Una vita da Caimano/3

Per chi ha dimenticato, anzi vuole dimenticare, prosegue il nostro viaggio nella galleria degli orrori del berlusconismo.
2001-2006. Il 13 maggio 2001 B. stravince le elezioni alla guida della Casa delle Libertà (61 collegi su 61 in Sicilia). Il suo secondo governo durerà cinque anni. Un lungo rosario di leggi ad personam processuali e aziendali (29, in aggiunta alle 4 del primo governo), controriforme devastanti (dalla scuola all’università, dalla sanità alle grandi opere, sfascio della Costituzione con la “devolution” (poi bocciata nel referendum dagli elettori), condoni fiscali ed edilizi, politiche finanziarie e sociali scriteriate, favori alle mafie, guerra ai magistrati, ai giornalisti e agli artisti scomodi (l’“editto” bulgaro contro Biagi, Santoro e Luttazzi, subito radiati dalla Rai), leggi contro la scienza (la n. 40 sulla fecondazione assistita), scontri con l’Europa, figuracce internazionali come l’insulto “kapò nazista” al vicepresidente Ue Martin Schulz, commissioni parlamentari per calunniare con falsi testimoni i leader dell’opposizione e perfino il presidente Ciampi (Telekom Serbia e Mitrokhin), dossieraggi illegali del Sismi e della collegata Security Telecom contro gli avversari, guerre in Afghanistan e in Iraq, rendition targate Cia come il sequestro a Milano dell’imam Abu Omar, mano libera ai poliziotti violenti (al G8 di Genova nel 2001). Dulcis in fundo, a fine legislatura (dicembre 2005): B. cambia la legge elettorale a colpi di maggioranza e vara il Porcellum (poi dichiarato incostituzionale dalla Consulta), che danneggia l’Unione, favoritissima nei sondaggi, e gli garantisce almeno il pareggio.
2006-2008. Il 2006, a tre mesi dal voto, si apre con la pubblicazione sul Giornale della telefonata segreta di Fassino a Consorte sulla scalata Unipol-Bnl (“Allora siamo padroni di una banca?”), trafugata da un amico di Paolo B., portata in dono a Silvio e approdata sul quotidiano di famiglia. Il 10 aprile l’Unione vince di un soffio, mentre B. grida ai brogli. Il Prodi2 si regge al Senato su un pugno di seggi. E non gode dei favori del neopresidente Giorgio Napolitano, grande fautore delle larghe intese, né di Walter Veltroni, che terrorizza gli alleati minori col suo Pd autosufficiente a “vocazione maggioritaria”. B. corrompe subito, con 3 milioni di euro (di cui 2 in nero, cash) il senatore Idv Sergio De Gregorio, che passa da sinistra a destra. Tentativi analoghi compirà con altri senatori di maggioranza per rovesciare il governo. Intanto l’Unione lo salva un’altra volta dall’ineleggibilità (in barba alla legge 361/1957 col solito trucco di dichiarare ineleggibile Confalonieri al posto suo).

E regala a lui, a Previti e a decine di migliaia di criminali un indulto di 3 anni. Così Previti – appena condannato a 7 anni e mezzo per corruzione giudiziaria e cacciato dal Parlamento – si risparmia pure il fastidio dei domiciliari e B. intasca un bonus di impunità triennale da spendere alla prima occasione. Prodi cade il 24 gennaio 2008 per mano del ministro della Giustizia Clemente Mastella, indagato a S. Maria Capua Vetere con la moglie e mezza Udeur, subito arruolato da B. (che lo ricambierà con un seggio al Parlamento europeo).

2008-2013. Il 3 aprile 2008 il Popolo delle Libertà sbaraglia il Pd di Veltroni, che predica il dialogo con B. e non osa neppure nominarlo (“il principale esponente dello schieramento avverso”). B. sale per la terza volta a Palazzo Chigi con la sua maggioranza più̀ schiacciante e un carico di processi da record mondiale. E riparte con le leggi ad personam (altre 8, in aggiunta alle 4 del primo governo e alle 29 del secondo: totale 41), ad aziendam e ad mafiam, l’occupazione militare della Rai, i bavagli alla stampa, la guerra alle toghe, i conflitti d’interessi, l’oscurantismo bigotto (vedi il decreto, bloccato da Napolitano, per impedire una fine dignitosa a Eluana Englaro), le figuracce mondiali, gli scandali suoi e dei compari, l’illegalità elevata a sistema.

