L’autodistruzione – Il solo modo per rinascere

“Oggi siamo terrorizzati dal difetto poiché esso è riconoscibile, un portatore di unicità. E allora lo laviamo via con photoshop dalle nostre facce nei selfies. Ma non basta: laviamo via le impurità dall’intestino mangiando healty, laviamo via dal nostro corpo i grassi facendo fitness, e alla casa ci pensa Marie Kondo.” Cotanta vis polemica appartiene alla scrittrice e giornalista olandese Marian Donner (classe 1974), autrice di Manuale di autodistruzionela cui parabola biografica è alla base del suo deflagrante libro: manager di comunicazione per il più grande partito politico olandese prima, e per una ONG dopo, Marian nel 2006 abbandona tutto per lavorare come centralinista in un’agenzia di escort. E se le si chiede come mai quel cambio di vita, risponde: “Mi è diventato chiaro che quel mondo non faceva per me. Quelli di prima erano dei gran bei lavori, certo, ma consistevano solo in riunioni infinite fatte di gesti, sorrisi, strette di mano per vendere qualcosa al pubblico, buttare fumo negli occhi. Non si parlava mai di cambiare il mondo per davvero. Quella vita mi ha logorato, mi sono detta: mollo!”

Il libro inizia con Steve Jobs e la pubblicità Think Different della Apple del 1997 “Here’s to the crazy ones” (Questo film lo dedichiamo ai folli). Tutta colpa sua?

(Ride). No, ovviamente no. Jobs ci invitava a essere “un piolo tondo in un buco quadrato” (che, poi, è una frase mutuata da Il Mondo nuovo di Aldous Huxley). Come se, usando i suoi prodotti ed essendo ribelli, saremmo diventati tutti ricchi come lui. Non funziona così. Il fatto è che i folli della pubblicità di ieri, la società di oggi li chiama squilibrati e gli anticonformisti sono dei perdenti. Se è, dunque, vero che il boom economico e Jobs ci hanno insegnato a sognare, è altrettanto vero che ci hanno reso più scontenti. Non è un caso che, secondo l’Oms, disturbi come ansia e depressione sono aumentati del 40% negli ultimi trent’anni. Così hanno preso piede i manuali per tornare a norma, per somigliarci tutti: belli, sani, senza difetti, cioè uguali.

Uno dei risultati del non assomigliare a questi modelli è la dismorfofobia.

Le persone si sentono brutte perché non somigliano alle immagini commerciali, senza capire che quelle figure non hanno niente a che vedere con la realtà. Così siamo sempre preoccupati per i nostri difetti (presunti o reali). Crescono i numeri nei disturbi alimentari. Il trend ormai è no zucchero, no alcol, no grassi saturi e mai abbastanza avocado. Come pure la bigoressia (l’assillante pensiero di non avere muscoli abbastanza grandi). Così avvertiamo la mancanza, nella vita, del comando degli smartphone “correggi difetti”.

Viene la curiosità di chiederle cosa ne pensa dei concorsi di bellezza.

Keynes fece una meravigliosa analogia tra il mercato azionario e questi concorsi. Ai suoi tempi, i giornali pubblicavano regolarmente foto di belle donne, chiedendo ai lettori di votare la più bella con in cambio un premio per chi avesse indovinato la vincitrice. La scelta dei lettori, dunque, ricadde su chi pensavano sarebbe stata più votata e non su chi preferivano. Ciò dimostra che in economia un’azienda è di valore quando il mercato la reputa di valore: nella bellezza vale la stessa cosa. È diventato bello quello è imposto quale bello.

La letteratura ci regalerà altri Cyrano de Bergerac o si depurerà?

O altri Uno, nessuno centomila di Pirandello (sempre per parlare di nasi). Anche se ci sono e ci saranno delle eccezioni, anche la letteratura – che del senso di inadeguatezza si nutre – è molto depurata. La maggior parte dei protagonisti sono bianchi, colti e borghesi (come i loro autori) e desiderano un posto al sole nella società degli altri ed essere cool, dunque abbronzato senza il segno degli abiti perché non si può lavorare in ufficio, ma solo vivere a bordo piscina. Mi manca l’imperfezione, il margine, lo sporco, il buio che tutti sperimentiamo nelle nostre vite. Dove sono i barboni, gli ubriachi, i senzatetto? Anche perché sono loro a rivelare le contraddizioni della società in cui viviamo.

