Il rampollo della Stidda appassionato d’arte. Sequestrato un Jordaens da sei milioni

Quel dipinto di arte fiamminga da 6 milioni di euro Rosario Marchese lo aveva acquistato nel 2018 da una nobile famiglia milanese e gli era servito per aumentare il capitale della sua holding. Poi lo aveva nascosto nel caveau di una società che si occupa di custodia di opere d’arte. Ieri quel Flora, Sileno e Zefiro di Jacob Jordaens, pittore fiammingo del XVII secolo, è stato confiscato dalla Dia di Caltanissetta dopo il sequestro di febbraio 2019. Marchese, imprenditore di 33 anni, residente a Lonato sul Garda (Brescia) è in carcere in isolamento a Opera da settembre scorso con l’accusa di essere vicino ai clan Rinzivillo di Gela e alla “Stidda”. Secondo gli investigatori , la ricchezza di Marchese negli anni ha avuto un “aumento repentino” e “anomalo” e aveva una grande passione per l’arte: prima del sequestro , era pronto a investire dieci milioni su un Goya. Ieri sono state confiscate undici società di consulenza, una holding in via Monte Napoleone a Milano e l’opera d’arte per 15 milioni di euro.

“Il Covid è dono di Allah”, disse Nicola lo jihadista

Diceva di assomigliare a Bin Laden, incitava i giovani a sgozzare i miscredenti, scriveva: “Indossa la carica esplosiva e avanza verso la morte”. E ancora: “Il Covid è un dono di Allah”. A Milano frequentava l’associazione culturale di matrice sunnita Al Nur. Ieri Nicola Ferrara, 38 anni, pugliese ma residente nel capoluogo lombardo, è stato arrestato dal Ros su indicazione della Procura antiterrorismo guidata dal dottor Alberto Nobili. Chiaro il reato contestato dal giudice Guido Salvini: “Avere fatto apologia della associazione con finalità di terrorismo internazionale denominata Stato Islamico, nonché istigato alla adesione a tale organizzazione, mediante diffusione su Internet di immagini e documenti di esaltazione delle azioni violente del Daesh”. Ferrara, nome islamico Issa, nel 2001 come militare aveva partecipato a una missione di pace nei Balcani. Tre erano i canali virtuali usati: Facebook, dove aveva un seguito da 2.000 followers, SoundCloud, piattaforma su cui aveva caricato 80 brani musicali e preghiere inneggiati al martirio e all’apologia dell’Isis, e Whatsapp, riservato a una cerchia più stretta di contatti. Su Twitter, invece, solo una breve incursione: Ferrara dice a un amico di averlo scaricato solo per vedere l’ultimo video di Abu Bakr al-Baghdadi. Il dottor Nobili lo ha definito “un soggetto pericolosissimo” perché “cercava di sensibilizzare non solo i più giovani ma anche le persone più fragili”. Oltre a questo, ha ricostruito la procura, Ferrara più volte ha inviato denaro in carcere a personaggi accusati di terrorismo. Scrive il giudice: “L’esaltazione” veicolata da Ferrara può “fare breccia nelle menti di giovani più o meno emarginati del mondo occidentale, in grado di imbracciare le armi e compiere stragi nelle città europee, come insegnato dall’emiro al-Awlaki, di cui Ferrara è ammiratore, nello scritto Come fabbricare una bomba nella cucina di tua madre, pubblicato sulla rivista da lui promossa Inspire, magazine di ispirazione qaedista”.

