“Al governo offro la nostra collaborazione istituzionale”

La ricostruzione pubblicata oggi dal quotidiano Il Fatto, relativa ad un nesso causale fra le scelte politiche di Forza Italia e un possibile interessamento del gruppo Mediaset alla partecipazione ad una costituenda società a controllo pubblico per gestire la rete per Internet a banda larga, è destituita di qualsiasi fondamento. Al riguardo, si precisa quanto segue:

1) Dal 1994, con l’abbandono di tutte le cariche sociali, il Presidente Berlusconi non si occupa in alcun modo delle scelte strategiche né di quelle operative delle aziende da lui fondate. Tantomeno quindi ha mai fatto dipendere o in qualsiasi modo collegato le proprie scelte politiche a considerazioni che riguardano le aziende.

2) Non vi è del resto – la notizia è di pubblico dominio – alcun interesse del gruppo Mediaset a una partecipazione come quella ventilata dall’articolo del Fatto, che non rientra assolutamente negli obbiettivi del gruppo. Mediaset è un gruppo che si occupa di creazione e diffusione di contenuti di informazione, cultura e intrattenimento su diversi supporti. La gestione dell’infrastruttura non è di alcun interesse strategico per l’azienda.

Per quanto attiene poi la questione del rapporto con Vivendi essa è validamente seguita da parte dei legali incaricati da Fininvest e Mediaset senza che – anche in questo caso – il Presidente Berlusconi interferisca o partecipi in alcun modo.

3) Non vi è comunque, né da parte del Presidente Berlusconi, né del Movimento Politico Forza Italia alcuna disponibilità a fornire un sostegno politico al governo Conte. La disponibilità alla collaborazione istituzionale, già espressa nella storia di Forza Italia nei confronti dei governi in carica, qualunque essi siano, nei momenti in cui sono in gioco vitali interessi nazionali, non ha in alcun modo il significato di una partecipazione o di un atteggiamento benevolo, oggi o in futuro, verso l’attuale maggioranza o verso altre formule politiche incoerenti con la volontà degli elettori. Al contrario, Forza Italia, pur mantenendo un comportamento responsabile e costruttivo, è in prima linea nell’evidenziare l’inadeguatezza dell’attuale esecutivo e della formula politica che lo sostiene e nel chiedere di restituire la parola agli italiani.

Possibile che ci siamo dimenticati chi è?

AmbizioniIl miraggio del colle. Non può valere l’avvilimento

Se suoniamo inni alla conversione di Saulo di Tarso, perché prendersela col cattolicissimo Romano Prodi che ha conosciuto la sua folgorazione a Bologna anziché a Damasco? Peccato che nel suo caso la metànoia prenda per messia il pregiudicato che per i crimini acclarati in via definitiva ha pagato con alcune visite a un istituto per vecchietti, molestati incolpevolmente, e per molti altri, riconosciuti ma prescritti, abbia potuto fare agli italiani il pernacchio di Alberto Sordi ai “lavoratoriiii …”. Quel caimano (Franco Cordero dixit, genio cui gli intellettuali senza servitù volontaria dovrebbero ispirarsi) che ha provato ad affossare in regime la democrazia in Italia (legittimando i neo-ex-post fascisti e incubando il morbo salviniano), fermato solo da gigantesche e ripetute manifestazioni di piazza, cui fu sempre estraneo come ogni D’Alema, non certo dall’avvitarsi dell’Ulivo in alleanza con Mastella (nel governo Prodi ministro della giustizia!). Il miraggio del Quirinale vale la messa di tanto avvilimento?

Paolo Flores d’Arcais

 

Riabilitazioni sarebbe un guaio. Dargli patenti di onorabilità

In generale è positivo che nelle democrazie i partiti e i movimenti siano coinvolti nel sistema, ma la distinzione tra maggioranza e opposizione è importante. C’è bisogno di un pezzo in più per rafforzare la maggioranza? E se sì, con quali criteri? Berlusconi da tempo si offre per entrare in maggioranza differenziandosi dagli altri leader del centrodestra. Ma il motivo è chiaro: lui vuole essere pienamente legittimato dal centrosinistra e dal M5S che lo hanno sempre combattuto perché ha in mente una prospettiva sul suo futuro. Berlusconi vuole recuperare rispettabilità e onorabilità. Questo solo per essere senatore a vita o presidente della Repubblica? Avrei un giudizio estremamente negativo se Berlusconi entrasse in maggioranza: la renderebbe peggiore e non migliore per due motivi. Sia perché ci sarebbe una parte politica in più che ha l’interesse a condividere il denaro che arriverà dall’Europa e sia perché così facendo cercherebbe un’accettazione dalla sinistra. È una manovra che non mi convince, penso che non ne abbiamo bisogno.

Nadia Urbinati

 

Ultima spiaggiaMeglio stia fuori. Ma occhio ai barbari alle porte

Premetto che con Romano Prodi ho sempre avuto un ottimo rapporto dai tempi di Eurojust, la struttura di coordinamento delle attività transnazionali di investigazione contro il crimine organizzato. L’appoggio che Prodi, allora presidente della Commissione, dava al nostro lavoro fu estremamente importante e per me, rappresentante italiano, era una valorizzazione quotidiana. Di Silvio Berlusconi, anche se ormai molto tempo è passato, ricordo quando la sua maggioranza parlamentare varò in fretta e furia una legge definita “anti-Caselli” con la quale fui tagliato fuori dal concorso per la nomina del nuovo Procuratore Nazionale Antimafia. Una legge poi dichiarata incostituzionale con la quale mi si voleva “punire” per aver fatto il processo Andreotti. Venendo ora alla prospettiva di Prodi, in linea di principio sarei contrario, ma se fosse assolutamente necessario, per contrastare la crisi post-virus che potrebbe spingere i “barbari” alle nostre porte, allora… primum vivere. La mia speranza è che non succeda mai.

