Conte e il Mes: “Osare con l’Ue”. E il centrodestra litiga sul vertice

Sul Mes Giuseppe Conte non cambia idea. “Mi sembra ideologico dire ora sì o no. Alla fine del negoziato valuteremo”, ha detto ieri, lasciando aperta una porta, il presidente del consiglio durante la conferenza stampa con il premier spagnolo, Pedro Sánchez. “Recovery fund entro fine mese”, dicono i due capi di governo che hanno poi “condiviso la necessità di una risposta forte”. “Dobbiamo osare”, ha detto Conte, alla seconda tappa del tour in vista del consiglio europeo del 17 e 18 luglio.

Nel frattempo, però, il premier ha scatenato uno psicodramma nel centrodestra. Dopo giorni di attesa, infatti, è arrivato l’invito alle opposizioni per confrontarsi sul risultato degli Stati generali e sulle prossime tappe europee. L’invito, per oggi alle 18, è giunto prima alla Meloni, che subito accetta. A quel punto interviene Salvini, che dice no. “Il signor Conte è un chiacchierone. Prima mantenga le promesse su Cig e cantieri, poi se ne parla. Ora ho impegni più urgenti”, afferma il leader leghista. Generando un corto circuito nel centrodestra, con FdI che era per il sì (ma con lo streaming, come i pentastellati prima maniera), mentre Forza Italia stava alla finestra. Il premier ci mette pure il carico da undici, sfottendoli. “Mi ricordano un po’ Nanni Moretti in Ecce Bombo: mi si nota di più se lo facciamo a Palazzo Chigi o a Villa Phamphili?”, dice. Una presa in giro sgradita che, secondo il centrodestra, si aggiunge alla lunga attesa e alla possibilità, ventilata qualche giorno fa, di inviti singoli, esclusi però dai tre partiti: “O si va insieme o niente. Sta cercando di dividerci”.

Resta però il mistero sul fatto che mentre Meloni, a mezzogiorno, aveva ricevuto l’invito di Conte, Salvini e Tajani invece no. Alla fine, dopo un vorticoso giro di telefonate, si decide di restare uniti e di rimandare a data da destinarsi (la prossima settimana?). “L’invito è stato comunicato con troppo poco preavviso e senza uno straccio di documento da studiare”, dicono.

Insomma, la telenovela dell’incontro tra Conte e le opposizioni continua. E l’azzurra Licia Ronzulli restituisce al premier la citazione morettiana. “Conte? Fa cose, vede gente…”.

6 peccati in opere e omissioni: la revoca si può (e si deve) fare

Il 14 agosto 2018 nel crollo del Ponte Morandi di Genova sono morte 43 persone. Tre giorni dopo Palazzo Chigi annuncia di aver “avviato la procedura di caducazione della concessione” di Autostrade per l’Italia (Aspi). In 695 giorni poco o nulla è cambiato, i governi Conte 1 e 2 non hanno risolto il braccio di ferro con il concessionario controllato dalla Atlantia dei Benetton. Le ragioni della revoca, però, non sono venute meno. E sono riassumibili nelle parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Nulla può estinguere il dolore di chi ha perso un familiare o un amico a causa dell’incuria, dell’omesso controllo, della consapevole superficialità, della brama di profitto”. Eccone un sunto.

Le responsabilità. Quelle penali le accerteranno i giudici. Ma stando alla relazione della commissione del ministero delle Infrastrutture che ha indagato le cause del crollo, l’ammaloramento del viadotto è proseguito “negli ultimi 27 anni” nell’inerzia del concessionario, che dal 1999 ha speso solo 23 mila euro l’anno “in investimenti per interventi strutturali”, il 2% di quelli effettuati dal 1982. I controlli effettuati nel 2017 dalla stessa Aspi avrebbero dovuto imporre “un provvedimento di messa in sicurezza improcrastinabile”, invece il punteggio di rischio dell’opera è rimasto basso. La sintesi della relazione è desolante: “Emerge una irresponsabile minimizzazione dei necessari interventi da parte delle strutture tecniche di Aspi, perfino anche di manutenzione ordinaria (…). Non fare oggi semplice manutenzione ordinaria significa voler fare domani molta manutenzione straordinaria a costi certamente più alti, con speculare maggiore remuneratività”, cioè da farsi ripagare con le tariffe dei pedaggi. “Ne discende, come logico corollario, una massimizzazione dei profitti utilizzando a proprio esclusivo tornaconto le clausole contrattuali”.

super guadagni. L’effetto si è visto. Negli ultimi 10 anni Aspi ha staccato dividendi per 6 miliardi ad Atlantia, un margine lordo del 30% sui ricavi, con pochi eguali nel mondo, anche grazie al contenimento della spesa in manutenzione (rimasta sotto i 300 milioni l’anno, mentre la spesa per investimenti è passata da 1,15 miliardi del 2009 a 475 milioni nel 2018). È la stessa Aspi che ammette di aver lesinato: oggi promette di aumentare le manutenzioni del 40% al 2023.

