Promemoria/2

Mentre gli spingitori di cavaliere lo rivorrebbero nella maggioranza o addirittura al governo o magari senatore a vita e il Parlamento straparla di giornate per le vittime della giustizia, cioè per lui, prosegue il nostro promemoria di vita e opere del vecchio malvissuto che si vorrebbe trasformare in benvissuto solo perché vecchio.

1992. Il 21 maggio, mentre il Parlamento vota per il nuovo presidente della Repubblica dopo le dimissioni di Francesco Cossiga, Paolo Borsellino, procuratore aggiunto a Palermo, rilascia un’intervista a due giornalisti francesi di Canal Plus, svelando indagini ancora in corso sui rapporti fra Mangano, Dell’Utri e Berlusconi. Due giorni dopo, il 23 maggio, Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini della scorta saltano in aria a Capaci. Un mese dopo Dell’Utri convoca a Milano2 Ezio Cartotto, un ex Dc consulente di Publitalia, per una missione segreta: organizzare “un’iniziativa politica della Fininvest” finanziata occultamente da Publitalia, in previsione dell’imminente tracollo dei partiti amici sotto i colpi delle indagini di Mani Pulite avviate a febbraio dal pool di Milano (anche su una serie di top manager Fininvest). Il 19 luglio un altro attentato mafioso stermina anche Borsellino e la sua scorta.

1993. Dopo l’arresto di Totò Riina, gli altri capi di Cosa Nostra – da Provenzano in giù, in contatto con Gelli, gruppi neofascisti e logge deviate – creano il partito secessionista “Sicilia Libera”, ultima nata di una serie di “leghe meridionali” in tutto il Sud. Dell’Utri, che nel gruppo B. si è sempre occupato di pubblicità (e di mafia), è tarantolato dalla politica: è in contatto telefonico con un promotore di Sicilia Libera e intanto continua a lavorare al partito Fininvest. In aprile B. annuncia ai suoi principali collaboratori l’intenzione di entrare in politica: Dell’Utri, Previti e Ferrara sono favorevoli, Costanzo, Letta e Confalonieri contrari. Il 14 maggio Costanzo scampa per miracolo a un’autobomba mafiosa in via Fauro, a Roma: il primo attentato organizzato da Cosa Nostra fuori dalla Sicilia. Il 27 maggio, nuova strage mafiosa a Firenze, in via dei Georgofili. Il 29 giugno Dell’Utri, Previti e altri due fedelissimi di B., Antonio Martino e Mario Valducci, costituiscono l’“Associazione per il buon governo”, base ideologica dei futuri club Forza Italia. Il 12 luglio B., che secondo Cartotto ha il terrore di subire l’accusa di “essere un mafioso”, dirama alle testate del gruppo il memorandum “Valutazioni dei comportamenti dei giudici di Tangentopoli”: gli house organ della ditta dovranno iniziare ad attaccare i magistrati anti-tangenti e anti-mafia, ma anche i collaboratori di giustizia.

