Bonus nonni. Un lavoro gratuito a cui si dà finalmente riconoscimento

Gentile direttore, sono un vostro lettore delle prima ora, quando a leggere il Fatto sul treno si veniva fatti oggetto di sorrisini o di sguardi di riprovazione. Scrivo perché non ho notato nelle vostre, pardon, nostre pagine una reazione logica al bonus nonni con retroattività da marzo. Una semplice domanda: ma se nel periodo di lockdown i nonni non potevano essere nemmeno avvicinati dai nipotini, come è possibile ricevere un bonus per averli accuditi? Grazie.

Franco Lazzari

 

Gentile Lazzari, mi sento chiamata in causa perché sono stata io, lo scorso 30 giugno, a rispondere a una lettera sull’estensione del bonus baby sitter anche a nonni, zii e parenti – purché non conviventi – sollevando la questione della possibile illogicità, come la chiama lei, dal momento che il bonus può essere richiesto, anche in maniera retroattiva, per il periodo che va dal 5 marzo al 31 luglio. La misura per aiutare le famiglie nella fase della ripartenza, che concede fino a 1.200 euro, sta continuando a far discutere sia sul piano sociale che su quello economico anche se le motivazioni restano futili. Il bonus ha, infatti, numerosi paletti che ne limitano l’applicazione e non sarà così facile raggirarli. Non si possono richiedere i soldi all’Inps se i figli hanno più di 12 anni, se l’altro genitore è a sua volta in congedo Covid, disoccupato o non lavoratore, se percettore al momento della domanda di qualsiasi beneficio di sostegno al reddito, come Naspi, cassa integrazione ordinaria, straordinaria o in deroga, ecc. La domanda va poi fatta tramite il Libretto di famiglia. Solo se rientra in questa casistica, è possibile richiedere il bonus anche per il nonno che sta facendo il baby sitter al nipote. Lavoro che viene così riconosciuto ufficialmente. Tanto che, secondo un report dell’Istat, quando entrambi i genitori lavorano, nel 60,4% dei casi i bambini sotto i 2 anni vengono lasciati ai nonni. Si sale al 61,3% quando il piccolo ha tra i 3 e i 5 anni. Intanto i detrattori si chiedono se ha senso remunerare qualcuno per fare qualcosa che già svolge per motivi affettivi e se così si consente di generare del nero. Ribadisco: sono accuse pretestuose per una misura che in un contesto emergenziale ha funzionato bene e che continuerà ad aiutare le famiglie.

Patrizia De Rubertis

Le illazioni di Franco non trovano alcun riscontro nella realtà

Caro Direttore, nel caso del giudice Amedeo Franco emergono due aspetti emblematici che mettono in luce la singolare condotta del defunto servitore della Giustizia, autorevolmente assiso sull’alto scranno della Corte di Cassazione, chiamato a decidere, quale relatore, sul ricorso presentato da Silvio Berlusconi contro la condanna pronunziata dalla Corte d’Appello a quattro anni di reclusione per frode fiscale.

1) Se fosse vero che, nell’ imminenza dell’udienza, Franco subì una serie di pressioni esterne e interne (minacce, ricatti, promesse di favori?) per fare orientare la decisione verso la condanna dell’ex premier, egli – quale pubblico ufficiale – aveva il dovere:

a) di fare immediatamente rapporto al primo presidente della Cassazione per denunziare tali tentativi di coartazione o di corruzione, affinché ne fosse investito il procuratore della Repubblica di Roma (art. 331 c.p.p.);

b) contestualmente di presentare una dichiarazione di astensione dal processo ricorrendo “gravi ragioni di convenienza” (art. 36 c.p.p.).

2) Si deve ritenere per certo che nella discussione in camera di consiglio, egli si dichiarò, quale relatore, al pari degli altri quattro componenti del Collegio, favorevole al rigetto del ricorso di Berlusconi. Ne fanno fede, in modo inequivoco, la sua sottoscrizione della sentenza sia nelle singole pagine che nella pagina finale, dalla risulta altresì che tutti e cinque i Consiglieri firmarono per adesione sia alla motivazione che al dispositivo (le sentenze penali collegiali sono firmate solo dal presidente del collegio e dal giudice estensore: art. 346 c.p.p. ).