La concessione. I numeri di cui sopra sono frutto di una concessione completamente squilibrata. Quella di Autostrade fu approvata per legge nel 2008 dal governo Berlusconi. Era stata bocciata dall’Antitrust e dal Nucleo per la regolazione dei servizi di pubblica utilità (Nars) anche perché conteneva una clausola mostruosa che garantisce ai Benetton un indennizzo gigante anche in caso di revoca per colpa grave. Una norma illegittima secondo la Corte dei conti e i giuristi del Mit, perché di fatto vietata dal codice civile. La concessione prevede un sistema tariffario congegnato per garantire ad Aspi tariffe sempre crescenti (+27% dal 2009). Aspi aveva l’obbligo di custodia del Morandi, a cui è venuta meno con il crollo del viadotto.

Le inchieste. I fascicoli aperti dopo il Morandi sono 4, con almeno 100 persone indagate (oltre ad Aspi stessa). C’è anche un filone che riguarda i report taroccati sui viadotti in tutta Italia (altri 20 indagati). Aspi ha scaricato i suoi dirigenti e Spea, la controllata che si occupava di sicurezza, come se i comportamenti fossero il frutto di mele marce e non di direttive dall’alto. Eppure Michele Donferri, che per Aspi si occupava della manutenzione, è stato intercettato mentre dettava la linea ai sottoposti: “Devo spendere il meno possibile… sono entrati i tedeschi… a te non te ne frega un cazzo sono entrati cinesi… devo ridurre al massimo i costi… e devo essere intelligente de porta’ a fine concessione”.

Avellino. Il Morandi non è l’unico disastro che coinvolge Aspi. Il 28 luglio 2013 sono morte 40 passeggeri del pullman precipitato dal viadotto Acqualonga della A16 Napoli-Canosa, dopo aver abbattuto le barriere new jersey dai tiranti resi fradici dall’usura e mai cambiati per mancata manutenzione. Sono stati condannati solo i dirigenti del sesto tronco di Autostrade per disastro colposo e omissione in atti d’ufficio, mentre l’ex ad Giovanni Castellucci è stato assolto (i pm hanno fatto ricorso).

Ce lo dicono loro. I nuovi vertici di Aspi e, a modo loro i Benetton, hanno ammesso a più riprese di non aver gestito come si doveva i 3 mila chilometri affidati dallo Stato. In una intervista a Repubblica, l’attuale ad Roberto Tomasi ha riconosciuto le mancanze e indirettamente scaricato la colpa su Castellucci, di cui era braccio destro, parlando della necessità di “inserire persone con culture aziendali diverse (…) rendendo più responsabili i vari livelli, rafforzando i controlli e la trasparenza perché le informazioni vanno condivise”. Assolto ad Avellino, Aspi l’ha lasciato al suo posto per altri 6 anni prima di scoprire che serviva “un cambio di cultura manageriale”. A oggi la società non sa ancora spiegare perché è caduto il Morandi.

L’ultima crepa a 5 Stelle. “Qui ci sfotte pure Toti”

La profondità della ferita la avverti nella voce di chi è lì, nella città dove brucerà più forte. “Ora servono davvero segnali concreti” scandisce Luca Pirondini, capogruppo del M5S a Genova. Se il Movimento dovesse ammainare anche quello stendardo, la revoca della concessione ai Benetton, tanti 5Stelle non potrebbero più riconoscersi nello specchio già offuscato dalle abiure su totem come Tav, Ilva eTap. E chissà come finirà sul Mes, se il no al fondo salva stati stingerà.

Nell’attesa Pirondini deve fare professione di fede: “Sono sicuro che il Movimento abbia fatto e stia facendo il massimo per la revoca della concessione”. Intanto però quel ponte è tornato ad Autostrade, almeno per adesso, e nella Liguria che a settembre va al voto potrebbe essere il colpo ferale alla coalizione che non è neanche nata, a quell’agglomerato tra centrosinistra e M5S che litiga da settimane su un eventuale candidato (le voci di dentro adesso danno come favorito Aristide Massardo, ex preside di Ingegneria nell’università di Genova). Per questo di buon mattino il governatore di centrodestra Giovanni Toti infierisce: “Dopo due anni di minacce, immobilismo e proclami il ponte di Genova verrà riconsegnato proprio ad Autostrade, come ha ordinato il governo M5S-Pd”. E fuori taccuino un grillino di peso lo ammette: “Siamo riusciti a farci prendere in giro da Toti”. Così due deputati liguri della vecchia guardia, Simone Valente e Sergio Battelli, provano a tamponare: “Conte ha dichiarato che il dossier autostrade è ancora aperto e che il governo sta cercando una soluzione attraverso un confronto con Aspi per definire le condizioni che porteranno alla revoca”. È un tentativo di linea: il ponte è tornato ad Aspi, vero, ma ciò che conta è l’obiettivo finale. Però non può bastare per tenere buona la base, con il blog delle Stelle trabocca di rabbia nei commenti ai post, che pure parlano di tutt’altro. “Perché fare promesse che non si possono mantenere?” accusa tale Giorgio. Lo chiedono, con toni e spesso insulti differenti, in tanti.

