“Bene comune oggi è la ricerca pubblica. Ce lo dice il Covid”

Non è più soltanto ricchi e poveri, Nord e Sud. In Italia il divario fra chi ha e chi non ha cresce. Fq MillenniuM, il mensile diretto da Peter Gomez in edicola sabato 11 luglio con un numero dedicato al ritardo italiano nella banda larga e nello smart working, ne parla con Fabrizio Barca, economista e politico, che dal 2018 presiede il comitato di coordinamento del Forum Disuguaglianze e Diversità, una task force creata da otto organizzazioni di cittadinanza attiva, da un nutrito gruppo di esperti e accademici e da numerosi partner di progetto. Obiettivo dichiarato del Forum è trasformare la rabbia in conflitto, cioè in confronto acceso fra i punti di vista e gli interessi in gioco, incoraggiare la partecipazione di chi non ha voce in capitolo, fare emergere un “popolo sociale”, avere il “senso comune” del neoliberismo come bersaglio e non limitarsi a combattere la povertà. Impossibile dare qui conto di tutte le proposte del Forum. Riguardano per esempio la missione strategica delle imprese pubbliche, un piano nazionale per i territori marginalizzati, i “bandi di idee”, la creazione di Consigli del lavoro e della cittadinanza: le leggerete su Fq MillenniuM. Qui un estratto dell’intervista.

Fabrizio Barca, il Covid-19 è per lei l’interfaccia tra due crisi…

Sì. Da un lato la crisi ecologica del pianeta, e dall’altro l’enfatizzazione di tutte le fragilità e le disuguaglianze.

Quali sono stati gli effetti in Italia?

Lo shock economico si è scaricato immediatamente su chi lavora, soprattutto sulle molteplici forme di precariato che riguardano sette milioni di lavoratori. C’è stata una possibilità di reazione assai scarsa da parte di vaste fasce della popolazione: almeno dieci milioni di adulti non hanno i risparmi necessari per reggere tre mesi senza lavoro.

In Italia la povertà è cresciuta…

La quota di reddito globale detenuta dall’1% dei più ricchi è passata dal 17 al 21% tra il 1995 e il 2015, mentre il “bottom 90%” ha visto ridursi la quota di reddito globale dal 55 al 44%. Aggiungerei che la povertà assoluta in Italia è raddoppiata…

I provvedimenti a sostegno dei redditi più bassi, però, non sono mancati.

Il sostegno ai redditi è giusto e importante, ma se non vogliamo disfare di sera ciò che tessiamo durante il giorno, la redistribuzione non basta. Occorre passare alla pre-distribuzione, acchiappare i meccanismi di formazione della ricchezza. Non si può combattere soltanto la povertà di reddito, bisogna aggredire anche le altre disuguaglianze.

Tra le proposte del Forum, una riguarda la salute e fa tesoro delle devastazioni di questi mesi.

Il conflitto, che il Covid-19 ha reso evidente, è quello fra il bene comune e la tutela della proprietà intellettuale. La ricerca sui farmaci è, all’origine, pubblica: soltanto in Europa abbiamo mille centri di ricerca finanziati dai cittadini e i cui risultati sono “open”. Le case farmaceutiche, con un po’ di lavoro supplementare, brevettano il frutto di queste ricerche, fissando spesso – è il caso degli antitumorali – prezzi insostenibili per la maggior parte dei cittadini e per i servizi sanitari. L’accordo sulla proprietà intellettuale del 1995 deve essere rivisto, introducendo il concetto di beni comuni globali. Gli stati devono essere garanti per i vaccini e i farmaci essenziali.

Proponete anche la creazione di tre imprese pubbliche europee…

La conoscenza che nasce pubblica deve restare pubblica. Noi proponiamo la creazione di tre imprese pubbliche europee, tre hub tecnologici in campo farmaceutico, di tecnologia digitale e di transizione energetica.

Dalla sanità alla tecnologia, con il governo dell’intelligenza artificiale.

Gli algoritmi di apprendimento automatico, che possono incidere positivamente sulla giustizia sociale, sono usati soprattutto per discriminare: nell’accesso al credito, nelle assicurazioni e in mille altre forme. Il mito della loro oggettività va sfatato: sono frutto di scelte, e i parametri in base a cui si formano devono essere dichiarati e controllabili. Nel caso di algoritmi che incidano sugli orari e sull’organizzazione del lavoro, devono essere negoziabili nella contrattazione collettiva. Noi siamo contro i monopoli, per piattaforme digitali collettive e per banche dati pubbliche in formato aperto.

