Ankara: “Sarraj è l’unico presidente”

L’esito del conflitto libico non si decide né nella capitale Tripoli, sede del Governo di Accordo Nazionale di Fayez al-Sarraj riconosciuto dall’Onu, né a Bengazi dove c’è il quartier generale del sempre più debole “uomo forte” della Cirenaica, Khalifa Haftar. Dipende invece da cosa si decide in Francia, Emirati Arabi, Egitto, Italia ma, soprattutto, in Russia e in Turchia. Ankara è dall’inizio dell’anno la più pragmatica alleata del governo di Accordo Nazionale Libico – ufficialmente riconosciuto come legittimo anche dall’Unione Europea – tanto da aver determinato l’attuale rimonta sul campo delle forze armate di Sarraj contro le milizie di Haftar, armate in primis da Mosca e sostenute in Europa dalla Francia. I giochi si fanno dunque al Cremlino e nella sfarzosa residenza del presidente Recep Tayyip Erdogan. Ed è proprio nella capitale turca che due giorni fa è volato il nostro ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, per discutere della questione libica con il suo omologo Hulusi Hakar, già Capo di stato maggiore del potente esercito turco, nonché tra gli uomini più fedeli a Erdogan. L’Italia, la principale alleata di Sarraj messa in ombra proprio dal pragmatismo turco, torna ora buona al Sultano per lanciare l’ennesimo monito alla Francia. Contando sul nervo scoperto tra Roma e Parigi per i pozzi petroliferi in Cirenaica che la Francia sta provando a sottrarre all’Eni attraverso Haftar, ma anche approfittando della comune appartenenza all’Unione Europea, il ministro Hakar ha detto al collega italiano che le accuse della Francia contro la Turchia sono inaccettabili. “Lavoriamo con il governo legittimo della Libia, presieduto da Fayez al-Sarraj, in conformità con il diritto internazionale. Per noi è quindi impossibile accettare le accuse della Francia di aver provocato una loro nave nel Mediterraneo orientale durante un pattugliamento Nato”. Guerini, da parte sua, ha ribadito che “è assolutamente necessario raggiungere un accordo per il cessate il fuoco duraturo che dia spazio e nuovo impulso al dialogo intra-libico, così come concordato alla conferenza di Berlino lo scorso gennaio”. Il titolare della Difesa ha concluso sottolineando che “non esiste una soluzione che veda una Libia divisa”. Serve avviare “un coordinamento strutturato tra i nostri assetti in Libia”, ha aggiunto il ministro. Come sta avvenendo per le attività di sminamento della Tripolitania. Intanto sul terreno continua l’avanzata delle forze di Sarraj grazie anche ai droni armati turchi. Dopo il fallito tentativo dei miliziani di Haftar di riconquistare la base aerea di al-Watiya domenica notte, un raid aereo sarebbe stato condotto due giorni fa su un obiettivo vicino alla base aerea di al-Jufra, nella parte centrale della Libia, controllata da Haftar. Per la Turchia “la base è il nuovo obiettivo insieme alla città di Sirte”. Buone notizie arrivano dalla Corte penale internazionale dell’Aja che ha approvato la richiesta di Serraj di indagare sulle presunte fosse comuni a Tarhuna e a sud di Tripoli.

Le spie cinesi all’assalto Fbi: un caso ogni 10 ore

Fox Hunt, caccia alla volpe, è il nome che l’Fbi ha dato a un programma della Cina per stanare e “neutralizzare” i dissidenti all’estero, minacciandone le famiglie: ai ricercati, è data un’alternativa, consegnarsi o suicidarsi. Ne ha diffusamente parlato all’Hudson Institute, think tank conservatore di Washington, il direttore della polizia federale degli Stati Uniti, Christopher Wray. Per l’Fbi, la Cina costituisce “la più grande minaccia a lungo termine” per il futuro degli Usa: Wray si colloca in perfetta sintonia con il presidente Donald Trump, che da mesi fa di Pechino il bersaglio dei suoi attacchi da campagna elettorale, alimentando un clima da Guerra Fredda del XXI Secolo. Contemporaneamente, il segretario di Stato Mike Pompeo denunciava come “orwelliano” un gesto di censura compiuto dal governo di Hong Kong – controllata dalla Cina – imponendo alle scuole d’eliminare dalle biblioteche i libri che potrebbero violare la nuova legge sulla sicurezza nazionale, e la canzone creata nel 2019 dal movimento democratico che male ispirerebbe gli studenti. Wray, 54 anni, avvocato, nominato da Trump nell’agosto 2017, racconta: “L’Fbi sta aprendo un caso di controspionaggio relativo alla Cina ogni 10 ore”.

Il direttore dell’Fbi invita i cinesi rifugiati negli Stati Uniti a chiedere aiuto alle autorità federali, se emissari di Pechino dovessero fare pressioni per indurli a tornare in Cina. Il programma “Fox Hunt” per riportare nella Repubblica popolare i dissidenti ricercati prevede forme di ricatto delle famiglie dei fuggitivi rimaste in Cina.