Ma esplode anche il corpaccione dei parlamentari. “Se cediamo sulla revoca non potremo tornare a casa, questa volta ci rincorrono” scrivono nelle chat e negli sms. E la paura diffusa è che “su questa storia il governo può davvero cadere”. Tanto che il capo politico reggente Vito Crimi, tanto che twitta sillabe che sembrano quasi un mantra per salvarsi l’anima: “Il ponte di Genova non deve essere riconsegnato nelle mani dei Benetton, non possiamo permetterlo. Su questo il M5S non può arretrare di un millimetro”.

In serata , la sentenza della Consulta fa riacquistare un po‘ di colore ai 5Stelle. “Non era illegittimo estromettere i Benetton dalla ricostruzione del Ponte di Genova, il nostro decreto andava bene” celebraLuigi Di Maio. E tutto il M5S invoca la revoca, chiede “giustizia”, rivendica: “Non ci siamo piegati”. Ma la grana vera, la concessione, è ancora lì. E in serata monta la rabbia verso Conte, accusato di aver aspettato troppo, di aver cercato una mediazione impossibile con il Pd. La conferma di una distanza tra certi big e l’avvocato: il (presunto) avversario partorito dai 5Stelle che ora temono il baratro.

 

La Consulta:“Fu giusto escludere l’Aspi dai lavori”

La Corte Costituzionale asfalta i Benetton: è stato legittimo escludere la concessionaria di famiglia, Autostrade per l’Italia, dalla ricostruzione di Ponte Morandi crollato due anni fa portandosi via 43 vite. “La decisione di non affidare ad Autostrade la ricostruzione del Ponte è stata determinata dalla eccezionale gravità della situazione che lo ha indotto, in via precauzionale, a non affidare i lavori alla società incaricata della manutenzione del Ponte stesso” ha messo nero su bianco la Consulta con una decisione che manda in testa coda Aspi. Che contava su un verdetto diverso non solo per chiedere il risarcimento del danno allo Stato che l’ha comunque obbligata a finanziare le demolizioni, gli espropri e i lavori per il rifacimento del viadotto sul Polcevera da cui è stata estromessa. Ma che soprattutto le avrebbe consegnato un’arma formidabile al tavolo della trattativa per spuntare la revisione della concessione anziché la revoca minacciata dal governo. Dove adesso i 5 Stelle alzano la testa per esigere immediatamente una soluzione che vada in questa direzione. Proprio in una delle giornate più difficili per il Movimento messo sulla graticola dopo che si è reso necessario riconsegnare la nuova opera ormai completata a quello che è, almeno per ora, il concessionario e cioè proprio Aspi.

Ieri a introdurre la questione alla Consulta è stato il relatore Augusto Barbera a cui è toccato ripercorrere i termini principali della questione. Rimessa all’attenzione dei giudici costituzionali dal Tar Liguria che a dicembre si era spogliato della questione ritenendo non manifestamente infondate le doglianze di società Autostrade che aveva fatto ricorso. La concessionaria in buona sostanza aveva sostenuto che il governo avesse violato una manciata di articoli della Costituzione e soprattutto i suoi diritti: perché si era permesso di nominare un commissario (il sindaco di Genova Marco Bucci) incaricandolo di fare presto e bene per restituire un nuovo ponte alla città affidando ad altri i lavori di demolizione del poco che era rimasto in piedi dopo il cedimento e poi quelli di ricostruzione. Una iniziativa ritenuta intollerabile da Aspi, forte di una concessione capestro che prevede che le spetti in esclusiva la manutenzione ma anche le eventuali “riparazioni” dell’infrastruttura. E poco importa che l’opera fosse addirittura crollata: lor signori avevano il diritto di “ripararla” peraltro in meno tempo rispetto al commissario (9 mesi) e pure ad un prezzo più ragionevole. Sicuramente meno del conto che invece è stato presentato ad Aspi da Bucci: una nota spese da 450 milioni, spiccio più spiccio meno. E neppure definitiva. Il Tar non era stato sordo a questi alti lai, pur riconoscendo che la concessione di cui gode Aspi le accordi una “tutela molto accentuata” rispetto al normale: prima di poter esigere alcunché sono previsti tempi dilatati e neppure è detto. Per tacere della decadenza praticamente impossibile da invocare anche in caso di grave inadempimento. Epperò, stando ai giudici amministrativi, il governo sarebbe intervenuto a gamba tesa e sulla base della “meramente potenziale responsabilità (di Aspi, ndr.) nella causazione del sinistro occorso in data 14 agosto 2018”. Probabilmente violandone le prerogative e pure quelle che competono all’ordine giudiziario, l’unico deputato ad accertare se il crollo è stato una tragica fatalità o frutto delle mancate manutenzioni. Per la Consulta invece, la Carta è salva: non è stato violato il principio di proporzionalità e ragionevolezza, né la libertà di impresa di Autostrade per l’Italia e nemmeno il suo diritto di difendersi in tribunale.