Il 25 aprile 2009 si presenta a Onna, nell’Abruzzo terremotato, travestito da partigiano, col fazzoletto al collo, per celebrare la sua prima Liberazione. Ovazioni da destra a sinistra. Poi sposta a L’Aquila il G8 già previsto a La Maddalena con svariati miliardi buttati, e si autocelebra coi grandi del mondo, Obama in testa, passeggiando sulle macerie del sisma. Tutto fa pensare a una legislatura trionfale. Ma a fine aprile Veronica Lario denuncia lo scandalo di una ventina di “veline” nelle liste europee di FI (“ciarpame senza pudore”). E si scopre che il premier ha festeggiato in quel di Casoria (Napoli) il 18° compleanno di Noemi Letizia, una ragazza che lo chiama “Papi” e lo frequenta da quando aveva 14 anni. Veronica annuncia il divorzio: “Mio marito è malato, non posso stare con un uomo che frequenta minorenni”. A giugno parte un’inchiesta a Bari sulle escort Patrizia D’Addario&C. portate a Palazzo Grazioli dal pappone Gianpi Tarantini, pagato dal premier. Santoro, rientrato in Rai per ordine del Tribunale di Roma, intervista la D’Addario e si occupa della trattativa Stato-mafia: B. ordina in gran segreto alle sue quinte colonne in Rai e Agcom di trovare il modo di “chiudere tutto” (Annozero e i pochi programmi che ancora lo infastidiscono).

Nel 2010 il presidente della Camera Gianfranco Fini contesta la legge-bavaglio Alfano contro le intercettazioni. E viene subito linciato dagli house organ di B. per un alloggio a Montecarlo acquistato a prezzi di favore dal cognato Giancarlo Tulliani dal patrimonio di An. Fini fonda Futuro e Libertà, che a novembre si associa alle mozioni di sfiducia delle opposizioni. Ma Napolitano rinvia il voto a dopo la finanziaria, dando a B. il tempo di reclutare una trentina di deputati di centrosinistra per rimpiazzare i finiani e salvarsi in extremis.

Nel gennaio 2011 la Procura di Milano lo indaga per la prostituzione minorile di Karima El Mahrough in arte Ruby e per la concussione ai danni di un funzionario della Questura, a cui il premier telefonò nel maggio 2010 per far rilasciare la minorenne dopo un fermo per furto, spacciandola per nipote di Mubarak. Dagli atti escono fiumi di intercettazioni a luci rosse con e fra le escort in fila per i “bunga bunga” nella villa di Arcore. Camera e Senato, con 315 e 170 voti di maggioranza, si coprono di ridicolo e vergogna sollevando un conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato dinanzi alla Consulta contro il Tribunale di Milano, sostenendo che B. agì nell’esercizio delle funzioni di capo del governo per evitare un incidente diplomatico con l’Egitto di Mubarak, noto “zio” di Ruby. In estate le Borse crollano, lo spread sfonda quota 700, gli speculatori scommettono contro l’Italia e il governo, spaccato e inerte, viene commissariato via lettera dalla Bce. Nel centrodestra è il fuggifuggi generale. L’8 novembre, sul rendiconto dello Stato, il governo va sei voti sotto la quota minima di maggioranza. Bossi invita B. a “farsi di lato”, lui però annuncia che resisterà. Ma il crollo in Borsa anche delle aziende di famiglia induce la figlia Marina, Fedele Confalonieri ed Ennio Doris a suggerirgli di mollare e pensare alla “roba”. Il 12 novembre B. sale al Colle per dimettersi, fra due ali di folla che festeggiano e lo insultano. E lascia il Quirinale da un’uscita secondaria. Il successore è Mario Monti, a capo di un governissimo tecnico sostenuto da tutti i partiti, eccetto la Lega Nord e l’Idv. B. sembra finito e forse lo crede anche lui. Infatti il 24 ottobre 2012 annuncia il ritiro e lancia Alfano alle primarie per il nuovo leader Pdl. Che non si terranno mai. Il capo resta B., che cambia idea e si ricandida, stavolta al Senato.