L’ultima vostra proposta, la più dirompente, riguarda i giovani.

Proponiamo l’istituzione di un’eredità universale di 15mila euro da assegnare a tutti i giovani, senza condizionalità, quando compiono 18 anni, dopo averli responsabilizzati e accompagnati a partire dai 14 anni. A molti di loro, soprattutto ai più svantaggiati, consentirebbe di progettarsi un futuro, di non accettare il primo lavoro che capita, di scegliersi l’università, di imparare una lingua, di fare un viaggio. E anche ai figli dei più facoltosi consentirebbe di non accettare una donazione condizionata: ti dò i soldi se fai li mestiere che ho scelto per te, se sposi chi voglio io…

Il persecutore di Gianni Mura minacciava ancora la moglie

Lo aveva aiutato. Gli aveva cercato un lavoro. Ma lui lo ha minacciato, gli ha estorto 61.500 euro, secondo l’accusa. Addirittura ha provato a perseguitare la sua famiglia dopo la morte dell’amico. Ma è finito in manette con l’accusa di estorsione.

Chi ha conosciuto Gianni Mura sa che aveva un cuore grande. Come quel suo viso largo, come le mani spesse. Purtroppo, secondo i carabinieri di Milano, lo aveva scoperto anche Francesco G., un uomo di 47 anni di Verona che, dopo avergli chiesto aiuto, essergli diventato amico, aveva preso a minacciarlo di morte. Era diventato uno stalker. Un incubo. Perfino dopo la morte del giornalista e scrittore – avvenuta a marzo – G. avrebbe minacciato la moglie di Mura che lo ha denunciato.

Una storia cominciata dieci anni fa quando l’uomo aveva avvicinato il giornalista approfittando della sua curiosità per le persone. Della sua proverbiale disponibilità. Francesco G., che abita a Verona, aveva raccontato di essere un ribelle, di aver precedenti per resistenza, di avere una vita disperata. Aveva detto che suo padre era stato ucciso e la madre era malata. Così avevano cominciato a frequentarsi. Mura lo aveva aiutato, senza dire niente a nessuno: si era speso per trovargli un lavoro come bibliotecario a Pordenone, mese dopo mese gli aveva mandato piccole somme. Ma G. d’improvviso aveva cambiato volto. Era diventato minaccioso. Decine di messaggi terribili: “Niente e nessuno mi fermerà. Tua moglie e te morirete… Verrò a Milano. A casa o al giornale. Farò una strage. Dammi i soldi e sparirò”. Parole crudeli, ma con uno stile quasi letterario: “M’accompagna una feroce fissità nello sguardo”. Mura aveva finito per mandargli oltre 60 mila euro. Non lo aveva denunciato, per timore o pietà. E si era portato il segreto nella tomba. Ma Francesco ha continuato. Così la moglie del giornalista lo ha denunciato. Un collaboratore di Mura ha riaperto la mail dello scrittore e ha scoperto decine di messaggi. Francesco G. è finito in manette.

Spadafora vara la sua riforma dello Sport. La prima vittima illustre è Giovanni Malagò

Addio Malagò: il ministro Vincenzo Spadafora dà il ben servito al presidente del Coni. Quando a fine 2021, dopo le Olimpiadi di Tokyo, si tornerà a votare, per le cariche del Comitato ci sarà un limite di due mandati. E lui, che li ha già fatti, non potrà ricandidarsi. Fine di un’era. Sarà solo uno, forse il più clamoroso, degli effetti della “riforma dello sport”, se sarà approvata così (ma non dovrà passare nemmeno dal Parlamento, solo dal Cdm). È la legge delega approvata nell’estate 2019 dal governo gialloverde, tra mille polemiche del Coni, che denunciava le ingerenze politiche e la perduta autonomia dello sport, minacciando, quasi invocando, sanzioni contro l’Italia. Quando quel governo cadde, al Foro Italico esultarono. Non potevano immaginare che il successore di Giorgetti sarebbe arrivato a mettere in discussione l’impero e anche l’imperatore.