Sulla revoca ora si va alla conta. Il premier: “Ci vediamo in Cdm”

Il premier che vede e sente traballare tutto punta sulla revoca. Non può fare altro Giuseppe Conte, dopo un mercoledì in cui il governo è quasi impazzito. Di mattina ha pagato il prezzo dei suoi rinvii, con la lettera della ministra dem alla Infrastrutture Paola De Micheli che ha riconsegnato il ponte Morandi di Genova ad Autostrade: e al M5S, apostolo della revoca della concessione ai Benetton, è mancata l’aria, mentre dentro i giallorosa tutti accusavano tutti. Di sera, la sentenza della Consulta ha ridato ossigeno innanzitutto a loro, ai 5Stelle, stabilendo che non era illegittimo escludere Aspi dalla ricostruzione del ponte. Un possibile aiuto, ma anche un alibi che cade, per il premier.

Di sicuro la partita vera è quella sulla concessione, su cui può anche cadere un governo. E dalla Spagna, dove incontra il premier Sánchez, Conte chiama tutti alle proprie responsabilità: “Porteremo il dossier Autostrade in Consiglio dei ministri, è una decisione di tale importanza che dovrà essere condivisa al di là dei due ministri direttamente competenti. Va coinvolto tutto il governo”. Sarà un dentro o fuori. Ma prima, oggi pomeriggio, andrà in scena l’ultimo tentativo di evitare lo scontro. Un tavolo con Aspi, convocata dal Mit con una lettera che raccontano dura. Ad Autostrade i tecnici del Mef e delle Infrastrutture proporranno come alternativa alla revoca un pacchetto: rinuncia a tutti i contenziosi giudiziari, accettazione del nuovo sistema tariffario dell’Autorità dei Trasporti, e infine la cessione delle quote.

Un punto decisivo per il Mef, come per Conte. E irrinunciabile per il M5S, che aveva fermato la cessione delle quote di Aspi a Cassa depositi e prestiti, “perché non possiamo dare soldi ai Benetton”. Ma Autostrade vuole vendere solo una parte delle quote, al suo prezzo. Forse lo dirà anche nel vertice, che serve alla De Micheli per uscire dall’angolo. In mattinata a Radio24 ha confermato: “Ho scritto io la lettera al sindaco Bucci. La gestione va al concessionario, che oggi è Aspi ma sulla vicenda c’è ancora l’ipotesi di revoca”. Nel Pd la descrivono come una scelta obbligata: la procedura della revoca è ancora in corso, quindi non poteva fare altrimenti. E così ammettono anche grillini di peso. Ma altre fonti di governo raccontano come il premier avesse sconsigliato alla De Micheli di scrivere a Bucci la missiva, di fatto una risposta al commissario. Il punto è che ora l’esecutivo si trova di fronte a una decisione da prendere, rinviata troppe volte per paura di farsi male. E in mezzo al fuoco è finita innanzitutto la De Micheli, che aveva mandato la lettera anche al premier. Chi le ha parlato ieri l’ha trovata profondamente provata, per aver dovuto “sopportare di tutto”, “pagare gli errori degli altri, Toninelli compreso”. Da tempo al centro del mirino, prima di tutto dei renziani, ieri sulla De Micheli piovono anche i dubbi della segreteria del Pd. Al Nazareno sono “amareggiati” e “irritati”. Non sapeva nulla Zingaretti, non sapeva nulla Orlando. Il segretario va ripetendo: “Lo sto dicendo da tempo che bisognava arrivare a una decisione. Neanche indico quale: è una scelta del governo. Ma non decidere non si può”. Ancora: “Vedrete che tra due settimane su Ilva sarà la stessa cosa. Ci sono troppi dossier su cui non si fanno delle scelte. Alla fine, l’unica cosa che sarà stata fatta sarà il taglio dei parlamentari, perché noi siamo stati corretti. Neanche sulle alleanze ci sono venuti incontro”.

I 5Stelle invece reagiscono con furia. Neppure i vertici del M5S, compresi il capo politico reggente Vito Crimi e l’ex leader Luigi Di Maio, sapevano della lettera. Ma tanti accusano Conte. “Doveva decidere due mesi fa, glielo avevamo detto”. Riemergono rancori e sospetti vecchi di settimane, dai big di governo. “Rinviare non risolve i problemi” ringhia Stefano Buffagni. Il premier lo sa, e per questo vuole un Cdm dove tutti dovranno scegliere. In serata può celebrare per la Consulta: “Conforta che abbia confermato la legittimità della soluzione che venne elaborata” . Ma la notte deve ancora passare.

Chi tace acconsente

Molti lettori ci scrivono sull’Operazione Rivergination avviata dalle tv e dei giornali di B. sull’unico suo processo scampato (finora) alla prescrizione, quello per frode fiscale sui diritti Mediaset: perché proprio ora, quando ormai nessuno – nemmeno lui – si ricordava più della sua condanna? Perché un ampio schieramento affaristico e politico, dunque editoriale, che spinge per rovesciare il governo Conte e rimpiazzarlo con uno di larghe intese&imprese che sbarchi i 5Stelle e imbarchi Pd, Iv, FI, Lega e i soliti trasformisti all’asta. Ma, prima di riesumare il pregiudicato, bisogna candeggiarlo di fresco. I trombettieri di Arcore, linciando il giudice Esposito e chi osa ricordare che B. fu condannato perché era colpevole, fanno il loro sporco mestiere. L’anomalia è il silenzio di chi sa come andarono le cose e l’ha più volte raccontato, ma ora tace per non disturbare i manovratori (anzi, intervista B. senza far domande). Noi continueremo a disturbarli facendo l’unica cosa che sappiamo fare: raccontare i fatti.

