Il diavolo veste Melania: arriva il libro-vendetta dell’ex assistente

Della Andy del film con Maryl Streep nei panni di Miranda Priestly, Il diavolo veste Prada, Stephanie Winston Wolkoff non ha molto, se non il dato principale, quello di aver lavorato con il vero diavolo, Anne Wintour, la storica direttrice di Vogue che ha ispirato il film del 2006. Ma l’ex assistente della First Lady degli Stati Uniti, Melania Trump, che ora la minaccia con il libro rivelazione Melania and me in arrivo il 1° settembre – giusto in tempo per lo sprint finale per Usa 2020 – aveva già allora (nel 2001) tempra sufficiente per essere definita dalla temibile Anne, il “generale Winston”.

Figlia di un venditore di polli e di una madre ben introdotta nella New York che conta, all’abbandono di suo padre, si fa adottare dall’altrettanto noto patrigno, e ne prende il cognome, dalla nota casa di gioiellieri, più spendibile e altisonante del suo Batinkoff. Stephanie incarna l’evoluzione classica e quasi da film dell’arrampicatrice sociale a cui coniuga saper stare e professionalità. Fondatrice di ben due società di comunicazione, madre di tre figli, “magra, alta, elegante al punto da inorgoglire anche la sua ex direttrice, ambiziosa ma sempre dolce e amabile con tutti. Non si può odiarla, la si può solo amare”, dice di lei una delle sue più care amiche, Stephanie fa il salto fuori dalla mischia quando incontra la moglie del magnate in occasione della pianificazione della 58esima inaugurazione presidenziale. Il fatto, oltre all’ala est della Casa Bianca come consulente personale di Melania, le vale l’accusa di aver preso parte al dirottamento dei fondi per il comitato inaugurale di cui i procuratori accusano il presidente Trump.

Lei, tanto intima della coppia che la First Lady le fa gli auguri di compleanno su Twitter, nel 2018 viene fatta fuori. “Non sono stata licenziata”, sostiene, “mi hanno lanciato sotto un autobus”. Stephanie è delusa, ma non demorde, si dà al nuovo settore che conta: le cause dei bambini e delle donne. Sa come farsi amare, reintrodursi. Appena il tempo di rifarsi una verginità – il suo profilo compare nelle biografie di unwomenforpeace.org – cavalca la nuova onda che vuole i Trump fuori dalla Casa Bianca. Si invertono le parti. “I miei anni come confidente, consigliera e amica della First Lady” è il sottotitolo della sua vendetta. “Un ritratto rivelatore ed esplosivo dell’amicizia quindicinale con Melania Trump e osservazioni sulla Casa Bianca più caotica della storia”, da sinossi. E anche da manuale.

Usa&Londra contro Cina Il nuovo fronte è su TikTok

Guerra mediatica. È uno dei fronti strategici della contrapposizione geopolitica fra un rinnovato asse Stati Uniti-Regno Unito e la Cina. Lo scontro, oggi, è su due campi di battaglia: i social media, nuova patria transnazionale, e Hong Kong, ex colonia britannica, oggi hub finanziario internazionale ancora culturalmente anglofilo, ceduto alla Cina nel 1997 in cambio di una parziale autonomia che Pechino tenta di schiacciare con una repressione feroce.

I social. Il focus è su TikTok, app di video controllata dalla società cinese ByteDance e disponibile in 150 paesi e 39 lingue, per un totale stimato in 800 milioni di utenti, circa il 50% sotto i 34 anni. Oltre 37 milioni negli Stati uniti nel 2019, in rapida crescita. Il Segretario di Stato Usa, Mike Pompeo ha fatto capire che la Casa Bianca sta considerando se bandirla dal paese, insieme ad altre 59 app cinesi, per la disperazione delle molte celebrities attive sulla app (vedi boxino). A domanda di Fox News, ha risposto che la raccomanderebbe solo a chi ha voglia di consegnare “le proprie informazioni private nelle mani del Partito Comunista cinese”. TikTok ha protestato mostrando le proprie credenziali da multinazionale: “Il Ceo e centinaia di dipendenti sono negli Stati Uniti e ne applicano le leggi. Non abbiamo mai condiviso i dati degli utenti con il governo cinese”. Secondo quanto riportato da Forbes a giugno, però, TikTok avrebbe “spiato” gli utenti iPhone, abusando a più riprese di una funzionalità di iOS. Per Trump il boicottaggio di TikTok è un nuovo capitolo della contrapposizione con Pechino, commerciale, ideologica, strategica, che in passato lo ha rafforzato sul piano elettorale. Uno dei dossier più caldi è quello di Huawei, colosso cinese delle telecomunicazioni con un sostanziale vantaggio tecnologico nello sviluppo del 5G.

A maggio 2019 Huawei è finita nella lista nera dell’amministrazione Usa: un boicottaggio “per ragioni di sicurezza nazionale” poi parzialmente ridimensionato, in cui Trump ha tentato invano di coinvolgere l’alleato di sempre in Europa, il Regno Unito. A febbraio Boris Johnson aveva resistito anche a chi, nel suo partito, sottolineava i rischi per la sicurezza nazionale di coinvolgere Huawei nella fornitura di componenti per il network 5G. L’attività di lobbying di Washington su Londra si è però intensificata con le trattative per un accordo commerciale con gli Usa post Brexit, e ora Johnson sembra orientato a escludere il colosso cinese.