Per questo nel libro suggerisce di riappropriarci del nostro corpo?

È tutto ciò che possediamo davvero, come canta Nina Simone in Ain’t got no. Questa società di massa ci ha alienati, dunque la lotta parte da lì. È la nostra arma. E quindi dobbiamo bere, sanguinare, sudare, ballare, deviare dalla norma, coltivare i nostri difetti, amare di più e mandare a fanculo una cultura che non si stanca di ricordarci che non siano abbastanza in forma, belli, giovani. Dobbiamo rinascere, ma prima dobbiamo autodistruggerci.

L’annuncio Il Sultano: “preghiera islamica dal 24 luglio”

Il presidente Erdogan ha celebrato la sua vittoria: per lui il ritorno di Santa Sofia – da museo a moschea – è “un diritto sovrano e qualsiasi obiezione alla decisione della nostra magistratura sarà percepita come una violazione della nostra sovranità”. Erdogan ha rammentato ai fedeli che potranno partecipare alla prima preghiera, venerdì 24 luglio. “Come per tutte le altre moschee, le porte di Hagia Sophia saranno aperte a tutti, compresi cittadini e turisti turchi”. Per la Grecia, si tratta di una “aperta provocazione al mondo civilizzato” e la ministra della Cultura, Lina Mendoni sostiene che “il nazionalismo mostrato da Erdogan riporta il suo Paese indietro di sei secoli”. Anche la reazione della Chiesa ortodossa russa parla di una decisione che ignora “milioni di cristiani”. Ma nella Turchia di Erdogan queste critiche non hanno alcun valore.

Dimenticare Kemal: Erdogan si identifica meglio in Maometto II

“Io non credo che zà mai pensasti / che ‘l tuo tempio moschea deventasse, / E Macon s’adorasse / Unde facivi messa celebrare”. Il serventese veneto che deplora l’arrivo di Maco(metto) nel tempio di Gesù è uno dei tanti lamenti dell’Occidente sul triste destino della Grande Chiesa con cui Giustiniano volle superare il Tempio di Salomone e il Campidoglio, facendone il “simbolo più fulgido del suo trono” (Paolo Silenziario), il “tempio della luce” (Procopio), il luogo “dove Dio con l’uomo coesiste” (narrazione russa del XII secolo), un edificio “dove tutto raffigurava l’estasi” (W. B. Yeats). La presa di Costantinopoli del 29 maggio 1453 ebbe il suo momento-clou proprio nell’ingresso in Santa Sofia del sultano Maometto II, il quale scese da cavallo, si coprì il capo di polvere in segno di auto-umiliazione e insediò un imam sul prezioso ambone esortandolo a predicare; varie fonti raccontano però anche di massacri dei civili rifugiatisi in chiesa, di statue e icone distrutte, di danze oscene sugli altari, di profanazioni degli arredi sacri (il vescovo Isidoro di Kiev, che la scampò bella, scrisse nel luglio al cardinal Bessarione un resoconto apocalittico di questo evento).