2013. Alle elezioni del 24-25 febbraio il Pdl perde 6,5 milioni di voti. Il Pd, dissanguato dalle politiche antisociali di Monti, ne lascia per strada 3,5 milioni e arriva primo a pari merito col M5S (passato da zero al 25,5%). Il partito di Bersani incassa il premio di maggioranza del Porcellum solo grazie all’alleanza con Sel, ma non ha i numeri per governare. È quel che sperava Napolitano, che rivuole le larghe intese appena bocciate dagli elettori per tagliare fuori i vincitori 5Stelle, anche a costo di ricandidarsi al Quirinale. Il 17 aprile Bersani incontra B. a casa di Enrico Letta per concordare un candidato comune al Colle: Franco Marini. Tutto per sbarrare la strada a Stefano Rodotà sostenuto da M5S e Sel. Ma sia Marini sia Prodi vengono impallinati dai franchi tiratori Pd. Così il 20 aprile tutto è pronto per la rielezione di Napolitano (primo caso nella storia repubblicana). Che ringrazia B.: “Silvio ha parlato da statista”. E il Caimano ricambia cantando a Montecitorio “Meno male che Giorgio c’è”. Il Pd gli fa pure scegliere il nuovo premier: Enrico Letta, nipote del fido Gianni. Poi respinge la richiesta del M5S di applicare finalmente la legge 361/1957 e dichiararlo ineleggibile. E resta alleato di B. anche dopo le nuove condanne: in primo grado a 7 anni per prostituzione minorile e concussione (Ruby); e in appello a 4 anni per frode fiscale (Mediaset). In nove mesi di vita, il governo Letta fa una sola cosa degna di nota: il rinvio di un anno della rata dell’Imu per tutti i proprietari di prime case, inclusi i ricchissimi magnati con ville e castelli (primo punto del programma elettorale di B.). Per il resto rimane paralizzato dai veti incrociati Pd-Pdl.

Il 1° agosto 2013 il Cavaliere è condannato definitivamente in Cassazione per frode fiscale sui diritti Mediaset: 4 anni di carcere (di cui 3 coperti da indulto) e 2 di interdizione dai pubblici uffici (che lo rendono ineleggibile e lo privano anche del diritto di voto). Lui fa il diavolo a quattro contro i giudici, tenta di ricattare il Quirinale minacciando di rovesciare il governo per avere la grazia. Napolitano gliela fa balenare attraverso il ministro dell’Interno Alfano, ma solo in cambio delle sue dimissioni da senatore. Che lui ovviamente non dà. Così il 27 novembre viene espulso dal Senato per la legge Severino. Ed esce dalla maggioranza, abbandonato però dai suoi ministri Alfano, Lorenzin, Lupi, De Girolamo, che fondano il Nuovo Centro Destra per restare imbullonati alle poltrone. Stavolta pare davvero finito, ma mai dire mai.

(3 – continua)

Il ritorno di Ciccio, Detective baby di successo

Ciccio è un bambino che chiamano tutti così “perché in Sicilia è il diminutivo di Francesco”. Perdipiù è anche cicciotello. La sua grande passione sono i polizieschi. E grazie al suo acuto spirito di osservazione, unito a razionalità e intuizioni, riesce persino a risolvere piccoli casi aiutando l’ispettore Cangemi, suo amico.

I bambini vanno giustamente educati sin da piccoli al giallo e così Carlo Barbieri ha scritto Dieci piccoli gialli 2, seguito del primo e fortunato libro che l’anno scorso si è aggiudicato il premio speciale per la sezione ragazzi al Festival Giallo Garda. Con le belle illustrazioni di Chiara Baglioni, l’intraprendente Ciccio sbroglia misteri un po’ ovunque: dalla spiaggia alla nave da crociera, dalla scuola al negozio d’abbigliamento delle amiche della mamma. Sono brevi racconti che educano all’esercizio delle capacità deduttive, a partire dall’osservazione. Nel primo caso tutto parte da Ciccio che guarda un camion dell’immondizia che svuota i cassonetti. Particolarmente arguta, poi, la soluzione per acciuffare il ladro di vestiti nel giallo che chiude il volumetto edito da Einaudi Ragazzi.

Siciliano che ha vissuto a Teheran e al Cairo – oggi abita a Roma – Carlo Barbieri è un collaudato giallista “per adulti” e anche prolifico. In questi giorni ha pubblicato pure una raccolta di racconti intitolata Siculo Babbio.

