Mail box

Rai: un crimine chiudere le orchestre sinfoniche

Concordo pienamente con il fondo di Vittorio Emiliani concernente il cosiddetto “Servizio pubblico” della RAI. Per quanto mi riguarda, ribadisco la mia netta condanna della la decisione – dissennata e criminale – di chiudere le orchestre sinfoniche di Napoli, Roma e Milano. E tutto questo da parte di un’azienda che ha anche l’impudenza di autodefinirsi un organismo che diffonde cultura.

Renato Badalì

 

Silvio è sostenuto da cortigiani profittatori

Gli imprenditori, i cortigiani, i servitori e i più ferventi leccaculisti mediatici dell’italica penisola, in compatta e armonica formazione bellica, hanno dato inizio alla più ardita campagna preparatoria per la conquista del Quirinale da parte del “più amato dagli italiani”. I fatti (prove orali e documentali di crimini incredibili, leggi ad personam, ricusazioni, istanze di remissione e legittimi impedimenti, ma anche condanne definitive) pare contino poco o niente. In una democrazia pro-forma pare conti assai di più saper approfittare dell’ignoranza atavica (coniugata alla pavidità, al misero micro-edonismo, e alle numerose altre miserevolezze dell’animo umano) delle masse che da secoli sono ormai avvezze a barcamenarsi tra gli angusti antri dell’impotenza.

Fernando Santantonio

 

Nelle amministrazioni si annida la vera camorra

Ho letto con attenzione l’articolo del dottor Padellaro sul problema della burocrazia in Italia. Pur concordando in parte con la sua analisi sull’effetto deleterio dell’operato di TAR, Consiglio di Stato etc., credo (per esperienza diretta quarantennale a Napoli e in diversi comuni della Campania) che la vera “camorra” non sia quella che spara, rapina, spaccia, ma quella annidata nelle amministrazioni comunali locali, dove piccoli Ras fanno il bello e il cattivo tempo, rallentando il lavoro, cosa che gli riesce benissimo, senza fare avanzare una pratica per mesi, fino a quando un “amico” consiglia di rivolgersi a quel sottobosco di “affiliati” professionisti, dal geometra al geologo, passando per l’architetto, l’avvocato e così via, e miracolosamente la pratica si riavvia, fa uno scatto sorprendente e supera il traguardo. Credo che una soluzione sarebbe l’allargamento della procedura silenzio/assenso entro trenta giorni (con sanzioni per l’impiegato inadempiente) a tutte le pratiche ordinarie minori velocizzerebbe le procedure, costringendo nel frattempo i nullafacenti ad attivarsi per rispettare i tempi previsti. Vi faccio i complimenti perché Il Fatto è l’ultimo baluardo di un giornalismo non asservito dopo la trasformazione di Repubblica in un foglio Renzi/Leghista (all’insaputa di molti dei suoi giornalisti).

Salvatore Griffo

 

Il Caimano perseguita i giudici (e gli italiani) 

Credevo di non dover più sentir parlare di questo signore che ha preso in giro e ha rovinato l’Italia, nella sua morale e sensibilità. Invece, i soliti opportunisti, tentano di riesumarlo o fanno finta di niente. Mi riferisco alla nuova vicenda del nastro della registrazione del defunto giudice Franco. I soliti fenomeni gridano alla persecuzione giudiziaria. Secondo me dovrebbero essere i giudici a gridare alla persecuzione berlusconiana. È un dato di fatto che, sotto la guida e regia di Berlusconi, i giudici sono stati defraudati, e con loro noi Italiani, della possibilità di agire con leggi giuste, per punire i reati e, soprattutto, per evitare ai ricchi e potenti di fare il proprio comodo, soprattutto nel non contribuire al sostentamento del Paese (evadendo le tasse).