L’ideologia neo-ottomana della “Grande Turchia” di Erdogan è così smaccata che la fresca sentenza dell’Alta Corte si fonda sull’eredità giuridica e morale di Maometto II, il quale proprio dalla conquista di Bisanzio e da una serie di miti e leggende creati ad hoc per iscrivere Santa Sofia nella tradizione islamica ricavava la propria legittimazione come erede dell’Impero universale. È dunque alla luce del valore simbolico di questo tempio millenario e della sua prima conversione in moschea, che si comprende il tono sdegnato e preoccupato con cui in tanti, da Mike Pompeo al patriarca greco-ortodosso, dalla Repubblica di Grecia all’Unione Europea, dall’Unesco fino al patriarca di tutte le Russie, hanno cercato di dissuadere Erdogan dal passo estremo: appelli inefficaci dinanzi alla rivendicazione della sovranità territoriale turca, ma caduchi e spuntati anche per altre ragioni. Una è la credibilità storica: i primi a trasformare il culto di Santa Sofia – da ortodosso a cattolico – furono infatti proprio gli Occidentali al termine della conquista di Costantinopoli durante la IV Crociata (1204); il regno latino durò meno di 60 anni, ma ancora oggi chi visiti il tesoro di San Marco a Venezia (ma anche quelli di Limburg, Parigi, Colonia…) comprende l’entità delle razzie perpetrate dai nostri progenitori. In tempi più recenti, anche a tacere di mosse infelici come la contestata visita di papa Benedetto XVI all’indomani del discorso di Ratisbona, si può dire che l’Occidente ha trascurato le avvisaglie, come la conversione in moschea della Santa Sofia di Nicea (Iznik) nel 2011, o quella della Santa Sofia di Trebisonda (Trabzon) nel 2013, con tanto di copertura dei pregiatissimi affreschi bizantini per mezzo di teli e tappeti, e proteste degli architetti turchi rapidamente tacitate dal potere politico. Cosa accadrà poi della chiesa di San Salvatore in Chora – i cui mosaici sono tra le attrazioni più notevoli di Istanbul – che nel novembre 2019 è stata restituita da un’altra sentenza al suo uso di moschea? La musealizzazione ha giovato a tutti questi edifici in termini di conservazione dei vari strati del loro passato: il loro ritorno a moschee inquieta in quanto ostacolerà i lavori di tutela e restauro su tutto ciò che non appartiene all’epoca ottomana. Ora che Erdogan fa bingo con Santa Sofia, la sua iniziativa non è solo presentata come la risposta islamica al riconoscimento americano di Gerusalemme capitale dello stato di Israele, ma anche come una nuova declinazione del kemalismo che formalmente è ancora in vigore nello stato turco. La secolarizzazione di Santa Sofia si deve infatti a un decreto firmato da Mustafà Kemal nel novembre 1934: un atto di laicizzazione così simbolico che il giorno dell’apertura ai visitatori fu lo stesso in cui Kemal acquisì l’appellativo di Atatürk “padre dei Turchi”. Oggi però il popolare storico Mustafà Armagan sostiene in libri e interviste che la firma di Kemal sotto quell’atto è falsa, e che egli dovette cedere alle pressioni delle potenze occidentali, anzitutto l’ambasciatore americano – proprio gli Americani ebbero l’incarico di riportare alla luce quanto dei magnifici mosaici non era stato cancellato tra Sei e Settecento con l’irrigidirsi del veto islamico sulle immagini (anche se a onor del vero era stato un altro sultano, Abdülmecit, a commissionare nel 1846 i primi restauri ai fratelli ticinesi Fossati). Il kemalismo non è defunto: fino a tempi recenti ampi settori del partito di opposizione CHP e financo membri dello stesso partito AKP del leader, avversavano la ri-consacrazione del monumento (i Curdi si astengono sul tema). Ma ora è probabile che il 15 luglio Erdogan voglia celebrare l’anniversario del fallito e chiacchierato golpe del 2016 con la prima veglia di preghiera in Santa Sofia. Forse farebbe meglio a imitare la lezione di Maometto II, di cui lo storico Tursun Beg racconta che, novello Scipione, durante la Presa del 1453 salì sulla celeberrima cupola (dove sostituì la croce con la mezzaluna) per meditare “sull’incostanza e sulla variabilità di questo mondo, il cui destino è di cadere in rovina”.

L’accusa interna a Medici Senza Frontiere: dilaga il razzismo

Prestano assistenza medica in 73 paesi del mondo, in condizioni estreme, ai poveri e dimenticati. Affrontano disastri naturali e conflitti. Soccorrono rifugiati e immigrati in difficoltà. Per questo straordinario lavoro hanno ottenuto il Nobel per la Pace nel 1999. Sono i Medici senza Frontiere, una delle maggiori organizzazioni umanitarie del mondo, con i suoi 65 mila fra dipendenti e volontari.

Ma il dibattito globale sul razzismo rilanciato dall’uccisione di George Floyd negli Stati Uniti esplode anche fra loro. Una lettera circolata internamente, firmata da 1.000 fra attuali ed ex dipendenti e arrivata al Guardian, denuncia una situazione di “razzismo istituzionale” nell’organizzazione, che rinforzerebbe “il colonialismo e la supremazia bianca” anche nel lavoro umanitario.