Noi non sappiamo perché, alcuni mesi dopo la sentenza che, senza obbiettare, aveva concorso a emettere contro Berlusconi (1° agosto 2013), Franco si recò da lui tre o quattro volte rilasciando fantasiose confessioni con cui sparava a zero contro tutti, parlando di “plotone di esecuzione”, di “porcheria”, di “condanna a priori”, evocando così un complotto contro il Cavaliere, ordito, si badi, prima dal tribunale, poi dalla Corte d’Appello e infine dalla Corte di cassazione presieduta da Antonio Esposito. Possiamo però sicuramente ritenere che nulla di ciò che disse Franco nelle dichiarazioni intercettate trovava allora e trova adesso il minimo riscontro nella realtà fattuale, tale da sovvertire la vera storia di quel lungo, tormentato processo, iniziato e concluso all’insegna della più rigorosa legalità.

 

Twitter, un simposio di hater e analfabeti privi di ironia

Adesso diranno che stiamo difendendo il principale, ma pazienza: c’è un limite all’analfabetismo (o alla malafede). Travaglio ha titolato il suo editoriale “Giorgio Covid”, per dire di Gori la pertinace tendenza alle esternazioni e alle misure confusionarie a tema pandemia, e su Twitter – quel simposio di menti sopraffine che ogni giorno da casa spiegano gratis a un direttore come si dirige un giornale – ha tenuto banco per ore un’accesa campagna di sdegno.

Solidarietà all’offeso, biasimo dell’immondo autore (peraltro variamente invitato a chiudere bottega, contagiarsi, morire o, peggio, recarsi a Bergamo per conferire con Gori): pareva che Travaglio l’avesse seviziato e dato in pasto ai cani (stavamo per dire “sciolto nell’acido”, ma mica siamo matti, abbiamo interiorizzato la censura). Ci pare di aver capito, sotto la gragnuola di “vergogna!”, che Travaglio voleva augurare la Covid a Gori. Secondo altri, il gioco di parole offende i morti di Bergamo, che invece il sindaco ha onorato col suo “Bergamo non si ferma!”, stranamente in consonanza coi vivi di Confindustria, mentre in città e nelle fabbriche le persone cadevano come mosche.

A capeggiare l’esecuzione, con la loro poderosa macchina del linciaggio sul nulla, i pezzi grossi del piccolo partito di Renzi, quello che coi morti di Bergamo (e Brescia) ha una tale consuetudine che loro hanno scelto lui perché ingiungesse a Conte di riaprire tutto durante il picco (ancora in strabiliante sintonia con Confindustria!) perché il paradiso è bellissimo.

Non c’è stato chi non ne ha approfittato per regolare conti propri con Travaglio, rendendolo trend topic dell’infamia: italovivi (si fa per dire) dal dente comprensibilmente avvelenato; politichetti sensibili (quando tocca a loro; quando invece c’è da mettere alla gogna qualcuno sono spietati sguinzagliatori di hater a comando); inferiori goriani in piena sindrome fantozziana; “liberali” colleghi giornalisti, suscettibili al sarcasmo, che tentano invano di fare, ma prontissimi a difendere persino CasaPound perché Voltaire così avrebbe voluto… Naturalmente nessuno è stato in grado di spiegare cosa ci fosse di offensivo nell’editoriale su Gori, che di Gori era non solo il ritratto ma per così dire il curriculum vitae, a meno di non ritenere offensivo notificare a qualcuno di esser sé stesso. Il peccato, può darsi, è stato pronunciare la parola “Covid” invano, fosse pure per dire che le dimensioni della tragedia si potevano ridurre stando un po’ meno attenti alle elezioni, all’ego, agli affari e alla carriera, e un po’ più alla salute.

Racconta Enrico Deaglio che quando nell’estate del ’73 scoppiò il colera a Napoli Enzo Biagi andò a incontrare la dinastia Gava per il Corriere. Antonio, figlio del ministro Dc Silvio, disse: “I vibrioni passano, i Gava restano”. “È dunque vero che se ne vanno sempre i migliori”, chiosò Biagi.

Secondo Giuseppe Pontiggia Biagi ottenne l’effetto comico sulla base dell’antitesi “mobilità del vibrione-immobilità dei Gava” e “inoffensività del colera-pericolosità dei Gava”, “un effetto a coda che crea uno sconcerto ottico, un disorientamento esilarante, e presuppone un senso altamente retorico dei ritmi”. Ah, ci fosse stata la polizia di Twitter! Avrebbe spiegato a Biagi che in realtà voleva vilipendere i morti di Napoli e vedere Gava morire di dissenteria. Per di più, il ceppo del vibrione si chiamava Ogawa, subito ribattezzato ‘O Gava, e Fortebraccio su L’Unità sfotteva il governo: “Se passa un giorno senza che nessuno muoia di colera, se ne vantano tra loro come se avessero vinto la battaglia del cancro. Vada, vada a Napoli, presidente Rumor: vada a disinfettare le cozze”.

