“Difendere il servizio pubblico, assicurare una pluralità di voci, differenziare i canali e averne almeno uno senza, o con pochissima pubblicità”.
(dall’intervista del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, a Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano, 19 luglio 2018)
È già la seconda volta in due anni che l’amministratore delegato della Rai, Fabrizio Salini, commette lo stesso errore e incappa nel medesimo infortunio. Prima, era andato a trovare il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, per un faccia a faccia con lui (4 marzo 2019). Nei giorni scorsi ha fatto visita al presidente del Consiglio a Palazzo Chigi, per parlare della governance dell’azienda. “Errare humanum est…”, con quel che segue.
Ma non è colpa sua. La colpa è di una legge-che-non-c’è. O meglio, di una legge che purtroppo esiste – l’ultima “riformicchia” del servizio pubblico, varata a suo tempo dal governo Renzi – e che andrebbe corretta e sostituita al più presto. Una legge che ha rafforzato ulteriormente il potere della partitocrazia sulla Rai e l’ha sottomessa direttamente al governo, contro tutta la giurisprudenza della Corte costituzionale che invece ne attribuisce il controllo al Parlamento in nome del pluralismo dell’informazione.
Il vero errore, dunque, non è del malcapitato Salini. Bensì di una politica inerte e ipocrita che, da un lato, proclama (a parole) l’autonomia e l’indipendenza del servizio pubblico; e dall’altro, lo usa e lo strumentalizza (nei fatti) a fini di parte. Senza molte differenze, bisogna riconoscere, fra centrosinistra e centrodestra.
Ora non è che Conte e Zingaretti siano di per sé due cattive frequentazioni. Chi ha l’occasione o la possibilità di incontrarli, non fa certamente male a nessuno. Ma come ha intimato il presidente Conte alla giovane e avvenente ex studentessa che l’ha fermato per strada a Roma, “manteniamo le distanze”. Sarebbe opportuno, insomma, che l’ad della Rai le mantenesse pure lui con entrambi, e con tutti gli altri leader politici, per evitare di dare l’impressione – magari sbagliata – di andare a prendere ordini o fare atto di sottomissione.
Certo, per Salini o per chiunque altro al suo posto, questo sarebbe più agevole se la Rai non dipendesse funzionalmente dal governo e non fosse più “lottizzata” dai partiti. Ma tant’è. Ognuno ha gli attributi di cui l’ha dotato madre natura. E tuttavia, senza una riforma che garantisca finalmente all’azienda autonomia e indipendenza – trasferendone il controllo a una Fondazione, a un trustee o a un board di Garanti, come qui abbiamo auspicato più volte – non si può pretendere che i dirigenti dell’azienda pubblica mantengano appunto le distanze dai centri del potere.
È forte, a volte, la tentazione di dare ragione a chi sostiene che la Rai si può affrancare da questa sudditanza soltanto se e quando sarà privatizzata. Ma verosimilmente sarebbe un rimedio peggiore del male per l’equilibrio del sistema. È sufficiente ricordare che il servizio pubblico funziona nella maggior parte dei Paesi europei: dalla mitica Bbc inglese, senza pubblicità e finanziata solo dal canone, fino alla solida tv tedesca con due canali, Ard e Zdf; dall’holding di France Télévision alla Rtve spagnola, anch’essa con due reti finanziate dal canone.
No, “la Rai non è la Bbc”, come ricorda in musica Renzo Arbore. Eppure, basterebbe poco per liberarla dalla doppia schiavitù della politica e della pubblicità. Se ancora non si fa, è perché in realtà non si vuole farlo.