Il vero progresso sta in equilibrio tra potenza tecnica e razionalità politica

Aldo Schiavone crede ancora all’idea di progresso. E la indica come un destino dell’umanità, una “freccia” che ancora si rivolge verso il futuro. Perché l’umanità, come il Covid ha dimostrato, può ancora conciliare la potenza della tecnica e il controllo della razionalità, politica e civile.

Qui c’è lo snodo del libro. La crisi del concetto di progresso si era già manifestata nel corso del XX secolo e i filosofi Heidegger o Severino vengono citati a proposito. Fino a quando il marxismo ha fatto da argine alla sfiducia la crescita progressiva dell’umanità è sembrata possibile. La fine del secolo scorso, però, ci consegna una svolta storica, “l’inizio della rivoluzione tecnologia” e “il crollo inaspettato dell’impero sovietico e dei regimi comunisti”. Senza più il marxismo il “salto tecnologico del pianeta finiva con il provocare una nuova e ancora più grave onda d’ansia e di smarrimento”. Soprattutto per il conflitto tra la potenzialità della tecnica e la razionalità politica che dovrebbe garantirne il controllo. Ecco, in questa dialettica (il libro ha un forte sapore hegeliano) e in questo equilibrio sta il senso generale di progresso.

Quando questo equilibrio è saltato – Auschwitz, il nazismo – l’umanità si è persa e la visione di Walter Benjamin, configurata nell’immagine dell’angelo di Klee, si è fatta più vera. Ma Schiavone conserva un ottimismo per la “riunificazione della storia umana e di quella della natura”, una ricongiunzione in cui è depositata l’idea di progresso. La conferma è venuta dal Covid che ha reso eclatante “il disallineamento tra razionalità sociale e potere tecnologico”, ma ha anche mostrato le potenzialità di un’umanità che ha messo al centro la vita come mai aveva fatto e che ha iniziato a richiedere una “governance globale”. Richiesta non esaudita ma che contiene “l’invincibile aspetto comunitario e solidale dell’umano”. Il progresso, in fondo, è in un nuovo umanesimo.

A Venezia Cartier-Bresson si fa in cinque

Tanto è stato concreto, Henri Cartier-Bresson (1908–2004), definito “l’occhio del secolo”, quanto resta inafferrabile il suo immenso, quasi pantagruelico, sguardo sul mondo, investigato grazie alla sua Leica1. “Sono ossessionato da una cosa sola, il piacere visivo”, diceva. Un’ossessione valsa l’ovunque di trent’anni di Novecento, in un viaggio mondiale in bianco e nero tra scene di strada, tragedie, quotidianità e soprattutto umanità.

In questo modo riapre oggi, dopo le calamità piombate su Venezia, l’inappuntabile Palazzo Grassi, con Henri Cartier-Bresson. Le Grand Jeu (insieme all’altra sorprendente mostra dell’egiziano Youssef Nabil) prorogate fino al 20 marzo 2021, prima di chiudere la struttura per sette mesi per un intervento di manutenzione straordinaria. Proprio per districarsi nell’enciclopedico immaginario di Bresson, la mostra, ideata da Matthieu Humery, mette a confronto lo sguardo di cinque autori, e in particolare sulla “Master Collection”, una selezione di 385 immagini che il fotografo stesso individuò come le più significative. In questo “grande gioco” prima le vediamo tutte in una sola parete, per poi scoprire la selezione di 50 scatti e il diverso allestimento progettato dai cinque prestigiosi curatori.

La prima scelta spetta al collezionista e Presidente di Palazzo Grassi, Francois Pinault, che raggela l’allestimento con cornici neutre per esaltare la parte bucolica e rilassata scattata da Bresson: i pic nic, le pause di riposo, le passeggiate, i ritratti, le scene di incontro e di gioia. Poi tocca alla fotografa Annie Leibovitz, che “diventa fotografa proprio dopo aver visto l’opera di Bresson”. La sua scelta è legata al rapporto con lui e ai ritratti, integrando scatti più conflittuali, scene di litigi, proteste e disgrazie. Lo scrittore Javier Cercas fa qualcosa di sorprendente: come se scrivesse un suo libro, mette in fila le foto di Bresson creando un racconto nel racconto. La sezione del regista Wim Wenders è la più scenografica: sale buie con in una teca la Leica 1, risalto degli scatti retroilluminati e un video di se stesso, girato durante la ponderata scelta. Il suo itinerario si conclude con quello che è forse lo scatto più anomalo di Bresson, un momento di corpi intrecciati scattato in Messico: laddove il suo sguardo è quasi sempre geometrico, qui è confuso, agitato, quasi “impressionista”. Infine Sylvie Aubenas, direttrice del dipartimento di Fotografia della Bibliothèque de France, mette a fuoco il rapporto che il fotografo ebbe con la pittura e la sua perizia della composizione. Una mostra che rivela cinque sguardi dentro un lungo viaggio individuale, per vedere Cartier-Bresson sotto un’altra luce.