Il 5 stelle Spadafora ha ereditato i decreti attuativi della delega. Ci ha lavorato per settimane, in gran segreto, adesso il “Testo unico” è pronto: 123 pagine, a prova di fuga di notizie (ogni documento, rigorosamente cartaceo, ha il marchio del partito a cui è stato consegnato). Dentro c’è di tutto: dall’articolazione degli uffici (il Dipartimento Sport assomiglierà sempre più a un ministero) alla contrattualistica per i lavoratori sportivi, con più diritti e tutele. Per capirne gli effetti ci vorrà tempo. Uno, però, pare certo: la fine dell’era Malagò. La delega prevedeva anche la revisione della legge 8/2018, con cui l’ex ministro Lotti aveva regalato a Malagò altri 4 anni, fissando il limite di tre mandati (in precedenza per il Coni erano due). Come rivelato dal Fatto, nel cassetto di Giorgetti c’era una sentenza della Cassazione che metteva in discussione la rielezione conteggiando anche gli anni da consigliere. Nel dubbio, Spadafora ha tagliato la testa al toro: “Il presidente e gli altri componenti della giunta, a eccezione dei membri Cio, non possono svolgere più di due mandati”. Malagò, eletto nel 2013 e nel 2017, potrà entrare in Giunta come membro Cio ma non potrà più fare il presidente. Per lo sport italiano sarà un terremoto. Una norma transitoria potrebbe salvare la poltrona ma per ora non è prevista. Per molto meno era scoppiata una guerra col precedente governo. Tanto più che il Coni è convinto di poter autodeterminare le sue cariche, sulla base della carta internazionale del Cio, il cui presidente resta in carica effettivamente per 12 anni (ma due soli mandati). Potrebbe non essere solo nella battaglia, perché per le Federazioni il limite rimane di tre, ma senza il mandato “extra” concesso da Lotti sarebbero fuori i vertici di quasi tutte le discipline, dal nuoto al tennis, dall’atletica al basket. È la riforma di Spadafora: nuovo sport, nuovi capi.

Mazzette militari la “distintivopoli” dell’Esercito

“Sò amici, hanno partecipato, ‘anna sparà prezzi alti e finisce della storia, hai capito funziona accussì”. Il generale dell’Aeronautica militare spiega come funzionava il sistema di tangenti negli appalti delle pubbliche forniture alle forze armate scoperto dalla polizia di stato e dalla Procura di Roma. Ex generali, colonnelli, tenenti e maggiori di diverse corpi militari avrebbero intascato somme di denaro, promesse di assunzioni di parenti e regali da imprenditori compiacenti, favorendoli in diverse gare. Come la fornitura dei distintivi dei gradi per le divise militari di carabinieri, esercito e guardi di finanza, quella delle tende da campo per le missioni all’estero, l’arredamento per l’ufficio, l’abbigliamento, la digitalizzazione delle cartelle sanitarie e la forniture di beni alimentari. Gare pilotate per un valore stimato dagli inquirenti di 18,5 milioni di euro, tra cui l’affidamento diretto di beni e servizi per l’aeroporto militare di Pratica di Mare da 6 milioni di euro. Sono 64 le persone indagate (7 agli arresti domiciliari) tra ufficiali miliari e imprenditori, accusati di corruzione, frode nelle pubbliche forniture, induzione indebita, turbata d’asta e abuso d’ufficio.

In alcuni casi, le società per aderire al bando dichiaravano di possedere i macchinari e le attrezzature per realizzare i prodotti d’abbigliamento o i distintivi richiesti, ma in realtà le importavano da Cina e Albania.

Le tangenti consegnate ai miliari, andrebbero da un minimo di mille euro a un massimo di 72 mila euro, pari al 10% del valore della gara d’appalto.