 

’Ndrine e stragi: si parla di B.&C., quindi tutti zitti

Il processo che non c’è sta per concludersi. Si chiama “’Ndrangheta Stragista” ed è in corso da tre anni ormai a Reggio Calabria. Però, come cantava per la sua isola Bennato, “nessuno lo sa”.

Il pm Giuseppe Lombardo, sta cercando di ricostruire nella sua requisitoria un pezzo di storia d’Italia. Nonostante questo, o forse proprio per questo, non ne parla nessuno. Il pm ha messo in connessione per la prima volta le bombe e gli attentati di Cosa Nostra nel 1992-93 con gli omicidi e le stragi ai danni dei Carabinieri nel 1993-94 della ’ndrangheta. Per il pm c’era una strategia unica nazionale con obiettivi politici e non militari: mafia e ’ndrangheta puntarono prima sulle leghe meridionaliste vicine alla massoneria e poi, visto che “bisognava trovare delle alternative più solide, si virò come ha raccontato nel processo Giuseppe Graviano su Forza Italia e quindi sulla figura di Silvio Berlusconi”.

La politica è lo sfondo non il merito del processo. Alla sbarra ci sono i due boss (il siciliano Giuseppe Graviano e il calabrese Rocco Santo Filippone) accusati di un duplice omicidio dei Carabinieri Fava e Garofalo, il 18 gennaio del 1994 e poi di altri attentati falliti contro i Carabinieri, sempre in Calabria. In realtà nel processo è in gioco molto di più. Lo scenario è lo stesso descritto nella sentenza di primo grado del Processo Trattativa (è in corso l’appello) per condannare anche l’ex senatore di FI Marcello dell’Utri. Dopo le stragi dei primi mesi del 1992, dopo l’avvio della “Trattativa” con i Carabinieri del Ros nel 1992, Cosa Nostra continuò la strategia stragista facendo saltare in aria via D’Amelio a Palermo, via Fauro a Roma e via dei Georgofili a Firenze e poi via Palestro a Milano e le basiliche romane di San Giovanni e San Giorgio al Velabro nel 1993. La strategia stragista doveva proseguire – dopo la strage e gli attentati calabresi – con il gran botto dello stadio Olimpico il 23 gennaio 1994, a Roma-Udinese. Il nostro Antonio Padellaro ha dedicato un bellissimo libro a quella giornata da lui vissuta in prima persona: La strage e il miracolo, in edicola e in libreria conPaper First.

Parallelamente c’era una strategia politica, condivisa anche dalla ’ndrangheta. Il pm Lombardo ha ricordato che il Pds, l’ex Partito Comunista guidato da Achille Occhetto, nel 1993 era a un passo dal vincere le elezioni. Il 23 gennaio ’94 doveva esserci l’attentato all’Olimpico e Lombardo nella sua requisitoria si è chiesto: “Non è che la fretta di Graviano per portare a termine il fallito attentato all’Olimpico era legata al fatto che la settimana dopo sarebbe stata annunciata la discesa in campo di Berlusconi?”. Il 26 gennaio scende in campo Silvio Berlusconi e, per il pm Lombardo, “Verosimilmente tra il 23 ed il 30 gennaio 1994 in Italia doveva succedere qualcosa”. Poi il pm ha aggiunto un’allusione “se tra il 23 e il 30 gennaio doveva succedere qualcosa, Graviano lo sapeva e per questo aveva fretta. La distanza tra il bar Doney e l’hotel Majestic è di 120 metri. Come direbbe (Carlo, Ndr) Lucarelli: questa è un’altra storia. Ma non è un’altra storia”. Lombardo allude al fatto che l’incontro durante il quale il boss Giuseppe Graviano incaricò Spatuzza (secondo il racconto del pentito) della strage allo stadio e svelò il movente “politico” e il collegamento agli omicidi fatti dai calabresi avvenne in via Veneto al Bar Doney. Spatuzza data quell’incontro pochi giorni prima del 23 gennaio. Lombardo allude quindi a quei 120 passi che separano il Doney dal Majestic perché proprio all’hotel Majestic di via Veneto il 18 gennaio 1994 dormiva Marcello Dell’Utri, a Roma per preparare il debutto di Forza Italia.

