Rai, quella legge che-non-c’è e che ci vorrebbe

 

“Difendere il servizio pubblico, assicurare una pluralità di voci, differenziare i canali e averne almeno uno senza, o con pochissima pubblicità”.

(dall’intervista del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, a Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano, 19 luglio 2018)

 

È già la seconda volta in due anni che l’amministratore delegato della Rai, Fabrizio Salini, commette lo stesso errore e incappa nel medesimo infortunio. Prima, era andato a trovare il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, per un faccia a faccia con lui (4 marzo 2019). Nei giorni scorsi ha fatto visita al presidente del Consiglio a Palazzo Chigi, per parlare della governance dell’azienda. “Errare humanum est…”, con quel che segue.

Ma non è colpa sua. La colpa è di una legge-che-non-c’è. O meglio, di una legge che purtroppo esiste – l’ultima “riformicchia” del servizio pubblico, varata a suo tempo dal governo Renzi – e che andrebbe corretta e sostituita al più presto. Una legge che ha rafforzato ulteriormente il potere della partitocrazia sulla Rai e l’ha sottomessa direttamente al governo, contro tutta la giurisprudenza della Corte costituzionale che invece ne attribuisce il controllo al Parlamento in nome del pluralismo dell’informazione.

Il vero errore, dunque, non è del malcapitato Salini. Bensì di una politica inerte e ipocrita che, da un lato, proclama (a parole) l’autonomia e l’indipendenza del servizio pubblico; e dall’altro, lo usa e lo strumentalizza (nei fatti) a fini di parte. Senza molte differenze, bisogna riconoscere, fra centrosinistra e centrodestra.

Ora non è che Conte e Zingaretti siano di per sé due cattive frequentazioni. Chi ha l’occasione o la possibilità di incontrarli, non fa certamente male a nessuno. Ma come ha intimato il presidente Conte alla giovane e avvenente ex studentessa che l’ha fermato per strada a Roma, “manteniamo le distanze”. Sarebbe opportuno, insomma, che l’ad della Rai le mantenesse pure lui con entrambi, e con tutti gli altri leader politici, per evitare di dare l’impressione – magari sbagliata – di andare a prendere ordini o fare atto di sottomissione.

Certo, per Salini o per chiunque altro al suo posto, questo sarebbe più agevole se la Rai non dipendesse funzionalmente dal governo e non fosse più “lottizzata” dai partiti. Ma tant’è. Ognuno ha gli attributi di cui l’ha dotato madre natura. E tuttavia, senza una riforma che garantisca finalmente all’azienda autonomia e indipendenza – trasferendone il controllo a una Fondazione, a un trustee o a un board di Garanti, come qui abbiamo auspicato più volte – non si può pretendere che i dirigenti dell’azienda pubblica mantengano appunto le distanze dai centri del potere.

È forte, a volte, la tentazione di dare ragione a chi sostiene che la Rai si può affrancare da questa sudditanza soltanto se e quando sarà privatizzata. Ma verosimilmente sarebbe un rimedio peggiore del male per l’equilibrio del sistema. È sufficiente ricordare che il servizio pubblico funziona nella maggior parte dei Paesi europei: dalla mitica Bbc inglese, senza pubblicità e finanziata solo dal canone, fino alla solida tv tedesca con due canali, Ard e Zdf; dall’holding di France Télévision alla Rtve spagnola, anch’essa con due reti finanziate dal canone.

No, “la Rai non è la Bbc”, come ricorda in musica Renzo Arbore. Eppure, basterebbe poco per liberarla dalla doppia schiavitù della politica e della pubblicità. Se ancora non si fa, è perché in realtà non si vuole farlo.