“Siamo vivi” Riparte il tour delle Sardine

“Non siamo scomparsi, partiremo con un tour elettorale nelle regioni e nelle città dove si andrà a votare”. Mattia Santori rilancia le sardine “più vive che mai, stiamo benissimo, è solo retorica quella che ci vuole morti” e annuncia in conferenza stampa l’iniziativa ‘Stazioni della Memoria, a 40 anni dal 2 agosto’ per commemorare con artisti e musicisti la strage di Bologna del 1980 insieme all’Associazione dei familiari delle vittime. “Solo una delle tante cose che facciamo, vogliamo impegnarci su due temi fondamentali, la giustizia ambientale e sociale. Stiamo pensando a un formato ad hoc per le prossime elezioni, presenteremo una proposta politica diversa. L’abbiamo visto con le regionali in Emilia-Romagna, ha vinto Stefano Bonaccini e noi abbiamo appassionato la cittadinanza”. Per Santori e le altre sardine l’impresa si può ripetere, magari con un vero e proprio tour elettorale ittico che sostenga i vari candidati anti Lega. Il leader bolognese dei pesciolini però non si sbilancia sulla sua città, nemmeno all’arrivo dell’assessore alla Cultura Matteo Lepore, da tempo indicato dai rumors cittadini come prossimo sindaco. Lo stesso con cui lo scorso 16 maggio riempirono piazza Maggiore di 6 mila piantine per finanziare gli eventi culturali bolognesi post lockdown. “Il tempo delle comunali, previste nel 2021, è lontanissimo per noi sardine ma non credo che il nostro approccio cambierà. Se i vari candidati si presenteranno in piazza noi saremo lì ad ascoltarli, ci piace ascoltare parlare di politica ma non prendiamo posizione per nessuno”. Almeno per il momento. Nonostante non ci sia ancora nemmeno una data precisa per le prossime elezioni cittadine, a Bologna già si parla insistentemente di chi sarà il successore del primo cittadino Virginio Merola, vincitore ai tempi contro Lucia Borgonzoni: oggi senatrice leghista, sconfitta anche in occasione delle ultime regionali dal dem Bonaccini.

Cambio ai vertici. Primo Presidente sarà Pietro Curzio

Questa volta c’è un voto all’unanimità della Quinta commissione del Csm, quella che propone le nomine al plenum. Tutti d’accordo su chi debba essere il primo presidente di Cassazione, Pietro Curzio e il presidente aggiunto, Margherita Cassano, che passerà alla storia della magistratura per essere la prima donna ai vertici della Suprema Corte. Se applichiamo il metro correntizio culminato nel caso Palamara c’è un fatto singolare: Curzio è di Area, la corrente progressista, così come Giovanni Salvi, Procuratore Generale della Cassazione. Di più: sono entrambi di Magistratura Democratica, cioè “famigerate” toghe rosse, direbbero Silvio Berlusconi e suoi accoliti, tornati in auge per provare a far credere, con bufale vecchie e nuove, che in Cassazione c’è stato non un collegio di giudici ma “un plotone di esecuzione”, per condannare il Cavaliere.

Dunque, cosa è successo ieri al Csm? Area si è impossessata di Palazzo dei Marescialli tanto da poter avere presidente e Pg della Cassazione? Girata la domanda o la provocazione, a secondo dei punti di vista, ad alcuni consiglieri del Csm, danno tutti una risposta simile: “I tempi sono cambiati, non abbiamo pensato alle correnti ma al merito”. Stavolta. Curzio è presidente di una delle sezioni lavoro della Cassazione, esperto giurista, è stato il presidente delle sezioni unite civili della Cassazione che a gennaio scorso hanno confermato per Luca Palamara la sospensione dalle funzioni di pm e dallo stipendio, dopo essere finito indagato a Perugia per corruzione e sotto procedimento disciplinare per lo scandalo nomine. Ha prevalso su Margherita Cassano, perché presidente di sezione in Cassazione ed è più anziano, mentre la giudice, 13 anni consigliere di Cassazione, attualmente è presidente della Corte d’Appello di Firenze. Di Magistratura Indipendente (la corrente conservatrice) è tra i magistrati più stimati a livello trasversale.

Richiedenti asilo, la Consulta abbatte Salvini “Divieto iscrizione all’anagrafe è irrazionale”

È “irrazionale” e “irragionevole” impedire ai richiedenti asilo di iscriversi alle anagrafi comunali. La Corte costituzionale boccia senza appello la norma contenuta nel primo dei due Decreti sicurezza voluti da Matteo Salvini nel 2018. Il divieto viola il principio di uguaglianza, scrivono i giudici, “sotto un duplice profilo: per irrazionalità intrinseca, poiché non agevola il perseguimento delle finalità di controllo del territorio; per irragionevole disparità di trattamento, perché rende ingiustificatamente più difficile ai richiedenti asilo l’accesso ai servizi loro garantiti”. “Qualche giudice, come accade troppo spesso, decide di fare politica sostituendosi al Parlamento”, è il commento dell’ex ministro dell’Interno. Esultano invece Pd, Leu e Italia Viva, che chiedono di accelerare sul superamento dei decreti: nella bozza messa a punto dalla ministra Lamorgese c’è il ripristino dela possibilità di iscriversi alle anagrafi, oltre all’abolizione delle mega-multe per le Ong. L’obiettivo è trovare l’intesa nel prossimo tavolo di maggioranza, previsto per martedì.

