Anm, Ferri si è dimesso (prima di essere cacciato)

Alla fine Cosimo Ferri si è arreso. Per evitare una pesante sanzione dell’Associazione nazionale magistrati, o magari l’espulsione, si è dimesso dal sindacato delle toghe. Il deputato renziano, magistrato in aspettativa di lungo corso ma dominus delle nomine del Csm, eguagliato negli ultimi anni dal collega e alleato Luca Palamara, ha presentato le dimissioni con una mail inviata all’Anm distrettuale di Roma. Invece, Palamara, pm romano sospeso, come aveva già annunciato, ha presentato ricorso contro l’espulsione dall’Anm, deliberata il 20 giugno scorso dal Cdc, il cosiddetto parlamentino. Se ne discuterà il 19 settembre.

Sempre ieri, il presidente uscente dell’Anm Luca Poniz si è lamentato per la strumentalizzazione politica del “grave” caso Palamara, lo scandalo nomine: ha parlato di “vere e proprie aggressioni, se non vilipendi” ai danni “della magistratura e della “giurisdizione”, riferendosi, implicitamente, anche alle accuse dei difensori di Silvio Berlusconi di essere stato condannato in Cassazione da “un plotone di esecuzione”.

Tornando a Ferri, l’Anm romana giovedì sera “preso atto della richiesta, all’unanimità” ha deliberato le dimissioni e ieri sera, il Cdc ha dichiarato “il non luogo a procedere” con soli 4 no dei rappresentanti di Autonomia e Indipendenza, i quali volevano, invece, la sospensione delle dimissioni.

Una mossa, quella di Ferri, leader di Magistratura Indipendente, la corrente conservatrice, decisa prima che i probiviri si riunissero per proporre la sanzione al Cdc dell’Anm. Se non fossero arrivate le dimissioni, i probiviri questa volta non avrebbero potuto graziarlo, come in precedenza. Il 20 giugno scorso, sul tavolo del Cdc era arrivata una proposta dei probiviri che accoglieva la linea prospettata da Ferri: non giudicabile perché di fatto fuori dall’Anm, non avendo pagato le quote. Quel giorno, però, il parlamentino dell’Anm smontò in pochi istanti la linea dell’attuale deputato, che si erano bevuti i probiviri: le quote erano state pagate, come dimostrano, fu detto, i prelievi dallo stipendio di Ferri. In più nel 2016 Ferri chiese di votare per l’Anm ligure, nonostante fosse all’epoca sottosegretario alla Giustizia. Quindi, il 20 giugno scorso il Cdc rimandò gli atti su Ferri ai probiviri per proporre una sanzione, dato che faceva parte a tutti gli effetti dell’Anm. Fino ad ora a “Cosimino”, come lo chiamano tutti, gli era andata bene non solo con il Csm ma pure con l’Anm. Il sindacato delle toghe, per esempio, nel 2014 si limitò a emettere un comunicato di critica ma non decise alcun deferimento ai probiviri, nonostante Ferri-politico, sottosegretario alla Giustizia, fosse entrato a gamba tesa nella campagna per l’elezione dei togati del Csm: inviò sms ai magistrati per chiedere di votare Luca Forteleoni e Lorenzo Pontecorvo, poi eletti.

Ferri è l’ultimo dei magistrati, in ordine di tempo, che per evitare sanzioni dell’Anm si è dimesso. Nelle settimane scorse, uno dopo l’altro, si erano dimessi Luigi Spina, Antonio Lepre e Corrado Cartoni, già costretti l’anno scorso alle dimissioni da consiglieri Csm, dopo che sono venute fuori le registrazioni all’hotel Champagne di Roma, il 9 maggio 2019, con Palamara, Ferri e un altro deputato renziano del Pd, Luca Lotti, pure imputato a Roma per Consip. È la famosa sera in cui provano a decidere la nomina del procuratore di Roma.

Presente pure un quinto togato di Palazzo dei Marescialli, Paolo Criscuoli, l’ultimo a dimettersi da consigliere ma che non si è dimesso, come Palamara, dall’Anm e che il 20 giugno scorso è stato condannato a 5 anni di sospensione. Tutti i magistrati che si trovavano all’hotel Champagne sono sotto processo disciplinare dal 21 luglio. Per Ferri, però, i giudici del Csm dovranno chiedere alla Camera, su richiesta della procura generale della Cassazione, l’autorizzazione all’utilizzabilità delle intercettazioni. E Ferri lo scudo di deputato lo usa, eccome. Dopo aver ricevuto un picche dalla Corte Costituzionale perché aveva chiesto da singolo deputato di sollevare un conflitto tra poteri (non si può fare), Ferri ci riprova con la strada canonica: ha chiesto al presidente della Camera Roberto Fico di sollevare davanti alla Consulta quel conflitto che avrebbe voluto fare da solo contro la procura di Perugia e la procura generale della Cassazione. È convinto di essere stato intercettato illecitamente dal Gico della Gdf di Roma (che aveva la delega dei pm perugini) proprio in quanto parlamentare. Ora la palla passa a Montecitorio.