 

Shellenberger, se per salvare l’ambiente tocca rinnegarlo

Basta con i toni apocalittici, con lo spauracchio della sesta estinzione di massa, con la retorica dell’Amazzonia “polmone del mondo”. In realtà le emissioni calano nelle nazioni ricche, la produzione di cibo aumenta grazie a un’agricoltura industriale che porta prosperità. Parole di uno scettico o negazionista climatico? Non proprio. Perché l’autore di queste affermazioni è un ambientalista di vecchia data: Michael Shellenberger, fondatore e presidente di Environmental Progress, think tank che si occupa di energia, nominato “Eroe dell’Ambiente” dalla rivista Time nel 2008. Shellenberger, che in questi giorni sta lanciando il suo nuovo libro, Apocalypse Never: Why Environmental Alarmism Hurts Us All, chiede addirittura scusa per l’allarmismo climatico del mondo ambientalista e rivela di essere rimasto in silenzio per la paura di perdere “amici e finanziamenti”. A spingerlo a parlare, oggi, sarebbe l’ostilità verso la civiltà moderna e una società ad alta energia che lui considera invece un bene per le persone e la natura (è anche un sostenitore del nucleare). L’articolo – pubblicato anche dalla rivista Forbes e poi tolto – è stato prontamente strumentalizzato da riviste negazioniste climatiche, anche da noi, mentre sul fronte opposto molti, tra cui il The Guardian, schierato da tempo sulle posizioni di Greta Thunberg – si sono chiesti chi finanziasse l’organizzazione di Shellenberger. Lui ha dichiarato di non aver mai accettato contributi di aziende, in particolare energetiche o con interessi energetici. La questione sembra essere più ideologica: Shellenberger vuole dare voce non tanto ai negazionisti quanto a quella parte di opinione pubblica terrorizzata dai cambiamenti climatici, e ben pronta a seguire un leader ambientalista che elimini l’angoscia che il tema porta con sé. Una sorta di terza via che ad oggi, tra scettici e allarmati, sembra non esserci. L’(ex)ambientalista non si ferma al problema morale, cioè al fatto che la paura e il panico non aiutino la causa ambientale, ma cerca una via di mezzo che sia anche scientifica. E qui mostra la sua debolezza, perché gli scienziati, che i suoi articoli, e il libro, l’hanno letto non hanno dubbi. “Come si fa a dire ad esempio che il climate change non renda i disastri naturali peggiori o che gli incendi siano diminuiti dal 2003?”, scrivono sei scienziati sulla rivista Climate Feedback citando studi e fonti. Una stroncatura sistematica è apparsa anche sulla rivista Real Climate, che bolla l’articolo come finalizzato all’autopromozione. Ma le parole più chiare sono quelle di Stefano Caserini, docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano. “Shellenberger mi sembra il nipotino di Lomborg, l’ambientalista danese le cui tesi sul clima si sono dimostrate false. Sull’aumento degli eventi estremi legati al cambiamento climatico ci sono eloquenti studi. E se pensiamo all’acidificazione degli oceani o all’aumento degli incendi non dobbiamo allarmarci? Poi se la questione è se la paura serva alla mobilitazione, dico che sì, ma serve ricordare anche le cose che accadono. Il nucleare? Una forma del secolo scorso, basta parlare con gli amministratori delle aziende energetiche”. Se qualcosa di utile da questo caso può essere tratta è allora questa. Mettere in discussione i dati, che dicono che stiamo andando incontro a rischi drammatici, non è più possibile. Si deve lavorare sulla comunicazione dei rischi, magari dividendo la popolazione, come ha fatto la rivista Climate Change Communication, in diverse fasce, dai più allarmati ai più scettici. Modulando i messaggi; aumentare la consapevolezza e il coinvolgimento sul cambiamento ed evitare il panico. Che invece di spingere le persone ad agire, le paralizza.

 