Ponte di Genova, l’unica soluzione giusta è la revoca

Le motivazioni con le quali la Corte costituzionale ha negato il titolo ad Aspi per ricostruire il ponte Morandi saranno conosciute con il deposito della sentenza. Dal comunicato, tuttavia, si evince quanto meno un punto fermo: l’eccezionale gravità della situazione ha compromesso l’operatività dei vincoli contrattuali reclamati dalla concessionaria, che avrebbero dovuto legittimarne la partecipazione alla gara. La pronuncia limita l’affermazione a un momento di parziale incertezza sulle responsabilità della tragedia e individua nell’esigenza cautelare la piena giustificazione costituzionale del provvedimento. L’eccezionale gravità denunciata dalla Corte è il parametro sul quale va inquadrata la vicenda. Rispetto a quello perde all’evidenza rilievo la valutazione delle inadempienze contrattuali dell’accordo capestro sottoscritto da autorità amministrative finora non sottoposte a indagine penale e amministrativa, come sarebbe già avvenuto in un Paese che tutela le proprie istituzioni. Il 18 agosto 2018, avevo scritto sul Fatto che la vicenda non rientrava tra i comportamenti rilevanti nel contesto contrattuale, ma nell’illecito per omissione. Intendevo dare solo suggerimenti e avevo definito la gestione del ponte da parte di Autostrade come sostanzialmente proprietaria. Volevo, cioè, mettere in risalto i doveri di custodia, ai quali la società era tenuta in virtù della concessione. Sarò qui più preciso: la tragedia del ponte di Genova ricade nella fattispecie dell’art. 2053 c.c. (rovina d’edificio) che disciplina un caso di responsabilità oggettiva per illecito (quanto meno) civile. È oggettiva la responsabilità della cui prova è esonerata la parte danneggiata, mentre si impone al soggetto individuato dalla prescrizione di dimostrare la mancanza di ogni collegamento con il fatto dannoso. Spetta nel nostro caso al concessionario e custode del bene, investito dalla convenzione dei relativi diritti, fornire la prova che il crollo non è dovuto a difetto di manutenzione o a vizio di costruzione. Si dissolve, in tale contesto, il tema dell’inadempienza contrattuale che interessati paladini legali e dei media cercano di porre al centro della questione per riaffermare l’intangibilità dell’accordo. Mettiamo insieme i due elementi: una situazione di eccezionale gravità e una responsabilità oggettiva, fonte di risarcimento nei riguardi dei familiari delle vittime, dei proprietari delle case coinvolte nel crollo, del Ministero concedente, della Regione e degli enti locali, dell’autorità del porto di Genova e delle imprese che hanno subito gravi danni. A fronte di una situazione tanto compromessa ha ancora senso cercare una soluzione diversa dalla revoca? Anche perché buona parte dei miliardi che il concessionario dovrà pagare per quei risarcimenti, finirebbe per essere accollata a Cassa Depositi e Prestiti, proporzionalmente alle azioni Autostrade in portafoglio per la cessione di quote che taluni auspicano invece della revoca. Rispetto al mio articolo su indicato, non posso sottrarmi a un’autocritica. Avevo scritto che con la diluizione al forse mai delle sanzioni per i potenti, fra “venti o trent’anni i comitati dei parenti delle vittime” avrebbero reclamato invano giustizia. La ministra De Micheli ha ridotto il periodo della mia triste profezia a nemmeno un biennio. Perché è ovvio che la ministra poteva trovare soluzioni meno disastrose di quella di consegnare ad Autostrade il ponte sulla base di un’interpretazione della quale si vergognerebbe pure il dottor Azzeccagarbugli. Resta la fastidiosa impressione per la data scelta per la notizia: il giorno prima dell’udienza avanti la Corte. Un maligno insinuerebbe che si trattava di un messaggio di non belligeranza con Autostrade, sul quale il Giudice delle Leggi avrebbe potuto meditare. Per buona sorte del diritto e a onore della verità ciò non è avvenuto. Con ogni probabilità, quell’intento non era nelle intenzioni della ministra. Le si può, in ogni caso, contestare la mancata percezione politica di quel gesto. Il che non è certo il massimo.