Assegni invalidità: aumenti a 516 euro solo per pochi

Radoppiati gli assegni pensionistici di invalidità grazie a un emendamento al dl Rilancio presentato da Fratelli d’Italia. I primi pagamenti già da agosto. Una notizia, di quelle belle, che sta rimbalzando sui media e che il mondo della disabilità attendeva da anni. Peccato che si tratti di una falsa verità che vale la pena di essere ricostruita: l’aumento non ci sarà il prossimo mese e la platea dei beneficiari è assai ristretta. La storia. Lo scorso 24 giugno, la Corte Costituzionale ha stabilito l’aumento delle pensioni di invalidità civile al 100%, cioè delle persone che non possono in nessun modo lavorare. Una sentenza storica che porterà ad innalzare l’importo mensile di 285,66 euro, giudicato dalla Corte “non sufficiente a soddisfare i bisogni primari della vita”. È stato quindi affermato che il cosiddetto “incremento al milione” (516,46 euro) – da tempo riconosciuto per vari trattamenti pensionistici – vada assicurato anche agli invalidi civili totali senza attendere il raggiungimento del 60° anno di età, attualmente previsto dalla legge. Non c’è un effetto retroattivo. La sentenza della Corte non è stata però ancora pubblicata. Così per accelerare i pagamenti è stato presentato l’emendamento al dl Rilancio, approvato da tutte le forze politiche, che stanzia un fondo di 46 milioni di euro nel 2020. Un plafond che, tuttavia, non basterà a coprire tutte le richieste. Inoltre, le associazioni dei disabili hanno posto l’accento sui limiti imposti per ottenere l’aumento, sollevando una questione che appare discriminatoria. La sentenza riguarda infatti i soli invalidi civili al 100% con redditi su base annua pari o superiori a 6.713,98 euro e che hanno compiuto i 18 anni. Praticamente resta esclusa la maggioranza del mezzo milione di invalidi totali censiti dall’Inps. “Una vera beffa per gli invalidi parziali, i ciechi, i sordi, i minorenni colpiti da patologie che escludono dal mercato del lavoro”, denunciano le associazioni dei disabili.

“Col coronavirus sanità e finanza più a rischio mafie”

Lo scenario disegnato dai maggiori analisti italiani è netto: “La porta d’ingresso più pericolosa nell’economia, da parte della criminalità organizzata, è costituita oggi dai mercati finanziari, con il rischio dell’acquisto di crediti deteriorati delle imprese che gravano sugli asset bancari”. Un pericolo già presente prima della pandemia, aumentato dalla crisi scatenata dal Covid, al punto da aver confinato il reato di usura a “un’epoca datata e a una realtà residuale”.

L’allarme giunge dall’ultimo report dell’Organismo permanente di monitoraggio ed analisi sul rischio di infiltrazione nell’economia da parte della criminalità organizzata di tipo mafioso. Il rapporto – all’Organismo partecipano Dia, Gdf, Servizio Analisi Criminale della Polizia di Stato e Carabinieri – è sulle scrivanie del Viminale dal 15 giugno scorso. Le mafie sono pronte ad acquisire “posizioni creditorie nei confronti delle imprese e, in prospettiva, asset proprietari nelle compagini societarie”. Nel “ventaglio di affari illeciti” – che include turismo, ristorazione, rifiuti, giochi e scommesse, gestione di impianti sportivi e palestre, distribuzione e commercio di generi alimentari, autotrasporto, industria manifatturiera, dell’energia, immobiliare, commercio e noleggio di autoveicoli – la sanità occupa un posto di grande rilievo. Anzi, parliamo della “intera industria sanitaria”. E la ’ndrangheta è in pole position: “Proprio quest’ultimo comparto sarà probabilmente più esposto all’infiltrazione delle cosche. Le consorterie calabresi hanno da tempo compreso come il settore sanitario sia appetibile per le consistenti risorse di cui è destinatario e per l’assistenzialismo e il controllo sociale che può garantire”. Non è un caso, infatti, che “proprio lo scorso anno” siano “state sciolte per infiltrazioni mafiose rispettivamente le Aziende sanitarie provinciali di Reggio Calabria – che non presenta bilanci dal 2013 al 2018 – e Catanzaro. L’Asp di Reggio Calabria è una struttura strategica per il territorio, con un ambito di competenza che investe il territorio di tutti i 97 comuni”.