“Lo Stato non si è fermato. E non deve fermarsi adesso”

Ci sono indagini in corso sui legami tra Forza Italia e la strategia stragista dei primi anni novanta di Cosa Nostra e ‘Ndrangheta. La notizia è passata quasi inosservata dopo la richiesta di ergastolo formulata ieri dal procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri nei confronti dei boss Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone. Il capo della Dna Federico Cafiero De Raho, però, la butta lì e sembra quasi che voglia rispondere alla provocazione fatta in aula dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo che, durante la sua requisitoria, ha dato ragione allo stesso Graviano replicando al boss di Brancaccio che ha chiesto: “Chi deve pagare insieme a me, che sta al di sopra di me?”. “Ha ragione Graviano – ha commentato Lombardo – Poi vediamo se la magistratura avrà la forza di andare avanti fino in fondo”.

Procuratore De Raho, oggi è si è conclusa la requisitoria di un processo che rischia di riscrivere la storia recente dell’Italia.

È una vicenda che evidenzia come ‘Ndrangheta e Cosa nostra abbiano operato assieme negli anni. Cominciammo quest’inchiesta nell’aprile 2013 quando divenni procuratore di Reggio Calabria. Eravamo quattro magistrati a occuparcene. Partendo soltanto dalla dichiarazione del pentito Gaspare Spatuzza, si è poi sviluppato un’indagine amplissima.

Cosa ne pensa dell’ombra di Forza Italia durante le stragi?

Questa è una parte che evidentemente riguarda altre indagini. Al momento ci occupiamo di questo processo che appunto vede due persone, Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, esponenti di rilievo della ‘ndrangheta e di Cosa Nostra come imputati. Già questo è un passo importante. Credo che la Direzione distrettuale di Reggio Calabria ha svolto un compito enorme se è vero che si tratta di fatti del dicembre 1993 e del gennaio e febbraio 1994. A distanza di più di 20 anni si arriva ad accertare e portare una ricostruzione di quei fatti davanti a una Corte D’Assise.

Ci sono voluti 26 anni per portare in aula i presunti responsabili dell’omicidio dei carabinieri uccisi nel 1994.

È la dimostrazione di come lo Stato di diritto non si ferma mai perché tutte le verità devono essere affermate.

La Procura di Reggio ha chiesto l’ergastolo. Ora toccherà alla Corte D’Assise decidere se Graviano e Filippone sono colpevoli. Non le chiedo una previsione, ma quanto inciderà la sentenza sulla ricostruzione di quel periodo buio del nostro Paese?

La Corte d’Assise deciderà sulle responsabilità personali che sono un qualcosa che non tocca la ricostruzione delle vicende. È stato uno sforzo enorme, che ha fatto luce sull’omicidio dei carabinieri e quindi l’Arma, di un baluardo della nostra democrazia. Fino a un certo momento, l’agguato in cui persero la vita i carabinieri Fava e Garofalo sembrava frutto di una scelta scellerata di alcuni giovani. Oggi si dimostra che i carabinieri erano nel mirino di Cosa nostra e della ‘Ndrangheta. La loro eliminazione rientrava nella strategia stragista.

La storia, però è molto più ampia. Nel processo si è parlato di massoneria, politica e pezzi deviati dello Stato.

Sono grato al procuratore Bombardieri e al procuratore aggiunto Lombardo che sono riusciti a portare all’esame della corte una ricostruzione fondamentale che è in linea con quelli che sono gli approfondimenti che tante altre procure distrettuali stanno sviluppando.

Stragi, quarta stagione tra bombe e Forza Italia

Ergastolo. Questa è la richiesta di pena per Giuseppe Graviano (il boss siciliano già condannato per le stragi del 1992 in Sicilia e del 1993 a Milano e Firenze oltre che per gli attentati di Roma) e per il calabrese Rocco Santo Filippone, ritenuto un uomo della cosca Piromalli che domina il Tirreno calabrese. Si avvia alle ultime battute il processo che ha avuto l’onore delle cronache solo quando proprio Graviano ha lanciato accuse pesanti e non riscontrate contro Silvio Berlusconi, tipo: “Io l’ho incontrato a Milano mentre ero latitante nel 1993”. Il pm Giuseppe Lombardo ha formulato, dopo una requisitoria fiume durata molti giorni, le sue richieste di condanna per i due imputati in relazione al duplice omicidio dei due carabinieri, Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. Furono uccisi a colpi di M12 a Scilla in Calabria il 18 gennaio del 1994 mentre si trovavano a bordo della loro Alfa 75 in servizio. I due boss sono alla sbarra anche per gli attentati ai danni sempre di altre pattuglie dei Carabinieri, avvenuti nel dicembre 1993 e febbraio 1994. Lombardo inserisce quei fatti calabresi nella strategia politica portata avanti con le stragi da Cosa Nostra (in accordo con la ’ndrangheta) per influenzare il corso della storia d’Italia. Per dare il senso dell’importanza del processo ieri in aula il procuratore capo di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri ha preso la parola per formulare le richieste dell’accusa e al suo fianco c’era anche il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho. Lo scenario descritto dal pm di Reggio è nazionale e disegna l’estensione di quello consacrato nella sentenza di primo grado del Processo Trattativa. La tesi dell’accusa nella sostanza è questa: ’ndrangheta, mafia, servizi deviati e massoneria deviata temevano la presa del potere degli ex comunisti dopo la caduta del Muro.

