lega ex nord attacca col padre del porcellum Roberto Calderoli: “Il governo si è indebitamente appropriato di pieni poteri straordinari attribuibili solo nello stato di guerra”. Per i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni “siamo oramai al paradosso, con Conte che vuole prorogare arbitrariamente lo stato di emergenza”. Politica balneare nell’estate del Covid-19.

Aspi, ok alle richieste per evitare la revoca

Tre miliardi e quattrocento milioni per chiudere il procedimento di revoca, 7 miliardi in maggiori manutenzioni e 13,2 miliardi di investimenti complessivi. Sì anche all’ingresso di nuovi investitori e al taglio delle tariffe. È questa l’offerta inviata ieri da Autostrade per l’Italia (Aspi) al governo, su input dei Benetton, i maggiori azionisti di Atlantia (la holding che controllano e che a sua volta controlla la concessionaria) e che, entro giovedì, arriverà sul tavolo del Consiglio dei ministri per far chiudere, a quasi due anni dal disastro del ponte Morandi di Genova, la partita della concessione.

Dopo l’ultimatum del premier Giuseppe Conte degli scorsi giorni, il consiglio di amministrazione di Autostrade ieri ha infatti approvato una nuova proposta finalizzata “a una positiva definizione della procedura di contestazione”. La società avrebbe recepito gli impegni economici richiesti dal governo nell’incontro di mercoledì scorso, tra cui l’innalzamento della quota di risarcimenti per la tragedia del Ponte Morandi. Un rilancio con cui evitare in extremis la revoca della concessione dei 3 mila chilometri di autostrade italiane.

Nel documento su cui si cela massimo riserbo – ora è allo studio della ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli che entro lunedì lo esaminerà con i tecnici del Mit – dovrebbero essere stati sciolti i due nodi del dossier: il primo riguarda il sistema tariffario, la manutenzione e gli investimenti; l’altro punta alla governance. Nel dettaglio, dovrebbe essere confermato l’aumento del risarcimento per il crollo del Ponte che potrebbe arrivare a 3,4 miliardi di euro rispetto all’ipotesi iniziale circolata di poco inferiore ai 3. Poi c’è l’impegno ad applicare il regime tariffario dell’Authority dei Trasporti che mette fine allo strapotere dei concessionari, con un abbassamento medio dei pedaggi dell’1,75 sull’arco temporale della concessione e l’aggiornamento del Piano economico e finanziario (Pef) che include 7 miliardi di manutenzioni e un investimento complessivo di 13,2 miliardi.

Il governo ha chiesto ai Benetton di fare un passo indietro sul controllo della società. E sembra che il gruppo sia disposto a farlo. Si prevede la cessione del controllo di Aspi da parte della famiglia di Ponzano Veneto diluendo la quota di Atlantia in Autostrade che dovrebbe scendere dall’attuale 88% sotto il 50%. Una mossa per lasciare spazio a investitori terzi che dovranno sottoscrivere un aumento di capitale per assicurare l’implementazione del nuovo piano di investimenti e di manutenzioni. E tutto fa pensare che i nuovi soci siano guidati da Cassa depositi e prestiti, anche se la cassaforte del risparmio postale ha fatto sapere di “che parlare di un interesse vero e proprio è ancora prematuro”. Nel nuovo piano non figurerebbe la richiesta di modifica del decreto Milleproroghe che riduce l’indennizzo, in caso di revoca, a 7 miliardi, cifra di gran lunga più bassa dei 23 miliardi previsti dalla convenzione siglata nel 2008. Una soluzione che però continua a non convincere i Cinque Stelle che in serata fanno trapelare il loro no. “La proposta non è sufficiente”, fanno sapere. Il dimaiano Stefano Buffagni avrebbe detto ai suoi: “I Benetton devono andarsene”. La strada torna in salita per il premier Conte che dovrà superare le divisioni con Pd e renziani.