La fase inedita è ben descritta nel paragrafo intitolato “La nuova dimensione finanziaria della criminalità organizzata”: “La crisi di liquidità delle imprese e le difficoltà economiche cdi molte famiglie nella fase emergenziale – si legge nel report – costituiscono condizioni che potrebbero favorire attività strutturate delle organizzazioni criminali attraverso l’utilizzo di raffinati e complessi strumenti finanziari che consentono (anche attraverso l’acquisto dalle banche di crediti deteriorati e il coinvolgimento di fondi di investimento compiacenti) di entrare in possesso di asset imprenditoriali di particolare interesse nel settore turistico, della ristorazione e del commercio”. Nel biennio 2016/2018 le banche italiane hanno eliminato dai propri bilanci sofferenze per 138 miliardi “mediante cessione dei crediti deteriorati sul mercato”. La crisi legata alla pandemia aumenterà il livello delle operazioni: “è presumibile che le organizzazioni criminali possano inserirsi nel mercato dei crediti deteriorati, ricorrendo a prestanome e società di copertura e approfittando di alcuni “varchi” offerti dal mercato e dalla normativa”. In che modo? Comprando singoli crediti deteriorati, non in blocco, per evitare di ritrovarsi nelle maglie del Testo unico bancario. Oppure infiltrandosi nel settore dei servizi di gestione, incasso e recupero dei crediti. E ancora: acquistando crediti deteriorati, direttamente, attraverso le società di recupero crediti, che godono di normative meno stringenti. O investendo nell’acquisto delle obbligazioni per la cartolarizzazione dei crediti deteriorati. Opzione che consente di finanziare i debitori insolventi o acquistarne i beni posti a garanzia.

Bond, affari, ’ndrangheta: i mediatori sono italiani

Si chiama Ottima Mediazione. È controllata da una società anonima lussemburghese, la 2404 SA. Ed è amministrata da Pietro Greco, 41 anni, promotore finanziario di Lamezia Terme, candidato alla Camera nel 2013 per “Fare per fermare il declino”, il partito di cui è stato leader Oscar Giannino. È questo il profilo pubblico dell’azienda alla radice dell’inchiesta del Financial Times: obbligazioni garantite dalla ’ndrangheta e vendute a investitori internazionali. Con pagatore ultimo il sistema sanitario nazionale.

Per capire qualcosa di più di questo intrigo finanziario bisogna partire proprio dalla Ottima Mediazione, otto dipendenti e un fatturato di 9,6 milioni di euro (nel 2018), sempre in crescita finora. Specialità? “Smobilizzo di crediti commerciali nei confronti della pubblica amministrazione, con la cessione di crediti pro soluto tramite operazioni di cartolarizzazione”, per dirla con le parole dell’azienda. Più semplicemente, una società che compra crediti dai fornitori delle Asl italiane, soprattutto al Sud, e punta a rivenderli sul mercato sotto forma di obbligazioni.