Paolo Benassi

 

La burocrazia (quella buona) serve allo Stato

Con la B maiuscola bisogna chiamarla, quella grande iattura dei tempi moderni; per lo più italiana, per distinguerla subito dalla “razionalità formale” emergente, quella celebrata nei suoi aspetti positivi da Max Weber. Fa bene Antonio Padellaro quando paragona la burocrazia a un clero insensibile e sordo. Un ceto da Ancien Régime, una cappa asfissiante. E in tempi di Stati Generali riesumati non è poco… Non si può non ricordare che l’emergere di regole, regolamenti, trattati, codici e relativi preposti e operatori che li applicano e li fanno osservare ha costellato il tanto altre volte invocato garantismo. Anche il lettore meno avveduto può notare come l’affermazione della borghesia, dello stato liberale e delle democrazie parlamentari sia stata accompagnata di pari passo dal crescere degli apparati. Si può forse immaginare un Welfare, moderno ed efficiente senza burocrazia? Detto questo, detto che non c’è democrazia efficiente, giustizia efficiente o accesso alle risorse efficiente senza apparati. Ma occorre vista buona e volontà di ferro per fare i tagli chirurgici mirati ed efficaci che tutti sanno ci vorrebbero. E magari aiutandosi leggendo Marx, Max Weber e Gramsci – ma soprattutto con la partecipazione civile e la buona informazione.

Rosario Salati

 

Nel lessico del Covid, il distanziamento è fisico

Non è corretto a mio parere scrivere o parlare in merito al Covid di “distanziamento sociale” ma la dizione corretta dovrebbe essere “distanziamento fisico”. L’uso inappropriato di certe parole potrebbe poi tradursi in fatti inaccettabili nella vita quotidiana.

Manoela Rubino

Gasparri e la pensione. Bel colpo fortunato per il forzista (tutto legale)

Gentile direttore, leggendo l’articolo sulla pensione di Gasparri mi piacerebbe capire come possa percepire la pensione da giugno. Ma non bisogna avere più di quarant’anni di contributi, per la precisione 42 e dieci mesi? Facendo i calcoli (28+9 fanno 37 ) oppure la riforma Fornero vale solo per chi LAVORA in catena tutta la vita.

Luciano B.

 

Le misure a sostegno dell’editoria le contenute nell’ultima legge finanziaria hanno consentito i prepensionamenti dei dipendenti con un’anzianità contributiva di almeno 35 anni nella aziende editoriali in crisi. È la procedura attivata dal Secolo d’Italia per Maurizio Gasparri che è rientrato nei requisiti previsti dalla norma sia per quel che riguarda l’età che per il periodo di contribuzione. A questo proposito pare rilevante sottolineare però un altro aspetto che chiama in causa non tanto il caso specifico, ma la legge che consente a tutti i parlamentari di maturare la pensione, pur essendo in aspettativa dalla professione svolta (ben 28 anni nel caso del senatore forzista a fronte di 9 anni lavorati in redazione), attraverso il sistema dei contributi figurativi. Che ancora oggi sono in gran parte a carico dell’ente previdenziale di appartenenza (nel caso di Gasparri l’Inpgi) e solo per circa 1/3 a carico del beneficiario del trattamento di pensione. Giusto per dare una dimensione al fenomeno è il caso di ricordare l’audizione di due anni fa dell’allora presidente dell’Inps, Tito Boeri: a quella data erano 861 parlamentari (eletti alla Camera, al Senato, al Parlamento europeo e nelle assemblee regionali) che tra il 2005 e il 2017, attraverso questo meccanismo assai vantaggioso, si erano “costruiti” la pensione che peraltro si somma al vitalizio che spetta loro alla fine del mandato elettivo. Ma qual è il costo dei contributi figurativi riconosciuti ai parlamentari per la propria futura pensione anche se di fatto in quel periodo non svolgono la loro normale attività lavorativa? Come ha ricordato Boeri a proposito del periodo considerato, ammonta in totale, a più di 30 milioni che gravano sui fondi pensionistici amministrati dall’Inps e sono addebitati alle rispettive gestioni previdenziali.