C’è un grande giallo in Versilia che è la copia perfetta di F&L

Aparte il prete, che si chiama don Tony e va ben oltre il quintale, uno dei personaggi di cui ci si innamora sinistramente è Franco LaVoce, una sorta di consigliori e faccendiere che è la mente politica del Sistema locale a Viareggio. Uno che sorseggia solo aperitivi e ha lasciato perdere la laurea in Giurisprudenza perché “la Legge è l’esatto contrario del buon senso che presiede a ogni sua azione”. Ergo la decisione fatale, presa a suo tempo. Tornato a casa dall’università di Pisa, il papà “notaio e incorruttibile uomo di legge” gli chiede cosa avrebbe voluto fare nella vita. E LaVoce junior risponde: “L’eminenza grigia”. Meraviglioso.

Nella sequenza dei titoli estivi del Giallo Mondadori c’è una perla che folgora il lettore sin dalla prima pagina, per la sua carica di realismo ironico, se non cinico, e la descrizione affilatissima dei vizi di provincia. S’intitola borgesianamente La quarta versione di Giuda ed è scritto da un professore liceale di filosofia al suo esordio da narratore: Dario Ferrari. Nella quarta di copertina c’è un’impegnativa suggestione che richiama i leggendari Fruttero & Lucentini. Affatto sbagliata. Anzi. E non solo per l’ambientazione in Versilia. Ché Ferrari è come quei copisti di grande talento che imitano i capolavori dell’arte. La trama ruota attorno a una parrocchia, di qui il parroco don Tony, e in una notte d’inverno lo stimatissimo dottor Ferri, medico anti-abortista, consigliere comunale nonché “pilastro” della predetta parrocchia viene ritrovato ucciso in casa sua, con il cranio fracassato. A indagare sono l’improbabile commissario Klaus Russo, che sogna a occhi aperti di diventare giallista, e un poliziotto romano silente e violento, Carini. Davvero una bella scoperta, Ferrari.

Se la letteratura può assolvere una vita bruciata

“Gli uomini sentimentali sono i più feroci. Coloro che si perdono nel sogno dell’amore. Poi, quando vedono che svanisce o non può essere trattenuto, come accadde a Lallo, si trasformano in belve.” Lallo è Laudovino De Sanctis, protagonista dalla metà degli anni ’70 della cronaca nera capitolina con una scansione di rapine, sequestri di persona, omicidi, fughe dal carcere. A restituire la sua parabola umana e delinquenziale è Alfredo Braschi, un uomo che vive in una pensione sul lago Albano, cresciuto vedendo scannare animali per le macellerie di famiglia, una figlia morta da vendicare e “la vita rivoltata come uno stomaco”. Braschi, non ancora maggiorenne, conosce il malvivente e ne resta soggiogato, forse aggrappandosi a una paternità vicaria, forse cedendo al fascino perverso dell’antieroe.

L’io narrante Braschi ripudia il presente, tanto che il suo spurgo autobiografico sembra più un pretesto per evocare il clima di un’epoca, di una città: “Roma era una sensuale e spietata lupa a tre teste: accoglieva tutto, si beveva tutto; dava bocca, fica e culo.”