Nel 2006 il gup di Milano accoglie le richieste dei pm Robledo e De Pasquale e rinvia a giudizio B. e altri top manager Mediaset per falso in bilancio, frode fiscale e appropriazione indebita. La Procura ha scoperto che il Cavaliere, prima e dopo l’ingresso in politica nel ’94, dispose una serie di operazioni finanziarie per acquistare i diritti tv di film dalle major Usa con vorticosi passaggi fra società estere (tutte sue) per farne lievitare artificiosamente i prezzi: così rubò a Mediaset, tramite due offshore intestate ai figli, almeno 170 milioni di dollari e se li intascò in nero, sottraendo al fisco almeno 139 miliardi di lire e falsificando i bilanci anche durante la quotazione in Borsa nel ’96. Parte delle accuse, per i fatti più vecchi, già nell’udienza preliminare è coperta dalla prescrizione (abbreviata nel 2005 dalla legge ex Cirielli). In Tribunale la prescrizione falcidia pure i falsi in bilancio più recenti: resta in piedi parte delle appropriazioni indebite e delle frodi fiscali (fino al 2003). Il processo viene sospeso dal 2008 al 2010 per il Lodo Alfano e riprende quando la Consulta lo dichiara incostituzionale. Il 26 ottobre 2012, dopo ben 6 anni di corsa a ostacoli a base di leggi ad personam, ricusazioni, istanze di rimessione e legittimi impedimenti, arriva finalmente la sentenza di primo grado: condanne per frode fiscale a B. (4 anni), a due manager e al produttore-prestanome Agrama, assolto Confalonieri. Tutte prescritte anche le residue appropriazioni indebite e gran parte delle frodi. Le motivazioni descrivono un’“evasione fiscale notevolissima” (368 milioni di dollari) e un “disegno criminoso” di cui B. fu “l’ideatore” e poi il “dominus indiscusso”.

“Non è sostenibile – secondo il Tribunale – che Mediaset abbia subito truffe per oltre un ventennio senza neanche accorgersene”. Infatti faceva tutto il padrone, che “rimase al vertice della gestione dei diritti” e del meccanismo fraudolento anche “dopo la discesa in campo” del ’94. Non a caso la Cassazione ha già accertato che fu lui a fine anni 90 a far versare la tangente all’avvocato David Mills, creatore negli anni 80 delle società estere e occulte della Fininvest, perché testimoniasse il falso e lo salvasse da condanne certe nei processi per le mazzette alla Guardia di Finanza e i falsi in bilancio All Iberian.

L’8 maggio 2013 la II Corte d’Appello di Milano conferma in pieno la sentenza di primo grado: “vi è la prova, orale e documentale, che Silvio Berlusconi abbia direttamente gestito la fase iniziale del gruppo B (sistema di società offshore) e, quindi, dell’enorme evasione fiscale realizzata con le offshore”. Anche dopo l’entrata in politica, “almeno fino al 1998 vi erano state le riunioni per decidere le strategie del gruppo con il proprietario Silvio Berlusconi”: “Non solo si creavano costi fittizi destinati a diminuire gli utili del gruppo e quindi le imposte da versare all’erario italiano, ma si costituivano ingenti disponibilità finanziarie all’estero”. E “non è verosimile che qualche dirigente di Fininvest o Mediaset abbia organizzato un sistema come quello accertato e, soprattutto, che la società abbia subito per 20 anni truffe per milioni di euro senza accorgersene”.

La Cassazione, dopo i due giudizi di merito, deve solo valutare la legittimità della sentenza d’appello, perfettamente coerente con la giurisprudenza della III sezione (quella del giudice Amedeo Franco, specializzata in reati fiscali) sulle “frodi carosello”. E il 1° agosto 2013, appena in tempo per scongiurare la prescrizione delle ultime due frodi superstiti (4,9 milioni sugli ammortamenti del 2002, che si estingono proprio quel giorno; e 2,4 milioni su quelli del 2003, che si estinguono il 1° agosto 2014), arriva la sentenza, firmata dal presidente della sezione Feriale Antonio Esposito e dagli altri quattro giudici (fra cui Franco). Da allora nasce la leggenda di un “processo sprint” per negare a B. la prescrizione, che lui ritiene un diritto acquisito e che invece la Corte ha l’obbligo di evitare a ogni costo. Cosa ci sia di “sprint” in un dibattimento iniziato nel 2006 e concluso nel 2013 e di “anomalo” nell’assegnazione di un processo a rischio di prescrizione alla sezione Feriale della Cassazione (com’era accaduto nel 2011 per 219 processi e nel 2012 per 243), lo sanno solo i falsari pagati da B. E, se qualche beota casca nella trappola, è per il silenzio di tutti quelli che sanno.

“Nove Racconta”: Discovery punta sull’attualità. Anche con Loft

Riscatto e ripartenza dopo il lockdown. Questo l’input dei palinsesti della stagione 2020-2021 del gruppo Discovery, per la prima volta in streaming per rispettare le misure di sicurezza anti Covid-19.