Ilaria Proietti

Mia zia e le sue strategie (anche molto sessuali) per la scalata bancaria

Mia zia, proprietaria di inesauribili pozzi di nafta in Libia, ha un nuovo passatempo preferito: spingere, come azionista di maggioranza di Intesa San Paolo, per la fusione con Ubi Banca, dove la sua vicina è azionista di maggioranza col fondo Parvus. Benché in buoni rapporti diretti (giocano tutti i pomeriggi a burraco con le gemelle Mastrocinque, due zitelle segaligne che stanno al pianterreno, vociferate di un passato burrascoso nei Nar; e prendono il tè insieme, scambiandosi ricette di biscottini al burro), sono acerrime nemiche sul piano geopolitico e finanziario: la frequentazione cordiale è solo una finzione, affinché le vendette reciproche colpiscano inaspettate e in pieno. La vicina, che si nutre di uccellini tropicali congelati da quando ha letto, in un articolo su Cosmopolitan, che in fricassea riducono le rughe, teneva i suoi risparmi in UBI International (la società lussemburghese del gruppo Ubi, venduta in tutta fretta dopo che nei Panama Papers si erano trovate tracce di società offshore che le apparivano legate). All’ultima assemblea UBI, colpo di scena! La vicina di zia ha portato solo il 5% del portafoglio, mentre ha l’8%. Zia pensa che questo dimostri un’ipotesi su cui si sta arrovellando da tempo: poiché alcuni grandi azionisti di UBI si sono uniti in un comitato che controlla il 20% di UBI, se fossero gli stessi di Parvus il loro 20% si sommerebbe all’altro 8% = 28%. Per legge, però, oltre il 25% scatta l’obbligo dell’offerta pubblica d’acquisto (OPA) su tutto il capitale UBI. È questo che la vicina ha voluto evitare? Zia potrebbe averne la certezza solo con la fusione Intesa-UBI: riuscirebbe a dare un’occhiata da dentro, e capire se c’è stata una trasmigrazione da Ubi International a Parvus. Ci pensa giorno e notte, anche quando me la sto scopando con gusto (è una donna statuaria e formosa, identica a Sofia Vergara, ma più disinibita: un fatto piacevole, se vi piacciono certe cose). Mentre la lecco devoto, sgrillettandole l’interno vellutato, mugola di piacere ipotizzando ad alta voce reati fiscali, aggiotaggio, manipolazione di mercato: se l’ipotesi fosse giusta, avrebbe in pugno la vicina. “Finalmente!” grida d’un tratto, inondandomi con un getto che ha la forza di un geyser.

La Bce, col Pepp (acquisto di titoli pubblici e privati), farà arrivare all’Italia 250 miliardi di euro. Avremo i soldi per il rilancio extra-deficit che serve al Paese. Governare l’Italia non sarà mai stato così facile, sicché molti sgomitano per prendere il posto di Conte, mentre i giornali embedded gli indirizzano macumbe. Resta però un fatto: l’elettrocalamita che solleva un blocco di mille tonnellate di ferro non riesce a spostare uno stuzzicadenti di legno. Inutile aumentare i volt: lo stuzzicadenti non si muoverà. Se le merci restano sugli scaffali, l’economia non si muove, per quanti soldi tu dia ai confindustri. Gli economisti infatti dubitano che l’idea di finanziare solo le imprese possa evitare la recessione; sanno che un crollo dei consumi porterà a una spirale recessiva senza precedenti; e dicono che occorre versare denaro nei conti correnti della classe media per sostenere la domanda interna, ovvero i consumi. “Oggi mi hai fatto proprio godere. To’, prendi questi 100 euro: vai a sostenere la domanda interna.” “Grazie, zia.” Adesso resta solo da capire chi si deve scopare, la classe media, per avere quei soldi.

 

Sono disperato: Salvini a dieta, ma di bestialità

Alla ricerca di un spunto per questa rubrica ieri mi sono messo comodo davanti all’Aria che tira convinto che dall’intervista a Matteo Salvini qualcosa sarebbe venuto fuori. Dopo mezz’ora di disperati tentativi del conduttore, il bravo Francesco Magnani, avevo preso nota soltanto della forte somiglianza dell’uomo del “Papeete beach” con l’allenatore del Parma, Roberto D’Aversa. Infatti, è dai giorni del mojito (di cui ad agosto ricorre il primo anniversario) che il capo leghista continua a parlare ma senza dire niente. Situazione piuttosto spiacevole per chi, come noi, pasteggiava abitualmente grazie alla ricca produzione della famosa Bestia salviniana, e che da tempo si vede costretto a una dieta forzata delle relative bestialità, con evidente nocumento sulla qualità del lavoro.