Una coincidenza che Lombardo ha richiamato con la battuta in stile Lucarelli senza però affondare il colpo. Comunque il 27 gennaio i boss Giuseppe e Filippo Graviano sono stati arrestati a Milano e le stragi si sono fermate. Il pm Lombardo ha ricordato che un mese dopo, il 24 febbraio 1994, durante un processo il boss della ’ndrangheta Pino Piromalli chiese di fare dichiarazioni spontanee e disse: “Voteremo Berlusconi”. Il pm ha incrociato quell’endorsement del ‘94 con un’intercettazione dell’inchiesta “Rinascita-Scott” del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri.

L’ex senatore Giancarlo Pittelli il 20 luglio 2018, dopo aver letto, proprio sul Fatto, un articolo sulla motivazione della sentenza Trattativa disse: “Berlusconi è fottuto”. Al suo interlocutore poi spiegò che “la prima persona che Dell’Utri contattò per la formazione di Forza Italia fu Piromalli a Gioia Tauro”.

Il 10 luglio il pm terminerà la sua requisitoria. Antimafia Duemila e le Agende rosse di Salvatore Borsellino hanno organizzato una manifestazione di solidarietà per il 10 a Reggio per non far sentire solo il pm del processo scomparso dai media.

 

Il castello di mio nipote: un’opera costosa e infinita. Peggio del Mose

Mio nipote, 10 anni, ieri ha costruito un castello di sabbia bellissimo, con quattro torri poligonali orientate secondo i punti cardinali, mastio, muro di cortina rivestito di bugnato a punta di diamante e conchiglie, merlature a coda di rondine, fossato, saracinesca, ponte levatoio e paratoie anti-marea.

Ispirato a un progetto disegnato da Leonardo Da Vinci per Ludovico il Moro, e mai realizzato, il castello di sabbia di mio nipote adesso domina la battigia del Bagno Wilmer di Torre Pedrera, un’importante via di comunicazione fra il litorale Nord e quello Sud dell’Adriatico. Domani è previsto il test di innalzamento delle paratoie, per verificare che la sabbia non giochi un brutto tiro ai macchinari, di fronte a bagnanti e curiosi provenienti da tutta Italia. Ma ciò che è accaduto stamattina, in un test preparatorio, non è di buon auspicio. Le paratoie 11, 14 e 28 non sono rientrate nella loro sede sul fondo a causa dei sedimenti. Per questo in serata si svolgerà un nuovo test, dopo le pulizie effettuate in gran fretta da mio cognato. È evidente che le paratoie richiedono pulizia continua e manutenzione. Mia sorella ha proposto un aspiratore speciale, ma è costoso come il Mose, e la famiglia non è mica lo Stato italiano, che può svenarsi per decenni in opere problematiche e inutili. E così si punta a installare delle bocche speciali, che muovano la sabbia e la aspirino; ma non sono ancora disponibili. “Le paratoie sono in grado di sollevarsi, ma non ancora di funzionare. Per quel momento bisogna attendere la fine del 2021”, mi confessa il nipote, un po’ amareggiato. “Mi spiace che domani il mare sarà calmo. Sarebbe stato bello provarle con il moto ondoso”.

L’ingegner Alberto Vaselli, lasciato il lettino su cui stava completando la torrefazione della propria epidermide, la brezza a gonfiargli i boxer, dopo una rapida occhiata alla struttura ha dichiarato a una tv locale che le paratoie non possono essere alzate: “Rischiano la distruzione in caso di vento e mare troppo forti”. Ma sabbia, vento e mare sono solo alcuni dei problemi delle paratoie. C’è pure la ruggine. Dopo appena tre ore si è scoperto che le paratoie Sud presentano scrostamenti della vernice protettiva, con intaccamento dell’acciaio. C’è ruggine anche sui delicatissimi gruppi cerniere-connettori che consentono il movimento. Occorrerà bandire una gara da 34 milioni di euro per la ricerca di soluzioni sui materiali, in vista della futura produzione di nuove cerniere. Se si pensa che le paratoie dovrebbero avere una vita di un secolo, la prognosi di usura nell’arco di poche ore è molto preoccupante. Il che dimostra come il castello di sabbia di mio nipote sarà un cantiere continuo. E questo porta l’attenzione sui costi di manutenzione, stimati in un centinaio di milioni all’anno.