L’Amministratore delegato di Discovery Italia Alessandro Araimo, la Svp chief content officer Laura Carafoli, il General manager di Discovery media Fabrizio Piscopo, il direttore di Nove Aldo Romersa e il direttore di Real Time, Food Network, Hgtv Gesualdo Vercio hanno tracciato la linea di tutti i programmi (tra conferme e novità) delle reti: nel segno dell’innovazione, dell’esperimento sociale, ma anche dell’attualità. “È stato un semestre record per Discovery con l’8 per cento di share nelle 24 ore e con il +10 per cento di share rispetto allo scorso anno”, ha dichiarato Araimo.

Sul Nove confermato da settembre, dopo il successo con punte record di oltre 800 mila telespettatori e una media solida di 560.000, il talk d’approfondimento politico Accordi & Disaccordi, prodotto da Loft Produzioni e condotto da Andrea Scanzi e Luca Sommi con la partecipazione di Marco Travaglio. Peter Gomez torna con La Confessione (sempre Loft Produzioni) con la nuova formula 2.0, mentre per il 2021 è previsto un grande progetto ancora top secret. Dopo la maternità, Valentina Petrini di nuovo al comando di Fake-La Fabbrica delle notizie. Nel segno delle conferme Fratelli di Crozza, mentre una interessante novità sarà Quasi quasi cambio i miei, in onda a dicembre con due adolescenti che si scambieranno le famiglie per vivere esperienze opposte.

L’attualità sarà raccontata dal ciclo di documentari Nove Racconta su crimini e mafie del nostro Paese. A settembre la serie in collaborazione con l’Arma dei Carabinieri Avamposti – Dispacci dal confine, firmata da Claudio Camarca e dedicata alle difficili realtà urbane. Ci saranno anche i ritratti del capitano Ultimo e di Borsellino. Su Real Time il grande successo di Bake Off Italia con la new entry Csaba dalla Zorza di Cortesie per gli ospiti. Tra gli esperimenti sociali Matrimonio a prima vista e Primo appuntamento, girati tra le misure di sicurezza.

Oltre 20 nuovi format italiani e 50 internazionali in arrivo, tra cui la versione italiana di Ti spedisco in convento con 5 influencer che saranno “educate” dalle suore. Sul Web Dplay supera i 3 milioni di utenti al mese, mentre su Dplay Plus arriverà la versione italiana di Naked Attraction. Infine dopo 7 anni di “matrimonio” termina il rapporto tra Real Time e Amici di Maria De Filippi. Il day-time del talent torna a Mediaset.

“L’altra faccia del Paradiso”: su Yesflix ci si annoia a morte

Sarà capitato anche a voi di aver ascoltato le frequenze di Radio Maria o di aver incrociato i programmi di Tv 2000: si tratta di due prodotti editoriali d’ispirazione cattolica, con proprietà cattolica, rispettivamente Associazione Radio Maria e Rete Blu Spa controllata dalla Conferenza episcopale italiana. È evidente che entrambi siano offerte che vanno a soddisfare quel tipo di domanda. Se sei cattolico (ma anche se non lo sei), puoi scegliere di leggere e comprare Famiglia Cristiana, Avvenire, l’Osservatore Romano, così come altre forme di fede e posizionamento ideologico vengono assecondate in maniera altrettanto appagante da Il Manifesto o da Il Giornale o da Libero.

All’interno di una programmazione teoricamente laica la radiotelevisione di Stato inserisce spesso elementi religiosi. Per i credenti c’è la possibilità di seguire la messa la domenica su Rai Uno o approfondire la conoscenza teologica attraverso trasmissioni come Uomini e profeti su Radio 3. E se Don Matteo va in onda da vent’anni, 255 puntate in prima serata su Rai Uno, un motivo ci sarà.

Però, su quella stessa rete in questi vent’anni sono stati trasmessi prodotti che al loro interno mostravano omicidi, rapine, risse, torture, prostituzione, sesso, su quella stessa rete si è parlato e urlato con la lingua della violenza, del peccato, della menzogna. Ecco, per chi disdegna una simile commistione, è stata creata, per ora solo in versione tedesca e inglese, la piattaforma Yesflix.

Il nome propone già in sé un’accettazione, come la Vergine Maria che asseconda le volontà celesti dopo l’Annunciazione. In più il rassicurante claim, “Vedere il bene”, garantisce che nulla potrà portarci nelle direzioni sbagliate o nelle selve oscure. Evidentemente il pubblico che popolava le chiese teutoniche attualmente preferisce il divano per usufruire di “contenuti che trasmettano positività e che supportino i valori cristiani”. La parola centrale è per l’appunto quello Yes, quel Sì, che corrisponde a un “andarsi incontro con molto rispetto e nell’accogliere i valori fondamentali della famiglia, della coppia, della responsabilità e dell’amore”.

Sfogliando le possibilità di scelta da L’altra faccia del Paradiso a Le vie dell’amicizia, ci si trova davanti a una serie di attori abbastanza sconosciuti. Solo ogni tanto compare il nome di una star di Hollywood, all’interno di una produzione che non ha avuto alcuna risonanza da un punto di vista commerciale o critico. Oppure qualcuno di voi ha già visto Running Wild – Il prezzo della libertà con Sharon Stone, dove cinque carcerati si mettono ad accudire un branco di cavalli?