Gian Carlo Caselli

 

Senza pudoreIL centrosinistra. Ha già sbagliato: niente patti 

Sono arrabbiato ma non stupito dall’uscita di Prodi: ora si dice anche quello che un tempo ci si limitava a fare. Che il centrosinistra di Prodi fosse ambiguo con Berlusconi è cosa nota. Basti pensare alla mancanza di una legge sul conflitto d’interessi e all’assenza di una visione culturale alternativa. Quello di Prodi è stato un centrosinistra di destra, che ha smontato lo Stato, facendo cose che avrebbe voluto fare Berlusconi. Se uno oggi col bianchetto cancellasse i proponenti delle leggi dei governi Prodi e Berlusconi, farebbe difficoltà a capire di chi fossero. Trovo molto grave l’ipotesi dell’ingresso di Berlusconi in maggioranza, dato che dietro di lui c’è un sistema di potere oscuro che tutti gli elettori del centrosinistra hanno sempre esecrato. Una cosa del genere la troverei inaccettabile sia da parte del Pd – ma non mi stupirei – che dal Movimento 5 Stelle. In quel caso gli elettori grillini rincorrerebbero i propri dirigenti con i forconi. Non mi stupirei se ci fosse un patto per fare Prodi presidente della Repubblica e Berlusconi senatore a vita.

Tomaso Montanari

 

Impresentabileda Ruby alla Libia. I democratici stiano alla larga

Silvio Berlusconi, personaggio noto nel mondo per le sue feste con le minorenni, l’amicizia fraterna con il dittatore libico Gheddafi e la costante e importante evasione ed elusione fiscale nel suo Paese va ricordato dagli italiani per tre ragioni. Primo: ha attentamente e alacremente frantumato i valori comuni su cui si reggeva il consenso italiano. Secondo: ha iniziato una stagione di acquisto aperto e provato di parlamentari che ha tolto ogni credibilità e prestigio al Parlamento. Terzo: ha iniziato uno spostamento radicale e mai discusso della politica estera italiana, che dura e si sviluppa tuttora nel disordine politico che il berlusconismo ha creato. È stato condannato a quattro anni di reclusione per un reato finanziario, è stato espulso dal Senato e dai titoli di cui godeva. Queste ragioni hanno proibito ogni accesso, per vent’anni, ai media di Stato e veniva chiamato “berlusconismo viscerale”. L’accusa è tuttora in corso. Dovrebbe impedire a ogni democratico ogni accostamento sociale e politico con il predetto.

Furio Colombo

 

Cibo scaduto Non scordiamoci che è l’antenato dei due Matteo

Prodi è una brava persona e un uomo intelligente. Ciò detto, questo aprire la porta al suo carnefice politico Berlusconi – sindrome tardiva di Stoccolma? – è un’opzione vomitevole e irricevibile. In primo luogo, con la vecchiaia migliorano solo quelli che erano già migliori prima: Eastwood può giganteggiare, Berlusconi no. C’è poi un aspetto che tutti dovrebbero aver capito, almeno a sinistra, ma non è così: nulla ha fatto danni come il berlusconismo. È da lì che derivano perversioni ora morte (renzismo) e ora vegete (salvinismo). Se l’unico modo per sopravvivere per questa maggioranza fosse baciare Gasparri e Brunetta, risulterebbe preferibile il suicidio brutale: molto meglio uscire di scena con orgoglio che tirare a campare a tutti i costi. Questa rivalutazione postuma del berlusconismo fa vomitare, e dunque va benissimo per i Bechis e i Senaldi: certi cibi scaduti, il buon Prodi, li lasci ai giuggioloni di terza fila.

Andrea Scanzi

Prodi: “Silvio non è tabù” Ma lui: “Arriva tardissimo”

“Chi l’avrebbe mai detto? Invece la politica è sempre in evoluzione. E dopo molti anni quelli che sono stati nemici giurati possono usare parole di stima reciproca…”. Sorride Osvaldo Napoli, forzista di lungo corso, di fronte all’uscita di Romano Prodi che, alla festa di Repubblica, ha aperto all’ingresso del partito berlusconiano in maggioranza. Lo stesso B. però fa trapelare che si tratta di un “riconoscimento tardivo”. In ogni caso: “Non è più un tabù. Come ho già detto di Berlusconi, la vecchiaia porta saggezza e qualche cambiamento nella composizione della coalizione di governo non mi sorprenderebbe…”, ha detto il Professore. Bum. Ma come, proprio lui, Prodi, che sdogana il Caimano, l’avversario di sempre, quello che nel 2008 fece cadere il suo governo comprandosi il senatore De Gregorio? E invece è successo, facendo trasalire gran parte dei 5 Stelle e un pezzo di Pd, ma non tutti gli altri. Ovvero quelli che già danno per scontato un supporto forzista al governo Conte, come Matteo Renzi e Carlo Calenda. “Dopo il consiglio europeo si entrerà in una fase nuova, dove le idee e i valori di Forza Italia possono essere di grande utilità”, osserva il capogruppo del Pd in Senato Andrea Marcucci, che deve fare i conti coi numeri risicati a Palazzo Madama.