Il business ha già dato parecchie soddisfazioni a Pietro Greco e compagni. “Nel triennio 2016-2018 abbiamo intermediato operazioni per circa un miliardo di euro”, si legge sul sito della società, che ha sedi a Bologna, Napoli, Milano e Lamezia Terme. Il motivo del successo è che le aziende sanitarie pagano a rilento i proprio fornitori, e questi sono ben contenti di trovare qualcuno disposto a comprarli in cambio di liquidità immediata. Di più. I crediti ospedalieri negli ultimi anni sono diventati un vero affare, soprattutto per banche e finanziarie capaci di trasformarli in bond e venderli sui mercati. Perché più i tempi di pagamento della pubblica amministrazione si allungano – l’Italia impiega in media il doppio della media dei Paesi Ue – e più crescono i guadagni. Spiega Angelo Drusiani, gestore obbligazionario di Banca Albertini Syz: “È una nicchia di mercato cresciuta molto negli ultimi 5-6 anni. I titoli legati a questi crediti sono considerati sicuri, perché alla fine sul pagamento garantiscono le Asl italiane, cioè in ultima istanza lo Stato. Al contempo però garantiscono rendimenti relativamente alti, visto che i tempi di pagamento della pubblica amministrazione italiana sono lunghi. Dopo il Covid la situazione è un po’ cambiata, ma fino a poco tempo fa – per dare una proporzione – un titolo del genere poteva rendere tra il 4 e il 4,5%, contro un titolo di Stato italiano che garantiva il 3%”. Ci sono buttati dentro un po’ tutti, anche grandi banche e fondi pensione internazionali. E infatti i crediti comprati dalla Ottima Mediazione sono arrivati fino a Banca Generali, l’istituto di private banking del gruppo Generali, oltre che a fondi pensione ed hedge fund internazionali. Secondo il Financial Times, però, alcune di questi crediti erano legati ad aziende sospettate dalla magistratura italiana di essere controllate dalla ’ndrangheta. Il quotidiano londinese non ha per ora pubblicato i nomi delle imprese, né quelli delle aziende sanitarie italiane indebitate con queste ultime. Ha citato solo genericamente un grande centro per rifugiati in Calabria finito nelle mani del crimine organizzato. Di certo i crediti messi sotto la lente dall’inchiesta giornalistica hanno fatto un lungo giro prima di essere venduti sotto forma di bond. Sono saliti fino in Lussemburgo, patria europea delle obbligazioni a tassazione leggerissima. A creare il veicolo necessario per vendere i bond (cioè crediti cartolarizzati) a investitori come Banca Generali è stata infatti la finanziaria Cfe, sede principale in Lussemburgo, filiali a Ginevra, Londra e Principato di Monaco. Presente nei Panama Papers come intermediaria di sette scatole offshore sparpagliate tra Panama e le Isole Vergini Britanniche, la società finanziaria batte in realtà bandiera italiana. È stata fondata nel 2001 nel Granducato da due finanzieri nostrani – Mario Cordoni ed Enrico Brignone – e dalla Banca Lombarda e Piemontese, oggi parte del gruppo Ubi Banca. La lussemburghese è amministrata ancora oggi dal fondatore Mario Cordoni e dal manager Massimiliano Piunti: due uomini di finanza che lavorano da anni tra l’Italia, la Svizzera e Londra. Sono stati loro a creare il veicolo Chiron Spv, quello attraverso il quale i crediti delle Asl italiane sono stati trasformati in titoli finanziari, impacchettati fra loro e sottoscritti da Banca Generali, con la consulenza di Ernst & Young, per poi essere venduti ai clienti finali. In totale sono 47,4 milioni di euro, dovuti da quasi tutta la Sanità del Mezzogiorno: Asp Cosenza, Asp Vibo Valentia, Asp Reggio Calabria, Asp Catanzaro, Asp Crotone, Asl Avellino, Asl Benevento, Asl Caserta, Asl Salerno, Asl Bari, Asl Foggia, Asl Napoli 1 Centro, Asl Napoli 2 Nord, Asl Napoli 3 Sud, Azienda Ospedaliera Mater Domini. Possibile che nessuno si sia accorto di niente? L’operazione finanziaria è iniziata nella primavera del 2017 ed è stata chiusa nell’estate del 2019. Tutto è filato liscio: aziende rientrare in anticipo dei propri crediti, investitori rimborsati e contenti. Solo che dei quasi 50 milioni di euro di crediti della sanità italiana, circa 800 mila euro facevano capo ad aziende sospettate di essere sotto controllo mafioso. I responsabili di Cfe hanno dichiarato al Financial Times di non aver mai acquistato consapevolmente crediti legati ad attività criminali, e di aver fatto la necessaria due diligence prima di comprarli. Anche Ottima Mediazione, interpellata dal Fatto, ha fatto sapere che tutti i controlli necessari sono stati fatti. Possibile davvero che nessuno se ne sia accorto? Secondo un portavoce di Banca Generali la spiegazione è semplice: “Le notizie delle indagini giudiziarie sulle aziende sono emerse nell’autunno del 2019, quando ormai gli investitori erano già stati rimborsati e l’operazione era finita”. Come dire: quando abbiamo comprato quei crediti sottoforma di bond, nessuno poteva immaginare dei legami con la ’ndrangheta.