“Fox Hunt” funziona così: “Quando non gli è possibile individuare un obiettivo, il governo cinese invia un emissario per visitare la famiglia del bersaglio qui negli Stati Uniti. Il messaggio è chiaro: l’obiettivo aveva due opzioni, tornare prontamente in Cina o suicidarsi”. Il presidente cinese Xi Jinping sarebbe all’origine di “Fox Hunt”, datato 2015. “Parliamo di rivali politici, dissidenti e critici che cercano di fare conoscere le violazioni dei diritti umani in Cina”, spiega Wray. “Il governo cinese vuole costringerli a tornare in patria e le tattiche usate per riuscirci sono sconcertanti”. Secondo Wray, “la Cina è impegnata in uno sforzo per diventare l’unica superpotenza del mondo, con ogni mezzo necessario”. Il quadro delle interferenze cinesi comprende lo spionaggio economico e il furto di dati e denaro, o attività illegali e di corruzione per influenzare la politica statunitense”. All’offensiva cinese, il Federal Bureau of Investigation contrappone un’azione di controspionaggio: “Dei circa 5.000 casi di controspionaggio aperti negli Usa, quasi la metà riguardano attività cinesi”. Pechino starebbe lavorando anche per compromettere le ricerche sul coronavirus nell’Unione. Fra i motivi di tensione fra Cina e Usa, c’è la stretta di Pechino su Hong Kong. La bandiera rossa sventola da ieri sull’ex Metropark Hotel di Causeway Bay: è la sede della nuova Agenzia di sicurezza nazionale cinese nell’ex colonia britannica. Una location molto significativa: il grattacielo di vetro e acciaio è vicino al Victoria Park, sede delle grandi adunate dell’opposizione. I fronti dello scontro tra Usa e Cina, acceso dalla “guerra dei dazi”, sospeso da un compromesso, sono molteplici: la campagna contro Huawei e il 5G “made in China”; le sanzioni contro la stretta su Hong Kong; le tensioni nel Mare cinese meridionale; le accuse di Washington a Pechino – e all’Oms sua sodale – sull’origine della pandemia; la minaccia di messa al bando dei social cinesi, TikTok in primis, perché “strumenti di sorveglianza” del Pcc.

Nazionalisti e moderati, tutti contro Vucic: la scusa è il virus

Il virus torna a Belgrado e piovono molotov, fumogeni e pietre. Mazze e bastoni sono stati la risposta dei manifestanti contro la decisione governativa di imporre il coprifuoco per l’aumento dei casi di Covid-19, che continua a serpeggiare nei Balcani occidentali, specialmente nel perimetro del presidente Aleksandar Vucic, appena riconfermato alle urne con larga maggioranza. Dopo gli scontri Vucic ha fatto dietrofront sulle misure: oggi ne annuncerà di nuove: su 7 milioni di persone sono 20.000 i contagiati. “Hooligan”. Così ha definito i manifestanti il direttore della polizia Vladimir Rebic, riportando un bilancio di 43 agenti e 17 manifestanti feriti, 23 arrestati. Nella notte di martedì scorso – giorno in cui sono stati conteggiati 13 decessi e 299 nuove infezioni, un record nel Paese, – il Parlamento è stato preso d’assalto mentre il tricolore serbo sventolava tra manganellate e manette. Secondo alcuni media di Belgrado, la polizia ha trascinato via dalla sede istituzionale alcuni personaggi legati alla destra nazionale, cospirazionista e anti-vaccino, come Srdjan Nogo. “Abbiamo un passato bellicoso, la lotta tra moderati e nazionalisti non è mai finita, non si capisce la società serba se non si capisce questo” dice lo storico e giornalista serbo Dejan Sajinovic. “Per i nazionalisti, Vucic si è allontanato troppo dalle sue posizioni radicali iniziali, per i moderati è un dittatore che vuole controllare tutto. Lui tenta di compiacere entrambe le parti ed entrambe vogliono rimuoverlo. Hanno protestato anche perché Vucic ha ignorato la pandemia durante la campagna elettorale e ha preso le misure necessarie solo dopo aver vinto le elezioni lo scorso giugno”. L’Europa, che dovrebbe insistere per riforme e media liberi nel Paese, “è spaventata, teme di fare troppa pressione per ottenere il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo e lasciare spazio a Russia e Cina”. In Serbia, come nel resto del mondo, lo scontento che si palesa non è attribuibile solo al virus: “Cosa siamo noi serbi? Un paradosso: un aspirante membro europeo, un alleato dei russi, ora siamo il miglior amico dei cinesi nei Balcani. È da sempre difficile unire i serbi, ma questa è una questione più grande e precedente a Vucic. Anche le élite hanno fallito con il popolo, per la maggior parte povero, e quelle scene di protesta che vedi sono solo una manifestazione di questa mancata visione nazionale”.