 

Ambiente, Conte e costa hanno idee. Ma la De Micheli le ribalta

L’attrazione fatale per le grandi opere cementizie continua a intossicare la strategia politica di qualsiasi colore. Una visione obsoleta, tutta anni Cinquanta-Sessanta, convinta che la crescita del Paese sia affidata in primo luogo a eserciti di ruspe e betoniere che trasformano boschi e campi in strade, autostrade, aeroporti, ferrovie, aree logistiche e si spingono perfino in mare con catafalchi inefficaci come il Mose. Contemporaneamente la stessa politica proclama fantasiose svolte verdi, riduzione delle emissioni, lotta all’emergenza climatica, salvaguardia della biodiversità, difesa dei beni comuni per le generazioni future. Tutti annunci che vengono privati di fondamento proprio da quei cantieri tanto osannati, responsabili di consumo di suolo, consumo di energia fossile, consumo di cemento, di asfalto, di acciaio. E che poi saranno fonte di nuove emissioni climalteranti nella fase di esercizio, poiché nuove strade, aeroporti e pure le ferrovie, che nel caso dell’alta velocità in tunnel non sono affatto ecologiche, chiameranno nuovo traffico, nuovi trasporti, nuovi consumi. La sostenibilità ambientale non si fa a parole, ma con precise valutazioni di tonnellate di CO2 emessa, di materie prime utilizzate, di rifiuti prodotti e di benefici ambientali attesi. A priori tutte le grandi opere hanno un elevato costo ambientale, richiedono un sacrificio di spazi e di risorse, e si può soltanto tentare di mitigare il loro impatto, non di eliminarlo. Ma almeno alcune passano l’esame di utilità ambientale, come le infrastrutture idriche: è giusto riparare e potenziare dighe, canali e acquedotti anche in vista dei cambiamenti climatici che porteranno più caldo e siccità, è giusto costruire depuratori che evitino lo sversamento di acque inquinate nei fiumi e nei mari. È giusto recuperare aree dismesse evitando nuovo consumo di suolo e riqualificare energeticamente gli edifici, è giusto investire nella capillare manutenzione del patrimonio infrastrutturale esistente: ponti, gallerie, viadotti in cemento armato che hanno ormai cinquant’anni di vita e necessitano di urgenti e continue cure per mantenersi in efficienza e in sicurezza. È giusto investire in bonifiche ambientali di siti industriali inquinati, in opere locali per la difesa dell’assetto idrogeologico: spesso sono cantieri piccoli, di breve durata e poco invasivi: ripristino di muretti a secco, canali di scolo delle acque meteoriche, briglie, arginature, ma pure in questo caso le nuove tendenze dell’ingegneria naturalistica propendono per meno calcestruzzo e più spazio ai fiumi, evitando di andare a costruire nei loro alvei e nelle zone a rischio, ormai accuratamente cartografate nelle banche dati nazionali di frane e alluvioni coordinate da Ispra. Finiamola di pensare che sia cosa buona e giusta aggiungere sempre qualcosa. Lo spazio non è infinito, bisogna anche considerare i limiti fisici attorno a noi. Con capillari attività di manutenzione dell’enorme patrimonio già esistente, ci sarebbe lavoro pressoché infinito per il comparto edile senza distruggere quel poco di territorio naturale che ci resta. Perché allora annunciare esultanti che lo sblocca cantieri di nuove strade, autostrade, tunnel ferroviari, è una svolta epocale, quando la vera svolta sostenibile sarebbe cancellarli del tutto dai programmi e trasferire quei miliardi di euro sugli obiettivi del tanto evocato Green Deal europeo? È significativo che il Piano Colao per il rilancio del Paese citi una “Rivoluzione Verde per proteggere e migliorare il capitale naturale” e poi la espliciti in una perversa scheda che mette insieme “Infrastrutture e Ambiente”, accostamento a dir poco blasfemo e contraddittorio. L’ambiente non può essere spartito con le infrastrutture, o peggio a esse subordinato, come appare dalla stessa posposizione lessicale: l’ambiente è un valore superiore all’economia e al lavoro, ed essendo soggetto a depauperamento irreversibile deve avere il diritto di fermare le grandi opere quando inutili e dannose. Mi sembra invece che Conte e Costa, due politici che di ambiente parlano spesso e pure bene, siano però come medici che predicano una dieta sana per una buona salute futura mentre il paziente sta crepando sotto i loro occhi per un’emorragia: hanno in mano il laccio emostatico ma invece di stringerlo, lasciano che la De Micheli lo sciolga. Peccato, perché il paziente, che è poi il nostro clima, il nostro suolo, il nostro cibo, la nostra ricchezza naturale e paesaggistica, morirà. E non serviranno a resuscitarlo le vuote parole che esaltano un mondo verde e sostenibile. Se si crede veramente a una svolta verde, si abbia più coraggio: come diceva Mario Rigoni Stern, anche il coraggio di dire no, a una crescita economica che è diventata patologica, pura predazione di beni comuni insostituibili.