Aurelio Picca, con questo suo ultimo Il più grande criminale di Roma è stato amico mio non ricama un ennesimo noir dove il sangue sporca ogni pagina. I fattacci – a cominciare dalla rapina nell’ufficio postale di piazza dei Caprettari con l’omicidio dell’agente Marchisella nel 1975 – sono sì messi in fila ma non per una morbosa mistica del male. Picca, tirando i fili del personaggio di invenzione Braschi, affida alla letteratura il tentativo di sottrarre “Lallo lo zoppo” (così soprannominato per una gamba fratturata a seguito di un’evasione dal carcere di Regina Coeli) al solo codice penale. Nessuna indulgenza, solo una tregua capace di tirare fuori un altro spicchio di verità dagli articoli di stampa e dagli atti processuali. De Sanctis è eternato in istantanee come: “Capelli stirati, brillocco al dito, sigaretta accesa, pelliccia di visone sulle spalle, sguardo ed espressioni beffardi.” Comunista, quasi da flirtare con le rivendicazioni dei brigatisti, ma costretto a convivere da tifoso laziale con un certo estremismo di destra. Una “Belva” capace di struggersi sulle note degli adorati Pooh, una “Belva” che con la stessa mano con la quale preme il grilletto si asciuga poi una lacrimuccia per Tanta voglia di lei. Una tenerezza che si mescola a un ambiguo senso di lealtà perché Lallo “prendeva la pistola e sparava sopra agli occhi: assorbendo tutta la pietà e il terrore e l’impotenza dell’ostaggio. Ingurgitando il suo stesso male.” Cultore dell’arte e amico di Mario Schifano, De Sanctis è capace nel 1981 di martoriare l’imprenditore del caffè Palombini, picconando il suo corpo per farlo entrare in un congelatore e poi tirarlo fuori per fotografarlo con un quotidiano fra le mani per farlo apparire ancora vivo e ottenere altri soldi per il riscatto.

Aurelio Picca, immergendosi nel fango di una vita bruciata dal crimine, scrive per paradosso il suo testo più sentimentale perché “la perfezione” sta pure nella caduta. In queste pagine si respira un’aria di fine corsa che soffoca di malinconia ogni salto indietro nel tempo. C’è un’innocenza, sembra suggerirci l’autore romano, che riguarda tutti, vittime e carnefici. Del resto, “questo romanzo è un viaggio che ha Cristo sepolto in petto.”

“We Are Who We Are”, anche Guadagnino diventa un cineasta in serie

“Pensano che siamo strani” chiede lui. “Ti dà fastidio?” Risponde lei. Attraverso un teaser trailer scarno di battute ma sufficienti a tracciare i territori umani al centro del racconto, arriva l’annuncio della programmazione ottobrina di We Are Who We Are, l’atteso esordio di Luca Guadagnino nella serialità televisiva. Ricca di produttori deluxe (Mieli e Gianani con le rispettive The Apartment e Wildside, Small Forward, Elena Recchia, Sean Conway con Francesco Melzi d’Eril e lo stesso Guadagnino per una produzione HBO-Sky Original), la serie è già una delle punte di diamante della nuova stagione di Sky, la cui uscita italiana seguirà quella americana di settembre su HBO. Otto le puntate, tutte scritte dal trio Paolo Giordano, Francesca Manieri e lo stesso showrunner, e tutte concentrate sul delicato universo dell’adolescenza rappresentata dai due protagonisti americani e dal mondo che li circonda di ambientazione italiana. Fraser (Jack Dylan Grazer) ha 14 anni quando da New York si trasferisce nella base militare in Veneto con la madre Sarah (Chloë Sevigny) e la di lei compagna Maggie (Alice Braga), entrambe operative dell’esercito statunitense. Al suo arrivo incontra la disinvolta Caitlin (Jordan Kristine Seamón), la sua famiglia e il nutrito gruppo di amici più di cui è leader. Come radicato nella cifra stilistico-poetica del cineasta, l’elemento internazionale connota la narrazione di We Are Who We Are per quanto al cuore delle intenzioni vi sia l’universalità del sentire, specie dentro a quel tunnel chiaroscuro che si chiama adolescenza. Un’età che è scolpita negli interessi di Guadagnino portato in gloria soprattutto (ma non solo) per il suo amatissimo e pluripremiato Chiamami col tuo nome.

We Are Who We Are affronterà gli snodi dei sentimenti contraddittori tipici dei teenager con l’aggiunta dello spaesamento territoriale. Pochi giorni fa è stato reso noto che la serie sarebbe stata integralmente programmata in premiere mondiale a Cannes, ma con la cancellazione del festival l’occasione è rimasta intenzionale, o rimandata alla prossima opera.