Le parole di Prodi, del resto, arrivano proprio dopo quelle dell’ex Cavaliere che, la settimana scorsa, aveva aperto alla possibilità di una nuova maggioranza. Parole che poi l’ex premier è stato costretto a correggere, ma che hanno lasciato il segno. “Prodi ha detto quello che Zingaretti e Berlusconi non possono dire. Ma se è stato così esplicito, deve aver avuto i suoi buoni motivi…”, fanno notare dal Pd. Insomma, “lui è uno che non parla mai a caso”. “Quello di Prodi è un atto di serietà e coraggio, forse un primo vagito di pacificazione politica. Qualcuno dirà che punta al Quirinale, ma io non credo”, dice l’azzurro Giorgio Mulè. Prodi vuol ritentare la scalata al Colle dopo il disastro dei 101? Difficile. Perlomeno, lui l’ha sempre escluso.

Il problema, però, non è il Quirinale. Quello semmai sarà solo l’ultimo tassello di una possibile intesa che prima passerà per il voto sul Mes, il rapporto con l’Europa e la risposta alla crisi. “Fino alle Regionali non succederà nulla. Ma il 21 settembre le forze responsabili ed europeiste saranno costrette a interloquire tra loro…”, aggiunge Napoli. “Berlusconi non ha alcuna intenzione di entrare nel governo”, taglia corto Matteo Salvini. “È molto divertito da questo endorsement”, ha rivelato Giorgia Meloni. Sarà. Ma i rapporti tra i tre leader restano pessimi.

Ingorghi in Liguria: adesso indagano i pm di Genova

La Procura di Genova indaga sugli ingorghi che mettono in ginocchio la Liguria. Mentre il governatore Giovanni Toti annuncia che presenterà una richiesta di danni.

Ormai la Liguria è paralizzata. Le interruzioni autostradali non accennano a ridursi, anzi, dovrebbero aggiungersi nuove chiusure che andranno ben oltre il termine del 10 luglio. Un caos totale: il traffico dei genovesi, quello del porto e dei turisti. Risultato: code di decine di chilometri, fino a sei ore per andare da Sanremo a Genova. Disagi e sofferenze (sotto il sole a 30 gradi), ma anche giornate di lavoro perse. E il rischio di tracollo per l’economia ligure: da un lato la fuga dei turisti, dall’altro operatori marittimi che dirigono altrove le navi. Danni da miliardi. La Liguria non ce la fa più: i disagi sono cominciati a ottobre, ma nelle ultime settimane la situazione è esplosa. Il tutto condito da un’informazione inadeguata che lascia gli automobilisti in balia dei cantieri (spesso deserti), persi in autostrade senza uscite per decine di chilometri.

Così sono partiti esposti alla Procura, da quello delle pubbliche assistenze che gestiscono le ambulanze a quello del governatore. Toti ha evidenziato che “le modalità di programmazione e effettuazione dei lavori sembrano improntate principalmente alla tutela di una accezione ‘strutturale’ di sicurezza, legata cioè esclusivamente alla stabilità dell’infrastruttura, senza considerare che la sicurezza deve essere anche valutata nella sua accezione ‘funzionale’”. Lo scontro è anche politico, a due mesi dalle elezioni regionali. Toti spara a zero contro il governo arrivando a ipotizzare un complotto: “Perché succede solo in Liguria? Qualcuno vuole penalizzare la nostra regione?”. Da Roma si ribatte che le chiusure non erano rinviabili, questione di incolumità. Secondo gli ispettori del ministero delle Infrastrutture, per anni controlli e manutenzione sono stati insufficienti, se non inesistenti: “I nostri ingegneri – riferiscono fonti ministeriali – hanno ispezionato i 285 tunnel della rete ligure, trovando anomalie su decine di opere”. A questo si aggiungono gli allarmanti report dei tecnici incaricati dalla procura di esaminare i viadotti: “Su questi ponti non farei passare mio figlio”, aveva detto al Fatto un ingegnere. Viste le condizioni della rete gestita da Aspi, ci si è trovati davanti un bivio: diluire le chiusure per non far impazzire il traffico o imporre interventi immediati per evitare il rischio di tragedie come il Morandi. Si è scelta la seconda strada.

Il governo è al bivio. Trattativa in salita: 5S decisi, Pd diviso

L’avvocato che fa il premier ha dato l’ultimatum ad Autostrade. Entro domenica, o al massimo lunedì mattina, vuole un Consiglio dei ministri sulla concessione, dove lui e i partiti dovranno decidere cosa fare, dopo aver rinviato troppe volte quella grane. Ma se Giuseppe Conte non troverà un punto di caduta nella sua frammentata maggioranza l’ultimatum potrebbero recapitarlo a lui. “Su questa storia può cadere un governo, a forza di rinviare ecco come ci siamo ritrovati” sibilano dalla pancia dei Cinque Stelle in un giovedì di afa e cattivi pensieri nella Roma dei Palazzi. E l’avvertimento è tutto per Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio su cui il M5S continua a riversare sospetti. “Perché oggi sui giornali spiegava di attendersi proposte da Aspi, perché pensa di tenere i Benetton dentro la futura gestione?” si chiedono i 5Stelle.