Prodi e B. rimangono comunque alternativi

Ha fatto discutere la doppia battuta di Prodi sulla vecchiaia foriera di saggezza del Cavaliere e sull’ipotesi di FI nella maggioranza come un non-tabù. Taluni commentatori hanno decisamente ecceduto: nella malizia (Prodi occhieggerebbe al Quirinale) o nell’enfasi: egli è un osservatore autorevole, partecipe, sollecito delle sorti del paese, ma non un regista/attore politico della maggioranza. Gad Lerner ha rammentato che, in realtà, non è cosa nuova e sorprendente, che vi è persino coerenza in Prodi: a suo tempo, egli giudicò il voto dell’europarlamento all’insediamento della Von der Leyen come l’atto propiziatore della maggioranza di governo imperniata sull’asse PD-M5S. Che Prodi, europeista sin nel midollo, conferisca rilievo all’ancoraggio dell’Italia alla Ue non dovrebbe stupire. Sarebbe sorprendente il contrario. Come anche che si facesse condizionare oltre misura dalla leggenda e dai suoi tabù: quella di un antagonismo di carattere personale che acceca e inchioda a un passato che non passa. Altra cosa, penso, è attribuirgli una sbrigativa riabilitazione di FI. Solo tre profili. Il primo: è lecito auspicare lo smarcamento di FI dai due alleati forti della destra nostrana, ma sappiamo bene che non è alle viste una reale dissociazione. Un po’ per i calcoli del personale politico di FI consapevole che, a differenza di un tempo, oggi il proprio futuro politico dipende da Salvini e Meloni non meno che dal Cavaliere. Un po’ perché, in tutta la sua vicenda, Berlusconi si è rivelato sempre un “concretista”: nelle sue molteplici giravolte, la sola bussola sicura è stata il suo interesse familiare e aziendale, che, dal suo punto di vista, non a torto, considera legato a un robusto schieramento conservatore. Secondo: anche a volere essere immemori diciamo così delle traversie giudiziarie del Cavaliere e del suo… non irreprensibile contegno personale e pubblico, immemori non possiamo essere del segno politico della sua avventura: non solo nei suoi tratti illiberali e populisti (l’opposto della rivoluzione liberale conclamata retoricamente), ma anche con riguardo proprio alla cifra di un affidabile europeismo. Ma quando mai? Con i suoi governi Berlusconi ha rappresentato semmai un problema per le formazioni e i paesi schiettamente europeisti. Si pensi solo alla rottura del fronte europeo nella seconda e più controversa guerra del Golfo ingaggiata da George Bush. Terzo e soprattutto: l’antagonismo politico (sottolineo: politico) Prodi-Berlusconi che oggi taluni giudicano (apprezzandolo) come superato era ed è invece un valore. Mi spiego: era, di sicuro sul versante dell’Ulivo, l’ambizione e la visione di una democrazia competitiva e dell’alternanza lungo l’asse naturale destra-sinistra. Una democrazia compiuta, dopo mezzo secolo di democrazia bloccata. La cui discriminante non può essere solo l’europeismo. Si farebbe un torto a entrambi, Berlusconi e Prodi, misconoscendo questo che è forse il loro precipuo merito politico. Quello di avere contribuito a un salto di qualità della democrazia italiana quale democrazia finalmente compiuta. La vistosa differenza tra i due (come negarla?), se non la si vuole derubricare a mera differenza “antropologico-temperamentale”, va ricondotta a una comune convinzione e cioè che la buona politica e le sane democrazie si nutrono di differenze e di conflitto/competizione tra loro. In breve, Prodi e Berlusconi, anche oltre se stessi, incarnano due universi politici alternativi, dei quali è bene custodire la differenza. Giustamente si reagisce con indignazione o con irrisione a Salvini che si intesta Berlinguer essendo siderale la distanza di statura tra i due, ma, oltre alla statura, ciò che li divide radicalmente è la opposta scala di valori ideali e politici. O vogliamo accedere all’idea che il giorno – improbabile – in cui Salvini abbandonasse l’antieuropeismo potrebbe rappresentarsi come politico di sinistra?

 

Programmi tv, “una vita”: adesso Genoveva abusa in casa del marito morto

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

Rai 1, 14.00: Linea blu, documentario. Il mare, fonte di infinite suggestioni, è protagonista della puntata di oggi, come memoria che rende indelebili i momenti della vita, e ricettacolo di germi potenzialmente mortali.

Rete 4, 21.25: Una vita, telenovela. Piena di rancore verso tutti, Genoveva si chiude in casa con la salma del marito e, ubriaca, ne abusa.