Solo il Giornale di Montanelli disobbedisce, infatti il direttore-fondatore verrà ben presto rimpiazzato con Vittorio Feltri. Il 27 luglio, strage mafiosa in via Palestro a Milano e bombe contro due basiliche a Roma. Il 6 settembre B. inaugura il primo club di FI: è in via Chiaravalle 7/9 a Milano, nel palazzo del finanziere Rapisarda, legato alla mafia e a Dell’Utri. Il 29 ottobre il pm romano Maria Cordova, che indaga su tangenti al ministero delle Poste e i retroscena della legge Mammì, chiede l’arresto di Carlo De Benedetti, Gianni Letta e Adriano Galliani. Ma il gip Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa, arresta solo l’Ingegnere, perché i due uomini Fininvest sono amici di famiglia. Intanto Dell’Utri incontra Mangano, il boss da poco scarcerato dopo 11 anni di galera per mafia e droga, nella sede di Publitalia: nelle agende la segretaria ha annotato “2-11. Mangano Vittorio sarà a Milano per parlare problema personale” e “Mangano verso il 30.11”. Molti pentiti racconteranno che in quei giorni Provenzano ha stretto un patto con Dell’Utri per sciogliere Sicilia Libera e far votare FI. Graviano dirà ai giudici di aver “incontrato Berlusconi, da latitante, almeno tre volte, l’ultima a cena nel ’93”.
1994. Il 19 o 20 gennaio il killer stragista Gaspare Spatuzza viene convocato dal suo boss Giuseppe Graviano al bar Doney di via Veneto a Roma. “Era gioioso, felice”, racconterà ai pm: “mi comunica che avevamo chiuso tutto e avevamo ottenuto tutto quello che cercavamo grazie alla serietà di… quello di Canale 5 e il nostro paesano”, cioè B. e Dell’Utri. I quali, dice Graviano a Spatuzza, “ci stanno mettendo l’Italia nelle mani”. Graviano aggiunge che bisogna “dare il colpo di grazia” con la strage di carabinieri allo stadio Olimpico, in programma per domenica 23 dopo Roma-Udinese. Nell’hotel davanti al bar, il Majestic, la notte fra il 18 e il 19 ha alloggiato Dell’Utri, impegnato nelle selezioni dei candidati di FI. Domenica 23 l’autobomba allo stadio non esplode per un guasto al telecomando. Ma i killer mafiosi rimangono a Roma per riprovarci. Il 26 però B. annuncia in un videomessaggio la sua “discesa in campo”. Il 27 Graviano e il fratello Filippo vengono arrestati a Milano, dove cenano in compagnia di un loro favoreggiatore, salito al Nord per seguire il figlio calciatore, che ha appena fatto un provino nei “pulcini” del Milan grazie a Dell’Utri. Il 27-28 marzo B. vince le elezioni e diventa deputato, sebbene sia ineleggibile in base alla legge 361/1957 in quanto concessionario pubblico per le tv. L’8 aprile Brusca e Bagarella – racconterà il primo – rispediscono Mangano a Milano da Dell’Utri per avvertire il nuovo premier: “Devono scendere a patti altrimenti, senza la revisione del maxi processo e del 41-bis e la fine dei maltrattamenti in carcere, le stragi continueranno”. L’attentato all’Olimpico può essere ritentato in qualunque momento. Mangano deve aggiungere che “anche la sinistra sapeva” della trattativa in corso da due anni fra Stato e mafia: se il governo B. aiuterà Cosa Nostra, non incontrerà opposizioni, perché dietro la prima trattativa c’era la “sinistra Dc che fino ad allora aveva governato il Paese” ed era ricattabile. Mangano va e – sempre secondo i pentiti – torna vincitore: “Dell’Utri ha detto ‘grazie, grazie, a disposizione’”. Il commando di Spatuzza rientra a Palermo: la guerra è finita, ora si fa la pace. O la tregua, in attesa che i nuovi “referenti” paghino le cambiali. E il 13 luglio ecco la prima rata: il decreto Biondi che riduce al minimo la custodia cautelare in carcere. Sulle prime si pensa solo a una norma salva-ladri per gli inquisiti di Tangentopoli. Pochi notano nel testo una serie di favori a Cosa Nostra. Il decreto viene ritirato a furor di popolo, ma diventa un disegno di legge che sarà approvato di lì a un anno. Negli stessi mesi – appureranno i giudici del processo Trattativa – Dell’Utri riceve altre due volte Mangano nella sua villa a Como e gli anticipa le mosse legislative pro mafia del governo B. Fatti che indurranno i giudici a ritenere B. “vittima consapevole” del ricatto mafioso. Il 22 dicembre, senz’aver fatto che norme ad personam (dl Biondi, condoni edilizio e fiscale, legge Tremonti per far risparmiare tasse alla Fininvest), B. si dimette: la Lega l’ha sfiduciato sulla controriforma delle pensioni. Da un mese è indagato per corruzione su quattro tangenti pagate alla Guardia di Finanza da suoi manager per ammorbidire verifiche fiscali in Edilnord, Mondadori, Videotime e Tele+. Convocato dal pool Mani Pulite, si presenta solo dopo aver indotto Di Pietro alle dimissioni con dossier ricattatori passati per le mani del fratello Paolo e di Previti.
1995. Nasce il governo tecnico Dini, con l’appoggio di Lega e centrosinistra l’astensione di FI. Il 25 maggio Dell’Utri viene arrestato a Torino per frode fiscale (false fatture di Publitalia). A luglio lo stesso Dell’Utri e B. sono indagati a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa (B. sarà sei volte archiviato, Dell’Utri invece verrà condannato a 7 anni).
1996-2001. B. perde le elezioni, vinte dall’Ulivo di Romano Prodi. Ora è indagato con Previti e alcuni avvocati e giudici romani per corruzione giudiziaria dopo le rivelazioni della testimone Stefania Ariosto. Una terza indagine riguarda la maxitangente di 23 miliardi in Svizzera a Craxi dalle società estere della galassia All Iberian e i relativi falsi in bilancio. Pare politicamente morto, ma il centrosinistra lo resuscita in cambio di una finta opposizione: proroga sine die il passaggio su satellite di Rete4, imposto dalla Consulta nel ’94; consente al suo gruppo inguaiato in falsi in bilancio e frodi fiscali di quotarsi in Borsa; nega ai giudici di Milano e Palermo l’autorizzazione all’arresto per Previti e per Dell’Utri; e lo promuove B. padre costituente nella Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema. Che poi, quando B. fa saltare il tavolo in extremis e Bertinotti il governo, prende il posto di Prodi.
1998-’99. L’avvocato inglese David Mills, consulente di B. che negli anni 80 ha costruito il “comparto B” del Biscione con decine di società nelle isole del Canale e in altri paradisi fiscali, in cui vengono nascosti centinaia di miliardi di lire destinati a corruzioni, frodi fiscali e scalate finanziarie illecite, è chiamato a testimoniare nei due processi chiave per B.: Guardia di Finanza e Craxi-All Iberian. Ma non dice tutto quel che sa su B., come confesserà lui stesso in una lettera al suo commercialista (“Ho tenuto fuori Mr B. da un mare di guai”). In cambio, dai conti esteri del Biscione, riceverà una tangente di 600 mila dollari. Risultato: nel processo Gdf, il Caimano viene condannato in primo grado e poi assolto per insufficienza di prove (quelle che avrebbe dovuto fornire Mills); nel processo Craxi-All Iberian, viene condannato in tribunale e poi prescritto. Mills, per la sua testimonianza prezzolata, sarà condannato in primo e secondo grado, poi prescritto in Cassazione; B. invece la tirerà in lungo fino a strappare la prescrizione già in primo grado.
(2 – continua)

Maledetti in serie. Il successo diventa morte

“Solo noi due”. A riguardarla ora, la foto che Naya aveva condiviso prima di sparire nel lago, sembra la copertina per un glaciale noir di James Ellroy. L’abbraccio tra mamma e figlio, la didascalia strappacuore che è già un titolo da best-seller. Con la plausibile colonna sonora degli Eagles, l’Hotel California dove puoi entrare per goderti il successo, ma la Bestia ti impedirà di uscirne. Dovrai saldare fino in fondo il conto della tua ambizione hollywoodiana. Quando nella notte i soccorritori avevano sospeso le ricerche dell’attrice, la trama non prevedeva più l’happy ending. Lo sceriffo Buschow aveva spiegato come stavano le cose: dalle 13 di mercoledì, della 33enne stella di Glee restavano solo un portafoglio nella Mercedes G-Wagon parcheggiata sul molo e una borsetta nella barca noleggiata per la gita con il piccolo Josey. L’unico testimone della disgrazia. Josey dormiva quando un altro turista aveva notato l’imbarcazione senza pilota: a bordo c’erano due giubbotti di salvataggio, uno lo indossava il bambino, l’altro era per la mamma. “È andata a nuotare, non è tornata”. Come era accaduto ad altre otto persone dal 1955, l’anno in cui il bacino artificiale del Piru Lake era stato realizzato nella Los Padres National Forest, a nord-ovest di Los Angeles.