Tradotto, il premier non pensasse neanche di proporre ad Autostrade una semplice riduzione delle sue quote azionarie, magari cedendone parte a Cassa depositi e prestiti. “Non dobbiamo avere paura di prendere decisioni nette su Aspi” riassume Luigi Di Maio. Un messaggio innanzitutto per Conte, che non a caso in serata a palazzo Chigi riceve il capo politico reggente del M5S Vito Crimi e il viceministro al Mit Giancarlo Cancelleri: innanzitutto per rassicurarli sulla revoca e sulla questione quote. Ma le parole di Di Maio valgono anche per il Pd, che tiene bassi i toni, temendo che un movimento brusco faccia saltare tutto. Mentre Matteo Renzi va diritto: “Dopo due anni non si può continuare ad urlare revocheremo o cacceremo i Benetton, perché è impossibile da farsi”.

I dem hanno una linea abbastanza precisa. Il punto è convincere Autostrade ad accettare condizioni che ci tengono a definire “capestro”. La revoca a loro pare l’ultima spiaggia obbligata, mentre il vero obiettivo è ottenere dai Benetton più soldi possibile. Dunque a Aspi chiedono di accettare un nuovo sistema tariffario, molto meno vantaggioso di quello previsto dalla attuale concessione; una transazione che preveda 3 miliardi di investimenti aggiuntivi; e poi vogliono opere, manutenzioni gratis, penalità più alte per i ritardi. Non solo: sul tavolo c’è anche l’entrata di Cdp nel capitale societario, che porti i Benetton ad avere meno del 40%. Proprio questo è un punto ad oggi indigeribile per il Movimento. Però i dem temono non solo che i Benetton possano vincere in sede giudiziari, ma anche le conseguenze di un improvviso passaggio di mano della società. Il più possibilista rispetto a un’eventuale revoca è il sottosegretario all’Ambiente, Roberto Morassut, comunque cauto: “Dalla gestione di Autostrade per l’Italia sono emerse gravi inadempienze: il governo ha il diritto di valutare la possibilità di una revoca o di una radicale revisione delle concessioni”. Ma in mattinata aveva avvertito che “il rischio contenzioso a danno dello Stato è elevato”.

Non è un caso che Morassut sollevi questioni tecniche. Perché il Pd non si vuole impiccare a una battaglia ideologica: “Per decidere sulla revoca bisogna basarsi su come si è comportata Autostrade, sui dati tecnici. Ed è una cosa che ci deve dire il governo”, fanno sapere dal Nazareno. Il problema è ancora una volta la “palude”. Ma se Roberto Gualtieri (Mef) e Paola De Micheli (Mit) stanno conducendo una trattativa serratissima con i vertici di Autostrade, Nicola Zingaretti, in qualche modo si chiama fuori. Un modo anche per lasciarsi più di una via d’uscita e non arrivare a un muro contro muro. Anche perché far ingoiare ai Cinque Stelle sia la mancata revoca che il Mes è complicato. E non a caso ieri in diversi mettevano in correlazioni le due vicende, evocando possibili agguati o inciampi in Aula nei prossimi giorni. Così una fonte di governo del M5S indica una possibile via: “A noi per reggere ora serve almeno la revoca parziale, cioè quella del tratto ligure. Quanto alla quota azionaria dei Benetton, magari ci si potrà lavorare con più calma in una secondo momento”. Magari: se Conte e la sua maggioranza non si saranno fatti male prima.

Entro domenica Aspi deve alzare l’offerta “O scatterà la revoca”

Nel braccio di ferro tra governo e Autostrade per l’Italia, arrivati al dunque, la politica scompare. E così tocca ai tecnici recapitare l’ultimatum al concessionario controllato dalla Atlantia dei Benetton: entro domenica dovrà consegnare una proposta “vantaggiosa per lo Stato”, altrimenti scatterà la revoca. Tre giorni, 72 ore per decidere. Il governo la valuterà nel Consiglio dei ministri ipotizzato già per lunedì, visto che – a due anni dal disastro del ponte Morandi di Genova – adesso ripete di “voler accelerare”, mentre la città si prepara a inaugurare il nuovo ponte che sarà riconsegnato ad Aspi se non si decide altrimenti.

Al tavolo al ministero dei Trasporti si trovano gli uomini che da mesi negoziano sul dossier a livello informale. Da una parte i capi di gabinetto del Mit e del Tesoro, Alberto Stancanelli e Luigi Carbone, e il segretario generale di Palazzo Chigi Roberto Chieppa. Dall’altra gli amministratori delegati di Autostrade e Atlantia, Roberto Tomasi e Carlo Bertazzo. I tecnici chiariscono a voce che l’offerta spedita da Aspi nei mesi scorsi per chiudere la ferita del Morandi è “insufficiente”. Sempre a voce (mai nulla è messo per iscritto) viene dettata la richiesta: alzare l’offerta economica, soprattutto sul lato delle tariffe. Tecnici e uomini di Atlantia decidono di non parlare dell’altro punto considerato dirimente fino a ieri: la cessione della quota di controllo di Autostrade da parte della holding dei Benetton e considerata, soprattutto dai 5Stelle, una condizione inderogabile per evitare la revoca.

Aspi finora ha offerto 2,9 miliardi. Di questi, però, solo 1,5 sono effettivi, destinati alla “riduzione delle tariffe”. Spalmati sui 18 anni di concessione, valgono un taglio di poco più del 2% annuo, molto poco per una concessione che è una miniera d’oro. Il governo ha chiesto di alzarlo di molto (intorno al 4%). E di accettare il nuovo sistema tariffario dell’Autorità dei Trasporti. Quest’ultimo è un altro colpo per Aspi, visto che prevede la remunerazione (attraverso i pedaggi) solo degli investimenti davvero avviati e scarica sul concessionario i rischi in caso di calo del traffico (se invece aumenta, la tariffe deve scendere). I tecnici del governo, però, chiedono di migliorare anche l’offerta sulle misure compensative per il disastro del Morandi e sanzioni in caso di inadempimenti su controlli e manutenzioni. Quest’ultime dovranno anche salire rispetto ai 700 milioni in 5 anni offerti da Aspi. In totale, le richieste valgono almeno un altro miliardo e mezzo. E i Benetton dovranno anche rinunciare a qualsiasi contenzioso. Gli uomini di Atlantia lasciano il tavolo promettendo di inviare un’offerta “sostenibile” per il bilancio di Autostrade, zavorrata da quasi 9 miliardi di debiti e non più in grado di contrarre prestiti finché non si risolve il dossier.