Rai 1, 10.15: La Santa Messa, fiction. Dio cerca di comunicare con il suo amato gregge attraverso uno stravagante medium. (Una cosa cui non si pensa mai: nella magia nera, la fattura viene spesso somministrata per via orale. In modo analogo, la celebrazione eucaristica è il rito che, con formule e preghiere di un officiante, trasforma le ostie in qualcos’altro, affinché chi le mangia resti vittima dell’incantesimo voluto. La messa è una forma di voodoo, l’ostia è una fattura. Buon appetito!)

Rai 1, 15.40: Il paradiso delle signore, soap. Silvia è sconvolta dopo la perdita del bambino. Vittorio cerca di rassicurarla con il suo cazzo.

Top Crime, 21.10: CSI: NY, telefilm. Danny e la squadra devono esaminare la scena di un omicidio, avvenuto nell’appartamento di uno dei più celebri prestigiatori di New York. Le indagini prendono una piega strana: un cadavere segato in due metà che continua a parlare, coniglietti che non smettono di uscire dalla vagina di Elizabeth, colombe che sbucano dal culo di Bob dopo ogni scoreggia…

Sky Cinema 2, 21.15: Tutti pazzi a Tel Aviv, film-commedia. Salam, giovane palestinese, è lo sceneggiatore di una famosa soap opera. Un giorno decide di cambiare i destini dei personaggi per opporsi alla politica di apartheid del governo Netanyahu. Si sveglia legato a una sedia in un posto sconosciuto.

Canale 5, 14.10: Una vita, telenovela. Carmen confessa a Ramon di aver detto ad Arantxa la verità su Palacios. Palacios confessa ad Arantxa di aver detto a Carmen la verità su Ramon. Ramon confessa a Carmen di aver detto a Palacios la verità su Arantxa, Arantxa confessa a Palacios di aver detto a Ramon la verità su Carmen. Le cose si complicano quando tutti e quattro si innamorano di una bambola RealDoll modello Stephanie big boobs con vagina e lingua motorizzate, che si rivelerà un’autentica stronza.

Rai3, 21.20: La grande storia, documentario. Paolo Mieli affronta un’ipotesi interessante sull’omicidio Moro, che spiegherebbe perché 1) nessuno vide i brigatisti che prelevavano Moro in via Fani, 2) Moro non subì ferite nell’inferno di fuoco dell’agguato, 3) Moro nelle sue lettere dal “carcere del popolo” non fa il minimo accenno agli uomini della scorta assassinati sotto i suoi occhi. In realtà, Moro non sapeva che erano stati uccisi, perché Moro non era in via Fani il 16 marzo del 1978, quando la sua scorta fu falcidiata. Moro fu prelevato all’uscita della chiesa, dove si recava tutte le mattine, da una macchina dei servizi, e con la scusa di un “allarme attentati” fu portarto nella prigione predisposta, mentre la scorta veniva mandata a controllare via Fani, dove fu trucidata affinché non potesse raccontare cos’era successo. Ma voi continuate pure a credere alla seduta spiritica di Prodi.

Rai 3, 21.20: Cartabianca, attualità. La pandemia ha reso ridicoli i selfie?

 

Mail box

 

Propongo che le Camere non vadano in ferie

Vi leggo da sempre. Ho condiviso spesso le vostre posizioni politiche e, qualche volta, com’è normale, ho dissentito. Di voi ho particolarmente apprezzato la coerenza e la serietà oramai introvabili. Complimenti, anche, per la nuova impaginazione editoriale e le acquisizioni di Daniele Luttazzi e Gad Lerner che hanno senz’altro arricchito la qualità del Fatto. Il motivo di questo mio scritto è altro. Il nostro Paese è stato travolto da questa maledetta pandemia che, oltre ai tanti lutti, ci ha lasciato in una condizione economica drammatica che creerà a molti concittadini situazioni economiche gravissime. Seguo, da sempre, la politica e vedo che vi sono mille problemi urgenti da affrontare, ma noto, anche, che per vari motivi si tende a rinviare tutto o quasi a dopo settembre e questo veramente non riesco a capirlo. La situazione credo sia veramente drammatica e perché quindi non ci “facciamo” promotori di una proposta per tenere aperti Camera e Senato e saltare, almeno per quest’anno, le ferie parlamentari così da affrontare da subito le varie problematiche? I cittadini del nostro Paese, ne sono certo, apprezzerebbero molto tale decisione e i nostri parlamentari non soffrirebbero troppo, ma se così fosse, patirebbero come tanti nostri concittadini che non sanno nemmeno cosa siano le vacanze o le ferie.