Le bugie di stato su 43 morti. Studenti, strage impunita

Christian è l’unico figlio maschio di Clemente Rodriguez e Luz Maria Telumbre. Alto, moro, occhi neri il suo sogno è studiare per garantirsi un futuro e aiutare la sua famiglia. La sua passione, da quando è un bambino, tuttavia, sono i balli folkloristici. Nella sala prove della Casa della Cultura di Tixla manca il rimbombo dei colpi dei suoi tacchi sul pavimento di legno, da quando, il 26 settembre del 2014 “Socho” “Sonchito”, o anche “Clark” o “Hugo”, a seconda se a chiamarlo fossero i suoi compagni di ballo o quelli di classe, è scomparso insieme agli altri 42 alunni della scuola normale rurale di Ayotzinapa, stato di Guerrero, Messico.

Le due sorelle non lo riabbracceranno più. Cinque anni, 286 giorni e 13 ore dopo, la polizia scientifica del cosiddetto “Caso Ayotzinapa” ha confermato che il corpo ritrovato a novembre scorso è il suo. Un corpo che parla, come vuole la tradizione dei morti in Messico e che – in questo caso – con la sua sola presenza nel luogo del ritrovamento, cancella la famosa “verità storica” con cui l’ex presidente Enrique Peña Nieto ha cercato di chiudere il caso degli studenti spariti, a soli due mesi dalla scomparsa. “Uccisi dai sicari di “Guerreros Unidos”, (uno dei gruppi criminali locali di Iguala sorti dallo smembramento dei grandi cartelli della droga, ndr), con la connivenza di agenti corrotti, mentre andare via da Iguala su tre autobus con cui volevano raggiungere Città del Messico. I 43 sono stati trascinati nella discarica di Cocula e i loro corpi incendiati”.

Così l’8 novembre 2014, il procuratore generale Jesús Murillo Karam, visibilmente commosso, confermava la morte dei ragazzi a telecamere accese, facendo a pezzi le flebili speranze delle famiglie dei giovani che viaggiavano sugli autobus – ritrovati vuoti e crivellati di colpi – di rivedere i propri figli o poter dare loro degna sepoltura. Il motivo dell’attacco da allora è solo uno dei tanti misteri che avvolgono il caso dell’ennesima macelleria messicana, anche se una Commissione internazionale ha stabilito nel 2016 che si è trattato di un atto di violenza della polizia con l’appoggio dell’esercito e dei Servizi. Ora a porre una pietra tombale sulla narrativa ufficiale è arrivato il corpo di Christian, non ritrovato accanto alla discarica come i due compagni, Alexander Mora e Jhosivani Guerrero, i cui resti giacevano sulla strada del fantomatico agguato, bensì a 800 metri da Cocula. Lì in teoria già unità della ormai defunta Procura generale della Repubblica, Pgr, diretta da Murillo Karam, avevano cercato palmo a palmo senza risultati.

Peccato che a dirigere le ricerche dell’Agenzia di Indagini criminali fosse Tomás Zerón, oggi latitante, ricercato dall’Interpol per tortura, sparizione di persone e reati contro l’amministrazione pubblica. È a lui – oltre ad altri 46 funzionari pubblici, tra cui Carlos Arrieta e Julio Dagoberto Contreras, rispettivamente capo della Polizia ministeriale suo sottoposto – che il procuratore generale del Messico, Alejandro Gertz, imputa la partecipazione nella sparizione degli studenti. Ma, soprattutto, Zerón è accusato di “aver alterato il corso delle indagini”, “occultando prove” durante le ricerche. Il famoso “affaire del rio San Juan”, in riferimento al suo viaggio sul luogo del presunto delitto, la discarica, con uno dei detenuti del clan. In questa occasione, quest’ultimo gli avrebbe indicato di cercare nel fiume adiacente, il rio San Juan, in cui effettivamente avvolti in buste di plastica vennero ritrovati resti umani, identificati poi con Alexander Mora, uno dei 43 studenti scomparsi. Il problema è che Zerón nascose ogni cosa, finché, scoperto, divulgò un video, rieditato, delle ricerche nella zona. Ma per allora le famiglie dei desaparecidos già non credevano a una parola delle dichiarazioni ufficiali, né avvocati e periti indipendenti erano sicuri della versione della discarica.

Potrebbe trattarsi di un caso isolato di funzionario corrotto come tanti in Messico, se non fosse che la carriera fulminea di Zerón – volato a fine anno, non appena ritrovati i resti di Christian, in Canada – sia così legata a Peña Nieto. Arrivato alla Procura nel 2013 con il presidente, aveva lavorato con lui già in al tempo in cui era governatore di Guerrero e dal 2009 al 2013 era stato coordinatore della Procura e poi titolare dell’unità speciale contro il crimine organizzato. Dopo Ayotzinapa, proprio a settembre 2014, assunse il ruolo di viceprocuratore e capo dell’Agenzia di Indagine criminale: il super-poliziotto del Messico.

La lettera di Rowling & C. “I progressisti, nuovi censori”

Una mattina si son svegliati, e ciao al politicamente corretto. Ci volevano 150 intellettuali americani e britannici per accorgersi della dittatura del pensiero unico dominante, denunciando apertamente il “regime” di “uniformità ideologica” in una “lettera sulla giustizia e sul dibattito aperto” pubblicata su Harper’s Magazine.