L’elenco delle criticità, però, è ancora più lungo. Ci sono buchi nei tubi sott’acqua; e cedimenti dei cassoni in cemento posti sul fondale che fungono da alloggiamento delle cerniere; e il jack-up, la nave Playmobil attrezzata per sostituire periodicamente le paratoie da mettere in manutenzione (spesa stimata: 52 milioni di euro), che ancora non funziona. Per finire, la conca (stima: 35 milioni di euro) che dovrebbe consentire il passaggio di mosconi e pedalò con le paratoie in funzione. Un amichetto di mio nipote, armato di paletta e secchiello, si è subito messo a scavare una buca dirimpetto al castello. “Cosa stai facendo?” gli ho chiesto. E lui: “Sto facendo venir fuori un po’ di buio”.

 

Deriva Tv per Nunzia, come la Pivetti

Non c’entranulla, se non nel titolo, il film Ciao maschio, diretto nel 1978 da Marco Ferreri con Mastroianni e Depardieu. C’entra di più, invece, Harem, l’elegante talk show condotto per 15 stagioni il sabato sera su Raitre da Catherine Spaak. Perché vuole essere proprio “un talk al femminile” quello che il direttore di Raiuno Stefano Coletta ha affidato a Nunzia De Girolamo, per la terza serata del sabato della rete ammiraglia. Così si compirà definitivamente il passaggio dell’ex ministra delle Politiche agricole da personaggio politico a televisivo. Passando per tappe come Ballando con le stelle e Non è l’arena di Massimo Giletti. A chi dice che tocchi a Nunzia perché ha il marito (Francesco Boccia) ministro, risponde Coletta: “Macché! Lei buca lo schermo, funziona”. Se n’era accorto pure Giletti studiando le curve di ascolto del suo programma. Certo, però, che da ministro della Repubblica a showgirl e conduttrice televisiva sembra davvero un triplo carpiato, peggio dei suoi cambi di casacca in Parlamento, da Forza Italia al Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano fino al ritorno alla casa madre berlusconiana. Ma lei è fatta così, dopo un po’ si annoia. Speriamo solo che le vada meglio di altri politici che si son date alla tv. Tipo Irene Pivetti.

Il vaccino potrebbe non bastare

SarsCoV2 a mio parere, sparirà prima che ne riveli l’intero volto e, forse, prima che si trovi un vaccino. Ce lo auguriamo tutti, ma c’è ancora molto da scoprire. È stato pubblicato un articolo interessante su Nature, “Sei mesi di Coronavirus: i misteri che gli scienziati debbono ancora risolvere” che evidenzia i quesiti ancora irrisolti. Perché le persone rispondono in modo così diverso? Alcune persone non sviluppano mai sintomi, altre, apparentemente sane, hanno una polmonite grave o addirittura fatale. “Le differenze nei risultati clinici sono drammatiche”, afferma il genetista Kári Stefánsson il cui team è alla ricerca di varianti geniche umane che ne potrebbero spiegare alcune. Un primo risultato è stato raggiunto, evidenziando la differenza determinata dal gruppo sanguigno, ma c’è ben altro da scoprire. Qual è la natura dell’immunità e quanto dura? Nonostante gli screening sierologici non lo sappiamo. Alcuni dopo l’infezione producono anticorpi capaci di bloccare il virus che poi calano nel tempo, ma non in maniera omogenea. I ricercatori non sanno ancora quale livello di anticorpi neutralizzanti sia necessario per combattere la reinfezione. Poco si sa sul significato di alcune mutazioni del virus. Un dilemma è se mai un vaccino dei 200 in sperimentazione funzionerà. Gli esperimenti ultimati hanno dimostrato di essere capaci di bloccare il virus (nell’animalee nell’uomo) a livello polmonare, ma non in altri siti. Le scimmie che hanno ricevuto un vaccino sviluppato dall’Università di Oxford, e che sono state poi esposte al virus avevano livelli di materiale genetico virale nei loro nasi paragonabili agli animali non vaccinati. Risultati come questo aumentano la possibilità di un vaccino ma non la diffusione del virus. I dati sull’uomo suggeriscono che i vaccini in sperimentazione inducano potenti anticorpi neutralizzanti dell’infezione delle cellule. Non è ancora chiaro se i livelli di questi anticorpi siano sufficienti da bloccare nuove infezioni. Il fatto che non riusciamo a spiegarci è, come mai, a sperimentazione non conclusa, alcuni Paesi, fra i quali Italia, UK e USA, abbiano scelto e prenotato grandi quantità di dosi.