Così, la Bestia insaziabile che ha fatto la tana nel cast di Glee si è portata via un’altra preda. Naya dopo Cory e Mark, e non solo loro tre. Fatalità, perversioni, fragilità, faide. I protagonisti della serie Fox che nei primi anni del millennio aveva collezionato 32 candidature agli Emmy si erano rivelati ben distanti dai personaggi, idoli dei teenager in quel plot motivazionale di una high school dell’Ohio dove sognavi di farcela, magari ricantando vecchie hit pop e rock. Cory Monteith era stato trovato senza vita in un albergo di Vancouver il 13 luglio 2013, stroncato da una bomba di droghe e alcol nonostante fosse da poco uscito dal rehab. Dodici giorni dopo la scomparsa di Cory, Naya Rivera venne al Giffoni Film Fest e chiese un minuto di silenzio per il collega: “Essere qui è un modo per rendergli onore, vi ringrazio di tanto amore”, disse la stella ispanica alle fans in lacrime, alcune delle quali sorreggevano il cartello “Sposami”, ispirate dal ruolo di Naya, una cheerleader lesbica.

Nella quotidianità, invece, gli uomini la facevano soffrire. Il rapper Big Sean la tradiva con una diva della musica: “Io e Sean”, raccontò Naya, “litigammo per giorni, ci separammo. Ma avevo le chiavi di casa sua, e vidi questa ragazza che canticchiava sul divano”. Era Ariana Grande. Peggio andò con un altro beniamino di Glee, Mark Salling, una relazione di un paio d’anni. La Rivera ignorava che nel pc del fidanzato fosse nascosta quella che gli inquirenti definirono “la più orrenda collezione di immagini pedopornografiche della storia del Paese”. Cinquantamila scatti e video rivoltanti. “Restai di sasso quando lo arrestarono. Però anche sollevata: e se tra noi fosse andata avanti?”. Salling fu condannato a una pena esemplare, ma due anni fa annodò un cappio e ci infilò la testa dentro. In quegli stessi mesi, Naya era alle prese con un’altra grana, il divorzio da Ryan Dorsey, il papà di Josey. Un matrimonio devastante: nel 2017 era stata la Rivera a finire in manette per l’accusa, poi caduta, di violenza domestica ai danni del marito.

Ma che avevano nella testa gli interpreti di Glee, che in italiano vuol dire “gioia” e il cui inno era Don’t stop believin’ dei Journey? La figura chiave, Lea Michele (fidanzata nella vita di Monteith), fu dipinta come “un mostro” da altri attori del cast, da lei bullizzati senza pietà. E c’erano stati altri lutti: l’aiuto regista Jim Fuller, morto sette anni fa per un attacco di cuore. Poco dopo, il suicidio dell’assistente di produzione Nancy Motes, che in un biglietto aveva scagliato uno sconvolgente anatema contro la sorella famosa: “La sua crudeltà mi ha procurato una depressione insanabile”. Parlava di Julia Roberts.

Sì, la Bestia di Hollywood insiste a pasteggiare sul set che fu di Glee, così come aveva fatto con un’altra serie tv di grido, Il mio amico Arnold, la ricca famiglia che adotta due bambini di colore. Uno a uno finiti all’altro mondo, non sempre per vecchiaia. Compreso Arnold, Gary Coleman, scomparso a 42 anni per le conseguenze di una caduta. L’unico ancora vivo è il fratellino di Arnold, Todd Bridges, che ha pagato pegno alla sorte con il tentato omicidio di un pusher. Ah, le rassicuranti trame della fiction americana: tutti ad ammirare I Robinson e quel saggio paparino, Bill Cosby, additato a fine carriera da decine di donne come un violentatore seriale.

La Bestia si piazza davanti allo schermo con i popcorn e sceglie le vittime. Quando si annoia opta per la morte per acqua: non sapremo mai, forse, come morì Natalie Wood, in una notte del dicembre 1981, cadendo in mare dallo yacht Splendor dove il marito Robert Wagner e il presunto amante Christopher Walker si azzuffavano per lei. La Bestia, dicono, ha fatto sparire il copione.

Seul, trovato morto il sindaco. Su di lui l’ombra di molestie

È stato trovato morto il sindaco di Seul, Park Won-soon, dopo poche ore di ricerche. L’allarme della scomparsa del primo cittadino era stato lanciato da sua figlia ieri pomeriggio, non vedendolo rientrare. A indurla a pensare al peggio sarebbe stato il tono delle frasi che suo padre le avrebbe rivolto uscendo di casa, come si trattasse delle “sue ultime parole”, ha riferito agli inquirenti.

Park, 64 anni, sindaco della capitale sudcoreana dal 2011, da giugno al suo terzo e ultimo mandato, ieri pomeriggio non si era presentato al lavoro e aveva annullato un incontro con un funzionario presidenziale nel suo ufficio al municipio di Seul, dicendosi malato. Le ricerche si erano concentrare sulla collina al Nord di Seul, dove era stato rilevato il segnale del suo cellulare per l’ultima volta dopo che risultasse spento. Ed è lì che alcuni dei 568 poliziotti messi sulle sue tracce hanno ritrovato il cadavere del sindaco.