La strategia il “sistema” contro il pds di occhetto

Dalla fine del 1993 all’inizio del 1994, quando il Pds di Occhetto sentiva già profumo di Palazzo Chigi, questo “sistema” mise in essere una strategia a suon di attentati per stravolgere il clima politico del paese. Lombardo ieri ha parlato di “un disegno in cui le componenti mafiose si muovono accanto a componenti originariamente di altra natura”. Gli attentati ai Carabinieri in Calabria erano parte della strategia stragista nazionale che sarebbe culminata nell’attentato fallito allo Stadio Olimpico di Roma il 23 gennaio del 1994. “La strategia stragista – per Lombardo – aveva una precisa caratteristica: attaccava consecutivamente una serie di obiettivi simbolici omogenei. C’è stata la stagione degli attacchi ai politici (Salvo Lima, ucciso nel marzo 1992, ndr), c’è stata la stagione degli attacchi ai magistrati (Falcone e Borsellino, maggio–luglio 1992, ndr), c’è stata la stagione degli attacchi al patrimonio artistico (bombe a Firenze Milano e Roma tra maggio e luglio 1993, ndr). C’è stata la stagione delle forze dell’ordine, in particolare i carabinieri, come abbiamo visto (i tre attentati in Calabria oggetto del processo ‘Ndrangheta stragista più la strage tentata all’Olimpico, ndr). Sulla scia degli eventi che portano a quel fatidico 23 gennaio 1994 (Roma-Udinese all’Olimpico, ndr) inseriamo – ha proseguito Lombardo – gli avvenimenti calabresi”. Per il pm il marchio della strategia consacrava la sua finalità terroristica con le rivendicazioni della sigla “Falange Armata”.

In carcere “Chi deve pagare con me che sta sopra di me”

Di solito erano rivendicazioni successive ma una sola fu precedente. Il 21 gennaio 1994, ha ricordato Lombardo, un telefonista anonimo dice che il 23 gennaio 1994 ci sarà un attentato allo stadio. A Marassi però, durante Samp-Juventus. L’attentato – fallito, come sappiamo – era programmato dopo Roma-Udinese. La telefonata però – nota Lombardo – arriva alla Questura di Roma, “è una firma preventiva all’attentato dell’Olimpico” e giunge proprio nei giorni in cui a Roma c’è stato l’incontro (datato dal pm 21 gennaio 1994) al bar Doney di Via Veneto tra Giuseppe Graviano e Gaspare Spatuzza. In quell’incontro – secondo Spatuzza – Graviano gli spiega la sua strategia politica che punta su Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. Annuncia che “hanno il paese nelle mani” e chiede al suo gregario di fare in fretta l’attentato allo stadio anche perché i calabresi si erano già mossi con gli attentati ai danni dei Carabinieri.

“Non è che la fretta di Graviano per portare a termine il fallito attentato all’Olimpico era legata al fatto che la settimana dopo sarebbe stata annunciata la discesa in campo di Berlusconi?”, si era chiesto retoricamente il pm il 3 luglio scorso nella requisitoria. Poi la strage del 23 fallisce, il 26 gennaio Berlusconi annuncia la sua discesa in campo e il 27 gennaio Giuseppe Graviano e suo fratello Filippo sono arrestati a Milano. “Sappiamo benissimo – ha detto Lombardo – che Graviano è arrabbiato per il suo arresto. Non se lo aspettava nella misura in cui lui aveva preso degli accordi. La rabbia ci consente di comprendere che gli accordi non comprendevano la sua cattura”. Poi ‘ndrangheta e Cosa Nostra dicono basta alle bombe. “Inizia la fase in cui bisogna attendere il mantenimento delle promesse”, spiega Lombardo. Terminano anche le rivendicazioni della Falange Armata. Secondo il pm “il soggetto che per Cosa nostra era incaricato di mantenere i rapporti con la ‘ndrangheta aveva un solo nome e cognome: Giuseppe Graviano”. Ironicamente il pm ha detto: “Non ho ringraziato formalmente Graviano per quello che ci ha detto nel corso dell’esame? Mi pare di sì, perché ci ha spiegato che quel momento storico è un momento in cui la sua storia, la storia di Cosa Nostra, la storia della ‘ndrangheta procede di pari passo con la storia del movimento politico che verrà annunciato il 26 gennaio di quell’anno: Forza Italia”. Si tratta di una requisitoria, certo. Inoltre le questioni politiche non sono oggetto del processo che si occupa solo degli attentati e dei due imputati Graviano e Filippone. Però il pm ieri ha posto domande interessanti: “Tutto è finito nel febbraio 1994. Perché? Perché come dice Spatuzza, ‘Graviano mi disse: abbiamo il Paese nelle mani’”. In un altro passaggio della requisitoria il pm ha ricordato le intercettazioni del 2016-2017 di Graviano in carcere: “‘Berlusconi è un traditore’. O – ha chiesto retoricamente Lombardo – lo definisco io un traditore? Il 14 marzo 2017, a un certo punto (mentre è intercettato, ndr) Graviano dice ‘io sto pagando va bene, ma l’autore e lui’. Così dice Graviano – ha proseguito il pm – in un’intercettazione che non ha mai smentito”. Certo, va detto che Graviano si dice “tradito per una questione di soldi”. Però per il pm il punto è un altro: “Riconosco a Graviano che ha ragione quando dice: ‘Chi deve pagare insieme a me che sta al di sopra di me?’. Ha ragione. Poi vediamo se la magistratura italiana avrà la forza di andare fino in fondo”. La sentenza è attesa, dopo le arringhe dei difensori e delle parti civili, dal 21 luglio in poi.