Piergiorgio Romani

 

Ottima idea!

M. tRAV

 

Per i proprietari di case sfitte, nessuna imposta

Egr. Direttore, è profondamente ingiusto che il proprietario di un immobile debba pagare le imposte anche nel caso, sempre più frequente soprattutto in questi tempi di crisi, che l’inquilino non paghi l’affitto. Le imposte dovrebbero essere pagate se c’è un reddito e non, come in questo caso, anche se il reddito non c’è. Spero, ma non ne sono per niente sicuro, che la riforma fiscale di cui si sente parlare in questi giorni possa eliminare tale evidente ingiustizia.

Pietro Volpi

 

Travaglio da solo contro Bettino, Silvio e Gori

In Italia prevale lo schema propagandistico dell’informazione. Vuol dire che poco interessa la verità e i fatti che concorrono oggettivamente a determinarla, ma il racconto è esclusivamente incentrato sulla convenienza del potente di turno. E per la convenienza spesso la verità e i fatti vengono ribaltati con veemenza. Così, è difficile che la libera informazione riesca a oltrepassare la barriera propagandistica e a informare correttamente. Ci prova da anni Marco Travaglio con fatica e coraggio ogni giorno. Lo ha fatto quasi da solo in occasione del maldestro tentativo di far passare Bettino Craxi per un perseguitato politico morto esule a causa dei magistrati cattivi. Lo ha fatto in occasione del maldestro tentativo di sfruttare una frase frutto di una affatto chiara registrazione, per riabilitare un soggetto che ne ha combinate di cotte e crude (Berlusconi), anche qui nel quasi silenzio generale. Lo ha fatto, e qui devo affettuosamente redarguirlo, perché l’avversario forse non meritava l’attenzione, col Sindaco di Bergamo. Si è scatenata una caccia all’uomo, al cattivissimo Travaglio, con toni surreali e preoccupanti, da linciaggio mediatico. Cosa ha detto Travaglio di così grave? Ha detto che Gori prima ha lavorato con Berlusconi negli anni del suo massimo potere; poi si è schierato con Renzi e grazie a questo è diventato sindaco di Bergamo. Infine ha detto che per il Sindaco di una città ferita mortalmente dal virus, non dovrebbe essere una primaria preoccupazione mettere in difficoltà Zingaretti e quindi il governo in un momento di massima difficoltà. Tutte cose sacrosante.

Enzo Cuccagna

 

Sul sindaco di Bergamo, ha ragione il Direttore

Egregio Direttore Travaglio, questa mia è per esprimerle tutta la mia solidarietà per gli attacchi senza senso a cui è stato esposto a seguito dell’articolo “Giorgio Covid” del 7 luglio. Le riporto cosa ho risposto io a un influencer locale che la attaccava: “Non c’entra niente né il populismo né il linguaggio violento. In questo articolo, al di là del racconto della storia politica ballerina (da Craxi a Berlusconi, al PD) del Sindaco Gori, Travaglio fa un’analisi delle di lui responsabilità in quello che è accaduto a Bergamo, proprio nel rispetto dovuto alle vittime”.

Francesco Falanga

 

Covid batte nazionalismi (vedi gli Usa e il Brasile)

Il coronavirus ha causato lutti, disastri economici, sociali, in tutto il mondo. Soprattutto negli Stati Uniti e in Brasile (i cui presidenti sono negazionisti), il Covid-19 sta procurando decessi e contagi. Questo sconsiderato politico di destra ha “annacquato” la legge sull’uso obbligatorio delle mascherine, per cui non è necessario portarle in negozi, chiese e scuole. Inoltre, l’ineffabile Bolsonaro ha esonerato i comuni dalla distribuzione di mascherine ai ceti più svantaggiati. Se malauguratamente, anche in Italia, fosse prevalso un modello sanitario nazionalistico, populistico, sarebbe stata la catastrofe.