Fonti della polizia hanno riferito ai media che proprio nelle ore precedenti alla sua scomparsa, il funzionario sarebbe stato denunciato per molestie sessuali da una dipendente. A rilanciare la notizia i media sudcoreani, che hanno aggiunto che ieri sera sarebbe dovuto andare in onda un programma tv sul caso. Politico di spicco del Partito liberale del presidente Moon-Jae-in, Park era considerato tra i potenziali candidati alle elezioni del 2022, anche se in diverse interviste non aveva confermato. Attivista civico per i diritti umani agli esordi, nel suo mandato di primo cittadino non aveva risparmiato critiche al governo per le disuguaglianze sociali e la corruzione che a suo parere affliggevano la Corea del Sud. Su questo versante aveva anche messo a segno una vittoria importante, dopo che l’ex presidente Park Geun-hye, accusata da lui e da milioni di manifestanti di corruzione nel 2017, venne formalmente incriminata e poi finì in carcere. Circostanza particolare, che viene ricordata in queste ore, è il merito che fu attribuito al sindaco Park, in veste di avvocato, per aver assicurato la prima condanna per molestie sessuali nel Paese.

Hong Kong, la nuova casa dei dissidenti è Canberra

Nel confronto con la Cina sulla repressione a Hong Kong, al fronte Usa-Regno Unito-Canada si unisce l’Australia. Ieri, nella capitale Canberra, il primo ministro Scott Morrison ha illustrato la reazione del suo governo all’imposizione da parte cinese della nuova legge di sicurezza nazionale, che di fatto cancella lo statuto autonomo di Hong Kong. L’Australia sospende l’accordo di estradizione con la Cina; estende di 5 anni il visto ai circa 10 mila cittadini di Hong Kong che studiano o lavorano nel paese, aprendo la via alla cittadinanza; introduce incentivi alle aziende che vogliano trasferirsi lì. E aggiorna le linea guida per i suoi concittadini in viaggio per Hong Kong: “È aumentato il rischio di essere arrestati per ragioni di sicurezza nazionale non ben definite. Potreste infrangere la legge senza volerlo”. È, dal punto di vista cinese, un atto di guerra commerciale e diplomatica.

L’ambasciata cinese a Canberra ha reagito con stizza, dichiarando tramite un portavoce: “Invitiamo l’Australia a smettere immediatamente di interferire negli affari di Hong Kong e nella politica interna cinese con qualsiasi pretesto e in qualsiasi modo. In caso contrario, si tirerà la zappa sui piedi”. E sempre ieri, il vice primo ministro neozelandese Winston Peters ha annunciato che saranno riviste le relazioni diplomatiche: “La decisione cinese di approvare una nuova legge di sicurezza nazionale ha cambiato radicalmente lo scenario della presenza internazionale”. Si va verso un ricompattamento anti-cinese della Five Eyes partnership, l’alleanza di intelligence che comprende appunto Australia, Canada, Nuova Zelanda e gli Stati Uniti, con il Canada che ha già sospeso l’accordo di estradizione con la Cina, l’amministrazione Trump impegnata in una guerra commerciale e diplomatica con Pechino e il Regno Unito che, per ora solo a parole, promette porte aperte ai 2,9 milioni di residenti di Hong Kong con passaporto britannico. Il caso australiano è però particolarmente delicato, per la sua vicinanza geografica alla Cina: il rapporto è quello fra una media potenza regionale, sostenuta però dall’appartenenza alla sfera di influenza anglosassone, e lo strapotere culturale, economico, militare e strategico cinese. Cina e Australia sono entrambe attive in una serie di organizzazioni della regione asiatica e legate economicamente a doppio filo, con la Cina primo partner commerciale di Canberra. Ma i rapporti bilaterali, a lungo in equilibrio fra interesse commerciale e diffidenza politica, si sono deteriorati a partire da un teso confronto sulle pretese territoriale cinesi nel mare della Cina, nel 2018, e più di recente per la gestione cinese del Covid.

C’è poi la questione scottante dell’influenza cinese sul paese: la analizza l’Australian Strategic Policy Institute, think tank indipendente ma vicino al Ministero della Difesa, nel recente rapporto The party speaks for you. Foreign interference and the Chinese Communist Party’s united front system. Rapporto che esamina le attività del cosiddetto Sistema del Fronte unito, una galassia di associazioni, individui, uomini di affari affiliati al Partito comunista cinese che, appoggiandosi alla diaspora, si sarebbero infiltrati nel governo, nella società e nelle università australiani e di altri paesi occidentali con attività di spionaggio economico e interferenza politica.

Un’arma di persuasione, come dichiarato dal presidente cinese Xi Jinping nel 2015: “Il Fronte Unito… è una importante arma magica per rafforzare la posizione dominante del Partito… e per realizzare il Sogno Cinese del Grande Rinnovamento della Nazione”.

Atenei liberal chiusi: Trump minaccia di cacciare gli stranieri

Il MIT e l’Università di Harvard guidano la protesta delle Università più celebrate d’America contro la decisione dell’Ice, l’Agenzia per l’immigrazione, che priva dei visti gli studenti stranieri e li minaccia di deportazione, se i loro Atenei nel prossimo anno accademico terranno solo corsi online, causa della pandemia: un modo per forzare le Università a tenere i corsi in presenza. I due prestigiosissimi atenei nell’area metropolitana di Boston, nel Massachusetts, fanno causa all’Amministrazione federale: hanno il sostegno praticamente di tutta l’Ivy League, che riunisce le migliori università statunitensi, specie della East Coast. Lega dell’Edera perché sui muri degli Atenei, spesso di concezione inglese e di impianto sette/ottocentesco, cresce l’edera: Princeton nel New Jersey, la Columbia a New York, Yale nel Connecticut, la UPenn, il Dartmouth College nel New Hampshire, la Brown, la Cornell, etc, nomi e scenari da film); in California, ci sono Ucla e Stanford. Ma anche Atenei tradizionalisti, come la Vanderbilt University di Nashville, Tennessee, s’allineano ai “templi liberal”.