 

A che ora viene l’apocalisse di Settembre?

“Alle diciotto ci sarà il giudizio universale”. Forse i meno giovani ricordano la scena di un film dei primi anni ’60: Il giudizio universale, diretto da Vittorio De Sica, con Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Silvana Mangano, e altri nomi famosi. Un’implacabile voce che tuona nel cielo di Napoli e annuncia l’orario preciso in cui tutto finirà. Qualcosa di simile da mesi rimbomba nelle nostre teste: l’annuncio di un’apocalypse now

di cui conosciamo il mese, purtroppo non ancora né il giorno né l’ora. A settembre viene giù tutto, ci sentiamo ripetere da ogni dove con certezza indubitabile, inevitabile, categorica. Una realtà a cui veniamo crocifissi da Istat, Doxa e agenzie di rating con i chiodi dell’inarrestabile crollo delle vendite, dell’abisso del Pil, del dramma della povertà di massa, della disoccupazione straripante, delle sempre più numerose famiglie destinate a mendicare una minestra presso la Caritas. Andrà sempre peggio preconizzano opinionisti e grandi filosofi (Massimo Cacciari: “Ci sveglieremo a settembre e sarà una tragedia”). E perfino chi, arginato il coronavirus si sentiva un tantino più al sicuro, sprofonda nell’incubo della “seconda ondata”. Che negli esperti Oms suscitano terrificanti analogie con “i cinquanta milioni di morti della Spagnola”. Quando? A settembre, naturalmente. Allora, l’insurrezione divamperà da un’estremità all’altra dello Stivale e palazzo Chigi sarà cinto d’assedio dai forconi inferociti. Con la tipica incoscienza degli irresponsabili noi, però, non si sta come d’autunno sugli alberi le foglie. Infatti è ancora luglio e i più, invece di barricarsi in casa e di mettere sacchi di sabbia vicino alle finestre, tornano a trafficare le strade e nel weekend praticano tranquillamente spiagge e movida. I più fortunati progettano le ferie d’agosto con la tipica strafottenza di Massimo Troisi a cospetto del cupo Savonarola. “Ricordati che devi morire”. “Sì, sì mo me lo segno”.

Del resto, la solita politica aspetta l’apocalisse per meglio regolare i conti in sospeso. Ci sperano i leader dell’opposizione che puntano sulla catastrofe di settembre per “mandare a casa Giuseppe Conte” (Giorgia Meloni), poiché “Conte è cotto, finito” (Matteo Salvini). Mentre nella maggioranza l’imminente fine del mondo non distoglie il Pd dalle beghe congressuali, e il M5S dal proprio ombelico. (Infatti nel film, sceneggiato da Cesare Zavattini il Giudizio comincia per chiamata nominale, in diretta tv. Poi dopo un tremendo diluvio, spunta il sole, tutto viene dimenticato e ciascuno ritorna alle proprie miserie umane, cattive abitudini e malaffari).

La logica fast food che si divora Tiepolo e Goldoni

Per Georg Simmel Venezia simboleggia un ordine unico delle forme sotto le quali concepiamo il mondo: è dunque inevitabile che ad attrarre i forestieri siano da sempre anzitutto le sue calli, i suoi ponti, l’equilibrio con l’acqua, le trine di pietra o di marmo; al massimo, le chiese che prolungano il miracolo sotto alte navate o cupole dorate. Chi visita Firenze o Roma non parte senza essere entrato in almeno quattro o cinque musei, qui invece spesso basta Palazzo Ducale (1,4 milioni di ingressi all’anno), i più dediti si spingono all’Accademia per Giorgione e Bellini, pochi alla Ca’ d’Oro; il resto è en plein air. Eppure nulla si capisce del Settecento di Tiepolo e Goldoni senza una visita a Ca’ Rezzonico, nulla della storia millenaria della città senza una puntata al Museo Correr in piazza San Marco, ben poco dell’evoluzione moderna dell’arte e del design (dalla moda alle prime Biennali) senza un tuffo al Museo Fortuny e a Ca’ Pesaro, veri scrigni di tesori dimenticati, entrambi off limits addirittura sin dall’acqua granda del novembre scorso.