Lo scoop del “FT”. Soldi “presi” anche dal campo rifugiati

L’inchiesta pubblicata da Miles Johnson del Financial Times rivela infiltrazioni della ’ndrangheta in una operazione finanziaria di un miliardo di euro. Fra il 2015 e il 2019 la banca d’investimento Cfe, con sede a Ginevra, avrebbe venduto obbligazioni comprate da investitori internazionali. Bond nati da fatture non saldate dalle autorità sanitarie italiane a società fornitrici di servizi medici. Fra gli acquirenti anche Banca Generali, che si è detta ignara della origine criminale dei bond, con la consulenza di Ey, che non ha commentato. Una parte di quelle obbligazioni sarebbero, secondo il FT, collegate a beni riconducibili ad alcune cosche di ’ndrangheta, “ripuliti” grazie a società di comodo che sono riuscite ad eludere i controlli anti-riciclaggio.

In uno dei bond sarebbero finiti “beni venduti da un campo per rifugiati in Calabria controllato da una cosca poi condannata per aver distratto milioni di euro in fondi europei”. Il riferimento è al Cara Sant’Anna di Isola di Capo Rizzuto, gestito dalla Misericordia ma controllato dalla famiglia Arena, che fra il 2006 e il 2015 ha ricevuto dallo Stato 103 milioni di fondi europei, di cui 36 finiti alla cosca. Vicenda scoperchiata nel 2017 da un’operazioni coordinata dalla Dda di Catanzaro.

Mr. Paul&Shark nei guai per il conflitto di interessi

Aveva provato a giustificarsi dicendo: fin dall’inizio non era un’offerta commerciale, ma una donazione perché in emergenza Covid un’impresa lombarda deva fare così. Ma così non è stato, almeno stando alle carte della Procura di Milano che ieri ha iscritto nel registro degli indagati Andrea Dini, amministratore delegato della Dama Spa nonché cognato del presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana. La Dama, per inciso, è titolare del marchio Paul&Shark.

È su questo rapporto di parentela che si fonda l’accusa di turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente. Al centro la vicenda della fornitura di camici ad Aria, la centrale acquisti della Regione, da parte di Dama, tra i cui soci, per circa il 10%, c’è proprio Roberta, sorella di Dini, nonché moglie del governatore. Oltre a Dini e per la stessa accusa è indagato Filippo Bongiovanni, direttore generale di Aria. La vicenda è nota: il 16 aprile, in piena emergenza Covid, Aria dà l’ok all’acquisto di 75 mila camici per 513 mila euro. Non vi è l’ombra della donazione. Si tratta, infatti, di una semplice offerta commerciale, così come confermato dagli atti di Aria. L’offerta è viziata da un conflitto d’interessi che secondo la Procura è clamoroso. Dini però corregge in corsa. Spiega che fu un fraintendimento. Tutto doveva essere donato. Come scrive lo stesso Dini a Bongiovanni in una mail del 20 maggio, dove si esplicita uno storno di fatture per meno di 400 mila euro, cifra che corrisponde a 50 mila camici e non a 75 mila. Aria nella persona di Bongiovanni accetta e non eccepisce. Per la Procura il problema è il mancato rispetto del patto d’integrità firmato dalla Regione nel 2019 e che prevede la dichiarazione da parte del fornitore di non avere un conflitto d’interessi con l’ente pubblico. E il patto d’integrità, anche per ammissione di Bongiovanni al Fatto nei giorni scorsi, è stato volontariamente sospeso a motivo dell’emergenza pandemica. Un dato di non poco conto secondo l’interpretazione della Procura che legge la fornitura di Dama in chiaro conflitto d’interesse, perché sarebbe stato utilizzato un “mezzo fraudolento” che ha consentito di dare un “incarico” a chi non lo poteva ricevere. A rafforzare la posizione della Procura il cui fascicolo, in pochi giorni, è passato da un modello 44 a un modello 21 con indagati e capi d’accusa, vi è il fatto che ieri la Guardia di finanza ha acquisito diversi atti in Regione. Oltre a questo, come persone informate sui fatti i pm hanno sentito l’assessore regionale all’Ambiente Raffaele Cattaneo responsabile della task force per il reperimento di mascherine e camici. Dopo di lui e altri funzionari, è stato interrogato il presidente di Aria Francesco Ferri, ex presidente dei giovani industriali, molto vicino a Silvio Berlusconi.