Musulmani senza cliché in “Ramy”

Nei film e nelle serie tv prodotti in occidente i personaggi musulmani hanno spesso ruoli negativi e stereotipati. “Se non riusciamo a rappresentarci, il rischio è avvicinare sempre più persone all’estremismo” ha detto in proposito Riz Ahmed, attore e rapper britannico di origini pachistane. Per fortuna le cose stanno cambiando. Un esempio è Skam Italia, che ha dedicato la sua quarta stagione a una ragazza italiana con genitori tunisini. Un altro è Ramy, che racconta la comunità egiziana del New Jersey attraverso l’esperienza di un quasi-trentenne in crisi di identità: il secondo capitolo, con la new entry Mahershala Ali, arriverà in Italia il 6 agosto sulla piattaforma StarzPlay (disponibile su Apple Tv e Rakuten Tv).

Ramy è stata la rivelazione del 2019. Si tratta di una serie molto autobiografica: il creatore, nonché protagonista, sceneggiatore e regista di alcuni episodi, è Ramy Youssef, 29enne attore a stand-up comedian americano di origini egiziane. L’idea iniziale era dare vita a una sitcom musulmana, “ma più andavamo avanti e più realizzavo che la cosa migliore che potessi fare era offrire il mio punto di vista” ha detto Youssef. Uscita in sordina su Hulu, Ramy è diventata un caso quando Ramy Youssef ha vinto il Golden Globe come miglior attore in una comedy, soffiando il premio a Michael Douglas.

La prima stagione segue il percorso spirituale del protagonista, diviso fra la sua vita da millennial americano e le richieste dei genitori e degli amici musulmani. Dopo aver cercato qualche certezza nel lavoro, nelle ragazze e nella religione, parte per l’Egitto per recuperare le sue radici… E finisce per innamorarsi della cugina. La seconda stagione riparte dall’inizio, cioè dalla crisi. Tornato a casa, Ramy non lavora e passa le sue giornate a mangiare dolci e a masturbarsi. Finché non entra in contatto con un nuovo imam che diventa la sua guida spirituale. L’imam, che compare in metà degli episodi, è interpretato nientemeno che da Mahershala Ali, l’attore premio Oscar per i film Green Book e Moonlight.

Ramy 2 aggiunge carne al fuoco: fra i nuovi personaggi ci sono un reduce dalla guerra in Iraq che si converte all’Islam e un viziatissimo miliardario arabo che vuole finanziare la moschea. Al centro c’è sempre Ramy ma lo sguardo è ancora più largo e viene dedicato un episodio a testa alla sorella, alla mamma, al papà che ha perso il lavoro e allo zio Naseem che non riesce più a nascondere la sua sessualità. Se la rappresentazione dei personaggi musulmani solitamente è stereotipata, qui c’è il tentativo di aggiungere più sfumature possibili, di offrire agli spettatori un prodotto “personale” che non ha pretese di universalità. Per usare le parole di Ramy Youssef, il conflitto raccontato nella serie non è “fra essere musulmano ed essere americano, ma fra chi vuoi essere e chi sei realmente”.

Nella seconda stagione compare l’ex attrice pornografica Mia Khalifa e torna il personaggio di Steve, interpretato da Steve Way, che soffre di una grave distrofia muscolare (per il suo contributo alla diversità Ramy ha ricevuto il Peabody Award). Per la terza, Ramy Youssef ha grandi progetti: portare sullo schermo Lindsay Lohan e il calciatore egiziano del Liverpool Mohamed Salah.

Il trio De Sica, Boldi e Parenti di nuovo insieme sul set

Dopo il forzato rinvio dovuto alla pandemia sono iniziate da qualche giorno a Piazza Vittorio le riprese di Lasciarsi un giorno a Roma il quinto film da regista di Edoardo Leo che ne è anche il protagonista insieme alla 28enne spagnola Marta Nieto, premiata l’anno scorso a Venezia Orizzonti per il thriller Madre. Interpretata anche da Claudia Gerini e Stefano Fresi la nuova commedia sentimentale sceneggiata dal regista con Marco Bonini, Damiano Bruè e Lisa Riccardi è coprodotta tra l’Italian International Film di Fulvio e Federica Lucisano e Vision Distribution con la Neo Art Producciones di Barcellona

Reduci dalla fortunata rentrée di due anni fa con Amici come prima (oltre 8 milioni di euro al botteghino) Massimo Boldi e Christian De Sica torneranno a recitare insieme guidati per l’occasione da un esperto sodale/amico come Neri Parenti a lungo al loro fianco in tante avventure natalizie di successo culminate nel 2004 con Christmas in love. Ambientata sul pianeta Marte la nuova commedia realizzata ad agosto da Indiana Production e Medusa (che la distribuirà a fine anno) vedrà coinvolti accanto ai due protagonisti anche Serena Autieri, Paola Minaccioni e Milena Vukotic.