La perdurante chiusura di questi spazi – a onta del grazioso video ufficiale di celebrazione della riapertura, che li rappresenta tutti in una festa insincera – ferisce vieppiù il visitatore italiano che magari già conosce i posti più ovvi sin dalla gita scolastica delle superiori, e sarebbe ora pronto a calarsi nel tessuto vivo di una città meno schiacciata dall’overtourism. E invece la chiusura del Museo Correr, per dirne una, inibisce de facto anche l’accesso al Museo Archeologico e alle sale monumentali della Biblioteca Marciana; l’apertura alle visite “esclusive” in alcune sedi per gruppi di almeno 10 persone (al prezzo complessivo di 140 euro) è singolarmente inadeguata a un momento in cui latitano gruppi, scolaresche, torpedoni, e grandi navi, e in giro si vedono soprattutto coppie di ogni età, famigliole e appassionati solitari.

Vengono al pettine, nel momento della crisi, antichi nodi: se sia saggio affidare i musei di una città a una Fondazione (presieduta da una potente manager che fra l’altro siede anche nel CdA di Ca’ Foscari, dell’incubatore H-Farm, di Unindustria…), collocando i beni comuni della cultura sotto il segno dell’imprenditorialità – bilanci in attivo, certo, addirittura 30 milioni di incassi nel 2018, ma poi orari di apertura più ristretti, mostre spesso poco fortunate e poco visitate, piani deleteri come quello (per ora sventato) di trasferire a Mestre la storica biblioteca del Correr, situazioni incresciose come l’esternalizzazione di buona parte del personale a cooperative che offrono paghe imbarazzanti ai laureati in cerca dei primi denari o ai nuovi disoccupati. Se sia saggio, più in generale, concepire il patrimonio come una rendita da spremere, e farlo guidare da chi (così il sindaco, che lo adibisce a sfondo per i video del suo amico Zucchero) lo concepisce non come oggetto di studio, conoscenza e tutela ma come il petrolio di un’“area a vocazione turistica internazionale”. Proprio mentre ci sarebbe forse il modo di tramutare in una vera e propria “pubblica agorà” (così di recente Maria Pia Guermandi su Left) anche le collezioni al chiuso – se i campi e i campielli parlano di Andronico Paleologo e di Giuseppe Jona, di Galerio, Daniele Manin e Corto Maltese, quanto si potrebbe apprendere, per diventare consapevoli cittadini del mondo, dal Francesco Morosini del Correr, quanto dal Mondo Novo o dai Pulcinella di Giandomenico Tiepolo a Ca’ Rezzonico, quanto dai feroci marmi di Adolfo Wildt a Ca’ Pesaro?

Progetti in Cina: Clini e Occhiuto rinviati a giudizio

Associazione a delinquere transnazionale. Ma anche corruzione, abuso d’ufficio, turbativa d’asta e peculato. Sono le accuse contestate dalla Procura di Roma nell’inchiesta che ieri ha portato al rinvio a giudizio per l’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini, per il sindaco di Cosenza Mario Occhiuto e per altre 26 persone tra cui la compagna dell’ex ministro, Martina Hauser.

Il processo inizierà a novembre quando Clini dovrà difendersi dall’accusa di aver utilizzato in modo improprio fondi pubblici per progetti ambientali in Cina. Molti di questi progetti, secondo i pm romani, sarebbero stati affidati senza alcun bando alle società del sindaco Occhiuto che è architetto e che poi ha nominato nella sua giunta comunale Martina Hauser, la “zarina dei Balcani” un tempo moglie di Andrija Jovicevic (l’ex ministro della polizia del Montenegro, ndr) e oggi compagna proprio di Clini.

L’ex ministro del governo Monti è accusato di essere il promotore di quest’associazione in quanto, da direttore generale del ministero dell’Ambiente, “destinava in modo totalmente discrezionale – scrivono i pm – ingenti risorse del dicastero di appartenenza a società o enti riconducibili al Clini medesimo, alla sua compagna nonché riconducibili agli altri sodali”.

“Sono orgoglioso di avere promosso e rappresentato il contributo dell’Italia alla protezione dell’ambiente globale – è stato il commento di Clini dopo il rinvio a giudizio –. Se questo è un reato, sono sicuramente colpevole”.