Sui motivi dell’assoluta inconsistenza verbale, e politica, del capo della destra (ma fino a quando con Giorgia Meloni così arrembante?) si esercitano illustri commentatori. Convinti che il salvinismo non rappresenti più un’alternativa spendibile, per esempio sull’uscita dall’Euro, nel momento in cui solo i soldi dell’Europa possono salvarci. Senza contare il disastro populista e sovranista sul coronavirus, con la nemesi dei Boris Johnson e dei Jair Bolsonaro, responsabili davanti ai loro Paesi della folle sottovalutazione dell’epidemia, di cui pagano anche personalmente le conseguenze. E si può dire che con il crollo verticale nei sondaggi alla vigilia delle elezioni Usa di Donald Trump (un altro che minimizzava il Covid-19) la stagione della verità fatta a pezzi dalla propaganda stia tramontando. Quando la gente deve salvare la pelle passa davvero la voglia di dare retta agli imbonitori. Perciò Salvini (che è il meno dotato della compagnia) va capito quando si rifugia nella stucchevole elencazione, tipo Pagine Gialle, di ceti e categorie a cui dedica ascolto (che bisogna vedere se ancora ascoltano lui). Perciò anche chi scrive è altrettanto imbarazzante quando scuote il televisore con il faccione e implora: ti prego Salvini di’ qualcosa di destra.

Effetto Covid, stop con la guida autonoma, e tutto sull’elettrico

In tempi di pandemia, anche l’industria dell’auto si riorganizza. E lascia da parte il superfluo, perché di risorse ce ne sono sempre meno. Vittima sacrificale, almeno per il momento, sembra essere la guida autonoma: investire ora sull’auto che si guida da sola, con poco cash a disposizione, non è una necessità vitale. Dunque i costruttori stanno, chi più chi meno, rallentando o congelando i progetti sul self-driving.

Non si rinuncia, invece, all’elettrificazione. Che viaggia spedita secondo i piani, se non altro per la paura di multe salate per il superamento dei limiti alle emissioni. Il rapporto “100 Italian E-mobility Stories”, curato da Enel e Fondazione Symbola, fa notare come si sia passato dal milione e mezzo di vetture elettriche per passeggeri merci del 2016 in circolazione nel mondo, agli attuali 7 milioni. Centro nevralgico è la Cina, con oltre 3 milioni, mentre in Europa (dove solo in Norvegia ne circolano 320 mila) siamo quasi a quota due.

E nel vecchio continente, nonostante il lockdown e relativo crollo del mercato, elettriche e ibride hanno tenuto botta: secondo l’ultima analisi eReadiness di PwC Strategy& riguardante il primo semestre dell’anno, nei 4 mercati continentali più importanti (Germania, Francia, Italia e Spagna) sono cresciute complessivamente del 101%, a fronte di un calo delle immatricolazioni del 41%. E si prevede che si ritaglino una fetta dell’8% del totale europeo entro il 2023. Certo, parliamo di numeri ancora bassi, ma il trend sembra avviato.

Audi e il suv coupé elettrico di domani

Una vera e propria finestra sul futuro prossimo di Audi: è questo ciò che rappresenta il Suv elettrico compatto Q4 Sportback e-tron concept, variante con carrozzeria coupé dell’omonimo prototipo che la marca aveva svelato al Salone di Ginevra 2019 e chi si distingue per una silhouette particolarmente filante. Lunga 4,6 metri, è attesa sul mercato per il 2021 e sarà la settima Audi totalmente elettrica a listino.

Secondo le previsioni della casa madre, entro il 2025 Audi offrirà venti modelli a trazione 100% elettrica, generando circa il 40% del proprio fatturato mediante vetture a elevata elettrificazione (incluse anche le ibride plug-in, quindi). Ciò è frutto di un piano quadriennale che, entro il 2024, comporterà investimenti per 37 miliardi in ricerca e sviluppo, immobili e stabilimenti: di questi, 12 miliardi saranno destinati alla mobilità elettrica. Sicché, entro la fine di questo lustro sono attesi 30 modelli a elevata elettrificazione, di cui 20 integralmente elettrici.

La Q4 Sportback sfrutta la piattaforma Meb del gruppo Volkswagen, concepita appositamente per accogliere meccaniche a zero emissioni. I propulsori elettrici dell’auto (uno per asse; sono sincroni, a magneti permanenti) sono collegati alle quattro ruote motrici e generano una potenza massima di 306 Cv. Brillanti le prestazioni: 0-100 km/h coperto in circa 6,3 secondi e velocità massima autolimitata a 180 km/h.

La vettura dovrebbe garantire un’autonomia omologata Wltp di oltre 450 km, mentre le versioni a sola trazione posteriore potranno superare i 500 km con un “pieno”. La batteria, collocata nel sottoscocca, ha una capacità di 82 kWh e, mediante sistemi di ricarica a 125 kW, sarà possibile ripristinare l’80% dell’energia immagazzinabile dall’accumulatore in meno di 30 minuti.