È un aspetto della “guerra delle scuole” che Donald Trump conduce in prima linea: il presidente insiste perché vi sia a settembre una riapertura generalizzata e minaccia di tagliare i fondi a quelle che non si adegueranno. La questione diventa una palestra di scontro politico e un braccio di ferro tra potere federale e poteri locali, mentre il totale dei contagi nell’Unione supera i tre milioni e continua a viaggiare su ritmi record, intorno ai 60 mila al giorno. Per la Johns Hopkins University, alla 12.000 sulla East Coast, il totale dei contagi superava i 3.057.000 e quello dei decessi i 132.350; in entrambi i casi, si tratta delle cifre più alte al mondo.

La sfida delle Università a Trump si sviluppa nelle aule di giustizia, ma anche sui campi di gioco: infatti, la Ivy League ha messo in pausa tutte le attività sportive almeno fino a gennaio, divenendo così la prima conferenza – noi diremmo girone – del football americano a saltare la stagione a causa della pandemia. E si schierano con il MIT e Harvard anche quegli Atenei che devono la loro fama più alle squadre di basket e/o di football che ai percorsi di studio, tipo la Duke nella North Carolina, la George Mason in Virginia, la Baylor in Texas): anch’essi si alimentano di talenti extra-Usa. La decisione dell’Ice riguarda oltre un milione di studenti stranieri iscritti a università statunitensi o che vi frequentano cosi di specializzazione (ad Harvard sono circa 5.000): per oltre la metà vengono dalla Cina (370 mila) e dall’India (200 mila). Molti sono rimasti bloccati nell’Unione per la chiusura delle frontiere provocata dalla pandemia. Numerosi pagano rette piene e sono una fonte di reddito importante per gli Istituti che frequentano.

Nell’esposto presentato a una corte federale di Boston, MIT e Harvard sostengono che “l’annuncio dell’Amministrazione Trump sconvolge la vita dei nostri studenti di tutto il Mondo e compromette la loro riuscita accademica”, lamentando che l’Ice “non sia stata in grado di offrire le più elementari indicazioni su come la nuova politica sarà attuata”.

Harvard terrà tutti i corsi online nel prossimo anno accademico: una decisione “ridicola” per Trump. Il MIT, che ammetterà sul campus un numero di studenti limitato, ha optato per una formula ibrida tra lezioni in classe e via Internet. Le due Università chiedono ai giudici di bloccare le nuove regole, spiegando di essersi basate nelle loro decisioni su una direttiva di marzo della Homeland Security che, causa pandemia, autorizzava gli studenti a restare negli Usa e consentiva l’arrivo in autunno delle matricole. “L’ordine è stato dato senza preavviso. La sua crudeltà è superata solo dalla sua sconsideratezza”, dice il presidente di Harvard, Larry Bacow. “Per molti studenti – si legge nell’azione legale – tornare a casa per partecipare all’istruzione online è impossibile, impraticabile, assurdamente costoso e/o pericoloso”. Il “ministro della Giustizia” del Massachusetts. Maura Healey, appoggia il MIT e Harvard, come fanno numerose organizzazione attive nel settore dell’istruzione. C’è la percezione di un provvedimento politicamente motivato: “L’intento politico non potrebbe essere più chiaro – dice Miriam Feldblum, direttrice della Presidents’ Alliance on Higher Education and Immigration, che mette insieme circa 450 Università pubbliche e private – vogliono imporre agli Atenei di riaprire i campus, almeno con formule ibride”.

Dalla parte di MIT e Harvard, ci sono pure gli imprenditori dell’American Council on Education e decine d’associazioni per l’istruzione universitaria, tra cui l’American Association of Community Colleges, l’Association of American Universities – 65 Atenei soci – e l’Association of Land Grant Universities.

Sulla riapertura delle scuole, l’offensiva dell’Amministrazione è compatta: “Le scuole chiuse sono una prospettiva insostenibile”, afferma la portavoce della Casa Bianca, Kayleigh McEnany.

Trani, era associazione a delinquere. Dieci anni all’ex pm Antonio Savasta

Condanne, multe e confische. È un conto salato quello presentato dai magistrati leccesi agli ormai ex colleghi coinvolti nell’inchiesta sul “Sistema Trani”. È di 10 anni di reclusione la condanna nei confronti dell’ex pm Antonio Savasta, considerato l’organizzatore dell’associazione a delinquere che in cambio di denaro e regali costosi, aggiustava indagini e processi degli imprenditori amici. Nei suoi confronti non sono stati tenuti in considerazione, secondo i suoi difensori, le confessioni e la collaborazione offerta durante le indagini.

I pm Roberta Licci e Giovanni Gallotta, con la supervisione del procuratore Leonardo Leone de Castris, hanno ritenuto che in realtà la collaborazione di Savasta non sia stata piena, ma anzi sia stata fuorviante. Pena a 4 anni di carcere per l’altro magistrato Luigi Scimè che dovrà anche abbandonare la toga: nei suoi confronti, infatti, è stato disposta anche l’estinzione del rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione. Stessa pena per l’imprenditore Luigi D’Agostino e infine 4 anni e 4 mesi per Ruggiero Sfrecola e 2 anni e 8 mesi per Giacomo Ragno, i due avvocati che avrebbe fornito un importante contributo al sistema.

Pesanti anche le confische ordinate dal tribunale: dai 75 mila euro per l’ex pm Scimè ai 224 mila per l’avvocato Ragno fino a 2 milioni e 390 mila euro per Savasta. Nell’inchiesta era coinvolto anche l’ex gip di Trani Michele Nardi che il rito ordinario: il processo nei confronti e di altri imputati inizierà il 4 novembre.