Sala vuole gabbie salariali. “Qui la vita è troppo cara”

Un dipendente della pubblica amministrazione a Milano dovrebbe guadagnare di più rispetto a un pari ruolo che lavora a Reggio Calabria. La ricetta viene da Beppe Sala, sindaco di Milano che un paio di giorni fa – ma la polemica politica è tutta di ieri – è stato intervistato in diretta Facebook sulla pagina di InOltre – Alternativa progressista, gestita da un gruppo di giovani vicini al Partito democratico.

Parlando delle difficoltà e dello sfruttamento dei ragazzi nella sua città, Sala ha quindi citato l’elevato costo della vita milanese, proponendo poi la sua soluzione: “Io capisco che sia un discorso difficile da fare, ma è chiaro che se un dipendente pubblico, a parità di ruolo, guadagna gli stessi soldi a Milano e a Reggio Calabria, è intrinsecamente sbagliato, perché il costo della vita in quelle due realtà è diverso”.

Una visione che ricorda quella che nel Dopoguerra portò alle gabbie salariali, il sistema che ancorava gli stipendi al costo della vita di una certa area geografica. Rimaste in vigore per una ventina d’anni (non sempre a pieno regime), in Italia le gabbie salariali furono abolite tra gli anni 60 e 70 perché ritenute discriminanti nei confronti di chi lavorava in una città rispetto ad un’altra. Solo la Lega Nord di Umberto Bossi e qualche leader di Confindustria proposero di riesumarle.

Ora Sala sembra invece riproporre proprio quella scuola di pensiero: “Adesso o mai più. Quello che non possiamo fare è immaginare di tornare allo status quo precedente al coronavirus il più in fretta possibile. Bisogna approfittare di questa situazione per cambiare un po’ le regole del gioco”.

Inevitabile, però, che l’uscita di Sala prestasse il fianco a facili attacchi politici. Dall’opposizione la calabrese Wanda Ferro, deputata di Fratelli d’Italia, ne fa una questione di appiattimento nei confronti dei poteri forti: “Non ci meraviglia che da sinistra vengano proposte ricette economiche che coincidono con quelle che la grande finanza internazionale cerca di imporre all’Italia”. E ancora: “Il sindaco Sala racconti a un lavoratore calabrese che si trova davanti alla necessità di farsi curare fuori Regione, o che deve accudire un familiare in disabilità, che merita di avere uno stipendio più basso perché vive dove la vita costa meno”.

Dal governo invece è il ministro per il Sud Peppe Provenzano a bocciare Sala: “Si tratta di una discussione arcaica. Come facciamo a valutare la produttività di un lavoratore di Scampia, oppure di un quartiere di Palermo senza servizi? Questo lavoratore dovrebbe essere pagato il doppio per la socialità del suo lavoro”.

Stessa linea del ministro degli Affari europei Enzo Amendola: “Non voglio polemizzare con Sala, ma il problema non è quello delle gabbie salariali. La proposta non è una scelta condivisa né dai partiti né dai sindacati”. E in effetti nessuno segue il sindaco. Né dal Pd né, tantomeno, dai 5 Stelle, da cui semmai si utilizzano toni ancor più decisi: “Le ultime affermazioni di Sala sono a dir poco allucinanti – scrive la deputata calabrese Federica Dieni – Per il sindaco di Milano dovrebbero esistere due Italia, in ognuna delle quali il lavoro dovrebbe avere un certo grado di dignità, alto al Nord e basso al Sud. È inaccettabile che, nel 2020 si parli ancora di gabbie salariali, dietro cui si nasconde il solito complesso di superiorità della parte più sviluppata del nostro Paese”.

Peraltro Sala non è nuovo a controversie del genere. Un paio d’anni fa polemizzò con l’allora ministro del Lavoro Luigi Di Maio e la sua proposta di chiudere i centri commerciali la domenica: “Chiudano ad Avellino, a Milano non ci rompano le palle”. Parole a cui Di Maio replicò definendolo “sindaco fighetto” per cui “i diritti della persona sono una rottura di palle”.

A fine giugno, invece, durante un’altra diretta social Sala aveva snobbato il tele-lavoro, riconducendolo a poco più che una ricreazione ed esortando le aziende a far rientrare in ufficio i dipendenti dopo l’emergenza coronavirus: “Adesso basta con lo smart working, è ora di uscire dall’effetto grotta e tornare a lavorare”.