Da J. K. Rowling a Margaret Atwood, da Salman Rushdie a Noam Chomsky, scrittori e artisti stigmatizzano le “forze illiberali” che “stanno guadagnando forza in tutto il mondo e hanno un potente alleato in Trump, una minaccia per la democrazia”. Che tempismo. L’appello, però, è democristiano: non risparmia infatti la cancel culture e le “nuove forme di censura” degli ambienti progressisti, altrettanto responsabili del “clima intollerante”. In soldoni, anche le giuste cause – vedi quella dei Black Lives Matter – possono trasformarsi in ideologie e irrigidirsi in “intolleranza, ostracismo, dogmi, coercizioni, certezze morali accecanti”, fedi ottuse se non violente, ingigantite e moltiplicate dalla “gogna” pubblica sui social. Una riflessione di buon senso, ma l’antidoto degli intellò qual è? “L’inclusione democratica può essere raggiunta solo se si denuncia il clima di intolleranza che si è instaurato da tutte le parti”. Come la famosa notte in cui tutte le vacche sono nere. Ma si potrà ancora dire “nere”?

Quello della libertà di opinione è un dibattito scivoloso, ma “vogliamo camminare; dunque abbiamo bisogno dell’attrito. Torniamo sul terreno scabro!”, disse un filosofo. E così i firmatari, con enfasi teoretica, propongono di “sconfiggere le cattive idee attraverso l’esposizione, l’argomentazione e la persuasione”. Chi decide però modi, tempi, limiti dell’espressione? Il rischio censura è dietro l’angolo: “Forse sì, forse no. Siamo in un momento pericoloso sotto molti punti di vista… La ‘battaglia’ è giusta. Il problema è che libertà d’opinione non significa ‘dire ciò che si vuole’, ma ‘dire ciò per cui sono giustificato dal punto di vista epistemico’”, spiega Nicla Vassallo, Ordinario di Teoretica all’Università di Genova. “Ad esempio, i nostri politici fanno affermazioni disordinate, prive di ragioni e giustificazioni”; fumo negli occhi, insomma. Tuttavia, il politicamente corretto è una piaga più anglosassone che italiana: “Sì, certe volte lo trovo quasi ridicolo. E quest’appello mi puzza un po’, soprattutto adesso. Trump non è stato eletto ieri”.

Curioso, poi, che tra i promotori della lettera vi sia la tanto vituperata Rowling, una che “senza le ovaie” non avrebbe “sentimenti ed emozioni”. Contenta lei… “La scrittrice ha subito molti attacchi per le sue rivendicazioni femministe: per lei, le transessuali non sono donne poiché in natura esistono solo maschi e femmine. La sua è una logica binaria, e l’identità assegnata alla nascita”, commenta Jonathan Bazzi, tra i finalisti dell’ultimo Strega con Febbre (Fandango). “Noto, poi, che i firmatari sono perlopiù anziani e accademici. Il manifesto pecca di intellettualismo, ma non tutto è mente. Esistono i corpi, esiste la violenza sui corpi, la realtà bruta e brutale. La loro tesi mi sembra contenga una fallacia argomentativa: opporsi a un fenomeno utilizzando scenari catastrofici ipotetici. È tipico di certa sinistra lamentarsi del regime del politicamente corretto mentre vive sui social o sui media, occupandosi poco di quanto accade per strada. È un parlarsi tra sé e sé, sono interlocutori che non rappresentano la società: le spinte censorie nella realtà non ci sono, ma l’omofobia esiste eccome. Io mi sento gender fluid: nella prospettiva binaria non ci sto, mi rifiuto di stare in un gruppo – maschi – piuttosto che in un altro – femmine. L’identità si costruisce, è cangiante, non inchiodata al dato biologico. Che è riduttivo e, questo sì, illiberale”.

Venezia città chiusa: niente turisti? Allora niente musei

Vengono prima le spiagge o la cultura? Serve il ritorno di frotte di turisti per decidere di riaprire i musei o le sale che espongono patrimoni unici al mondo impongono comunque che il lockdown da pandemia non diventi un pretesto per mettere sotto chiave anche le bellezze artistiche? Meglio dar fondo agli utili accumulati in passato, per affrontare le spese da sanificazione, o aspettare come una manna salvifica i milioni di euro che arriveranno dal Ministero dei Beni Culturali, a ristoro dei mancati guadagni? Tante domande si addensano sopra il cielo di Venezia, nelle calli non ancora affollate, negli alberghi la cui recettività, al massimo, è coperta per il 20-30%. A porla, in modo anche ruvido, è Daniele Giordano, segretario generale Funzione Pubblica della Cgil. “Il sindaco Luigi Brugnaro lamenta il crollo del turismo e la crisi della città causa Covid-19, ma i musei civici li lascia desolatamente chiusi. Come pensa che i turisti possano ritornare se vengono meno i poli di attrazione culturale?”.