 

Sbaglia Prodi, il partito di B. è un insieme di clan

Anche a voler pensar male, Romano Prodi non è sospettabile d’intendenza col “nemico” che sconfisse due volte. Fatelo pure più spregiudicato e calcolatore di quanto appaia, ma dispone di antenne sufficienti per sapere che Silvio Berlusconi mai e poi mai lo appoggerebbe nella corsa per il Quirinale. Che gli è preclusa da un’ostilità accanita della destra e dalla diffidenza già dimostratagli dalla palude renziana e dalemiana.

Non è di ieri, peraltro, la sua proposta di un governo sostenuto da una “coalizione Orsola” d’impronta europeista, formata dai partiti italiani che a Strasburgo votarono Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione Ue: dal M5S a Forza Italia. Fu un’idea che mise subito per iscritto l’agosto scorso, non appena entrò in crisi l’alleanza fra grillini e leghisti.

Riconosciuta la coerenza che gli spetta, resta da chiedersi se davvero un governo Conte rimpastato o comunque sorretto dai voti di Berlusconi potrebbe funzionare e fare il bene dell’Italia. Come sostenuto da tutti i principali giornali e dalle forze economiche che ne ispirano l’indirizzo politico.

La storia dei governi di unità nazionale sperimentati in Italia suggerisce il contrario: durano poco, finiscono per incentivare nuovi aspri conflitti politici anziché sedarli, e soprattutto si rivelano inadeguati ad affrontare le emergenze che ne avevano motivata la nascita.

Vediamo. Nell’immediato dopoguerra l’unità nazionale si frantumò in tre brevi governi, uno guidato da Parri e due da De Gasperi. Il partito comunista ne fu estromesso nel maggio 1947, il che non impedì alla fine di quell’anno il varo della Costituzione. I governi Andreotti di compromesso storico, fondati sulla non sfiducia e sull’appoggio esterno del Pci, durarono meno di tre anni, dall’agosto 1976 al marzo 1979, e aprirono la strada a un infelice ciclo economico che penalizzò i redditi da lavoro e ingigantì il debito pubblico. Infine, nel 2013, dopo soli nove mesi Forza Italia ritirò il suo appoggio al governo Letta, favorendo l’avvio della stagione renziana. Perfino il non scritto ed extraparlamentare Patto del Nazareno si infranse, e in seguito Berlusconi trovò conveniente accodarsi al traino leghista.

Prodi ora sostiene che l’ingresso di Forza Italia nella maggioranza non produrrebbe esiti traumatici perché la vecchiaia ha reso più saggio Berlusconi. Anche se non lo dice, probabilmente calcola anche che il suo partito – attualmente dotato di buoni numeri in parlamento – va incontro a un inesorabile declino. E dunque il Cavaliere avrebbe convenienza a far pesare oggi i voti di cui non disporrà più domani. Può darsi. Ma credo che il ragionamento di Prodi non faccia i conti con la natura del residuo notabilato di destra da cui è composta Forza Italia: un insieme di clan locali, votati all’autoperpetuazione, fedeli al capo solo fin tanto che Berlusconi sia in grado di garantirgli una candidatura sicura. E rimasti del tutto estranei alla cultura liberalconservatrice del Partito popolare europeo.

Con questa materia prima, è impensabile replicare in Italia l’esperienza della grosse koalition di marca tedesca. Fondata su un programma articolato, stipulato fra due forze politiche di lunga tradizione, e ciò non di meno ormai da tempo entrata in crisi. Tanto che sembra del tutto improbabile che la grosse koalition germanica sopravviva alle prossime elezioni del 2021.

I residui di Forza Italia sono animati da un istinto che li trascinerà inevitabilmente a destra. E, nel dopo Berlusconi, dubito assai che si fidino a lasciarsi guidare da Renzi.