Proroga emergenza Conte: “Nel caso si va in Parlamento”

L’annuncio il premier lo fa a Venezia, nel punto stampa a margine della cerimonia per il Mose: “Non vi dovrete sorprendere se la decisione sarà di prorogare lo stato di emergenza”. Si allungherebbe così al 31 dicembre la finestra in cui il governo potrà far ricorso a “mezzi e poteri straordinari” contro il Covid, aperta per sei mesi lo scorso 31 gennaio. “Non significa che il virus non sia sotto controllo”, spiega Conte, “ma se non prorogassimo non avremmo più gli strumenti per monitorare e, nel caso, intervenire circoscrivendo le situazioni a rischio”. E ciò perché non sarebbe possibile istituire nuove zone rosse con decreto del presidente del Consiglio (servirebbe un decreto legge, da licenziare in Cdm e poi sottoporre al vaglio del Parlamento) né acquistare, ad esempio, i 10 milioni di mascherine al giorno necessarie al rientro a scuola senza una gara pubblica. Verso la proroga anche la modalità di lavoro a distanza nelle pubbliche amministrazioni. “Il virus è tutt’altro che morto, serve coordinamento e possibilità di misure rapide”, dice al Fatto Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto Spallanzani di Roma e membro del Comitato tecnico-scientifico. “Il prolungamento dell’emergenza mi trova del tutto d’accordo”.

Da palazzo Chigipuntualizzano che la decisione non è ancora stata presa, e che se si procedesse in questa direzione si passerebbe comunque dal Parlamento. Ma dalle opposizioni intanto arrivano bordate. Il primo è il solito Salvini: “La libertà non si cancella per decreto”, si affretta a twittare. Mentre Giorgia Meloni sentenzia che “non ci sono i presupposti” per una proroga fino a fine anno, però il governo ne approfitta “per fare un po’ quello che vuole, accelerando dei passaggi che altrimenti avrebbero bisogno di maggiori contrappesi”. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato in quota Lega, rispolvera un antico cavallo di battaglia e parla di “porcata”. Ma accuse di autoritarismo vengono anche dall’opposizione “moderata”: “Irragionevole pensare di replicare il modello di governo a colpi di Dpcm, con la totale esclusione del Parlamento da scelte che attengono alle libertà costituzionali”, attacca la presidente dei senatori di Forza Italia Annamaria Bernini, con il portavoce azzurro Giorgio Mulè che arriva a dare a Conte del “monarca”. Da Pd e Italia Viva, invece, si chiede al presidente del Consiglio di riferire alle Camere sulla proroga: il che, si fa sapere dal governo, avverrà sicuramente per ragioni di opportunità politica, nonostante il Codice di Protezione civile del 2018 prescriva una semplice delibera del Cdm.

Intantoi nuovi casi risalgono a 276, il dato peggiore delle ultime due settimane. Circa la metà, 135, si contano in Lombardia. E se l’indice Rt a livello nazionale resta inferiore a 1, sono cinque le regioni in cui tra il 29 giugno e il 5 luglio la soglia è stata superata: Piemonte (1,06), Lazio (1,07), Toscana (1,12), Emilia-Romagna e Veneto (1,2). Dopo l’ordinanza del ministero della Salute che blocca i voli dai 13 Stati della black list, a Roma proseguono i tamponi sui membri della comunità bangladese, che superano i 2.500. Mentre a Bologna preoccupa un nuovo focolaio tra i corrieri, stavolta alla Tnt: 29 positivi di cui 3 sintomatici, la metà dei nuovi casi in Regione. Con l’assessore regionale alla Sanità che annuncia test sierologici obbligatori per tutti i lavoratori della logistica.

Altro che 147 pazienti dimessi e trasferiti in Rsa: quasi 5 mila

Sullo scandalo lombardo dei pazienti Covid inviati nelle Rsa ora sta emergendo quello che il Fatto scrive da mesi. E cioè che quelli trasferiti sono stati molti di più di quanti ne ha sempre dichiarati la Regione: “Ne sono stati accolti solo 147, in 15 strutture”, ha continuato a dire l’assessore al Welfare Giulio Gallera. Ma le cose non sembra affatto che stiano così. Non in base ai documenti sequestrati dagli investigatori del Nucleo di polizia economico finanziaria (come ha riportato ieri La Stampa), nel centro di smistamento dei pazienti che la Regione ha istituito al Pio Albergo Trivulzio di Milano. Documenti, acquisiti su ordine della Procura meneghina, che parlano di 7.500 pazienti, dei quali 4.700 Covid a bassa intensità e 2.800 negativi (anche se non tutti erano stati sottoposti al doppio tampone per escludere definitivamente la positività). Ma riavvolgiamo il nastro.

Era il 28 marzo quando il Fatto scriveva che i dimessi dagli ospedali perché clinicamente guariti, cioè senza più sintomi ma ancora con carica virale, venivano dirottati su hospice e Rsa. Scelta che allora aveva già riguardato almeno il 30 per cento di ottomila dimessi: vale a dire 2.400 persone, come precisato dallo stesso portavoce di Gallera, da noi interpellato nell’occasione. Dichiarazione stranamente ritrattata alcune settimane dopo: “Un mio errore”, il dietrofront del portavoce.

Arriviamo al 24 aprile, quando il Fatto, di fronte al silenzio della Regione Lombardia e delle Ats scopre, chiamando una per una le case di riposo, che il numero è ben diverso da quello dichiarato da Gallera: sono almeno 225. E i trasferimenti, a quella data, stanno proseguendo. Il presidente Attilio Fontana, l’assessore Gallera e le Ats continueranno a non rispondere, limitandosi a sostenere che le Rsa accoglievano i pazienti su base volontaria e solo a determinate condizioni, come la presenza di un’area autonoma, per evitare il possibile contagio degli anziani.