Il documento, che il Guardian sintetizza senza riprodurlo, accuserebbe i vertici di MSF di non avere mai preso atto della dimensione di “razzismo perpetuato dalle sue politiche interne, prassi di reclutamento, cultura sul luogo di lavoro” e dei “programmi disumanizzanti” condotti da una “minoranza bianca di privilegiati”. Secondo il quotidiano britannico, circa il 90% dei dipendenti di MSF sarebbero locali, mentre la leadership è prevalentemente bianca ed europea. Si arriva così all’assurdo di avere staff africani con decenni di esperienza costretti a prendere direttive da un neo-laureato britannico o francese. La lettera, rivolta ai capi dell’organizzazione, chiede una inchiesta interna e riforme urgenti che mettano fine a “decenni di potere e paternalismo”. A firmarlo sono anche leader dell’organizzazione, come l’attuale presidente di MSF UK Javid Abdelmoneim, di origine iraniano-sudanese ma cittadino britannico educato nel Regno Unito. La sua è stata un presa di coscienza tardiva: nel 2017, come ammette lui stesso in una dichiarazione sul sito di MSF, aveva rifiutato l’accusa di “razzismo istituzionale” nell’organizzazione, salvo poi ricredersi di fronte alle crescenti denunce dei colleghi. A far precipitare la protesta organizzata sarebbe stata una dichiarazione di MSF Italia che respingeva l’uso del termine “razzismo” suggerendo che “ogni vita conta”, un riferimento allo slogan Black Lives Matter a difesa delle vittime di colore. Il residente internazionale di MSF Christos Christou ha accolto positivamente la denuncia, definendola il “catalizzatore’ di un cambiamento già pianificato.

L’anatomia degli orrori – Parigi: corpi, cibo per topi

Sul macabro scandalo che ha coinvolto la prestigiosa facoltà di medicina dell’università Paris-Descartes, nel cuore del Quartiere Latino, la procura di Parigi ha aperto un’indagine. La vicenda era stata rivelata lo scorso novembre da L’Express. Il settimanale aveva allora descritto l’impensabile: per anni centinaia di corpi donati alla scienza sono stati conservati in “condizioni pietose” nei locali del Centro del dono dei corpi (CDC), un istituto di anatomia, il più grande in Francia, creato nel 1953 al quinto piano dell’ateneo parigino, in rue des Saints-Pères. Stiamo parlando del “tempio della medicina in Francia”, aveva scritto L’Express. Il giornale, appoggiandosi sulle foto e le testimonianze degli impiegati del CDC, aveva parlato di “carnaio”. L’articolo descriveva i locali vetusti, le celle frigorifere con le porte arrugginite, che chiudevano male, il sistema di aerazione non funzionante. In queste sale, in un caldo “spaventoso” e l’odore “pestilenziale”, corpi smembrati, nudi o appena coperti, erano accatastati uno sopra all’altro, chiusi dentro delle buste della spazzatura, posati per terra, mangiati dai topi e dalle mosche. Il giornale ha avuto accesso a foto “insostenibili per lo sguardo” e che ha scelto di non pubblicare “per rispetto dei defunti e delle famiglie”. “L’impressione è di essere nel XIX secolo o nel Rinascimento”, aveva detto una fonte. Degli impiegati del CDC descrivevano pavimenti talmente “ingrassati” da non poter neanche più essere puliti.