Numerosi gli episodi contestati dai magistrati leccesi: false denunce, false testimonianze e una serie di irregolarità consentiva agli ex magistrati di pilotare i procedimenti salvando gli amici o accelerando le accuse nei procedimenti in cui gli stessi amici figuravano come parte lesa. Savasta era accusato di far parte insieme a Nardi e ad altri tre imputati, tra i quali l’ispettore di Polizia Vincenzo Di Chiaro, di un’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, falso ideologico, millantato credito, calunnie e falsa testimonianza.

Il gruppo criminale, per la procura leccese, poteva contare su numerosi soggetti “vicini” che pur non essendo organici all’associazione potevano fornire contributi determinanti per permettere al gruppo di raggiungere i propri obiettivi. A capo del gruppo, per l’accusa, c’era proprio Nardi.

È stato l’imprenditore Flavio D’Introno a svelare agli investigatori le ingenti somme versate al gruppo per ottenere la manipolazione delle indagini o dei processi a suo carico. Antonio Savasta era invece indicato come “l’organizzatore” dell’associazione a delinquere con il compito di “attivare e gestire” in modo strumentale all’interesse di D’Introno i procedimenti penali e tributari che lo riguardavano. Non solo. Proprio Savasta avrebbe svelato a D’Introno l’esistenza di indagini che lo riguardavano nella procura di Lecce e lo avrebbe persino invitato a fuggire all’estero dopo che una sentenza era diventata definitiva.

Nel sistema però, avevano un ruolo determinate secondo l’accusa anche gli avvocati. Come Simona Cuomo, anche lei rinviata a giudizio con Nardi: a lei sarebbe spettato il compito di trasformare in atti apparentemente legali le iniziative avviate da magistrati e imprenditori. Oppure come Ruggiero Sfrecola, difensore dell’imprenditore Luigi D’Agostino che, in accordo con Savasta avrebbe versato tangenti nel 2015 e controllato le dichiarazioni di alcuni testimoni in un’indagine sui reati fiscali di società riconducibili a D’agostino affinché non venisse mai fuori il suo nome. E ancora come giacomo Ragno che avrebbe individuato e messo a disposizione del sistema un uomo disposto a fornire false dichiarazioni per salvare D’Introno da una delle vicende che lo coinvolgevano.

La vera Fase 3 del prof. Lopalco: i virologi si danno alla politica

È il noto principio di gravità. Chiunque venga esposto in televisione per un tempo superiore ai sette minuti per sette giorni consecutivi ha due strade davanti a sé: o Temptation Island (se giovane e inidoneo al lavoro) oppure – se attempato – la politica.

Dopo 150 giorni di virus la legge della fisica è stata rispettata e Pierluigi Lopalco, epidemiologo dall’aspetto filiforme, pignolo illustratore seriale dei nostri vizi posturali (la distanza, le mani lavate, la bocca cucita) sarà quasi certamente candidato al consiglio regionale della Puglia. Sosterrà, secondo le prime notizie accreditate, Michele Emiliano che è colui che l’ha voluto consulente per gli affari straordinari legati alla pandemia. “Centoventimila euro pubblici per farsi la campagna elettorale”, l’acido commento di Forza Italia che rivela il compenso di Lopalco per la consulenza pugliese e l’esito della stessa.

Intanto dobbiamo riferire che in Liguria Matteo Bassetti, primario del reparto di Malattie infettive del San Martino di Genova, e altro volto noto delle serate da lockdown, sembra invece negarsi questa possibilità. Bassetti, rispetto a Lopalco, non ha presenziato (e ottimamente) soltanto nei talk show, in genere più noiosetti, ma ha confortato anche Barbara D’Urso (wow!) nel suo live su Canale 5. Bassetti è poi passato per la cronaca nera di Quarto grado, che su Retequattro racconta il mondo degli scomparsi, e insomma si è fatto un bel book tv. A Genova si è perciò detto: si candiderà con Giovanni Toti, il presidente uscente. Bassetti ha però rifiutato con una dichiarazione già da gran politico: “Amo il mio lavoro e voglio continuare a farlo. La politica non mi interessa”.

Resta da dire che il capo del dream team, Roberto Burioni, il più noto e punta di diamante dei virologi polemisti, dei professori televisivi, collocato al centro del centro del fact cheking renziano, si è preso una vacanza dalla tv e attualmente scarseggia anche su Twitter il luogo di coltura del bacillo pop. Burioni, come si ricorderà, ha anche fatturato molto e giustamente: i suoi consigli (mani pulite, distanza, bocche cucite) sono stati infatti richiesti dalle maggiori aziende italiane.

Non dobbiamo farci illusioni. Da qui a fine agosto, quando le liste saranno formalizzate, altri virologi, infettivologi, immunologi saranno compulsati.

La televisione ha cooptato i migliori, coloro che con una battuta illustravano l’epidemia, con una parola la vita e la morte. I più efficaci, come il professor Massimo Galli, ancora stanno parcheggiati dietro le telecamere. In autunno l’atteso girone di ritorno in tv, se la pandemia dovessi farsi più grave e il virus tornare nelle forme più cruenti. Chi da politico, chi da candidato mancato e chi da grande promessa: tra un po’ si rinnova anche il Parlamento.

Speranza: “Bloccati i voli da 13 Stati”

È arrivato a Fiumicino il 23 giugno scorso, con un volo partito da Dacca. Poi con un “taxi privato” è andato in provincia di Ravenna, per ritornare a Roma in treno passando per Falconara, in provincia di Ancona. Il tutto pur sapendo di essere positivo al Covid-19. Sono le tappe di un uomo di 53 anni del Bangladesh, di ritorno in Italia dopo il lockdown. Potrebbe aver contagiato tante altre persone, per questo è partita, nelle tre città, la caccia ai suoi contatti.