Non risponderanno nemmeno quando il Fatto, il 25 marzo, pone loro dieci domande. Primo: come è possibile che si parli sempre di 147 pazienti Covid e che a distanza di giorni e settimane il numero rimanga sempre invariato? Nel frattempo la “strage dei nonni” è già iniziata. La Regione Lombardia ha sempre sostenuto che gli anziani morti nelle case di riposo non possono dipendere dal ricovero di pazienti Covid. Ma è un fatto che l’Istituto superiore di sanità ha appurato, con una indagine che ha coinvolto il 43,1 per cento delle 678 Rsa presenti in Lombardia, che sono stati quasi 2.100 i decessi dall’1° febbraio al 5 maggio.

Ancora non si sa quanti dei 7.500 pazienti movimentati dal centro di smistamento del Trivulzio siano effettivamente finiti nelle Rsa, quanti in altre strutture sociosanitarie o centri per le cure intermedie: gli investigatori dovranno analizzare i documenti per ricostruire il percorso ospedaliero. “Ma era evidente fin dall’inizio che non potevano essere solo 147 in tutto – dice Cesare Maffeis, medico, presidente dell’associazione delle case di riposo del Bergamasco –. Solo nella nostra provincia ne abbiamo accolti molti di più. I numeri la Regione ce li ha ma non li fornisce. E non ha nemmeno un esperto di strutture socio sanitarie, si vede da come è stata scritta l’ultima delibera sulla riapertura delle Rsa, che non hanno ancora ricevuto nulla per aver aperto le porte ai pazienti Covid: cornuti e mazziati. La Regione Lombardia è sorda ma siamo pronti ad alzare la voce”.

Quanto all’effettivo numero dei morti, restano i dati dello Spi-Cgil, che ha fatto una indagine sul territorio regionale: cinquemila. “Un tasso di mortalità superiore del 400 per cento a quello degli anni precedenti”, dice il segretario regionale del sindacato, Valerio Zanolla.

Aria SpA: 344 appalti Covid E si dimette il dg (indagato)

Nuovo colpo di scena ieri nella vicenda “Camici regalati” dalla Dama spa: il direttore generale di Aria spa, la centrale acquisti della Regione Lombardia, Filippo Bongiovanni, ha rassegnato le proprie dimissioni. Si tratta di uno dei due indagati – insieme con il cognato del presidente Attilio Fontana, Andrea Dini, amministratore della Dama: finiti nel fascicolo della procura di Milano nell’indagine per turbata scelta del contraente per l’affidamento da 513mila euro concesso alla società dei familiari di Fontana.

Secondo il Pirellone Bongiovanni avrebbe chiesto di essere assegnato ad un altro incarico. Fonti vicine a Bongiovanni confermano che si tratta di vere e proprie dimissioni, sebbene tecnicamente si tratti di “richiesta di altro incarico”. Le stesse fonti poi ribadiscono il massimo rispetto per il lavoro degli inquirenti da parte dell’ex direttore, che attende con fiducia di chiarire i fatti.

E l’avvocato ed ex finanziere, fino a poche ore fa a capo dell’ente regionale finito nella bufera non solo per i camici, ma anche per le mascherine Fippi, probabilmente sarà una preziosa fonte di informazione per i magistrati.

Ed è chiaro che il suo addio – non del tutto inaspettato, visti i mai celati attriti col presidente di Aria, il forzista Francesco Ferri – lascia presagire nuovi sviluppi in una vicenda che si sta rivelando sempre più imbarazzante per il governatore lombardo. Nonostante il rifiuto di Fontana di presentarsi in Consiglio regionale per spiegare, l’inchiesta sta proseguendo spedita su tre filoni: la mancata sottoscrizione del patto di integrità (con la relativa dichiarazione di conflitto di interessi); il presunto “ruolo attivo” del governatore (che non è indagato), il quale si sarebbe adoperato per trasformare la vendita dei camici in donazione, dopo l’intervista a Report su Rai3; il mancato perfezionamento della fornitura – a quel punto “regalata” – con 2 mila camici mancanti.

Ma Bongiovanni, da dg di Aria, ha seguito anche molti degli acquisti effettuati dalla controllata regionale durante l’intera crisi Covid. Un oceano di affidamenti diretti, fatti in emergenza, rimasto a lungo oscuro, visto anche il continuo rifiuto dei vertici di Aria di riferire in commissione bilancio sulla propria attività. Ma il Fatto Quotidiano ha avuto la possibilità di consultare in esclusiva il rendiconto generale dei contratti stipulati da Aria tra il 23 febbraio e il 18 giugno. Si tratta di 344 appalti in totale, che vanno dalle mascherine, ai camici, dai test, ai tamponi, passando per le visiere. Una gigantesca lista della spesa dal valore di centinaia di milioni di euro.

Tra i fornitori, i grandi di Big Pharma, come Roche (16 affidamenti tra il 30 marzo e il 2 giugno per complessivi 2.746.233 euro), Arrow (16 affidamenti per 3.212.719 euro), Diasorin (quattro affidamenti, per complessivi 2.486.000), a sconosciuti che si accontentano di poche centinaia di euro, come Farmac-Zabban spa che per 40 mila cuffie copricapo fattura 1.152 euro. Nell’elenco degli acquisti della centrale lombarda figura anche il colosso multinazionale Amazon: sulla piattaforma, infatti, Aria spa diretta da Bongiovanni acquista altri camici, guanti, cuffie e mascherine per 795.647 euro.