L’idea di fondo è estremamente semplice: il bene è così puro, così immacolato e candido, che non si può sporcarlo con il resto. Eppure il peccato è contemplato nel cristianesimo, è raccontato nella Bibbia, c’è quello originario di Adamo ed Eva, che viene lavato via dal battesimo, e poi c’è tutta una vita per una sfida algebrica fra bene e male, con il passaggio dal via attraverso la confessione. Se non ci fosse stato il peccato, il ruolo di Gesù Cristo sarebbe stato di gran lunga più marginale.

L’idea manichea di Yesflix del bene senza il male, a parte disconoscere gran parte della storia della filosofia, dai cavalli (di nuovo loro!) platonici alla dialettica hegeliana, va a distruggere ogni forma di narrazione. Come può esserci un lieto fine, se già è lieto l’inizio e anche la parte di mezzo? Che ce ne facciamo di famiglie felici che rimangono felici? Poveri russi dell’Ottocento con il loro drammi esistenziali, per non parlare di convertiti come San Paolo e Sant’Agostino.

Alla banalità del male, Yesflix oppone la noia del bene. Anche per il pubblico più giovane ovviamente. I tre film più gettonati per i bambini sono: al terzo posto, Il pellegrinaggio, al secondo posto, Piccoli eroi nel grande mondo selvaggio e al primo Lettere a Dio, la vicenda di un piccolo di otto anni malato di cancro che chiede al Padreterno se lui dal cielo può vedere le stelle.

Il focus è tutto là: cosa si può vedere dalla posizione in cui ci troviamo. Per esempio vista così Yesflix sembra proprio, più che una piattaforma, una forma molto molto piatta di racconto.

Che scemi in vespa con Nanni

“Si è sempre il Sud di qualcun altro”. Quanto ha ragione Mario Fortunato che proprio al meridione dedica il suo luminoso romanzo: Sud (Bompiani). Non aspettiamoci però un d’après dei libri di Corrado Alvaro, poiché attraverso il racconto di una famiglia borghese in Calabria dagli albori del fascismo fino agli Anni 70, Fortunato affronta un’impervia discesa nelle viscere dell’appartenenza al Sud come a una categoria dello spirito. “Ho incubato questo libro per 30 anni e poi, a seguito di un viaggio in India, è sbocciato rapidamente”, prosegue l’autore. “Lì, mi aveva colpito la presenza del mito nella vita di ogni giorno, come ai tempi della Grecia classica. Ecco, per me appartenere al Sud risale alla cultura magno-greca. Così, ho immaginato un meridione un po’ magico, depurato dalle retoriche straccionistiche e sociologiche della vulgata e ho rimodellato la storia della mia famiglia in una vicenda in cui il mito è ancora molto vicino alle persone. Inseguendo un’idea di vita pre o post cattolica, non punitiva ma sorridente”. Ciò in cui riesce Fortunato, con un vero colpo da maestro, è sospendere ed eliminare la nostalgia per il passato, lasciando spazio solo alla gioia. Un po’ commedia e un po’ tragedia, Sud è una storia umanissima del meridione, con dentro molta politica.

Potremmo definire il suo un romanzo politico?

Volevo ragionare sulla Storia d’Italia dentro a quel calderone che è il 900, che sembra l’inconscio del secolo che stiamo vivendo: pieno di pulsioni cancellate, sogni sepolti, fantasie rimosse. Ecco, volevo far precipitare il 900 italiano in una saga famigliare, fitta di storie e personaggi tragici e insieme comici come la vita. Una specie di Cent’anni di solitudine con al centro la questione meridionale, vale a dire uno dei nodi più dolorosi e irrisolti del secolo scorso, oggi dimenticato. Volevo inserirmi nella tradizione romanzesca italiana più feconda, quella del racconto civile da Manzoni ad Arbasino.

Che fine ha fatto quella figura civile dell’intellettuale impegnato?

A un certo punto si sono sputtanati. L’impegno si è rivolto soprattutto alle proprie carriere. Contemporaneamente, tanto per lavarsi le coscienze, si firmavano appelli in difesa o contro qualsiasi cosa. Sempre perlopiù chiusi nel proprio salottino, sempre a fare la predica agli altri. Con esiti catastrofici. Prendete oggi Massimo Cacciari: è un uomo di grandissima intelligenza, un filosofo di prim’ordine. Ogni giorno ci dice da giornali e tivù che cosa c’è di sbagliato in Italia. La domanda, però, sorge spontanea: Cacciari è stato sindaco di Venezia, deputato credo per più di una legislatura: dove cavolo era quando le cose venivano fatte male e pensate peggio? È solo un esempio ma può far capire le ragioni dello sputtanamento.

I protagonisti del suo romanzo crescono in Calabria come sapendo di doversene andare. È il destino di chi nasce al Sud?

Solo in parte, perché le radici sono sempre sorprendenti. È vero che si va via per necessità o per scoprire il mondo, ma si finisce in una maniera o nell’altra col tornare alle origini: lì c’è qualcosa che ci riguarda nel profondo, che ha a che fare con il nostro stare al mondo, il rapporto con la vita e la morte.