Sarà Luca Zingaretti a produrre con la sua società Zocotoco (insieme alla Bibi Film di Angelo Barbagallo e Raifction) Il commissario Lolita, una nuova serie tv interpretata da sua moglie Luisa Ranieri e tratta dai nove romanzi della scrittrice pugliese Gabriella Genisi che hanno come protagonista la commissaria di Polizia Lolita Lobosco, nota ai lettori per gli amori difficili e la passione per la cucina. Le lavorazione delle quattro puntate destinate a Rai 1, con un ruolo di rilievo per Lunetta Savino che sarà la madre della poliziotta, è prevista a Monopoli e a Bari a partire da fine luglio.

I Gamberetti danno pallonate all’omofobia

Non è un film culinario né ittico, malgrado il titolo italiano. Quello originale francese indirizza meglio: Les crevettes pailletées, ossia “I gamberetti paillettatti”, nome di battaglia di una squadra di pallanuoto gay francese. Nessuna invenzione, il team esiste davvero, e il co-regista Cédric Le Gallo ne fa parte: un’esperienza biografica, invero più ludica che sportiva, che ha pensato bene di portare sul grande schermo a quattr’occhi e quattro mani, scrittura, con Maxime Govare. Ne viene, ancor più nella arida e funestata estate cinematografica italiana, un potenziale film-evento, già in sala con la meritoria Movies Inspired: sulla scorta di opere seminali quali Priscilla – La regina del deserto (Stephan Elliott, 1994) e Full Monty (Peter Cattaneo, 1997), passando per Pride (Matthew Warcus, 2014) e – pretende Le Gallo – Little Miss Sunshine (Jonathan Dayton e Valerie Faris, 2006), Gamberetti per tutti prende a pallate l’omofobia facendo di genere (commedia), movimento (on the road) e registro (comico, anzi, ilare) altrettanti colpi a effetto.

Che l’intento, ancorché diluito senza grumi ideologici e edificanti, sia militante, comunque divulgativo e chiarificante, lo dice l’escamotage narrativo: Matthias Le Goff (Nicolas Gob), vicecampione del mondo di nuoto, viene condannato ad allenare i Gamberetti Paillettati per emendare le proprie dichiarazioni omofobe e provare ad assicurarsi i Mondiali. Si trova così catapultato in un universo che se non disprezza altresì ignora, e deve pure indirizzarlo verso una meta tanto ambita quanto aliena: i Gay Games in Croazia, il più grande raduno sportivo omosessuale. “La consapevolezza di aver vissuto un’avventura unica, che ha cambiato la mia vita, mi ha dato la voglia di rivendicare i valori che ci hanno guidato: la libertà, il diritto alla differenza e all’eccesso e, soprattutto, il trionfo della leggerezza sulla pesantezza della vita. Che sono, in fondo, valori universali”, dice Le Gallo. Dietro le paillettes, oltre a stigmatizzare prevedibilmente violenza, brutalità e indifferenza di cui i gay sono oggetto, nemmeno nasconde i problemi, le intolleranze e le contraddizioni della sua parte: la difficile accettazione di uomini e donne trans (una fa parte del team, trovata finzionale), la complicata gestione di famiglia e amicizie, il vitalismo fatto di club culture, chemsex e voraci toccate e fughe. Al bando l’ipocrisia, se il titolo nostrano è inclusivo, nondimeno, il film rivendica appunto il diritto alla differenza, all’autodeterminazione, all’orgoglio scanzonato e caciarone però indefettibile: “Palombella glitterata”, Moretti ci perdoni, in cui questi gamberetti fuor d’acqua competono per (ri)trovare sé stessi anziché battere l’altro. Oltre la malattia, e le malattie, perché se l’unione fa la forza, i singoli conservano debolezze più o meno palesi. Come questo film, cui però si perdona con facilità: tra ani tatuati, coreografie improbabili e vocalist più da Hunger che Gay Games, non è un gioco da ragazzi.