La controproposta del concessionario sarà valutata dal Consiglio dei ministri, che in quell’occasione discuterà anche della cessione della quota di controllo da parte di Atlantia. Finora il premier Giuseppe Conte l’ha posta come misura inderogabile (da mesi si parla di un ingresso della Cassa depositi e prestiti e altri investitori). Ieri è stata tenuta fuori dalla riunione, scatenando la rabbia dei 5Stelle, ma non poteva essere altrimenti visto che senza un accordo sulle tariffe e l’indennizzo per il Morandi non è possibile fissare un prezzo per la quota di controllo di Aspi che Atlantia deve cedere.

Gli uomini della holding controllata dai Benetton valutano infatti il concessionario a prezzo pieno, 14 miliardi, e quindi per cedere il controllo ne chiedono 7. Il governo non andrebbe oltre la metà e in ogni caso i 5Stelle hanno posto il veto sull’ipotesi che sia la Cdp a liquidare Atlantia con soldi pubblici (per questo da ieri circola perfino l’ipotesi che lo Stato entri con un aumento di capitale riservato).

Il Movimento, però, si è compattato sulla linea della revoca a tutti i costi e ha già recapitato il diktat a Conte (ieri in serata si è tenuto un vertice a Palazzo Chigi), forte anche della sentenza della Consulta che ha giudicato non illegittima la decisione di estromettere Aspi dalla ricostruzione post Morandi.

Nessuno si sente più di escludere l’ipotesi. Il Pd, che pure non si è mai convinto del tutto, fa sapere di essere pronto ad adeguarsi. Pienamente contrari restano solo i renziani di Italia Viva.

Promemoria/1

Romano Prodi, alla festa del quotidiano che in tempi ormai remoti fu la palestra dell’antiberlusconismo, in piena sindrome di Stoccolma, assicura che non avrebbe nulla in contrario a un governo con Silvio Berlusconi e tutta Forza Italia, perché “la vecchiaia porta saggezza”. Non specifica se la porti a lui o a B.. Ma, a parte l’età (che non è sinonimo di amnistia o prescrizione) e la saggezza (che non ci pare caratterizzare né lui né B.), restano alcune faccenduole stampate su libri di storia e sentenze definitive che parrebbero vagamente ostative all’ingresso di B. al governo.

1973. Silvio B. soffia Villa San Martino ad Arcore a un’orfana minorenne, Annamaria Casati Stampa, pagandola una miseria (per giunta in azioni di sue società non quotate: valore zero) grazie ai buoni uffici del protutore della ragazza, l’avvocato Cesare Previti, figlio di uno dei suoi amministratori-prestanomi.

1974-1976. B. ospita nella villa Vittorio Mangano, un mafioso palermitano della famiglia di Porta Nuova con vari precedenti penali, Vittorio Mangano, poi definito da Paolo Borsellino “testa di ponte della mafia al Nord”, travestito da “stalliere”: glielo aveva presentato l’amico siciliano Marcello Dell’Utri, poi condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa, durante un incontro a Milano alla presenza di Stefano Bontate, capo di Cosa Nostra, e di altri boss del calibro di Francesco Di Carlo e Mimmo Teresi e del mafioso Gaetano Cinà. Mangano restò nella villa nonostante vi avesse organizzato un sequestro di persona, un paio di attentati dinamitardi contro un’altra residenza berlusconiana e vi fosse stato arrestato ben due volte.

1975-1983. Nelle società finanziarie che controllano la Fininvest (denominate “Holding Italiana” e numerate dalla 1 alla 37) confluiscono 113 miliardi di lire (pari a 300 milioni di euro) di provenienza misteriosa, in parte in contanti. Negli stessi anni – secondo il finanziare Filippo Alberto Rapisarda, vari pentiti e il boss Giuseppe Graviano – Cosa Nostra entra in società con la Fininvest per le attività edilizie e televisive.

1978. Sivio B., presentato al maestro venerabile Licio Gelli dal giornalista Roberto Gervaso, si iscrive alla loggia P2 (poi sciolta dal governo Spadolini in quanto illegale ed eversiva) con la tessera numero 1816 e il grado di “apprendista muratore”. E inizia a ricevere, per i cantieri di Milano2, crediti oltre ogni normalità da Montepaschi e Bnl, controllate entrambe da dirigenti piduisti; oltre a collaborare con commenti di economia e finanza al Corriere della sera, controllato dalla P2.

1980. Una soffiata lo avverte di un’imminente visita della Guardia di Finanza in casa Fininvest.

Così B. scrive una lettera all’amico segretario del Psi Bettino Craxi: “Caro Bettino, come ti ho acccennato verbalmente, Radio Fante ha annunciato che dopo la visita a Torno, Guffanti e Cabassi, la polizia tributaria si interesserà a me… Ti ringrazio per quello che crederai giusto fare…”.