“Noi mai con B., questa linea non si potrà varcare”

Nessuna esitazione: “Qualsiasi manovra per portare Silvio Berlusconi nella maggioranza è inaccettabile, visto che il suo è un partito fondato da un condannato per concorso esterno in associazione mafiosa”. L’eurodeputato siciliano del M5S Ignazio Corrao scandisce l’aggettivo “mafiosa” in un certo modo.

Romano Prodi ha detto che l’ingresso di Forza Italia in maggioranza “non è più un tabù” e per il capogruppo dem in Senato Andrea Marcucci “Berlusconi mostra senso istituzionale”. Perché tutti questi elogi dal Pd?

Per la logica dei numeri in Parlamento, immagino. Tanti dem hanno nostalgia del Patto del Nazareno. Non mi vengono in mente altre ragioni.

È certo che nei 5Stelle non ci sia qualcuno tentato da FI? Tira una strana aria attorno al premier Conte.

Se qualcuno del Movimento ha la tentazione di far entrare Berlusconi in maggioranza vuol dire che non è mai stato per davvero un 5Stelle. Spero che non ci sia nessuno tra noi che abbia questo genere di idee. Berlusconi rappresenta la linea rossa che non si può varcare. Alessandro Di Battista andò ad Arcore a leggere la sentenza per Marcello Dell’Utri, in cui si parlava di “rilevanti somme di denaro date da Berlusconi a Cosa nostra” in cambio di protezione.

Si corteggia B. anche per cannoneggiare Conte.

Far cadere il presidente del Consiglio sarebbe un grave errore. Ha dimostrato di saper ricoprire quel ruolo meglio di chiunque altro, reggendo il Paese durante la pandemia.

Pd e FI sono favorevoli al Mes, e voi no. Ciò potrebbe facilitare accordi, anche perché il governo rischia di cadere sul fondo salva-Stati, no?

Conte ha dimostrato una notevole intelligenza, e ha sempre espresso una posizione critica sul Mes. Non credo che rischierà la tenuta della maggioranza facendo votare il Parlamento sul fondo salva stati: troverà prima una soluzione al tavolo europeo che permetta di evitarlo.

Anche nel M5S crescono i dubbi sul no al Mes, non crede?.

Noi 5Stelle siamo cresciuti come consenso ai tempi del governo Monti e dell’austerità benedetta dall’Europa. Certe misure tipiche di quella visione vanno smantellate. E se per il Mes non si può fare, quanto meno non bisogna farvi ricorso: ha solo controindicazioni.

La distanza con i dem si dilata. Eppure vi chiedono alleanze anche nelle Regioni, auspicate pure dal premier.

Il punto è che non si possono fare alleanze come le vuole il Pd, con vecchie logiche e vecchi nomi. Servono piattaforme di programma, e contenitori civici in cui possano confluire il M5S e quella parte del Pd che voglia portare avanti temi come l’ambiente. E c’è bisogno di nomi nuovi, perché in politica è necessaria la discontinuità. La forza del Movimento è stata proprio la diversità.

Non sembrate più così diversi, voi 5Stelle.

Dobbiamo essere bravi, rinnovandoci e mantenendo uno spirito propositivo.

Dal Conte2 all’ipotesi Draghi: girotondo intorno al Cavaliere

Sostiene un ministro di rango, ansimando per il caldo: “Di Maio? Farebbe un governo pure con Bokassa, altro che Berlusconi, per togliere Conte da Palazzo Chigi”. Una battuta, ovviamente, seppur feroce. Ma che aiuta a mettere a fuoco il contesto sfocato di questa strana fase post-Covid vissuta dalla maggioranza giallorossa. All’apparenza tutti sostengono l’esecutivo dell’Avvocato del Popolo, dal M5S alle varie correnti del Pd, in primis quella che fa capo all’immarcescibile Dario Franceschini, che vanta la medaglietta di capodelegazione democratico nel governo. Epperò qualcosa si muove, giorno dopo giorno. Scosse continue senza sosta (sin prisa pero sin pausa, senza fretta ma senza pause, direbbe Rafa Benitez) che alla fine potrebbero deflagrare in un rovinoso terremoto.