Marcello Buttazzo

Calcio, sorteggi Sì, l’Atalanta potrebbe sorprendere in Europa

 

Ho visto gli accoppiamenti delle Coppe, e mi sembra interessante per il discorso legato all’Atalanta, magari ancora nel ruolo di sorpresa, ma in chiave-Europa.

Vincenzo Preti

 

La prima notizia, buona per chi ama il calcio, è che ci sono 50 probabilità su 100 che a vincere la Champions League sia un club che non l’ha mai vinta: un club che uscirà dal poker formato da Lipsia, Atletico Madrid, PSG e Atalanta e che sicuramente sarà in campo nella finale del 23 agosto allo stadio Da Luz di Lisbona. Lo ha stabilito il sorteggio effettuato ieri dall’UEFA, sorteggio che interessava anche i 3 club italiani rimasti in lizza: l’Atalanta (già qualificata ai quarti), la Juventus e il Napoli, che invece devono ancora chiudere il loro ottavo: la Juve deve rimontare lo 0-1 in casa del Lione mentre il Napoli deve tentare il colpo in casa di Leo Messi dopo l’1-1 del San Paolo. Tutto il cammino è comunque già programmato. Se la Juventus eliminerà il Lione, sfiderà nei quarti la vincente di Manchester City-Real Madrid (favoriti gli inglesi, che hanno già vinto 2-1 al Bernabeu) ed eventualmente in semifinale o il Bayern (che ha già praticamente liquidato il Chelsea) o la vincente di Barcellona-Napoli: due impegni durissimi. Anche il destino del Napoli può quindi incrociarsi con quello della Juventus; se Gattuso vincerà la sfida del Camp Nou troverà sulla sua strada prima il Bayern nei quarti e poi, in semifinale, una tra Juventus (o Lione), City o Real Madrid. Più lineare il percorso dell’Atalanta, autentica rivelazione di questa Champions: sfiderà il PSG nei quarti (Davide contro Golia, ma il calcio francese è fermo da marzo e questo potrebbe essere un vantaggio visto che le sfide saranno tutte a gara unica) e in semifinale, eventualmente, la vincente di Lipsia-Atletico Madrid. Fa impressione anche solo pensarlo, ma se l’Atalanta dovesse stroncare sulla corsa Neymar & Mbappé avrebbe grosse chances di giocarsi l’approdo alla finale. Ricapitolando: coefficiente di difficoltà proibitivo per il Napoli, altissimo per la Juventus, alto per l’Atalanta.

L’UEFA ha svelato anche il cammino dell’Europa League che interessa Inter e Roma. Se l’Inter eliminerà il Getafe troverà nei quarti la vincente di Leverkusen-Rangers; se la Roma supererà il Siviglia se la vedrà con la vincente di Wolverhampton-Olympiacos. Se dovessero vincere sempre, Inter e Roma giocherebbero tra loro la finale del 21 agosto.

Paolo Ziliani

Doris: leale, genio e pure bel sorriso

“Diconoche la sua arma migliore sia il sorriso”. I casi della vita: leggi il Corriere della Sera e non riconosci più Ennio Doris da James Dean. L’effetto è amplificato per chi ieri si fosse voluto avventurare nella lettura di più quotidiani, perché il numero 1 di Banca Mediolanum, storico amico di Silvio Berlusconi, ha avuto l’onore di ben tre servizi: il già citato Corriere, Libero e il Giornale, che per l’occasione ha pubblicato un testo di Fedele Confalonieri. D’altra parte gli 80 anni di Doris arrivano una volta sola, bisogna dar sfogo agli elogi. Se a via Solferino si punta sul sorriso ma anche “sullo sguardo”, a Libero si va sul sentimentale: “Ennio va assolutamente ringraziato, celebrato e soprattutto collocato tra quelle eccellenza che hanno saputo far grande l’Italia nel mondo”. Senza dimenticare che “gli va riconosciuto il senso profondo dell’amicizia, della lealtà”. Dice Confalonieri che “la vita di Doris non è stata sempre una passeggiata”, semmai “una maratona” e comunque “lui l’ha vinta alla grande, per distacco”: “Un visionario. Se fosse nato in America sarebbe uno dell’Olimpo come Jobs, Gates e Bezos”. Invece è nato in Italia. L’Olimpo non c’è, ma la leccata stereofonica dei giornali non è niente male.