Il ponte di comando si distingue per il display riservato alla strumentazione, che riporta le indicazioni più importanti relative a velocità, stato di carica e navigazione. Una novità è costituita dall’head-up display con funzioni di realtà aumentata. Al centro della plancia, invece, è presente un touchscreen da 12,3 pollici orientato verso il conducente, dedicato alla gestione dell’infotainment.

Seat Leon, niente da invidiare a tutti i nomi più blasonati

Nel periodo di ripartenza post Covid, le case automobilistiche si affrettano a proporre novità per far ripartire il business delle quattro ruote. Fra queste Seat, che punta forte sulla nuova Leon: la hatchback spagnola, totalmente rinnovata per il 2020, si presenta per dare filo da torcere alle dirette concorrenti del segmento C, incluse le tedesche. In un mercato in cui l’età media del cliente si attesta oltre i 50 anni, il marchio iberico punta invece a far breccia nel cuore dei giovani (età media 32 anni) e, soprattutto, dei millennial. Il trend degli anni passati testimonia che l’obiettivo è ben a portata, come comprovato dalla crescita delle vendite della Leon, lievitate del 10% nel 2019. Di buon auspicio pure lo storico del modello: con le tre generazioni precedenti, infatti, sono stati 574 mila gli esemplari della compatta prodotti. Molti dei quali finiti in Italia, quinto mercato mondiale per Seat.

Cugina della Golf, la Leon eredita dalla best-seller Volkswagen gran parte della meccanica. Ma il vestito è su misura, disegnato nel centro stile di Martorell, a nord di Barcellona. La vettura ha un passo di 5 cm più lungo della tedesca, 269 cm totali: ciò garantisce una migliore abitabilità posteriore, un’ottima notizia per le persone più alte, e una maggior stabilità alle velocità elevate. La geometria delle sospensioni anteriori è calibrata ad hoc e assicura un feeling di sterzo più vivo e una buona connessione tra guidatore e asfalto. Gli interni, completamente ridisegnati, includono tutte le ultime tecnologie in ambito di connettività e intrattenimento: un ampio display personalizzabile sostituisce la classica strumentazione analogica, mentre il touchscreen a centro plancia è dedicato all’infotainment. Quest’ultimo, reattivo e intuitivo nel funzionamento, include Apple CarPlay ed Android Auto oltre al sistema “Hola Hola” per il riconoscimento vocale, lo stesso che permette di accedere agevolmente a molte funzioni di bordo.

La vettura è inoltre sempre connessa alla rete, il che consente di tenere sott’occhio diversi parametri da remoto o aprire le portiere a distanza, tramite App. Il led di colore personalizzabile che avvolge la plancia integra pure sistemi di sicurezza come il Side Assist e l’Exit Warning, che assistono il driver nel cambio di corsia o nell’uscita dalla vettura in condizioni di scarsa visibilità. Cinque le motorizzazioni a listino, benzina e diesel, con potenze da 90 a 204 Cv, con prezzi a partire da 19.500 euro. Tra le quali non mancano versioni elettrificate – come il turbodiesel 2 litri da 150 Cv mild hybrid o l’ibrido plug-in da 204 Cv – e la parsimoniosa edizione a metano da 130 Cv e autonomia di oltre 500 km.

E Caltagirone risparmia grazie allo smartworking

Chi oggi passa davanti al palazzo di via del Tritone 152 a Roma non troverà nessun giornalista al Messaggero. Dall’inizio dell’epidemia il quotidiano romano della famiglia Caltagirone è il primo esempio di giornale in smart working totale. La redazione di un centinaio di giornalisti non c’è, lavorerà da casa almeno fino a settembre. A casa, da lunedì scorso, c’è anche Virman Cusenza, l’ex direttore di 56 anni recordman di longevità al timone del giornale. Quando, a dicembre 2012, Cusenza ha preso il posto di Roberto Napoletano, il Messaggero vendeva oltre 160 mila copie. Secondo gli ultimi dati Ads, a maggio ne ha vendute 61.221: il 62% in meno con il 28,5% perso nell’ultimo anno. Francesco Gaetano Caltagirone e sua figlia Azzurra hanno nominato direttore il suo vice, Massimo Martinelli, 58 anni, al Messaggero da quando aveva 24 anni. Martinelli è stato capo della giudiziaria e della cronaca di Roma: è figlio d’arte, suo padre Roberto era responsabile della giudiziaria al Corriere della Sera.