1984. A maggio B. è indagato a Roma con altri cento dirigenti di tv private per antenne abusive e interruzione di pubblico servizio (interferenze con le frequenze dell’aeroporto di Fiumicino) e viene interrogato dal vicecapo dell’Ufficio Istruzione Renato Squillante. Lo accompagna il suo legale, Cesare Previti. Viene subito archiviato, mentre per molti altri imputati l’inchiesta si chiuderà solo nel 1992. Si scoprirà poi che B., Previti e Squillante hanno conti in Svizzera comunicanti. A ottobre i pretori di Torino, Pescara e Roma sequestrano gli impianti che consentono alle tre reti Fininvest di trasmettere illegalmente in “interconnessione”, cioè in contemporanea con l’effetto-diretta in tutta Italia e dispongono che rientrino nella legalità irradiando i programmi in orari sfasati da regione a regione. B. auto-oscura Canale5, Rete4 e Italia1 fingendo che i giudici gliele abbiano spente e lanciando la campagna “Vietato vietare” a cura del confratello piduista Maurizio Costanzo. Craxi vara un decreto per neutralizzare le ordinanze dei pretori e legalizzare l’illegalità dell’amico. Il decreto però non viene convertito in legge perché la Dc lo ritiene incostituzionale. Craxi ne vara subito un secondo, minacciando la crisi di governo in caso di nuova bocciatura.

1988. B. denuncia per diffamazione i pochi giornalisti che hanno osato recensire la sua biografia non autorizzata Inchiesta sul Signor Tv di Giovanni Ruggeri e Mario Guarino (Editori Riuniti). E, sentito come parte lesa dal Tribunale di Verona, racconta un sacco di frottole sulla sua adesione alla P2, datandola al 1981 (quando esplose lo scandalo) e negando di aver mai pagato la quota di iscrizione. Invece si iscrisse nel 1978 e pagò regolarmente a Gelli la quota di 100mila lire. Così, da parte offesa, diventa imputato di falsa testimonianza dinanzi alla Corte d’appello di Venezia. Che sentenzierà: “Il Berlusconi ha dichiarato il falso” e “compiutamente realizzato gli estremi obiettivi del delitto di falsa testimonianza”, ma “il reato va dichiarato estinto per intervenuta amnistia” (appena varata nel ’90). Spergiuro e impunito.

1989-’91. Socio di minoranza della Mondadori controllato dalle famiglie De Benedetti e Formenton (oltre al ramo libri, possiede il quotidiano Repubblica, una catena di testate locali, i settimanali l’Espresso, Panorama ed Epoca), B. convince i Formenton a violare i patti con l’Ingegnere e a cedere a lui le loro quote, diventando l’azionista n.1 e il presidente del gruppo. Un lodo arbitrale dà ragione a De Benedetti, ma B. lo impugna dinanzi alla Corte d’appello di Roma. E lì il giudice Vittorio Metta lo ribalta, regalando la Mondadori a B. Una sentenza definitiva accerterà che Metta è stato corrotto da Previti con 400 milioni di lire in contanti provenienti dai conti esteri della Fininvest (comparto occulto All Iberian). Previti e Metta saranno condannati, mentre B. “privato corruttore” se la caverà con la prescrizione. Tangentista e impunito.

1990. Craxi e Andreotti impongono alla maggioranza di pentapartito la legge Mammì, cioè la tanto attesa riforma antitrust del sistema radiotelevisivo. Peccato che non riformi un bel nulla, anzi fotografi il monopolio illegale di B. Infatti verrà chiamata “legge Polaroid”. Per protesta, si dimettono dal governo Andreotti i cinque ministri della sinistra Dc, fra cui Sergio Mattarella. Il divo Giulio li rimpiazza in una notte. Qualche mese più tardi, Craxi inizia a ricevere sui suoi conti svizzeri una cascata di soldi da quelli della Fininvest (comparto occulto All Iberian): per un totale di 23 miliardi in pochi mesi. Dagli stessi conti All Iberian, fuoriescono in quei mesi centinaia di miliardi di cui la magistratura non riuscirà a individuare i destinatari. Così, oltreché della carta stampata e dell’editoria libraria, B. si consacra padrone assoluto della tv commerciale.

E questo è solo l’antipasto.

(1 – continua)

Veneziani: “Racconto l’arte sui social, ma niente emoticon. E TikTok è ridicolo”

“Appena sono andato via dall’Italia per l’università, ho iniziato a perdere quell’abitudine che sviluppiamo alla bellezza del nostro paesaggio e del nostro patrimonio artistico. Mi è venuta come una specie di mancanza”. Così a Jacopo Veneziani – giovane professore e dottorando in Storia dell’arte alla Sorbona di Parigi – è balenata l’idea di #Divulgo, un hashtag con cui iniziare cioè a raccontare la Storia dell’arte su Twitter. Faccia pulita, occhio brillante e tono pacato (niente dunque a che vedere con balletti o tutorial per il trucco da pista da ballo), Jacopo è un colto affabulatore che scova curiosità, dettagli sommersi, e che offre “uno sguardo straniero sulla bellezza italiana,” precisa, “per non farla svanire nell’abitudine quotidiana”. Oggi, le sue storie sono finite dentro Divulgo (Rizzoli, 192 pagine, euro 25)

Da lui dovrebbero imparare i social-media manager (un po’ improvvisati) dei musei che si sono trovati impreparati di fronte alla richiesta di virtualità durante il confinamento. “Prima la comunicazione sui social veniva vista come frivola e non necessaria. Adesso ci devono fare i conti, ma molti sbagliano. Mettere un contenuto sul web non lo rende in automatico digitale: deve essere pensato totalmente per il pubblico virtuale, e cioè interattivo, agile e con il giusto linguaggio. Una riflessione è necessaria per il sistema culturale italiano al fine di implementare la sinergia tra la fruizione virtuale e quella di presenza, che non devono essere in opposizione ma complementari. Al momento, però, i musei italiani non sono ancora pronti”.