Missione: convincere Rutte&C. Lo spettro Draghi guasta i piani

Manca una settimana al Consiglio europeo sul Recovery Fund. Una settimana centrale tra tavoli negoziali a tutti i livelli. Ma nelle Cancellerie europee si dà quasi per scontato che servirà un altro vertice, tra fine luglio e inizio agosto. Questo mentre il premier olandese, Mark Rutte, a capo dei paesi cosiddetti “Frugali” (Austria, Danimarca, Olanda e Svezia) spinge per rimandare la decisione a dopo l’estate. Una posizione inaccettabile, come è andato a ribadirgli il premier Conte, ieri, all’Aja. Un faccia a faccia che fa parte del giro delle Capitali europee, per rinsaldare l’asse con i paesi del Sud (è andato a Lisbona da Costa lunedì, e a Madrid da Sanchez martedì), puntando sul sostegno di Angela Merkel (è atteso a Berlino lunedì) e giocando di squadra anche con Emmanuel Macron (lo vedrà giovedì a Bruxelles).

L’Italia punta sul pacchetto di riforme appena presentato con il Decreto semplificazioni, insiste sul fatto che una risposta ambiziosa conviene a tutta l’Europa, mette l’accento sulla salvaguardia del mercato unico, che “salva” anche, e soprattutto, l’Olanda e la Germania a cui desiderata l’Aja di solito è sensibile. Ma i Frugali continuano a chiedere che diminuisca l’ammontare del Fondo (secondo la proposta della Commissione 750 miliardi, di cui 500 in trasferimenti e 250 in prestiti) e soprattutto che vengano ridotti i trasferimenti. Mentre la riduzione dell’ammontare complessivo è ormai data quasi per scontata, la linea maggioritaria è che i trasferimenti non si toccano.

Ieri Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, ha presentato la sua proposta per il bilancio pluriennale europeo: pur confermando quella della Commissione sul Fondo, ha previsto la riduzione del bilancio 2021-2027 a 1.074 miliardi e la conferma dei “rebates” (sconti sul bilancio) per alcuni Stati, tra cui gli stessi Frugali. A parlare per l’Italia è il ministro degli Affari europei, Enzo Amendola: “Vanno confermati gli obiettivi di ripresa economica del Recovery fund. Ora completiamo il negoziato con una decisione all’altezza della sfida”. Nel governo ha destato perplessità l’approccio di Michel, a cominciare dall’esordio, quando ha parlato di una “strong opposition” alla proposta della Commissione.

Si continua a negoziare anche sulla Governance dei fondi. Nella proposta della Commissione, il piano di riforme dei singoli paesi deve essere approvato a maggioranza qualificata dal Consiglio (4 paesi che rappresentano almeno il 35% della popolazione europea). Michel, per accontentare i Frugali, ha sostenuto che serve un voto del Consiglio, anche dopo il primo biennio (quando dovrebbero essere impegnati il 70% dei trasferimenti) per verificare i parametri. Un meccanismo che sfilerebbe il controllo sui fondi alla Commissione dandola ai governi.

A guastare il negoziato di Conte ieri è arrivata la notizia che Luigi Di Maio ha visto il 24 giugno scorso Mario Draghi, spauracchio del governissimo ormai da mesi.

Il Pd sono almeno due: ora si decide chi vince

Un rebus di difficile soluzione: vista dal Pd la questione della revoca ad Autostrade si configura così.

In origine, praticamente nessuno dei Dem era per togliere la concessione ai Benetton senza se e senza ma. Ma ad oggi nessuno ha neanche il coraggio di sostenere in maniera chiara una posizione così poco popolare. Sul banco degli accusati, da giorni, c’è il ministro delle Infrastrutture, Paola De Micheli. A lei si imputa soprattutto di non essere riuscita a trovare un’alternativa, di non aver lavorato per creare le condizioni di un’uscita. Tra i dubbi che circolano nel Pd c’è quello che Anas non sarebbe in grado di gestire Autostrade. E quindi il rischio è che le cose vadano molto peggio. Ma poi c’è anche chi è pronto a puntare il dito, sostenendo che la ministra sia stata messa lì proprio a garanzia dei Benetton. Quando si tratta di affari, le cose si fanno ancora più complesse. E decisamente poco trasparenti. Perché poi a parlare di un partito Benetton dentro al Pd sono in molti: occhi puntati su Dario Franceschini, Lorenzo Guerini e Graziano Delrio, prima di tutto.

Dopo due giorni di melina da parte dei piani alti del Nazareno, anche in risposta alle accuse dei Cinque Stelle, esce una dichiarazione del vice segretario, Andrea Orlando: “Al Pd interessa che chi ha nuociuto non nuoccia più, che ci siano garanzie sulle tariffe, gli investimenti, i controlli. Se questo si realizza con la revoca o con un radicale assetto societario tocca al governo dirlo sulla base delle analisi tecniche che a questo punto dovrebbero essere più che sufficienti”. E poi, l’affondo sulla “palude”: “Il Pd non ha mai chiesto rinvii su questo argomento. I tempi li decide il governo e per noi di tempo ne è passato sin troppo”. A questo punto, la linea è piuttosto univoca: porre ai Benetton delle condizioni molto svantaggiose per loro e intervenire sull’assetto societario, in maniera da metterli in minoranza. Più passano le ore, più nel partito si fa strada l’idea che la cosa migliore sarebbe spingerli a vendere. Lo va dicendo Roberto Gualtieri nei corridoi del Mef. Ma era comunque diversa la posizione della De Micheli, che voleva “spillargli” fino all’ultimo quattrino disponibile. Ma nessuno nei mesi passati – né Zingaretti, né Orlando – era davvero a favore dell’uscita dei Benetton. Di più. Si tiene rigorosamente lontano dalla questione Franceschini, che fa sapere che lui del dossier “non si occupa”. E poi Guerini che ragiona: “Il tema vero è se si può revocare concretamente. Ovvero con quali conseguenze economiche”. Delrio, in realtà in più occasioni ha usato parole dure. Negli ultimi tempi, ha puntato ripetutamente il dito contro Conte: “Avoca a sé tutti i dossier e poi non li chiude”.