Confusione Gedi: quello scoop è vostro!

L’autobiografia del populismo ce la spiega ieri Mattia Feltri, direttore di HuffPost del Gruppo Gedi, sulla prima de La Stampa del Gruppo Gedi. “Per capire come funziona questo Paese, il rapporto tra popolo ed élite (non so se ci sia un popolo ma di certo non c’è più un’élite), l’assunzione di responsabilità, il senso della misura, il gusto del capro espiatorio, si consiglia di guardare alla vicenda del Pio Albergo Trivulzio, nome evocativo e definitivo come Grande vecchio o Servizi segreti, lo pronunci e hai detto tutto, anche se niente sai”. Poi conclude emettendo una sentenza tesa a sminuire il caso: “Le procedure d’isolamento c’erano ma non funzionavano benissimo”. E ancora: “Pure le regiole c’erano e non sono state applicate”. Ma lo scoop sulla malagestione del Trivulzio in piena pandemia Covid, caro direttore Feltri, Gruppo Gedi, è stato fatto da… indovinate un po’? La Repubblica del Gruppo Gedi. A firma di un giornalista noto per le sue posizioni ultrapopuliste: Gad Lerner. E al di là di questo non si capisce un’altra cosa: qual è il nesso tra la strage dei nonni nelle Rsa e il populismo? L’élite dovrebbe provare a spiegarlo al popolo dei familiari delle vittime, per esempio.

Positivi e malati: c’è differenza

È possibileche anche “esperti” usino indifferentemente i termini SarsCov2 e Covid? È possibile che si usi il termine positivo dando lo stesso significato che si tratti del risultato di un test su tampone rinofaringeo o uno sierologico? Comincio a pensare che qualcuno voglia sguazzare nell’equivoco.

Da sempre, i sacri testi di infettivologia ci hanno insegnato che esiste una differenza sostanziale tra infezione (presenza del virus) e patologia infettiva (malattia dovuta ad un dato microrganismo). C’è una bella differenza.

I cosiddetti “positivi” sono soggetti che albergano nelle loro vie aeree SarsCov2 . Non sono necessariamente Covid (malati). Oggi, peraltro, la malattia è quasi del tutto scomparsa, tanto che sono stati sospesi i trial clinici per mancanza di malati nei quali provarli. Situazioni analoghe ve ne sono tante. Molti microrganismi possono trovarsi nel nostro corpo e non dare patologia, se non in casi rari. Stessa confusione per i test. Dire che un test è positivo e dargli il significato che è stato identificato il virus, vale esclusivamente per il tampone.

I soggetti che sono sierologicamente positivi mostrano di aver avuto un contatto più o meno recente con il virus ma non necessariamente (anzi, molto raramente) mostrano la presenza del virus. È tempo, finalmente, di essere onestamente chiari.

Tutti fingeranno di aver vinto Ma così perdono gli europei

L’Unione Europea è maestra nell’arte di annacquare i progetti importanti, e sembra che lo farà di nuovo al prossimo summit di luglio a proposito del tanto necessario Recovery Fund. Le ragioni di questa attitudine sono tutt’altro che impenetrabili. L’Ue prende tutte le decisioni attraverso il metodo della ricerca del consenso, e quindi è regolarmente costretta a profondersi in una serie di precari compromessi tra i 27 Stati membri.

Il metodo del consenso non garantisce nulla sulla bontà di una politica, ci dice solo che coloro che sedevano al tavolo delle decisioni sono stati in grado di trovare un compromesso unanime, in grado (sperano) di soddisfare i rispettivi elettorati nazionali. Si potrebbe dire che è così che funziona la democrazia, se non fosse che una democrazia che non risolve i problemi è di ben poca utilità per la gente. La verità, e la storia dell’Ue lo dimostra, è che il metodo del consenso crea tanti problemi quanti ne risolve.