Alcuni docenti di medicina dicevano di aver lavorato con cadaveri già in stato di decomposizione. Un orrore insomma, che però andava anche oltre. L’Express aveva infatti portato alla luce anche dei traffici illeciti di organi e di membra, venduti a medici o a aziende private, in violazione di tutte le norme etiche, per effettuare esperimenti o crash-test. Stando al giornale il CDC fatturava fino a 900 euro per un corpo. Circa 600 corpi di uomini e di donne sono donati ogni anno dalle famiglie all’università Paris-Descartes. Se i francesi hanno scoperto la macabra vicenda solo alcuni mesi fa, l’allarme era stato lanciato già da molti anni e a più riprese. Nel 2013 era stato segnalato che le celle frigorifere non erano a norma. Dal 2014 era stata segnalata la presenza dei topi. Nel 2016 il direttore del CDC dell’epoca, Richard Douard, aveva consegnato un documento esplosivo, con tanto di foto, all’allora presidente dell’università, Frédéric Dardel. Eppure tutte le segnalazioni erano state ignorate. In un recente comunicato, l’ateneo parigino, presentando le sue scuse alle famiglie, ha ricordato che a fine 2017 sono stati stanziati 7,5 milioni di euro e votato un “vasto piano di lavori”, che hanno preso il via nel 2018 e che dureranno fino al 2023. Nel frattempo le sale sono state “bonificate” e molti corpi cremati, spesso all’insaputa delle famiglie. Dopo le rivelazioni di L’Express, la ministra dell’Insegnamento superiore, Frédérique Vidal, ha ordinato la chiusura del Centro del dono dei corpi per far ispezionare i luoghi. A marzo la procura di Parigi ha aperto un’inchiesta preliminare per “violazione della dignità di cadavere”. Un’ottantina sono le denunce sporte fino a oggi. A giugno, un rapporto molto severo dell’Ispezione generale per gli affari sociali ha confermato la maggior parte dei fatti, puntato il dito contro “gravi carenze etiche” nella gestione del CDC e accertato le responsabilità della precedente direzione dell’ateneo: “Questi fatti gravi – è scritto nel rapporto citato da Le Monde, e che il ministero non ha voluto diffondere – si sono realmente verificati. Le autorità dell’università erano state allertate e non sono intervenute prima del 2018 malgrado i documenti, le fotografie e i rapporti interni”. La vicenda appresa dalla stampa è stata uno shock per le famiglie che per anni hanno donato le spoglie dei loro cari, fidandosi del prestigioso ateneo, ignari di come sarebbero state conservate e trattate. Alcuni mesi fa si sono riunite in un’associazione, “Charnier Descartes, justice et dignité”. Per la sua vice-presidente, Laurence Dezélée, l’apertura di un’informazione giudiziaria adesso “è una vittoria.

Questo significa – ha osservato – che ci sarà un processo e che i responsabili verranno giudicati”. Da parte sua l’attuale presidente dell’università, Christine Clerici, ha fatto sapere in un comunicato che l’ateneo si costituirà parte civile. “L’immagine dell’università è stata intaccata – ha detto il legale dell’ateneo, Patrick Maissoneuve – l’attuale presidenza si associa all’iniziativa delle famiglie”.

Salvini-Lucarelli Ecco chi è il presidente dell’Ordine

Il video del figlio 15enne che critica Matteo Salvini in piazza, l’identificazione della polizia, le immagini rilanciate da siti e social della Lega. Eppure a essere deferita dall’ordine dei giornalisti lombardo è la madre di Leon, Selvaggia Lucarelli, rea di aver “violato la Carta di Treviso” che tutela i minori. Ma la querelle tra la giornalista e il presidente dell’Odg della Lombardia, Alessandro Galimberti, si arricchisce di nuovi particolari sulle sue presunte simpatie politiche “verdi”. Dagospia ha ricordato che Galimberti era stato tra i possibili candidati del centrodestra a sindaco di Milano. “Io non ne so niente – dice lui al Fatto– e non si metta in discussione la mia imparzialità”. Sì, ma anche se per le simpatie politiche non vale la proprietà transitiva, la sua compagna Federica Bosco sui social difende la giunta Fontana e si dice “onorata” se Salvini posta i suoi articoli: “Le idee politiche della mia compagna sono affari suoi” replica Galimberti. Che però non può glissare sul libro, sempre della compagna, con prefazione di Matteo Salvini e post-fazione di Vittorio Feltri. Scelta casuale? “L’editore aveva deciso di affidare la prefazione al ministro dell’Interno mentre con Feltri c’era un accordo commerciale. Nessun legame con Salvini”. Chi ha moderato alcune presentazioni del libro? Alessandro Galimberti. Classe 1966, brianzolo doc, ha fatto la gavetta alla Provincia di Como, prima di sbarcare al Sole 24 Ore e ottenere l’incarico nel 2017.

Se gli si fa notare che Matteo Salvini, giornalista iscritto all’ordine lombardo, pubblica foto di minori e citofona a un 17enne dandogli dello “spacciatore” senza che si attivi alcun procedimento disciplinare, lui replica: “Ma Salvini è parlamentare, è esente. Io Salvini l’ho visto una volta sola quando era ministro: gli ho chiesto di vederci perché aveva proposto l’abolizione dell’ordine. Poi è caduto il governo”.