Secondo il sito Professione Reporter, la fulminea caduta di Cusenza sarebbe dovuta a un contrasto con Azzurra Caltagirone sul passaggio al digitale. Le voci non trovano conferma e al giornale nessuno parla, ma i malesseri al Messaggero non sono recenti. A luglio di un anno fa Cusenza promise “miglioramenti del clima e delle condizioni di lavoro”. A quanto pare non ha fatto in tempo.

I problemi sono molti. Una settimana fa la direzione aziendale ha comunicato a tutti i freelance il nuovo taglio del pagamento delle collaborazioni: per l’online 7 euro ad articolo, 9 se corredato da un video. I collaboratori sono insorti e hanno chiesto di incontrare l’azienda. Il 31 maggio, con una riunione in streaming di domenica, l’assemblea dei giornalisti ha accettato lo stato di crisi e altri 20 prepensionamenti, con due giorni al mese di cassa integrazione per tutti dopo che l’azienda ne aveva chiesti 5. Il Cdr, assistito dall’Associazione Stampa Romana, ha evitato la chiusura di alcune redazioni locali e ottenuto 10 assunzioni al posto dei prepensionati. Ai giornalisti Cusenza aveva dato l’aut aut: “L’alternativa al piano di crisi proposto dall’azienda potrebbe essere una carneficina”. L’editore Caltagirone usa i prepensionamenti da lunghissimo tempo, contribuendo come altri editori a dissanguare le casse dell’Inpgi, l’istituto di previdenza dei giornalisti.

Ma a sanguinare sono anche i conti della società. A livello consolidato Caltagirone Editore nel 2019 ha perso 30,6 milioni per la svalutazione delle partecipazioni immateriali (avviamenti e testate) nelle controllate (39,8 milioni). La società che pubblica il quotidiano romano ha perso 3,6 milioni, quella del Mattino 2,4, il Gazzettino di Venezia 904 mila euro, il Corriere Adriatico 363 mila, Leggo 306 mila, il Quotidiano di Puglia 273 mila e la concessionaria di pubblicità Piemme altri 2 milioni. Intanto gira voce che la sede occupata dal Messaggero dal 1920 potrebbe essere venduta. L’immobile, che è in capo ad altre società del gruppo, sarebbe valutato più di un centinaio di milioni. Nemmeno questa indiscrezione trova conferma, ma lo smart working totale intanto fa comodo: c’è chi calcola in 11 mila euro pro capite l’anno i risparmi di costi generali che la Caltagirone Editore otterrebbe dal lavoro a distanza.

Giornali in crisi. La scusa è il Covid

La pandemia ha colpito le vendite dei giornali, che continuano a tracollare come avviene da lustri, ma a salvare gli editori è corso in aiuto l’Inps. L’emorragia di copie della stampa pare inarrestabile – ma non per tutti – e il lockdown ha ferito un settore già in ginocchio. La Federazione degli editori così nei mesi scorsi è andata con il cappello in mano dal governo. Gli aiuti di Stato per la pandemia, secondo i primi decreti, riguardavano però solo le aziende che prima del coronavirus erano “in buona salute”. Dunque ben poche tra quelle della Fieg. Dai e dai, l’8 aprile il ministero del Lavoro ha fatto la grazia: in una circolare ha precisato che “anche le imprese editrici di quotidiani, periodici e le agenzie di stampa a diffusione nazionale, avendo diritto alla sola Cassa integrazione straordinaria e nonostante siano iscritte all’Inpgi, possono richiedere la Cassa integrazione in deroga Covid-19 erogata dall’Inps”, come pure “le aziende dell’emittenza radiotelevisiva che abbiano meno di cinque dipendenti”.

Dopo il via libera del governo alle richieste delle Fieg, la Federazione nazionale della stampa italiana, che è il sindacato unico dei giornalisti, il 9 aprile scorso ha tuonato chiedendo sì a Palazzo Chigi di “sostenere l’informazione” ma anche di dire “no all’abuso della Cassa integrazione”. La Fnsi ha affermato di ritenere che alla Cassa Covid “debbano avere accesso prioritariamente le piccole aziende editoriali e non quelle che appartengono a gruppi quotati” e “in via prioritaria le realtà non coperte dalla legge sull’editoria o che hanno esaurito gli ammortizzatori sociali di settore”.