In questi giorni l’ingranaggio del consenso ruota attorno al Revovery fund, battezzato “Next Generation EU”. Dopo “intense trattative” gli Stati raggiungeranno un accordo che tutti potranno descrivere come un trionfo della saggezza dell’Unione. Tutti avranno qualcosa da portare a casa. La Commissione rafforzerà la sua posizione potendo disporre di un budget più ampio. I governi del Sud e dell’Ovest annunceranno la vittoria della solidarietà. Quelli del Nord diranno agli elettori che l’accordo permetterà di riavere indietro il denaro investito nell’Ue. Quelli dell’Est potranno continuare a reprimere la democrazia con l’aiuto di nuovi fondi europei.

Il problema di questa proposta è che pensa troppo a come conseguire un sostegno unanime e troppo poco a come affrontare i veri problemi economici dell’Europa. Le sovvenzioni sono troppo piccole e troppo poco focalizzate sui settori più bisognosi di aiuto. I prestiti offrono finanziamenti generosi, ma vengono erogati solo per tranche e dipendono troppo dai governi nazionali a causa degli equilibiri interni alla Commissione europea. Contemporaneamente, i paesi che si considerano creditori netti continueranno a poter chiedere sconti di bilancio e a insistere affinché la Commissione imponga condizioni ai paesi che hanno beneficiato degli aiuti.

Naturalmente, i “veri europei” si troveranno tutti d’accordo a dire che “Next Generation EU” rappresenta un grande passo avanti. E si inchineranno di fronte alla lungimiranza della Cancelliera tedesca Angela Merkel. In termini simbolici, avranno ragione: trovare un accordo è importante, com’è importante ottenere che l’accordo soddisfi tanto gli olandesi quanto gli italiani.

Le lacune del Recovery fund verranno fuori solo in un secondo momento, quando l’impatto economico della pandemia avrà macinato piccole e medie imprese e creato un esercito di disoccupati. Potrà limitare i danni, ma risulterà troppo modesto per invertire la tendenza, specie nei paesi più colpiti. Così, tra due o tre anni i populisti di tutta Europa potranno salire sugli scranni e gridare vendetta. I governi del Nord dovranno ammettere che, ancora una volta, il denaro investito non è servito a promuovere le riforme nei paesi del Sud. E nei paesi dell’Est, dove i populisti sono già al potere, il denaro dell’Ue avrà dato loro una mano a rimanerci.

Il problema non è che il metodo del consenso sia sbagliato, ma che il consenso è più facile da raggiungere quando mantiene intatte le disuguaglianze. Chiunque pensi che il bilancio dell’Ue sia efficiente nella capacità di redistribuzione farà meglio a ricredersi. I dati che sui “contribuenti netti” e i beneficiari sono solo un misero riflesso delle vere conseguenze dell’integrazione europea. Dati economici più ampi mostrano che gli Stati più forti traggono più benefici di quelli più deboli in termini di accesso al mercato, di ritorno sugli investimenti, di accesso a manodopera qualificata e persino di concorrenza fiscale. Il bilancio europeo fa ben poco per compensare questi squilibri. Ecco perché i leader europei devono trovare una forma di compensazione per i membri più deboli. In alternativa, l’integrazione porterà solo nuove divergenze tra gli Stati membri.

Da tempo i leader politici europei riconoscono l’esistenza di questo nodo, ma non sono riusciti a spezzare l’inerzia del metodo del consenso. Un accordo non dovrebbe essere la misura delle loro ambizioni. I leader hanno bisogno di un accordo che duri anche oltre la contingenza. E di creare consenso attorno all’idea che l’integrazione europea non è costruita come una stretta contabilità ma è il progetto ben più ambizioso di lavorare insieme per il bene di tutti i membri dell’Unione. La vera vittoria sarà quella di cui potranno godere tutti gli europei. Le piccole vittorie da rivendicare dopo “intense trattative” tra governi nazionali, invece, in confronto sono bagatelle.