La questione non è di poco conto, mentre gli albergatori piangono, i commercianti temono fallimenti a raffica e i veneziani si interrogano sul loro futuro di grande luna park del turismo. Anche perché le Gallerie dell’Accademia, che sono statali, hanno appena licenziato un bilancio lusinghiero. Sono state tra i primi musei italiani ad aver riaperto i battenti e hanno già contabilizzato 10 mila visitatori, con un’apertura contingentata di 11 ore al giorno, sei giorni su sette. Poco importa se Giorgione lo si ammira indossando la mascherina, ciò che conta è poterlo fare. I Musei Civici invece sono chiusi. “Hanno riaperto negli ultimi weekend solo Palazzo Ducale, il Vetro a Murano e il Merletto a Burano. E il Correr, Ca’ Rezzonico, il Museo di Storia Naturale? – si chiede Giordano: Questa scelta priva Venezia e l’intera comunità nazionale della possibilità di accedere a fondamentali spazi di cultura, nonostante il ‘decreto Rilancio’ varato dal Governo destini 50 milioni ai musei civici, di cui 7-8 milioni potrebbero arrivare a Venezia”.

“Siamo pronti, ma flessibili. Ho appena parlato con albergatori, tour-operator e Aeroporto Marco Polo, siamo pronti a riaprire – replica Maria Cristina Gribaudi, presidente della Fondazione dei Musei Civici –. Abbiamo sanificato qualcosa come 40 mila metri quadrati. Così il Ducale è riaperto. Bisogna tener conto che Palazzo Fortuny e Ca’ Pesaro sono chiusi per danni da acqua alta”. Intanto però 400 lavoratori delle cooperative e 76 dipendenti della Fondazione sono in cassa integrazione. La Cgil prende lo spunto per un appello: “Il Comune di Venezia dovrebbe sostenere la piena e totale riapertura dei Musei Civici anticipando le risorse che arriveranno dai fondi nazionali. Non solo perché la scelta di tenerli chiusi ricade sui lavoratori e sembra dettata prevalentemente da ragioni economiche, ma perché non si può precludere la cultura alla popolazione, e la cultura diventa uno strumento per ripartire”.

Replica la presidente Gribaudi: “Non sono chiusi… sono apribili su richiesta di albergatori e tour operator. Siamo in attesa di un flusso turistico più importante”. La realtà è che al Casinò la pallina ha ripreso a girare nella roulette, mentre il Correr è ancora un museo-fantasma. In sesta commissione comunale, di fronte alle bordate dei sindacati, il segretario della Fondazione, Mattia Agnetti, ha ammesso: “Il passivo annuo stimato è di 7/8 milioni, ma potremo assorbire il colpo grazie alla gestione oculata degli anni precedenti e ai fondi statali”. E allora perché non riaprire? “Se il pubblico cresce, noi ci siamo” taglia corto la presidente Gribaudi.

In questa fase post-Covid si sono sprecati paragoni post-bellici. Ancora la Cgil: “L’amministrazione comunale parla di economia di guerra. La storia ci insegna che in situazioni di pericolo e instabilità, i governi e le amministrazioni cittadine si sono premurate di porre in sicurezza i beni culturali, avviando campagne di protezione, salvaguardia e catalogazione del patrimonio. Pertanto è singolare che proprio i conservatori e il personale tecnico-scientifico siano stati escluso dall’accesso al lavoro”. Perché le opere d’arte si proteggono non solo con il mantenimento della temperatura o dell’umidità dell’aria. “Si sono chiesti in Comune quanto l’assenza di monitoraggio delle opere e degli oggetti conservati possa aver comportato danno alle collezioni?”.

Aiuto, Marzullo ha 10 anni di ferie arretrate. L’ultima parola della notte sarà ancora la sua

“È notte alta e sono sveglio, sei sempre tu il mio chiodo fisso”. La splendida Ancora di Eduardo De Crescenzo (Sanremo 1981) poteva tornare a essere solo una canzone. E invece almeno per un altro anno sarà ancora anche sigla di Sottovoce, il programma “che chiude il palinsesto della prima rete della Rai, quando un giorno finisce e un nuovo giorno sta per cominciare…”, come dice tutte le sere che Dio manda in terra Gigi Marzullo, il popolare giornalista che conduce questo spazio dal 1994. Eppure il mitico Gigi, che da tempo ama sfoggiare camicioni del pigiama a righe sotto il blazer blu, a fine giugno sarebbe dovuto andare in pensione, avendo compiuto 67 anni. Qualcuno in Rai la vedeva come una liberazione. “Finalmente si potrà fare qualcosa di diverso nella notte culturale di Raiuno”, le voci di corridoio. Poveri illusi. Marzullo invece resterà, almeno per un’altra stagione. Il suo nome e le sue trasmissioni (Sottovoce, Applausi, Cinematografo, Mille e un libro) sono presenti nei palinsesti autunnali almeno fino a dicembre, ma solo nel weekend. Perché? Il fatto è che Marzullo ha più di 500 giorni di ferie arretrate, qualcosa come 10 anni di ferie non godute. Possibilissimo, nel magico mondo di mamma Rai, dove i giornalisti accumulano ferie come se non ci fosse un domani: c’è pure chi arriva a superare gli 800, senza che le “risorse umane” battano ciglio. “A Saxa Rubra se non hai almeno 200 giorni di ferie arretrate non sei nessuno…”, si ama dire laggiù.