Camici di casa Fontana, email smentisce il dono: indagato il cognato Dini

L’offerta da 513 mila euro per la fornitura alla Regione Lombardia dei camici dell’azienda del cognato di Attilio Fontana ha in calce una firma. Ed è proprio quella di Andrea Dini, cognato del governatore lombardo oltre che proprietario e ad di Dama, la società di cui detiene il 10% Roberta, moglie di Fontana. La sua firma fa fuori in un colpo solo la versione propinata per un mese sul contratto concesso a Dama in affidamento diretto, poi trasformato in donazione. E dimostra che tutti quei camici all’inizio erano ben lontani dall’essere un dono. Eppure Fontana il 7 giugno, dopo le anticipazioni del Fatto sull’inchiesta di Report che ha svelato il caso, scriveva su Facebook che c’era “alla base la volontà di donare il materiale alla Lombardia”, mentre Dini dava la colpa a un fraintendimento dei suoi collaboratori, responsabili di aver trattato per errore la donazione come un normale contratto. Ma ora il Fatto è in grado di rivelare che nell’offerta di Dama da cui tutto è partito i prezzi dei prodotti erano in bella mostra. E sotto i prezzi, il timbro dell’azienda e una firma. Non un collaboratore, ma il “dott. Andrea Dini”. Un elemento inedito in una vicenda al vaglio della procura di Milano, che ha iscritto nel registro degli indagati per turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente Dini e Filippo Bongiovanni, direttore generale di Aria, la centrale acquisti della Regione. Ieri la guardia di finanza si è presentata in Regione per acquisire i documenti relativi alla fornitura.

Altro che donazione. Nell’offerta inviata prima di Pasqua ad Aria, vengono proposti 7 mila set di camici, calzari e cuffie a 9 euro l’uno e 18 mila camici a 6 euro. Dini si dice inoltre disponibile alla “fornitura” di altro materiale: 50 mila set oppure 57 mila camici. “Sempre agli stessi prezzi. Tutto made in Italy”. Aria sceglie la seconda opzione e il 16 aprile emette un ordine per 7 mila set e 75 mila camici, per un valore totale di 513 mila euro.

Iniziano le consegne, tutte fatturate da Dama, finché il 20 maggio Dini invia un’email ad Aria annunciando la decisione di trasformare il contratto in una donazione. Ma solo per i camici già consegnati, visto che la fornitura del resto viene interrotta. L’email arriva dopo che da giorni Report ha iniziato a investigare sul caso. Quando l’inviato Giorgio Mottola citofona a Dini, lui sostiene che la commessa avrebbe dovuto essere sin da subito una donazione: “Non ero in azienda durante il Covid, chi se ne è occupato ha mal interpretato la cosa. Me ne sono accorto e ho immediatamente rettificato perché avevo detto ai miei che doveva essere una donazione”. Parole che ora vanno in fumo, di fronte alla sua firma sull’offerta.