Quando? La data segnata dai profeti dell’Apocalisse prossima ventura – ce ne sono a iosa anche tra dem e grillini – è quella del 21 settembre. La sera cioè delle Regionali, con l’eventuale vittoria della destra sovranista. Altri invece riferiscono che un indicatore importante sarà l’esito della tormentata trattativa tra Palazzo Chigi e Autostrade. Come che sia, a detta di molti il premier sarebbe una sorta di dead man walking a sua insaputa. L’ultima notizia che ha ravvivato questa immagine riguarda sempre Luigi Di Maio, considerato ancora il vero capo del Movimento. Il suo incontro con Mario Draghi, l’ex governatore della Bce diventato il crocevia salvifico del Sistema Italia, punta una direzione ben precisa. Ma il nome di Draghi nei ragionamenti di alcuni ambienti della maggioranza sarebbe solo l’atto finale del “superamento” di Conte.

Innanzitutto c’è da definire l’eventuale ruolo del redivivo Silvio Berlusconi, tornato centrale nella politica italiana per la sua posizione di “responsabilità istituzionale”, costruita attorno alla vexata quaestio del ricorso al Mes, il fatidico fondo salva-Stati. Il primo a riconoscergli questa patente di agibilità è stato Conte, ben prima dello sdoganamento prodiano dell’ultima settimana (“Berlusconi in maggioranza non è tabù”). E potrebbe essere proprio il premier, fa notare un’altra fonte di governo, ad attingere alla risorsa di Forza Italia in Parlamento per sopravvivere in autunno. Del resto è un’ipotesi vecchia di mesi, da quando Gianni Letta, il Gran Visir del berlusconismo di rito romano, prospettò all’Avvocato un manipolo di Responsabili per bilanciare l’inquietudine dei neo-renziani di Italia Viva. Oggi lo scenario è mutato e il problema non è più Matteo Renzi (almeno per ora), ma la disponibilità non è tramontata.

Non a caso ecco cosa dice un parlamentare azzurro di primissima fila: “Letta è un governista a prescindere. Può essere governista con Conte ma anche con Draghi o con un nuovo premier del Pd”. Ché queste sono le tre opzioni di Berlusconi sul breve periodo. Nella prima (Conte) e nella terza (diciamo Franceschini) si tratterebbe di un allargamento della maggioranza a Forza Italia. In merito c’è pure da segnalare che dopo l’uscita di Romano Prodi sul tabù da infrangere, nessun pentastellato di peso, sia di governo sia del Movimento, ha sentito il bisogno di dire pubblicamente no al Pregiudicato. Il primo a parlare è Ignazio Corrao nell’intervista a fianco. Poi c’è il governissimo tecnico (da Draghi a scendere giù per li rami) e in questo caso si aprirebbe un dibattito nella Lega salviniana da parte dei “pragmatici” Giancarlo Giorgetti e Luca Zaia.

Un’incognita nella ritrovata centralità di Berlusconi, a dire il vero, c’è. Ed è la tenuta dei gruppi parlamentari in caso di appoggio a Conte o a un altro governo grillodem. Rivela un senatore azzurro: “L’ottanta per cento andrebbe via con Meloni o Salvini. Rimarrebbero solo quelli con il miraggio di una seggiola di governo”. Forse l’ottanta per cento è un po’ esagerato ma la secca previsione ha come sottotesto un messaggio al Caro Leader che prosegue il suo personale lockdown nella villa della figlia Marina a Valbonne, in Provenza. Questo: “Il presidente ha perso il polso della situazione e adesso cercano di tenerlo lontano quanto più possibile da Milano e Roma, lo tengono rinchiuso a Valbonne”.

Chi? I mandanti sono noti (da Letta a Ghedini e Tajani) e tra le motivazioni c’è anche una questione sentimentale. Oggi la “fidanzata” di B. è la giovane deputata silente Marta Fascina. Ma un ritorno in Brianza potrebbe comportare una “forte nostalgia” per l’ex Francesca Pascale, liquidata con un insolito comunicato di partito a inizio marzo.