In pratica Gigione nostro poteva far cadere il microfono 10 anni fa e non fare più nulla fino al giorno della pensione, cioè adesso. Lui, invece, vuol continuare a lavorare. “Dice che così allontana la morte…”, racconta una fonte. Così, con Stefano Coletta (direttore di Raiuno) ha raggiunto un accordo per un’altra stagione a titolo gratuito. Marzullo lavorerà percependo solo la pensione. Difficile poi andare oltre, altrimenti potrebbe aver da ridire Carlo Freccero, tornato nel 2018 a dirigere Raidue da pensionato, ma solo per un anno, come prevedono le norme aziendali.

Tutto normale? Non proprio, il caso Marzullo è stato oggetto di una lettera in cui i consiglieri Riccardo Laganà e Rita Borioni chiedono spiegazioni. Sottolineando come “le ferie non godute per legge non possono essere trasformate in retribuzione, né tanto meno si possono avanzare richieste di prosecuzione del rapporto di lavoro al solo fine di smaltirle”. Insomma, un bel po’ di caos per il cronista avellinese che la leggenda vuole sbarcato in Rai grazie ai buoni uffici, negli Ottanta, di Ciriaco De Mita. “Si faccia una domanda e si dia una risposta…”. “Fatto”, rispose una notte, quando le toccò, Sabina Guzzanti.

L’eterna guerra alla giustizia

La storia dei rapporti tra politica e magistratura sembra un romanzo. Talora avvincente, più spesso desolante. Una trama molto complessa con due costanti: delega e conflitto.

Spetta alla politica – e soltanto ad essa – operare le scelte finalizzate al buon governo. Ma ci sono problemi che la politica italiana non vuole o non sa affrontare. In questi 25 anni molti di tali problemi sono stati “delegati” (scaricati sulle spalle) della magistratura e delle forze dell’ordine. È accaduto per la mafia; per il terrorismo (almeno nella fase iniziale); per lo stragismo (con relativi depistaggi); per la sicurezza sui posti di lavoro; per la tutela dell’ambiente e della salute (anche sul versante agroalimentare); per l’evasione fiscale; per la bioetica e per la corruzione (la svolta del 2019 con la Spazzacorrotti potrebbe subire un arretramento nel post Covid-19, se prevarranno le opzioni basate sulla “snellezza del fare” contro le “gabbie d’acciaio burocratiche”).

Deleghe a raffica, dunque. Ma sempre con un limite preciso mai esplicitato: una specie di “asticella” da non oltrepassare. Finché si toccano soggetti deboli abituati a subire, zero polemiche. Ma se si oltrepassa l’asticella e si controllano anche le deviazioni dei poteri pubblici e privati, questi reagiscono: innescando l’altra costante, il conflitto.

Con il conflitto piovono sui magistrati calunnie e insulti volgari (fino al leggiadro “antropologicamente diversi dal resto della razza umana”), cui seguono accuse basate su verità rovesciate: non delega ma supplenza arbitraria, invasione di campo, golpe dei giudici; le inchieste che danno fastidio sono teoremi. Un attacco organizzato che si sublima fantasticando di giustizialismo e politicizzazione. Il bersaglio grosso è la giurisdizione, quando – pur con i suoi limiti ed errori – dimostri di voler operare in maniera indipendente. In questo modo prende piede il malvezzo di valutare gli interventi giudiziari non secondo correttezza e rigore ma in base all’utilità per sé e la propria cordata. Mentre domina il paradosso dell’inefficienza efficiente, funzionale cioè ad un disegno che mira (mortificando la magistratura ) a ridurre se non impedire i controlli su determinati interessi. Ancora: inefficienza significa meno credibilità della magistratura. E alla fine della storia nessun cittadino che non sia pazzo si mobiliterà per chi non sa rendere il servizio per cui è pagato coi soldi pubblici. E il cerchio si chiude.

Queste linee di tendenza (che attraversano – sia pure con cospicue differenze – l’intero schieramento politico) assumono cadenze parossistiche con i governi di Silvio Berlusconi. Ha scritto Camilleri di una “vera e propria guerra alla Giustizia mossa su molteplici fronti e adoperando tutti i mezzi leciti e soprattutto illeciti”, fino “alle mine antiuomo delle dissennate proposte di leggi tendenti sostanzialmente all’assoggettamento della Giustizia alla politica , o meglio all’interesse politico di una sola persona”. La stessa che, secondo lo storico Salvatore Lupo, nella campagna elettorale del 1994 lanciò un “assalto alla magistratura quando [questa] era sulla cresta dell’onda”, compiendo un’operazione “per il futuro”, come a dire che occorreva “che i magistrati non ci [fossero] più”.