Ma le difficoltà del Pd sono chiare dall’andamento della giornata di giovedì. In mattinata, in tv, viene mandato Roberto Morassut. Dice in diretta a Omnibus che “la revoca si può fare se sussistono i termini”. Anche se, come ammette lui stesso, è rischioso. Ma il sottosegretario all’Ambiente sa che esistono delle mancanze da parte di Benetton a livello di manutenzioni a cui ci si potrebbe appigliare. Una serie di relazioni tecniche a livello provinciale che mettono in evidenza le mancanze di Autostrade. A prescindere dal ponte Morandi.

Così, in corso di giornata, quella di Morassut diventa la linea ufficiale. Un modo per Zingaretti per tenersi le porte aperte: se Conte alla fine – anche a causa del pressing dei Cinque Stelle – insiste sulla revoca tout court, le pezze di appoggio si troveranno (e starà al governo farlo). Se c’è modo per evitarla, si faranno pesare i rischi, anche a livello legale. Ma il rischio che non vada così liscia esiste: il caso è all’ordine del giorno del Cdm di martedì. Se si vota, il risultato non è affatto scontato.

Si alza il Mose (e pure i dubbi) “Ora speriamo che funzioni…”

C’è il rischio che il Mose finisca come le concessioni autostradali, con lo Stato che se lo vuole riprendere, ma deve pagare milionate di indennità alle imprese private, che in questo caso si macchiarono dello scandalo delle tangenti? L’interrogativo serpeggia sull’Isola Nuovissima, al Lido di Venezia, dove è andato in scena il test di sollevamento contemporaneo di tutte le 78 paratoie dell’opera idraulica che dovrebbe salvare Venezia dall’acqua alta. Manca almeno un anno e mezzo al collaudo definitivo, dicembre 2021, il Mose è ancora da completare, eppure si disegna già il suo futuro. È costato 5 miliardi e mezzo ufficiali, 6 miliardi con le opere complementari. Ma costerà un centinaio di milioni all’anno per la gestione e manutenzione, quella torta a cui guardava Giovanni Mazzacurati, il gran ciambellano delle tangenti, assieme ai suoi complici, se non fosse stato bloccato dalla magistratura.

È per questo che il premier Giuseppe Conte, prima fa un auspicio, poi un annuncio operativo. “Qui fuori ci sono movimenti di protesta e la mia sicurezza era preoccupata. So che il Mose è stato accompagnato da critiche, dibattiti, da gravi episodi di corruzione e malaffare assolutamente deprecabili. Noi non dobbiamo dimenticare nulla, ma io dico a chi sta protestando: dobbiamo augurarci tutti che funzioni”. La piccola prova, cominciata alle 10.48 e terminata alle 12.25, ha retto: le paratoie sono uscite dall’acqua e sono rientrate, anche se probabilmente alcune, a Treporti, sono rimaste un po’ sollevate (ma sott’acqua) a causa delle sabbie e dei sedimenti, come era accaduto una decina di giorni fa. E anche il responso del Centro Maree è positivo, avendo rilevato, in una situazione di calma, uno scarto di 30 centimetri tra il livello della laguna e quello del mare.

Ma in quel congiuntivo – “… che funzioni” – usato dal presidente del consiglio c’è tutta l’ansia per l’utilità della più colossale incompiuta italiana. “Mancava l’ultimo miglio e responsabilmente abbiamo deciso di percorrerlo” ha detto. E il ministro delle Infrastrutture, Paola De Micheli: “Abbiamo rimesso in moto il Mose e le risorse ci sono”. Segue un annuncio che apre qualche interrogativo. “Sarà costituita una struttura collegiale per la gestione del Mose, con tutti i soggetti che ne hanno titolo. E questo avverrà in tempi molto rapidi”, ha detto Conte, facendo capire che potrebbe esservi un’appendice del Decreto Semplificazione. Il ministro De Micheli ha chiarito che sta per nascere un’autorità pubblica che farà tramontare il Consorzio Venezia Nuova. “La struttura farà terminare e funzionare il Mose e si occuperà di tutto il sistema della Laguna. Sarà pubblica, non più di privati”. Con che procedura, visto che esiste una concessione ai gruppi Mantovani, Condotte e Grandi Lavori Fincosit, già coinvolte nello scandalo delle tangenti ed ora tutte in procedure concorsuali? “Sarà creata una norma che prevederà il trasferimento della concessione allo Stato, con le compensazioni”.

