“Oggi siamo terrorizzati dal difetto poiché esso è riconoscibile, un portatore di unicità. E allora lo laviamo via con photoshop dalle nostre facce nei selfies. Ma non basta: laviamo via le impurità dall’intestino mangiando healty, laviamo via dal nostro corpo i grassi facendo fitness, e alla casa ci pensa Marie Kondo.” Cotanta vis polemica appartiene alla scrittrice e giornalista olandese Marian Donner (classe 1974), autrice di Manuale di autodistruzionela cui parabola biografica è alla base del suo deflagrante libro: manager di comunicazione per il più grande partito politico olandese prima, e per una ONG dopo, Marian nel 2006 abbandona tutto per lavorare come centralinista in un’agenzia di escort. E se le si chiede come mai quel cambio di vita, risponde: “Mi è diventato chiaro che quel mondo non faceva per me. Quelli di prima erano dei gran bei lavori, certo, ma consistevano solo in riunioni infinite fatte di gesti, sorrisi, strette di mano per vendere qualcosa al pubblico, buttare fumo negli occhi. Non si parlava mai di cambiare il mondo per davvero. Quella vita mi ha logorato, mi sono detta: mollo!”
Il libro inizia con Steve Jobs e la pubblicità Think Different della Apple del 1997 “Here’s to the crazy ones” (Questo film lo dedichiamo ai folli). Tutta colpa sua?
(Ride). No, ovviamente no. Jobs ci invitava a essere “un piolo tondo in un buco quadrato” (che, poi, è una frase mutuata da Il Mondo nuovo di Aldous Huxley). Come se, usando i suoi prodotti ed essendo ribelli, saremmo diventati tutti ricchi come lui. Non funziona così. Il fatto è che i folli della pubblicità di ieri, la società di oggi li chiama squilibrati e gli anticonformisti sono dei perdenti. Se è, dunque, vero che il boom economico e Jobs ci hanno insegnato a sognare, è altrettanto vero che ci hanno reso più scontenti. Non è un caso che, secondo l’Oms, disturbi come ansia e depressione sono aumentati del 40% negli ultimi trent’anni. Così hanno preso piede i manuali per tornare a norma, per somigliarci tutti: belli, sani, senza difetti, cioè uguali.
Uno dei risultati del non assomigliare a questi modelli è la dismorfofobia.
Le persone si sentono brutte perché non somigliano alle immagini commerciali, senza capire che quelle figure non hanno niente a che vedere con la realtà. Così siamo sempre preoccupati per i nostri difetti (presunti o reali). Crescono i numeri nei disturbi alimentari. Il trend ormai è no zucchero, no alcol, no grassi saturi e mai abbastanza avocado. Come pure la bigoressia (l’assillante pensiero di non avere muscoli abbastanza grandi). Così avvertiamo la mancanza, nella vita, del comando degli smartphone “correggi difetti”.
Viene la curiosità di chiederle cosa ne pensa dei concorsi di bellezza.
Keynes fece una meravigliosa analogia tra il mercato azionario e questi concorsi. Ai suoi tempi, i giornali pubblicavano regolarmente foto di belle donne, chiedendo ai lettori di votare la più bella con in cambio un premio per chi avesse indovinato la vincitrice. La scelta dei lettori, dunque, ricadde su chi pensavano sarebbe stata più votata e non su chi preferivano. Ciò dimostra che in economia un’azienda è di valore quando il mercato la reputa di valore: nella bellezza vale la stessa cosa. È diventato bello quello è imposto quale bello.
La letteratura ci regalerà altri Cyrano de Bergerac o si depurerà?
O altri Uno, nessuno centomila di Pirandello (sempre per parlare di nasi). Anche se ci sono e ci saranno delle eccezioni, anche la letteratura – che del senso di inadeguatezza si nutre – è molto depurata. La maggior parte dei protagonisti sono bianchi, colti e borghesi (come i loro autori) e desiderano un posto al sole nella società degli altri ed essere cool, dunque abbronzato senza il segno degli abiti perché non si può lavorare in ufficio, ma solo vivere a bordo piscina. Mi manca l’imperfezione, il margine, lo sporco, il buio che tutti sperimentiamo nelle nostre vite. Dove sono i barboni, gli ubriachi, i senzatetto? Anche perché sono loro a rivelare le contraddizioni della società in cui viviamo.
Per questo nel libro suggerisce di riappropriarci del nostro corpo?
È tutto ciò che possediamo davvero, come canta Nina Simone in Ain’t got no. Questa società di massa ci ha alienati, dunque la lotta parte da lì. È la nostra arma. E quindi dobbiamo bere, sanguinare, sudare, ballare, deviare dalla norma, coltivare i nostri difetti, amare di più e mandare a fanculo una cultura che non si stanca di ricordarci che non siano abbastanza in forma, belli, giovani. Dobbiamo rinascere, ma prima dobbiamo autodistruggerci.