Quando si tratta di bussare a denari, però, editori e giornalisti si mettono d’accordo sempre, anche in barba (o grazie alle disattenzioni) del sindacato. Specie al Sole 24 Ore, testata pubblicata dalla società quotata di cui Confindustria è azionista di riferimento e nella quale la Fnsi conta pezzi da novanta. La redazione del Sole ha scioperato quando il comitato di redazione ha riferito che l’azienda avrebbe chiesto un taglio del costo del lavoro giornalistico del 25% (smentito dalla società), poi però dopo una due giorni di assemblea infuocata tra il primo e il 2 luglio ha approvato a maggioranza un accordo che limita il taglio degli stipendi al 13,3% circa con tre mesi di Cig Covid al 19%. L’altroieri l’intesa ha raccolto 109 favorevoli su 197 aventi diritto, con 26 contrari e 10 schede bianche. Il 30 giugno 2020 il cda del Sole ha rivisto il Piano industriale 2020-23: la versione precedente, approvata il 12 marzo, era troppo ottimista e non calcolava l’impatto del Covid. Nel nuovo orizzonte i ricavi attesi per il 2020 sono in calo rispetto al piano pre-Covid a 178 milioni rispetto ai precedenti 234, l’Ebitda (il margine operativo lordo) da 40 a 15 milioni e l’Ebit (l’utile prima degli interessi e delle tasse) da 24 milioni a -2. D’altronde già l’8 maggio il Gruppo 24 Ore aveva annunciato di voler chiedere (come anche altri editori) l’aiuto di Stato sotto forma di garanzia pubblica della Sace per una nuova linea di credito bancario sino a 46 milioni di euro.

La Cassa Covid è già stata utilizzata dai 54 cronisti dei Corrieri di Arezzo, Rieti, Siena, Umbria e Viterbo degli Angelucci, dalle testate Mondadori Periodici con l’eccezione di Panorama, dalla Prealpina di Varese e da Tiscali News. A Mediaset è usata per il personale non giornalistico e punta a sfruttarla al 30% anche il gruppo Class, mentre al 30% la sta già usando Italia Oggi. Sono circa 750 i giornalisti che la stanno usando e altri 250 sono pronti a farlo. Il fatto è che la Cassa Covid pagata dall’Inps alleggerisce i conti dell’Inpgi, la disastrata cassa di previdenza dei giornalisti, che ha chiuso il 2019 con una perdita della gestione previdenziale principale di 154,1 milioni (nono anno consecutivo in rosso, -147,6 milioni nel 2018) e un risultato netto finale in perdita per 171,4 milioni, nuovo record negativo. La crisi dei giornali e scelte legislative discutibili, come i reiterati prepensionamenti (1.121 quelli a fine 2019) hanno dissestato le pensioni dei giornalisti. Solo l’anno scorso nell’editoria si sono persi 865 posti di lavoro: 214 prepensionamenti, 651 contratti a termine non rinnovati, licenziamenti e mancate riassunzioni.

Intanto lo smart working impazza: al Giornale di Berlusconi si tratta sulla sua applicazione al 50% da settembre mentre c’è già un contratto di solidarietà del 20%, il gruppo Gedi (Repubblica e Stampa) lo usa a piene mani. In Rcs c’è il contratto di solidarietà per i periodici e per la Gazzetta dello Sport: nel secondo semestre di quest’anno taglio degli stipendi del 13% per i redattori e del 17% dai caporedattori in su, mentre al Corriere della Sera scattano 38 prepensionamenti e una Cigs da 2 giorni l’anno, mentre l’editore Urbano Cairo su 2,5 di milioni di euro tra stipendi e bonus nel 2019 ha rinunciato a 500 mila euro.

Il gruppo Riffeser (il presidente e ad Andrea Riffeser Monti presiede anche la Fieg) ha appena trasferito tutti i 200 giornalisti delle sue testate – Resto del Carlino, Giorno e la Nazione – in una Srl con poche migliaia di euro di capitale e sta rinnovando il contratto di solidarietà, tra rumor di forti discussioni tra i membri della famiglia proprietaria su un possibile aumento di capitale. All’Ansa, la prima agenzia di stampa italiana con 300 giornalisti (ma pochi anni fa erano oltre 400) dopo tre giorni di sciopero per la richiesta aziendale di 4 giorni di Cigs al mese si discute su 9 giorni di Cigs in sei mesi per i redattori e 11 per i caporedattori con 15 possibili prepensionamenti, dopo 60 uscite recenti e a fronte di 11 assunzioni bloccate nonostante 8 milioni di euro versato dall’Agenzia alle aziende editoriali socie negli ultimi tre esercizi.