Compensazioni significa soldi, come per Autostrade. Vuoi vedere che si rischia di liquidare con denaro dei contribuenti chi ha già mangiato nella greppia? “Il rischio non c’è, a patto che la concessione arrivi alla sua scadenza naturale di fine 2021 e che le cose siano fatte per bene – replica Giuseppe Fiengo, uno degli amministratori straordinari insediati nel 2015 per iniziativa dell’Autorità Anticorruzione –. Assieme al presidente Anac, Raffaele Cantone, nel 2017 abbiamo predisposto il Sesto Atto Aggiuntivo che dovrebbe mettere lo Stato al riparo da sorprese, per evitare la beffa, dopo il danno”. Era il documento che toglieva l’esclusiva dei lavori del Mose alle società azioniste del Consorzio. Ma è anche l’atto che Mantovani, Condotte e Fincosit non hanno accettato citando gli amministratori per danni e chiedendo l’iperbolica cifra di 194 milioni di euro. La Quarta Convenzione del 1991 fissava le penali in caso di revoca della concessione che arrivavano, oltre al pagamento dei lavori eseguiti e dei materiali acquistati, anche al calcolo di un decimo dei lavori mancanti. Questo dà il conto di quanto ricca sia la posta in gioco.

Conte minaccia Aspi I Benetton in uscita trattano sul prezzo

Ultimatum a oltranza, almeno fino a domenica. Andrà avanti così finché Autostrade per l’Italia (Aspi) non consegnerà l’offerta per chiudere la ferita del ponte Morandi. Dovrà essere così conveniente “che il governo non potrà dire di no, altrimenti scatterà la revoca”, avvisa Giuseppe Conte in visita al Mose di Venezia. La cadenza quotidiana delle minacce serve a mettere spalle al muro la controparte, ed evitare al governo una conta interna assai critica. Un’apertura è arrivata. I Benetton, maggiori azionisti di Atlantia, che a sua volta controlla il concessionario, stanchi da tempo del braccio di ferro col governo, hanno fatto di nuovo sapere di essere pronti a cedere il controllo di Aspi. Stavolta però l’indicazione è arrivata direttamente nel cda della holding dai rappresentanti di Edizione, la cassaforte di famiglia. Ma tutto ha un prezzo. E questo può arrivare solo dopo l’accordo sulla concessione.

Andiamo con ordine. Ieri Conte ha ribadito l’ultimatum consegnato giovedì nel vertice tra i tecnici dei ministeri coinvolti e gli uomini di Aspi e Atlantia: il concessionario deve alzare l’offerta fatta finora. Non bastano gli 1,5 miliardi promessi per ridurre le tariffe, la cifra va portata ben oltre i 3 miliardi. Aspi deve poi accettare il nuovo sistema tariffario dell’Authority dei trasporti, che mette fine allo strapotere dei concessonari, e deve alzare le manutenzioni e l’indennizzo per il disastro del Morandi, rinunciando a qualsiasi contenzioso e accettando penalità in caso di inadempimenti su controlli e manutenzione. A conti fatti, si passerebbe dai 2,9 miliardi offerti finora da Aspi ad almeno 5 miliardi.

Ieri i cda delle due società si sono riuniti dando mandato di predisporre un’offerta “sostenibile” per il bilancio di Autostrade, gravato da 9 miliardi di debiti. Sarà consegnata tra oggi e domani e analizzata nel Consiglio dei ministri, che dovrà prendere una decisione. Era previsto per lunedì, ma è già slittato a martedì, anche perché a inizio settimana Conte dovrà volare a Berlino per incontrare Angela Merkel. Altre 24 ore a disposizione.

Il Cdm ha davanti tre soluzioni. La prima è giudicare l’offerta congrua e chiudere così il contenzioso, ma è impensabile visto che i 5Stelle sono ormai sulla linea che i Benetton devono perdere la gestione. Può respingerla e avviare la revoca. Oppure può accettarla subordinandola di fatto al negoziato per l’uscita o il ridimensionamento di Atlantia da Aspi. Resta qui da vedere se sarà considerata sufficiente dai 5Stelle. “Devono uscire dalla gestione, o usciremo noi dal governo”, ha avvisato ieri il viceministro M5S allo Sviluppo, Stefano Buffagni.

I Benetton il segnale l’hanno dato. La litigiosa famiglia, orfana di Gilberto, vero artefice dell’espansione finanziaria, sembra essersi allineata alla visione di Luciano Benetton. Per evitare di farsi pagare per cedere le quote l’idea è un aumento di capitale che faccia diluire Atlantia nell’azionariato (oggi ha l’88% di Aspi). In ambienti governativi l’idea è che i nuovi soci siano guidati dalla Cassa depositi e prestiti. Ma a quale prezzo? Oggi il titolo di Atlantia sconta in Borsa una valutazione di Autostrade di 5,5 miliardi. Per avere il controllo del capitale, Cdp e compagnia dovrebbero sborsarne altrettanti. Più è alto il valore del concessionario più i Benetton riusciranno a far digerire ai fondi azionisti di Atlantia la rinuncia al controllo. Finora il management del gruppo ha sempre cercato di valorizzare la controllata a prezzo pieno, circa 14 miliardi.

Il prezzo finale, però, lo stabilira il negoziato tecnico sulla concessione. Trovato l’accordo lì, si passerà alla fase successiva. Sarebbe la soluzione ideale per il Pd e i renziani di Italia Viva, questi ultimi fermamente contrari all’ipotesi revoca. Non è detto che basti però ai 5Stelle. Da Palazzo Chigi filtra che Conte sia pronto a procedere alla revoca, e di temere solo la spaccatura tra i dem. Anche se tutte le caselle dovessero andare al loro posto, servirà altro tempo per negoziare sul prezzo con i Benetton.