Dai vitalizi al modello 730: a Montecitorio apre il caf dell’Associazione ex parlamentari

Il Palazzo resta il loro primo grande amore e infatti non se ne sono mai andati. Anche se da tempo non siedono più sugli onorevoli scranni (che tanto ancora anelano), gli ex parlamentari riuniti in Associazione non mollano l’assedio. E anzi sono pronti a nuove imprese: sempre però tra i marmi, gli arazzi e i preziosi scaloni di Montecitorio, dove ora hanno persino messo su un Caf. Ché “l’esaltazione della funzione del Parlamento e la diffusione della conoscenza della Costituzione” restano il motore vibrante dell’Associazione nata con l’orgoglio e l’ambizione di costituire una risorsa per l’Italia.

Ma è pur vero che bisogna badare al sodo anche a prezzo di obiettivi certamente più prosaici. Come la difesa “dello status, dei diritti e degli interessi degli ex parlamentari e della loro assistenza, a tutela – come si legge sul bel sito web – di una categoria che ha lavorato per la crescita culturale, economica, sociale del Paese”. Per il ripristino dei loro vitalizi, tanto per dire, si sono battuti come leoni: finora hanno ottenuto “giustizia” solo dal Senato che qualche settimana fa ha restituito il prezioso malloppo che i comuni mortali neppure si sognano. E ora, nonostante le polemiche, contano di spuntarla anche alla Camera. Che però traccheggia e pare resistere al pressing: per questo l’esercito degli ex parlamentari ha persino minacciato di andare in procura, diffidando i vertici dell’Amministrazione che pure continua ad assicurare una sede all’Associazione.

Nella ridotta (si fa per dire) dell’ex Banco di Napoli che appartiene al compendio di Montecitorio, oltre al servizio ricorsi contro i tagli agli assegni, adesso si offrono anche altre prestazioni. Sentite qui: “Caro collega, abbiamo il piacere di informarti che quest’anno la nostra Associazione, a seguito della decisione della Camera dei deputati di dismettere il servizio di assistenza fiscale, mette a disposizione dei deputati e dei senatori in carica nonché dei titolari di assegno vitalizio e di trattamento previdenziale pro rata, la possibilità di presentare mediante modello 730, la dichiarazione dei redditi conseguiti nell’anno 2019”, hanno scritto i vertici dell’Associazione a un ampio indirizzario. Che comprende anche gli eletti in carica orfani del servizio di assistenza fiscale assicurato fino a poco tempo fa da Montecitorio. Ma prezzi folli: quando il presidente della Camera Roberto Fico si è accorto che all’Amministrazione ciascuna dichiarazione dei redditi dei deputati costava 900 euro ha usato le forbici e ha tagliato il servizio. Che adesso viene offerto dall’Associazione presieduta da Antonello Falomi.

Emiliano e Zaia: che buono il vino di Vespa, specie se siamo in tanti e senza mascherina

Il 2 luglio, nella “Masseria Li Reni” di Bruno Vespa con il gotha dell’enologia italiana, della politica e del bel canto (da queste parti Al Bano non può mancare). Tra gli ospiti dell’antico monastero del XVI secolo sperduto nelle campagne di Manduria del conduttore di Porta a Porta, anche i presidenti della Puglia Michele Emiliano e del Veneto Luca Zaia, accorsi a celebrare “Terregiunte”, il vino firmato Vespa (Bruno) e Boscaini (Sandro), nuovo blend che unisce due vitigni tra i più blasonati delle regioni: il pugliese Primitivo di Manduria e l’Amarone veneto. Tra la numerosa documentazione fotografica dell’incantevole serata c’è anche uno scatto che ritrae i due governatori e il padrone di casa in un lieto brindisi nel bel mezzo di un assembramento senza mascherine. Non saranno forse gli stessi presidenti di Regione – Zaia in primis – che negli stessi giorni (e anche dopo) tuonavano contro gli incauti assembramenti di cittadini? Pare di sì. Tuttavia va loro concessa un’attenuante: con la mascherina, come lo sorseggi un calice di “Terregiunte” o di bianco fresco?