Sterminato è l’elenco delle “pensate” del Cavaliere e del suo entourage: le leggi “ad personam” che hanno violato la regola fondamentale di buona fede legislativa; una sfilza di “scudi” che hanno consolidato le disuguaglianze; il corredo sistematico di campagne astiose, denunzie penali, ispezioni ministeriali e azioni disciplinari contro gli inquirenti. Fino ad una surreale vicenda “mai vista, nemmeno in Italia” , e cioè che “ben 315 parlamentari votassero e accreditassero la favola (favola anche per un bambino di sei anni)” di un premier “intervenuto a notte fonda alla questura di Milano per evitare un incidente diplomatico con l’Egitto” (Giovanni Sartori, a proposito della ragazza marocchina fatta passare per nipote di Mubarak). Coronando con robuste manifestazioni di piazza davanti ai tribunali la gestione dei processi come momenti di scontro (per contestarne in radice la legittimità), mediante un’impropria riedizione del “processo di rottura” praticato in Italia dalle Br.

Senza reali prospettive di riforma (sia del processo ormai in coma, sia del Csm: e dire che la degenerazione delle correnti era ben nota prima ancora del “caso Palamara”), la magistratura italiana ha finito per trovarsi in stato d’assedio: situazione scomoda che può indurre ad errori (ve ne sono stati) o a mortificare l’etica della responsabilità favorendo il conformismo burocratico. Obiettivo che anticipa la riduzione dell’indipendenza della magistratura nelle strategie di chi vuol controllare l’ordine giudiziario.

Un mantra di queste strategie è la separazione delle carriere fra giudici e pm che – si dice – esiste in tutti i Paesi. Una verità deformata o parziale, nel senso che là dove vi sono alcune forme di separazione non si tratta mai di applicazioni drastiche e totalizzanti come si vuol far credere. E comunque si dimentica che interfaccia della separazione delle carriere è, sempre e dovunque, la possibilità che il potere esecutivo impartisca – per legge – ordini e direttive al pm, pilotando le indagini a suo piacimento. Per cui, separando le carriere, ci allineeremmo sì ad altri, ma verso il basso, compromettendo sensibilmente l’indipendenza della magistratura: con un pessimo servizio ai cittadini che perderebbero persino la speranza di una giustizia uguale per tutti.

Invece delle carriere dei magistrati si dovrebbero separare quelle tra magistrati e politici. E non mi riferisco soltanto al problema delle cosiddette “porte girevoli”. Il pensiero corre anche alle recenti cronache sulla vicenda del giudice Amedeo Franco, il quale – avendo firmato foglio per foglio una sentenza di condanna – incontra poi “ vis à vis” il condannato (Silvio Berlusconi) e “ritratta” la condanna. Ciò sette anni fa, essendo il magistrato nel frattempo deceduto. Per cui, se per risolvere l’anomalo caso non bastasse la zelante registrazione del colloquio riesumata in questi giorni, si potrebbe pensare ad un’inedita seduta spiritico-giudiziaria. Magari evocando anche lo Stevenson del famoso “strano caso”. Tanto per non farsi mancare nulla.

 

Con Molinari, Folli e Giannino, la Voce Repubblicana risorge a Repubblica

Era il 1986 e la Repubblica festeggiava l’ambitissimo traguardo del sorpasso sul Corriere della Sera, a dieci anni esatti dalla fondazione del quotidiano scalfariano: 515 mila contro 487 mila. Cifre mostruose, di un’altra epoca. Quando in Italia i giornali vendevano sette milioni di copie al giorno (oggi sono meno di due). E trentaquattro anni fa, nel nostro Paese, esistevano ancora gli organi di partito. Come la Voce Repubblicana che, sempre nel 1986, aveva una diffusione di 15 mila copie, quanto l’Umanità del Psdi di Pietro Longo e Franco Nicolazzi e mezzo milione in meno di Repubblica.

La Voce era il quotidiano del Pri, il partito dell’Edera e del Risorgimento ma anche della massoneria, dell’atlantismo e del sionismo. Fino al 1987 ebbe come direttore responsabile Stefano Folli, che oggi di Repubblica è il centravanti di sfondamento anti-contiano, ripreso puntualmente da Dagospia come una sorta di Sibilla Cumana. Folli era il pupillo di Giovannone Spadolini, monarca repubblicano di quell’epoca e che per il suo ego larghissimo venne soprannominato “vice-Dio”. Ed era spadoliniana la fucina di talenti che la Voce allevò sotto la sorveglianza folliana. Come un giovanissimo Maurizio Molinari e un Oscar Giannino dalla folta chioma nera e riccia. Un tridente che oggi si ritrova insieme ai piani più alti del quotidiano fondato da Scalfari.

Giannino già collabora con Radio Capital e lunedì scorso ha esordito da commentatore su Affari e finanza, l’inserto economico del giornale. Da Giannini a Giannino, cambiando una vocale. E così Repubblica comincia a trasfigurarsi nella Voce di allora, anche per le copie perse nella nuova era di Elkann. Chi l’avrebbe mai detto a quei tre, che negli anni ’80 sul quotidiano scalfariano vedevano l’amato Spadolini disegnato da Forattini, nudo e con il pisello piccolo. Un caso di sessismo al contrario e che oggi non la passerebbe liscia. Soprattutto a Repubblica.