L’uomo sarebbe dovuto rimanere in isolamento fiduciario a Rimini, dove ha il domicilio. Invece ha pensato bene di violare sistematicamente la quarantena, prima di farsi trovare febbricitante – ma con mascherina – il 7 luglio scorso alla Stazione Termini, segnalato da alcuni passeggeri, insospettiti dalla tosse. Il bangladese così è stato denunciato dai poliziotti della Polfer. Come minimo, per aver violato la quarantena, l’uomo dovrà pagare una sanzione da 400 a 3 mila euro, ma le cose potrebbero mettersi male se si dovesse scoprire che ha contagiato altre persone e in questo caso rischia una denuncia penale.

“Qui da noi non ci è venuto”, riferisce il sindaco di Rimini Andrea Gnassi, cercando di rassicurare i propri concittadini. “Stiamo cercando di tappare una falla a mani nude” attacca Francesco Vaia, direttore sanitario dell’Istituto Spallanzani di Roma. Un tema che non interessa più solo la capitale.

Dopo aver vietato per una settimana gli ingressi in Italia dei cittadini del Bangladesh, ieri il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha allargato l’interdittiva ai cittadini di altri 13 Stati, fra quelli più a rischio: Armenia, Bahrein, Bangladesh, Brasile, Bosnia Erzegovina, Cile, Kuwait, Macedonia del Nord, Moldova, Oman, Panama, Perù e Repubblica Dominicana.. Ma la lista sul divieto di ingresso in Italia potrebbe allungarsi e arrivare a comprendere, con il passare delle ore, anche altri Paesi extraeuropei “a rischio”. “L’epidemia a livello globale è nella fase più acuta. Non possiamo vanificare i nostri sacrifici fatti negli ultimi mesi”, ha detto ieri il ministro.

Il problema dei contagi di ritorno quindi interessa soprattutto la Capitale. Ieri nel Lazio si sono registrati 28 casi, cifra che non si vedeva da maggio, anche se “di questi 22 sono di importazione e 18 hanno link con i voli di rientro dal Bangladesh già attenzionati”. Prosegue anche l’indagine epidemiologica nel quartiere Prenestino di Roma, dove ha base buona parte della comunità bangladese italiana: ieri sono risultati positivi un adulto e un bimbo di 9 anni. “Oggi i casi di importazione sono il vero problema. Stiamo lavorando per evitare che si creino nel Lazio nuovi cluster e un altro lockdown”, ha dichiarato il vicepresidente dell’Ordine dei medici di Roma e provincia, Pier Luigi Bartoletti.

Intanto in tutta Italia salgono i contagi: 229 i casi di ieri, più della metà in Lombardia, per un totale di 242.363 dall’inizio dell’emergenza. Secondo i dati del Ministero della Salute, mercoledì si erano registrati 193 nuovi contagi. Scendono invece a 69 invece i pazienti in terapia intensiva. Quasi la metà (30) sono in Lombardia, seguita da Lazio (13), Piemonte e Emilia Romagna (10). I ricoverati con sintomi sono 871, diciotto in meno del giorno prima, mentre altre 12.519 persone si trovano in isolamento domiciliare, in calo rispetto a mercoledì.

Il sospetto: “Ruolo attivo di Fontana per il cognato”

L’inchiesta milanese sui camici prima venduti e poi donati dalla società del cognato del governatore Attilio Fontana alla centrale acquisiti della Regione (Aria) entra nel vivo. La Procura ha in mano due dati fondamentali per comprendere come si è svolta la vicenda e quale scopo aveva. Il primo elemento è la “prova” che Dama spa di Andrea Dini dopo aver chiuso la donazione con 25 mila camici in meno dell’accordo iniziale (50 mila invece che 75 mila) ha tentato di rivendere il rimanente a prezzo maggiorato e da un’altra parte. Il secondo elemento riguarda invece il ruolo del governatore Attilio Fontana che al momento non risulta indagato. Il tutto è ricondotto al 15 maggio quando il cronista di Report intervista il governatore. In quel momento il contratto (e non la donazione) di forniture è in essere da circa un mese.

Nel colloquio con il presidente non si parla dei camici, il tema è l’emergenza Covid e come è stata affrontata. La cosa però, si ragiona in Procura, pare aver insospettito Fontana che, secondo la ricostruzione dei pm, si è adoperato perché quella che fin dall’inizio doveva essere una fornitura commerciale per 513 mila euro di camici si trasformasse in una improbabile donazione. Un atteggiamento lodevole se non fosse legato, spiegano fonti qualificate, a una possibile anomalia precedente l’inizio del contratto tra Dama e Aria. Risultato: il 20 maggio Dini annuncia ad Aria lo storno delle fatture trasformando parte dell’offerta in donazione. Insomma pare di capire che Attilio Fontana, dopo essere stato archiviato dall’accusa di abuso d’ufficio in relazione all’incarico dato dalla Regione a un suo ex socio di studio, ora rischi di ricadere nel frullatore giudiziario. I pm stanno valutando un suo “ruolo attivo” in questa storia. I contorni, dunque, iniziano a chiarirsi dopo che la Procura ha iscritto Andrea Dini e il dg di Aria Filippo Bongiovanni con l’accusa di turbata libertà della scelta del contraente. Ieri, per sette ore, è stata interrogata come persone informata sui fatti, Carmen Schweigl, il responsabile della struttura gare e numero due di Aria. In realtà le vere novità emergono dalle carte acquisite in Regione. La Dama spa, tra i cui soci per il 10% c’è Roberta Dini moglie di Fontana, viene introdotta in Aria dall’assessore regionale all’Ambiente Raffaele Cattaneo. Cattaneo due giorni fa è stato interrogato dai pm e non risulta indagato. La sua posizione, pur nel suo ruolo di capo della task force per le forniture, è ritenuta marginale e comunque il fatto di aver introdotto, come da lui ammesso ai magistrati, la società del cognato di Fontana in Regione appare, al momento, un elemento accidentale. Ben più grave, come ricostruito dai pm, il fatto che fin da subito e fino a ieri la presunta donazione vantata da Dini non sia mai stata accettata da Aria, il che rende ancora valido il contratto del 16 aprile per 75 mila camici pagati 513 mila euro. Particolare reso ancora più evidente da una mail pre-pasquale, pubblicata dal Fatto, in cui Dini firma una proposta di contratto (e non di donazione) alla centrale acquisiti della Regione. È evidente, secondo la Procura, che molti sapessero quello che si stava consumando, e cioè un enorme conflitto d’interessi mai segnalato da Dama perché Aria ha deciso di derogare al patto di integrità della Regione.