Ci vuole molta preparazione e senso della misura. Veneziani in questo è chiaro: “Quello che dico sempre è che sul web solo la realtà è virtuale, le persone restano sempre reali”. E in riferimento alla querelle di qualche giorno fa accesa dallo storico dell’arte Tomaso Montanari (anche in veste di presidente del Comitato tecnico scientifico per le Belle Arti del Mibact), secondo cui l’ingresso delle Gallerie degli Uffizi sul social TikTok è una “ridicolizzazione dell’arte” oltre che un “inutile volgarità”, Veneziani sostiene che: “L’arte, essendo universale, più persone raggiunge meglio è. Ben vengano allora i social. Però le piattaforme devono essere etiche e, soprattutto, la comunicazione deve esser data a professionisti che non trasformino le opere d’arte in feticci, come direbbe Antonio Natali (ex direttore del museo fiorentino), svilite in un’emoji priva della sua pregnanza storica”.

Yoga, arricciacapelli e piante: debuttano i Queen “pecoroni”

Una tesi sulla “polvere zodiacale” nel cosmo. Il giovane studente Brian May ci stava lavorando già nel 1968. Prese il dottorato 39 anni più tardi, quando la sua zucca ormai grigia lo consacrava come un credibile astrofisico, collaboratore pure della Nasa. Peccato che Brian fosse più bravo con la chitarra: lo sapevano tutti all’Imperial College, dove il ragazzo si stava dando da fare per ingaggiare bei nomi del rock perché suonassero lì: prese nella rete anche Jimi Hendrix. Ma far parte del Comitato Ricreativo non bastava a May: voleva salirci lui sul palco del nuovo isolato dell’università che troneggia fra le strade eleganti di Kensington.

Ci riuscì il 18 luglio 1970, con il suo gruppo maliziosamente ribattezzato Queen, come proposto dal nuovo frontman Frederick Bulsara, che per sé aveva scelto il cognome d’arte Mercury, da messaggero degli dei. Freddie trovava “dannatamente regale” il marchio Queen. Alle 20 di quella domenica, nella sala conferenze del College londinese, il debutto andò a gonfie vele, primo atto di una carriera da trecento milioni di dischi culminata nella conquista dell’orbe terracqueo in mondovisione a Wembley, la presa del potere del Live Aid, 16 luglio 1985.

C’è una placca della Performance Rights Society sulla facciata dell’Imperial, a ricordare l’evento di cinquant’anni fa. E da oggi i filatelici britannici potranno accaparrarsi i francobolli della Royal Mail con su effigiate le copertine degli album dei Queen e le foto dei quattro membri storici del gruppo, un omaggio concesso a poche altre superstar: i Beatles, i Pink Floyd, David Bowie. Ed Elton John, al quale è adesso dedicata anche una moneta da collezione.

Attenzione: gli studiosi di Mercury & Co. disquisiscono da sempre su quale sia stato il vero esordio in concerto, in quel 1970. Gli annalisti concordano formalmente sul 18 luglio a Londra, nel College che affaccia su Prince Consort Road. Ma un vernissage interlocutorio c’era già stato il 27 giugno nella remota Cornovaglia: non si chiamavano Queen, erano ancora gli Smile, chiamati a onorare un ingaggio nel municipio di Truro. Finalmente Freddie conquistava il centro della scena, al fianco di Brian May e del batterista Roger Taylor. Al basso (John Deacon sarebbe arrivato solo nell’estate ‘71) si disimpegnava Mike Grose, che aveva sostituito il membro fondatore, l’incauto Tim Staffell, in grado pure di cantare, andatosene per altre strade prima dei giorni della gloria, salvo poi pentirsene a vita. A Truro gli Smile con Freddie proposero pezzi come Stone cold crazy e Father to son che sarebbero finiti negli album dei Queen, più assortite cover di Elvis e Little Richard. Il cachet era di cinquanta sterline: buona paga, i musicisti si sentivano “ricchi”, e del resto quello era un benefit per la Croce Rossa.

A coinvolgere i ragazzi era stata Win, la mamma di Roger. Il figlio aveva studiato lì, dove l’aria sa di salsedine e di racconti di pirati, e la provincia è troppo noiosa perché un ragazzetto non si sfoghi dietro i tamburi. Win mise un annuncio su un paio di giornali per strombazzare lo show degli Smile, che godevano di un discreto seguito. Il più eccitato era Freddie, che da tempo ronzava attorno alla band aspettando la sua chance. La colse al volo, dopo aver chiesto alla fan Sue Johnstone, interpellata alla fermata del bus, cosa ne pensasse del nome Queen. Peccato che gli annunci fossero già stampati: per quella volta era più sensato profittare della relativa fama degli Smile. Alla vigilia dello show Freddie trovò ospitalità a casa Johnstone: Sue e la sorella gli fecero posto in soffitta; l’eccentrico cantante vi passava ore facendo esercizi yoga a testa in giù, acconciandosi la chioma con l’arricciacapelli delle amiche. Papà Johnstone rimbrottò le figlie, salvo poi ricredersi quando Freddie lo aiutò a innestare piante nel giardino. Lo spettacolo in municipio andò alla grande: di nero vestiti, illuminati da due misere luci, gli Smile pomparono rock in modo grezzo ma efficace, Freddie stava già costruendo il suo personaggio da travolgente istrione. Taylor lo ricorda, in quella sera, come “un pecorone energico”. Dalla Cornovaglia al pantheon degli dei, passando per l’Imperial College.