Mail box

 

La Tav Roma-Pescara è un’esagerazione

Che tra Roma e Pescara si parli di AV stanziando 700 milioni di euro la considero una gravissima offesa alla nostra, seppur limitata, intelligenza. Basta propaganda, da qualsiasi parte venga. Stiamo parlando di una linea a semplice binario elettrificata con percorrenze superiori alle 3 ore battuta sistematicamente da un’efficiente offerta su gomma con percorrenze sotto le due ore e a prezzi inferiori. Che la ferrovia Roma-Pescara necessiti di interventi di potenziamento, come raddoppi selettivi, rettifiche di tracciato, maggiore velocità di percorrenza, è sconto. Ma per favore non offendete gli italiani e soprattutto gli abruzzesi parlando di AV Roma-Pescara. Non ripetiamo la circonvenzione perpetrata da don Circostanza che convinse i “cafoni” del Fucino ad accettare un accordo scritto per cui “tre quarti dell’acqua andrà all’Impresario e tre quarti” al paese”.

Giuseppe Alfonso Cassino

 

Perché la statale 275 manca tra le priorità?

Gentile direttore, le scrivo dal Salento per raccontarle tutti i piagnistei per il mancato inserimento tra le priorità delle grandi opere della statale 275, che dovrebbe collegare Maglie a Santa Maria di Leuca. Sono passati più di 20 anni, stanziati 280 mila euro, stracciate decine di progetti per l’arroganza e ignoranza di sindaci di piccoli paesi.

Antonio Perrone

 

Covid, con la normalità tornano i furti

Dopo due mesi di stop durante il lockdown tornano a colpire i ladri. Il crimine infatti sta tornando alla normalità. La dimostrazione che, nonostante la pandemia, siamo quelli di sempre e i problemi sono sempre gli stessi.

Gabriele Salini

 

Bolsonaro è stato vittima della sua superficialità

Caro direttore, il populismo “sanitario” grossolano mostra il suo volto sfatto e decadente. Jair Bolsonaro, arcigno negazionista a oltranza, ha contratto il Covid-19. Ora l’irresponsabile leader della destra brasiliana deve fare i conti con la malattia, affrontarla, superarla. Si sta già accorgendo che non è una semplice “influenzina” (come gli piaceva definirla con superficialità). Evidentemente, le teorie sciatte e sgangherate del presidente (“il mio passato da atleta mi rende immune al coronavirus”) non hanno funzionato. La pseudocultura dei Bolsonaro, dei Trump, dei Boris Johnson è drammaticamente approssimata per difetto. La pandemia dimostra, ancora una volta, che è necessario affidarsi più che mai alla scienza, che si basa su meccanicismi di causa ed effetto, su un collaudato metodo sperimentale. Non dobbiamo mai dare ascolto ai santoni e ai politici come Bolsonaro, che per fronteggiare le emergenze paradossalmente ritengono di dover smantellare il sistema sanitario.

Marcello Buttazzo

 

Il presidente carioca impari la lezione

Bolsonaro, come tutte le persone di destra, ha il culto della forza. Quella che serve per piegare il nemico esterno o il dissidente interno; ma anche la donna che non sta al suo posto (inferiore in quanto sesso debole, ovviamente) e tutti i gracili che non meritano dignità. La sua logica è lo scontro fisico, il duello che designa il più forte. Il Presidente brasiliano – da campione carismatico della destra carioca – non poteva eludere la sfida al Covid-19, snobbandolo come si fa con un avversario per intimidirlo, ostentando la mancanza di paura e precauzioni per acquisire credito presso i suoi seguaci. Invece, a forza di mostrare il petto in fuori, alla fine il subdolo nemico gli è entrato dentro e l’ha costretto alla resa, con tanto di ricovero. Dispiace (piccola concessione all’ipocrisia) che il capo di un paese così simpatico a noi italiani si sia ammalato, ma solo così potrà capire (forse) quanto la sua insulsa boria stia facendo soffrire il suo popolo.

Massimo Marnetto

 

I giovani non sono pigri, solo spaventati

L’emancipazione dalla vita familiare è riconosciuta, solamente, come separazione dalla convivenza; in realtà, è il risultato di una più complessa divisione economica e culturale. La famiglia è il nucleo sociale sulla quale è costituito lo stato italiano; è il frutto di un processo di secolarizzazione, e i giovani vedono in lei un’ancora di salvataggio. Questa garantita sicurezza ostacola ogni possibilità verso la più completa e assoluta autonomia. Il parassitismo giovanile non nasce per una mancata intraprendenza o per pigrizia, ma è una condizione imposta dalla forte instabilità economica, essa impedisce una completa liberazione dall’ambiente domestico. l’oppressione familiare invece è una costante nel rapporto interno tra genitori e figli, danneggia da sempre generazioni rendendole schiave delle decisioni e dei giudizi altrui. Queste due malattie virali agendo insieme infettano il tessuto sociale odierno.

Enrico Ioseffi

 

Solidarietà a Leon: dissentire è un diritto

Esprimo solidarietà a Leon e alla Lucarelli. Sempre più contento di essere un abbonato/sostenitore del Fatto.

Collecchia Z. Francesco