L’offerta di Dini è indirizzata a Bongiovanni e fa riferimento alle “indicazioni” ricevute dall’assessore all’Ambiente Raffaele Cattaneo, sentito ieri come testimone insieme a Francesco Ferri, presidente di Aria. Perché Cattaneo fa da intermediario tra Dama e Aria? “Durante l’emergenza Cattaneo è stato in contatto con tutte le aziende che si sono offerte di riconvertire la propria produzione, affinché potessero produrre dispositivi di protezione individuale di qualità”, rispondono dall’assessorato ricordando che Cattaneo è stato a capo della task force per coordinare i fornitori. “I rapporti con le aziende per le fasi successive, come donazioni o forniture, sono invece stati gestiti da altri interlocutori”.

Altri interlocutori che ora dovrebbero rispondere a diversi quesiti. Per esempio sui 25 mila camici mai consegnati dopo che il contratto è diventato donazione. “Per quali motivi Aria non ha diffidato Dama a completare la fornitura? Perché non richiede il risarcimento danni per inadempimento contrattuale? La Regione non ritiene di segnalare Dama all’Anac?”, chiede in un’interrogazione il consigliere M5S Marco Fumagalli, che mette in dubbio anche la congruità del prezzo di 6 euro proposto da Dama: “Tra gli ordini di Aria c’è un acquisto di 44 mila camici su Amazon, a 1,6 euro l’uno”. Quattro volte in meno del prezzo del cognato di Fontana.

Scenari comici: la Casellati al Colle e Renzi al suo posto

“Conte? Come lo vedete come giudice della Corte Costituzionale?”. La situazione è conviviale. La battuta sembra buttata lì, per caso. Ma a farla è Matteo Renzi. Dunque, la battuta è un metodo: un modo per cominciare a sdoganare un’idea. Martedì sera, l’ex premier ha portato a cena una serie di parlamentari. Ha sondato il terreno su varie questioni. Ma in cima ai suoi pensieri, in questo momento, c’è l’elezione del Presidente della Repubblica. Come condizionarla, come trarne vantaggi. Fare fuori Conte anche da quella corsa è un’ossessione per Matteo. Mentre nel frattempo si moltiplicano i giochi. Una candidata del centrodestra esiste: Maria Elisabetta Casellati. Il “cavallo” naturale per Berlusconi, che potrebbe incontrare qualche favore anche da parte della Lega, visti i suoi continui tentativi di accreditarsi con il Carroccio. E Renzi che c’entra? Potrebbe votarla, prima di tutto per concorrere alla sua poltrona a Palazzo Madama. Non proprio un ruolo nelle corde del fu Rottamatore, ma di questi tempi non gli è dato scegliere, come si ragiona dentro Forza Italia. E poi dietro c’è un duplice obiettivo: la fusione con gli azzurri e un rinnovato asse con Matteo Salvini. Per molti, però, è fantascienza. A cominciare a porsi la questione del suo successore è da mesi lo stesso Sergio Mattarella. Lei è stata uno dei profili presi in considerazione. Ma appare irrimediabilmente inadeguata.

Il grande progetto Banda Larga: ecco perché B. fa il responsabile

Silvio Berlusconi si mostra in una versione inedita: soccorritore, o meglio “responsabile” del governo di Giuseppe Conte. Colui che creò Antonio Razzi ne è l’epigono. Sta lì che ammicca, che offre sostegno, che muove i senatori di Forza Italia come i riservisti della maggioranza, pronti all’uso. Berlusconi si è convertito alla stabilità di governo su indicazione di Gianni Letta, ancora il mediatore più scaltro, e di quel che resta del partito Mediaset. Questo accade perché l’esecutivo sta per varare, o almeno così dice, la più grande operazione di sistema degli ultimi anni nel settore delle telecomunicazioni: allestire una società a controllo pubblico per gestire la rete unica (o neutra) per internet in banda larga con il denaro statale di Cassa depositi e prestiti (Cdp) e le infrastrutture di Open Fiber e soprattutto di Telecom. Il premier Conte, che negli ultimi mesi ha un dialogo costante con Letta, lunedì ha ripetuto che “il progetto sarà annunciato a breve”.