Il fatto è che nell’ultimo anno, secondo i dati Ads di maggio, tra copie cartacee e digitali Avvenire ha perso il 18% delle vendite, il Messaggero il 28,5%, le tre testate Riffeser il Giorno -34,5%, Resto del Carlino -13,5% e La Nazione -19,5%, Repubblica segna -10,8%, La Stampa -16,4%, Il Sole 24 Ore -3,9%, il Tempo -27%, Il Giornale -3% e il Corsera -7,9%. Le uniche testate con il segno più sono Il Manifesto (+18,3%), La Verità (+11,3%), Libero (+15,5%) e Il Fatto (+44,5%). Il Covid ha fatto male agli editori, ma non a tutti.

Il Caimano fa il “responsabile”, ma il conflitto d’interessi resiste

Questa volta Silvio Berlusconi non va biasimato. Non è semplice convivere all’opposizione con Matteo Salvini e Giorgia Meloni e allo stesso tempo garantire “collaborazione istituzionale” al governo di Giuseppe Conte, peraltro forgiato da pericolosi comunisti e populisti. È una impresa da funamboli della politica, ma siamo convinti che Berlusconi sia capace di stupire ancora elettori e spettatori. La nota di risposta a un articolo del Fatto, però, merita una replica per punti.

1. “Dal 1994, con l’abbandono di tutte le cariche sociali, il presidente Berlusconi non si occupa in alcun modo delle scelte strategiche né di quelle operative delle aziende da lui fondate”. A parte le battute, Silvio Berlusconi non riveste cariche in Mediaset o Fininvest, e ci mancherebbe, ma in un quarto di secolo in politica il conflitto d’interessi è stato un sottofondo a cui non ci si deve abituare, anche se l’ex premier forse l’ha fatto sin dal principio. Si possono scegliere, alla rinfusa, multipli esempi di decisioni e varie norme che hanno determinato il destino di Cologno Monzese: la legge sulle telecomunicazioni che porta il nome di Maurizio Gasparri; la gestione delle frequenze del digitale terrestre (il lodo Rete 4); la nomina di politici di Forza Italia e di dirigenti fidati nel consiglio di amministrazione o ai vertici della Rai e addirittura nelle Autorità indipendenti di controllo come l’Agcom.

2. Come scritto Mediaset può ottenere un beneficio diretto o indiretto dalla nascita di una società pubblica per la rete internet in banda larga perché i francesi di Vivendi, soci del Biscione con un contenzioso aperto e primi azionisti di Telecom, avranno più certezza degli investimenti effettuati negli ultimi anni in Italia di Vincent Bolloré. L’amico-nemico francese che, sei anni fa, prima di avviare la campagna d’Italia, fu così premuroso da fare visita al santuario berlusconiano di villa San Martino di Arcore per un pranzo con il solo Pier Silvio.

Per la rete unica (o neutra) il governo dovrà sincronizzare le attese e le pretese di Enel, Telecom, Open Fiber, Cassa depositi e prestiti. Il Fatto, per iniziare, ha chiesto a Vivendi se ha intenzione di mettere in discussione una parte della sua quota in Telecom in una trattativa con Mediaset: “No comment”, ci hanno detto. Si rivolga a Vivendi, anzi per correttezza, in un’occasione informale e conviviale, Berlusconi suggerisca di sottecchi ai figli Marina e Pier Silvio di suggerire a loro volta ai “legali incaricati” di approfondire i propositi di Bolloré.

Una complessa e ambiziosa operazione di sistema si avvicina, Berlusconi preferisce sbraitare all’opposizione con gli alleati di destra o mantenere “un comportamento costruttivo”? La seconda, ci fidiamo. I masochisti distruggono le cose a cui tengono.

3. Va dato atto a Berlusconi di aver innovato la politica sfornando esilaranti deputati o senatori “responsabili” che in passato hanno strappato da morte certa i suoi governi. Adesso è il capo Silvio che funge da “responsabile”. Nemesi. E in che consiste la responsabilità se non in una truppa di senatori pronti a sorreggere la maggioranza dell’esecutivo di Conte?