La proposta commerciale di Dini elimina l’ipotesi che quella dovesse essere una donazione smentendo la ricostruzione dello stesso cognato, ovvero che fu solo un fraintendimento di comunicazione in azienda poi sanato dal suo intervento. Fin dall’inzio si è trattato di un’offerta commerciale il cui ok, secondo i pm, è avvenuto con “metodo fraudolento” e in modo illegale visto il conflitto d’interessi. La proposta, come detto, arriva prima di Pasqua, il contratto parte il 16 aprile. Tutto fila liscio fino al 15 maggio, data dell’intervista. Quel giorno ai piani alti del Pirellone le paure si fanno feroci. Cinque giorni dopo Dini invia a Bongiovanni un mail nella quale conferma lo storno di alcune fatture per un totale di 50mila camici. Nessuno però fa notare a Dama che ne mancano 25 mila per circa 130 mila euro. Cifra non da poco in giorni in cui la pandemia in Lombardia stava raggiungendo il picco. Che succede a quel punto? Andrea Dini, da bravo imprenditore, tenta di minimizzare il danno provando a rivendere i 25 mila camici a un prezzo superiore a 5,99 euro.

Le 10 “cose importanti” del mitico Cazzaro Verde

Perso dentro un film che ovviamente non ha visto, o se lo ha visto non ci ha capito nulla come gli accade ogni volta che ascolta i da lui amati (?) Gaber e De André, Matteo Salvini sta ancora lì dentro Ecce Bombo di Nanni Moretti a chiedersi se lo notano di più se sta a casa o se invece alla festa alla fine ci va. Nell’attesa che sciolga tale micragnosa nonché angosciosa riserva, ieri ha fatto sapere che non andrà dal Presidente del Consiglio perché ha molte cose più importanti da fare. Per una volta ha ragione: la sua vita è oltremodo satura di attività meritorie e irrinunciabili. Per esempio queste.

1. Paragonarsi ad minchiam a Enrico Berlinguer, come ha fatto ieri sostenendo che non pochi valori cari al leader del Pci siano ora baluardi della Lega, e dimenticandosi che – se Enrico fosse vivo e se lo trovasse davanti – gli farebbe fare la Salerno-Reggio Calabria a forza di calci nel culo. Anzi nel “deretano”, perché Berlinguer era un uomo garbato. E ancor più misericordioso.

2. Postare a raffica foto di gattini, che peraltro lo querelerebbero se sapessero di essere sfruttati da un molossoide come il Cazzaro Verde. Tali gattini dovranno essere ora intenti a mangiare sardine (finissima allusione politica) e ora a farsi scotennare (possibilmente arsi vivi) da migranti scritturati ad arte per interpretare la parte della carogna da dare in pasto al “popolo del web”. Livelli altissimi.

3. Commentare con entusiasmo orgiastico i fatti di cronaca nera, ma solo se questi vedono i “clandestini” nella parte del cattivo e gli italiani in quella delle vittime. È qui che Salvini si butta sulla notizia con l’entusiasmo dei gatti (appunto) ai budelli. Quando invece le parti si invertono, e magari l’omicida è italiano e la vittima straniera, i social di Salvini – come pure della Meloni – si rifugiano stranamente in un assordante silenzio.

4. Organizzare ameni assembramenti in tempo di pandemia, togliendosi la mascherina anzitutto quando non deve e fregandosene del distanziamento sociale. Qualcuno storcerà il naso? Null’altro che “zecche”, “radical chic” e “ubriaconi dei centri sociali”. Anche se, di solito, a criticarlo per tali atteggiamenti è gente come Massimo Galli: non proprio un punkabbestia.

5. Rischiare di vanificare operazioni delle forze dell’ordine twittando a casaccio prima che tali operazioni siano pienamente compiute. Tale pratica è però cara a Salvini quando è al governo e finge di stare al Viminale. Ne consegue che, al momento, qualche ora libera da dedicare a quel mona di Conte forse ce l’ha.

6. Stringere le mani a capi ultrà dalla fedina penale diversamente intonsa, meglio ancora sorridendo estasiati. Giusto per peggiorare con orgoglio il contesto di per sé post-atomico.

7. Intervistarsi da solo nei salotti benevoli di “ciao Massimo”, “grazie Barbara”, “è vero Nicola”. Se invece il Salvini carambolerà dalle parti di persone vieppiù esecrabili come Berlinguer, Floris, Formigli o Gruber, raccatterà puntualmente delle figure da pinolo al cui confronto Vittorio Feltri parrà astemio.

8. Imbastire dirette Facebook davanti a quattro gatti, magari sui gradini del Campidoglio (sperando che qualcuno lo riconosca). Oppure rispondere a tarda notte su Instagram alle domande dei fan, svelando che “no, non pippo cocaina”. Per poi scofanarsi tutto d’un fiato un bel mirto all’una di notte, con agio e ancor più con atarassia.

9. Ingozzarsi di ciliegie come un dromedario bulimico, possibilmente a favor di telecamera e meglio ancora mentre quello accanto a lui parla di bambini morti.

10. Fare il “modello Giuditta” di elegantissime felpe extralarge con su scritto “Cagliari”, “Firenze”, “Montemarenzo”. O se preferite anche solo “Stocazzo”.

È proprio vero: quest’uomo lavora troppo e per Conte non ha proprio tempo. Daje Matte’!