“Il Messaggero”, collaboratori in sciopero

Parte la prima grande rivolta dei giornalisti collaboratori, i “braccianti” dell’informazione, quelli che scovano notizie e raccontano storie per sette euro. A rendere la misura colma è stata la scelta del quotidiano Il Messaggero di ridimensionare ulteriormente i compensi: “Non abbiamo altra scelta. Per la dignità del lavoro, per il diritto dei giornalisti di informare, e per il diritto dei lettori di essere informati da giornalisti liberi e indipendenti, siamo costretti a proclamare un pacchetto di 3 giorni di sciopero contro i tagli dei compensi e per lanciare un segnale forte all’editore che sta ignorando ogni richiesta di dialogo. D’intesa con il sindacato unico e unitario dei giornalisti Italiani, la Fnsi, l’Assemblea di Collaboratori del Messaggero dichiara sciopero nei giorni venerdì 10, sabato 11 e domenica 12 luglio e invita tutte le colleghe e i colleghi ad aderire alla protesta”. Questo l’annuncio dei giornalisti del quotidiano.

“Dopo l’apertura di formale stato di agitazione il 23 giugno 2020 insieme alla Fnsi; dopo che l’azienda non si è degnata nemmeno di sedersi a discutere; dopo aver dimostrato in tutti i modi, e in anni di lavoro, l’apporto fondamentale dei giornalisti non-dipendenti e il senso di appartenenza alla testata; dopo la reiterata non applicazione del Contratto nazionale di lavoro nella parte che regola il nostro lavoro: scioperiamo”, spiegano.

L’Assemblea rinnova l’appello e “formale richiesta” di ritirare la proposta unilaterale di taglio dei compensi a partire dal 14 luglio e invita i colleghi e le colleghe a non accettare decurtazioni a pezzi già oggi pagati la miseria anche di 7 euro.

L’Assemblea, si legge nella nota dei giornalisti, “si scusa con i lettori per l’astensione dal lavoro: ma questa è una battaglia che dobbiamo fare tutti insieme per la qualità dell’informazione e la dignità del lavoro. Siamo giornalisti sottopagati e senza diritti, come tanti, e abbiamo deciso di lanciare un segnale forte e indispensabile”.

Bellomo, il giudice del “dress code” torna ai domiciliari

L’ex giudice del Consiglio di Stato Francesco Bellomo torna agli arresti domiciliari. Lo ha deciso il Tribunale del Riesame di Bari. La vicenda è quella relativa ai presunti casi di maltrattamento su quattro donne, tre ex borsiste e una ricercatrice della sua Scuola di Formazione. Secondo l’accusa, Bellomo imponeva loro dress code e codici di comportamento, e avrebbe compiuto un tentativo di estorsione nei confronti di un’altra ex corsista per averla costretta a lasciare il lavoro in una emittente locale.

La decisione, di cui non sono ancora note le motivazioni, è stata presa dal Tribunale del Riesame di Bari in sede di rinvio dalla Cassazione che a gennaio aveva annullato il provvedimento con il quale, il 29 luglio 2019, il Tribunale del Riesame di Bari aveva revocato gli arresti domiciliari, disponendo la misura alternativa della interdizione per 12 mesi.

Bellomo fu arrestato il 20 luglio su disposizione della magistratura barese e ha trascorso 20 giorni agli arresti domiciliari. Il Tribunale della Libertà ha anche confermato la riqualificazione dei reati contestati da maltrattamenti in concorso in tentata violenza privata aggravata e stalking e da estorsione in violenza privata.

Per questa vicenda Bellomo rischia ora il processo perché la Procura di Bari, l’aggiunto Roberto Rossi e la pm Daniela Chimienti, ne hanno chiesto il rinvio a giudizio per i reati originariamente contestati di maltrattamenti estorsione e anche di calunnia e minaccia nei confronti dell’attuale presidente del Consiglio Giuseppe Conte, all’epoca vicepresidente del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa, e di Concetta Plantamura, rispettivamente ex presidente ed ex componente della commissione disciplinare chiamata a pronunciarsi su Bellomo quando nel 2017 fu sottoposto a procedimento disciplinare, poi destituito.