Anche lei, come in particolare Valentino (uno dei personaggi di Sud), è andato via dalla Calabria.

Quando sono arrivato a Roma, era una città mortificata dagli anni di piombo. Poco dopo essermi trasferito, ci fu il rapimento Moro. Un clima terribile. Poi per fortuna arrivarono quegli anni scemi, corrotti e liberatori che furono gli 80. E conobbi Tondelli. Eravamo ragazzi, ci siamo divertiti parecchio. Pier è stato il mio amico del cuore. Quando andavamo in giro, di giorno come pure la sera per locali, era timidissimo, per trasformarsi poi nel privato: sapeva essere molto spiritoso e tagliente. Avevamo un nostro linguaggio fatto di doppi sensi, allusioni. Ricordo che a tutti quelli che incontravamo, amici in giro o i colleghi del mondo letterario, appioppavamo nomignoli piuttosto cattivi. C’era un lato primario nella nostra amicizia: eravamo uno il doppio dell’altro.

E andava in Vespa con Moretti?

Nanni l’ho conosciuto negli Anni 90. Abbiamo avuto un rapporto simbiotico, tanto che la sua compagna diceva per scherzarci su che eravamo fidanzati. Ricordo molti pomeriggi in giro a mangiare gelati nei posti più stravaganti. E poi abbiamo davvero girato tutta Roma in Vespa. Ho vissuto molto da vicino alcuni suoi film. Basti pensare che, durante le riprese di uno dei suoi primi film, poiché giravano dietro casa mia, la pausa pranzo la passavamo insieme da me con tutta la troupe. Ricordo che in Aprile dovevo interpretare un giornalista dell’Espresso pentito, che di spalle doveva dire che si vergognava del suo lavoro. Alla fine, decisi di non farlo.

Perché?

(Ride) Io a quell’epoca lavoravo davvero all’Espresso e temevo mi avrebbero licenziato.

“Un miliardo di bond legati alla ‘ndrangheta”

Un salto di qualità della ‘ndrangheta. Uno scandalo che lambisce istituti di credito italiani e stranieri e una nota società di consulenza internazionale. Secondo una inchiesta di Miles Johnson del Financial Times, investitori internazionali avrebbero comprato obbligazioni per un totale di un miliardo garantite da società di facciata, sospettate di essere collegate a cosche della ‘ndrangheta. In quasi tutti i casi si sarebbe trattato di compravendite private, non sui mercati finanziari e non soggetti a valutazione delle società di rating.

In un caso, però, i bond sono stati acquisiti da Banca Generali, con la consulenza di EY. La vendita sarebbe avvenuta fra il 2015 e il 2019, e secondo documenti legali e finanziari esaminati dal giornalista britannico, una parte delle obbligazioni si sono in seguito rivelate collegate a beni riconducibili a società di comodo della mafia calabrese, che però in un primo tempo sono riuscite ad aggirare i controlli anti-riciclaggio. Una traccia seguita dal Corriere di Calabria, che ieri è tornato sul caso. Fra il 2006 e il 2015 lo Stato avrebbe girato al Cara “Sant’Anna” di Isola Capo Rizzuto, in Calabria, un finanziamento europeo di 103 milioni per la gestione dei rifugiati. Di questi, secondo un’inchiesta della Dda di Catanzaro che ha portato all’arresto di alcuni dei presunti responsabili, 36 milioni sarebbero finiti nelle tasche del clan Arena, che controllava il campo profughi. Alcune della fatture alla base della speculazione sarebbe relative alla gestione del campo. Fra gli investitori, rivela il Financial Times, anche fondi pensione ed hedge funds, “attratti dalla possibilità di alti ricavi in una fase di interessi particolarmente bassi”. Un meccanismo che ha sfruttato una cronica vulnerabilità del sistema pubblico-privato: le obbligazioni sarebbero nate da fatture non pagate dalle autorità sanitarie italiane a una serie di fornitori di servizi medici. La legge europea, chiarisce l’articolo, prevede per le fatture scadute non pagate da enti pubblici una penalità a interesse garantito, che le rende appetibili a eventuali investitori che “scommettono” sul futuro saldo del debito. Un prodotto finanziario perfetto, venduto con la mediazione di Cfe, banca d’investimento con sede a Ginevra. Che ha precisato di essere all’oscuro dell’origine criminale di quei fondi, di aver sempre tenuto informate le autorità italiane e di aver comunque portato a termine tutte le verifiche necessarie, contando anche sui controlli dei professionisti regolamentati che avevano gestito le fatture prima della cartolarizzazione.

In ogni caso, ha chiarito la banca svizzera, le fatture incriminate sarebbero solo una piccola parte del totale. Versione simile quella di Banca Generali, che ha dichiarato: “Banca Generali e Banca Generali Fund Management Lussemburgo sono appena state informate delle cattive notizie. Hanno aderito all’offerta nella convinzione che la transazione avesse i requisiti richiesti”. Resta da sentire la versione di EY, il colosso della consulenza incaricata da Generali di gestire l’affare. Bisognerà aspettare: per ora, scrive il Financial Times, ha declinato ogni commento.