Mezzo secolo dopo, quel che resta dei Queen ipotizza un album live celebrativo con il cantante “ospite”, Adam Lambert, che non potrà mai essere accostato a Mercury. E poi ci sono i francobolli, per altri tipi di album. Le lettere, oggi, non le spedisce più nessuno.

Singer contro Singer. Israel e Isaac: fratelli coltelli

Se qualcuno nomina le sorelle Brontë, dire che era più bravo il fratello Branwell. Se qualcuno nomina Giorgio de Chirico, dire che era più bravo il fratello Alberto Savinio, come scrittore e come pittore. Se qualcuno nomina Isaac B. Singer, dire che era più bravo il fratello Israel, anzi la sorella Esther. In un ipotetico manuale di conversazione letteraria, quello dei fratelli o sorelle meno conosciuti ma più bravi costituisce un filone di sicuro successo, dal vago sapore snobistico.

In Italia, oltre ai De Chirico, ci sono i Pontiggia. Giampietro, fratello meno noto di Giuseppe, ha cambiato nome diventando Giampiero Neri e affermandosi come poeta. È ancora vivo e a novanta e passa anni considera il fratello “un grande letterato, ma uno scrittore incompiuto”. Ambisce a terminare la vita con un solo libro in casa, mentre l’altro ha lasciato un’eredità di 50.000 volumi.

Per i Singer in Italia la situazione si è rovesciata da quando Adelphi ha pubblicato nel 2013 La famiglia Karnowski, un caso editoriale grazie al tocco magico di Roberto Calasso e alle grandi doti narrative di Israel J. Singer, fratello maggiore – in senso anagrafico – del premio Nobel Isaac. E siccome quest’ultimo era finito in un momento di relativa oscurità, nella ciclica alternanza di polvere e luce che tocca la vita post mortem di tutti gli autori, si può concludere che il meno conosciuto a livello mondiale (Israel) qui è il più conosciuto.

Per non fare torto a nessuno, ma soprattutto fare catalogo, Adelphi sta portando avanti anche la pubblicazione di Isaac (sempre a cura di Elisabetta Zevi) mentre, con il successo, su Israel è arrivata anche Newton & Compton, per la serie “I capolavori”, nonché Emons. La famiglia Karnowski esiste infatti anche in versione audiolibro, letto molto bene, persino nei molti nomi e termini yiddish, polacchi e tedeschi, da Paolo Pierobon. Isaac si difende con Nemici. Una storia d’amore, (“Ad alta voce”, Radio Tre).

I rapporti di forza tra Isaac e Israel non si sono invertiti, ma a dirla tutta sono tornati verso il valore iniziale. Isaac è cresciuto all’ombra di Israel nella Polonia tra le due guerre. Sarà lui a chiamarlo a New York e a farlo collaborare con riviste yiddish, introducendolo nel mondo letterario, come già era accaduto a Varsavia. Isaac deve a Israel non solo i primi passi nella scrittura, ma forse la vita tout court perché restare poteva voler dire morire. Solo dopo la scomparsa di Israel, avvenuta nel ’44, il futuro premio Nobel Isaac oserà uscire allo scoperto. Nel ’50 pubblica il suo primo romanzo di successo, La famiglia Moskat, nel solco evidente delle grandi saghe ebraiche del fratello maggiore, La famiglia Karnowski e La famiglia Ashkenazi. Non smetterà mai di riconoscere il suo debito e sarà sempre vicino al nipote, cioè al figlio di Israel, utilizzandolo come traduttore.

C’è un racconto in cui Isaac rievoca la grande curiosità provata per un caso di trigamia approdato alla corte rabbinica del padre. Per ascoltare la storia senza dare nell’occhio – era troppo piccolo per contaminarsi con i peccati del mondo – ha fatto finta di leggere un libro. Nessuna ricostruzione a posteriori di un’infanzia tra i classici, ma un volume usato come copertura per ascoltare storie di vita. Far parte del “popolo del libro”, crescere in mezzo a storie di vita e malavita, ma anche agli stimoli spirituali del misticismo hassidico, essere l’ultimo testimone di un mondo in fase di cancellazione: difficile pensare a un terreno più fertile per la scrittura.

Più tormentata la sorte della sorella. Finita ad Anversa con il marito, il tagliatore di diamanti Avraham Kreitman, e poi sotto al bombardamento di Londra, chiede invano al fratello Isaac di aiutarla a trasferirsi negli Stati Uniti. Abbandonata dalla madre per tre anni a una balia, come primogenita e femmina badava ai fratelli e alla loro educazione, finendo relegata a un ruolo marginale. Sarà il modello di Yentl, la ragazza che voleva accedere all’educazione religiosa riservata ai maschi. In Italia Bollati Boringhieri ha pubblicato alcuni suoi titoli, tra cui L’uomo che vendeva diamanti e Debora. Non risulta che Isaac e Israel l’abbiano mai incoraggiata o aiutata letterariamente. Isaac le fa un complimento che oggi suonerebbe ambiguo definendola “best female Yiddish writer”… E le biografie notano come sul Forward, rivista yiddish per cui i fratelli scrivevano, mai sia apparsa una recensione a lei dedicata.