La famiglia Berlusconi può ricavarne due benefici. Uno è indiretto, e non richiede macchinose strategie: risolvere il contenzioso con i soci di Vivendi che possono uscire dal pantano Telecom, dove invece sono primi azionisti con il 23,9 per cento, ma in minoranza in consiglio di amministrazione e con un titolo che sprofonda. L’altro è diretto, e necessita di una complessa architettura finanziaria e di mercato per non sbattere contro l’Antitrust: entrare nella società della rete con una quota dismessa da Vivendi (o acquistarne una) e diventare soci assieme a Cdp, cioè allo Stato, assicurandosi una rendita eterna e sicura.

In ogni caso a Berlusconi conviene intrattenere rapporti cordiali con Palazzo Chigi anziché inseguire la propaganda di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Per capire il punto di cottura dell’operazione, Il Fatto ha interpellato diverse fonti istituzionali e aziendali coinvolte nel negoziato. Per cominciare va spezzata la pantomima di Open Fiber, società di proprietà di Enel e Cdp con pari quota. Open Fiber è in ritardo di tre anni sui lavori per connettere le aree più disagiate in fibra come da bando europeo vinto, ma Francesco Starace, l’ad di Enel, da mesi ne blocca la vendita per avviare la fusione con Telecom. La scusa più recente l’ha fornita il fondo Macquairie che ha sopravvalutato Open Fiber all’iperbolica cifra di 7 miliardi di euro. Nessuno ci crede, a parte Enel. Un paio di settimane fa, agli Stati generali di Villa Pamphilj, raccontano i presenti che Conte, con una perifrasi, ha intimato a Starace di non ostacolare la rete unica con pretese eccessive per il 50 per cento di Enel in Open Fiber. A un prezzo ragionevole, per accelerare, Cdp potrebbe esercitare il diritto di prelazione e assumere la totale proprietà di Open Fiber. Va ricordato che Cdp detiene anche il 9,9 per cento di Telecom e che potrebbe avanzare con l’imminenza della nascita della società di rete. Sul tema, Vivendi di Vincent Bolloré ha una posizione accomodante col governo, ribadita nei frequenti contatti con Palazzo Chigi e la stessa Cdp. I francesi hanno soltanto un timore: terminare la campagna d’Italia, lanciata cinque anni fa, tra Mediaset e Telecom, con una perdita di oltre un miliardo e mezzo di euro. Il Fatto ha chiesto a Vivendi se ha intenzione di mettere in discussione una parte della quota in Telecom in una trattativa con Mediaset: “No comment”, ribatte Community, il consulente per la comunicazione in Italia di Vivendi. Risposta anodina, prevedibile, che però non smentisce la correlazione tra le due vicende. Al Fatto risulta che Vivendi, ai suoi interlocutori di Palazzo Chigi, si dichiari disponibile alla rete unica, a rivedere la sua posizione in Telecom, qualsiasi cosa, purché il governo li aiuti a costruire una pace col Biscione.

Vivendi appare silente in Italia e da troppo tempo passiva, ma in questo periodo c’è molta agitazione e si ascoltano tante voci, come quella informale dell’imprenditore Andrea Pezzi, ex volto del canale musicale Mtv nonché amico di Arnaud de Puyfontaine, ad di Vivendi. Anche Telecom ha fretta di agire per condividere il suo debito con lo Stato e capitalizzare la vecchia rete in rame. Berlusconi aspetta che l’operazione sia servita. Nell’attesa, si siede in maggioranza.