Poi c’è Hong Kong, snodo geopolitico cruciale di questo nuovo Grande Gioco. TikTok ha dichiarato lunedì sera che la sua versione internazionale smetterà di operare nell’isola, citando “eventi recenti”, cioè l’approvazione a Pechino della legge di sicurezza nazionale che di fatto sospende l’autonomia della città. Facebook, Twitter, Whatsapp, Zoom e Telegram, bandite in Cina, e Microsoft che invece in Cina è presente da 20 anni, hanno annunciato che, in attesa di comprendere le implicazioni politiche della nuova legge, non collaboreranno con la polizia di Hong Kong. Sfidando Pechino, Londra ha offerto la residenza ai 3 milioni di cittadini di Hong Kong con passaporto britannico. E ci si aspetta che la prossima ondata del nuovo regime di sanzioni per violazioni dei diritti umani, appena inaugurato dal Regno Unito, includa Carrie Lam, l’attuale governatrice di Hong Kong. Intanto l’Agenzia delle Comunicazioni britannica Ofcom ha sanzionato il canale di stato cinese Cgtn per aver mandato in onda la confessione estorta di un cittadino britannico, incarcerato dalle autorità di Pechino nel 2013. La Tv rischia di essere bandita dal Regno Unito, dove ha da poco inaugurato una grossa redazione. L’Ambasciatore cinese a Londra non è stato diplomatico: “La Cina vuole essere amica e partner del Regno Unito. Ma se tratterete la Cina come un nemico, diventerà un nemico. Tocca al Regno Unito decidere”, ha twittato. Problema: la Cina non ha mai aperto i propri assetti strategici a paesi stranieri. Stati Uniti e Regno Unito, invece, sono “strategicamente dipendenti” da Pechino in centinaia di categorie di prodotti, decine dei quali critici per le infrastrutture nazionali.

“Firenze-Medellin”, Ribery e gli idoli che dicono “adieu”

Sono bastate poche immagini per far tornare la guerra tra Guelfi e Ghibellini a Firenze. E anche stavolta, otto secoli più tardi, potrebbe esserci l’esiliato. Non più Dante Alighieri, ma più modestamente il calciatore della Fiorentina, Franck Ribery. Il furto da 100 mila euro nella sua villa di Bagno a Ripoli, sulle colline di Firenze, e la reazione stizzita del giocatore che minaccia di andarsene: “Come faccio a essere sereno?” ha scritto sui social immaginando una solidarietà unanime. E invece no, perché gli ultras della curva Fiesole gli hanno risposto difendendo la città: “Firenze non è Medellin ai tempi di Pablo Escobar” sostengono i tifosi della Fiorentina e quindi “caro Franck, pulisciti la bocca”. Così il gioiello francese, 37 anni appena compiuti, in un attimo è passato dal nuovo “fenomeno” della curva – lo chiamano “Le Roi” (“Il re”) dedicandogli più di un coro – a colui che avrebbe screditato “la culla della civiltà e del rinascimento” e che può anche andarsene “se un furto in casa diventa la scusa per cambiare squadra”.

Da fuoriclasse coccolato e accolto al Franchi da 10.000 persone come una rockstar, Ribery in poche ore è diventato il giocatore da cui difendere Firenze. Fino a ieri era il simbolo della nuova Fiorentina di Rocco Commisso, mentre oggi al Bar Marisa, storico ritrovo dei tifosi viola davanti allo stadio, un ultras della curva dice a denti stretti: “Di Antognoni e Batistuta ne abbiamo avuti solo due, se Ribery a Firenze ci sta male, se n’andasse”. La tifoseria, che per difendere un suo campione come Roberto Baggio dal passaggio all’odiatissima Juve trent’anni fa mise a ferro e fuoco la città, è in subbuglio: l’ironia sulla provenienza di Ribery è scontata (“lui l’è di Marsiglia, mica di Bolzano” dicono i tifosi con riferimento alla criminalità comune della città francese), le analisi sulla dinamica del furto pure (“Non aveva nemmeno attivato l’antifurto”) e sui social i tifosi si improvvisano sociologi citando statistiche sui furti a Monaco di Baviera, la città dove Ribery ha vissuto per dodici anni, quelli con la maglia del Bayern: uno ogni tre minuti. Come dire: altro che Firenze. Peccato che proprio il capoluogo toscano sia la terza città d’Italia, dopo Milano e Rimini, con 609 furti ogni 100.000 abitanti. Sui forum, i tifosi si dividono tra chi difende il campione francese (“È stato mal interpretato”) e chi invece non vuole nemmeno che si metta in dubbio “l’onore” della città: “È solo una scusa per andarsene – scrive Fernando su uno dei tanti gruppi – Antognoni non avrebbe mai detto una cosa del genere”. In città e nelle radio locali non si parla d’altro. Obiettivo: difendere Firenze. La diatriba in poche ore supera i confini del campo di gioco e diventa politica, alla vigilia della campagna elettorale per le regionali. La Lega si butta a pesce sulla questione: “A Firenze c’è un problema evidente di sicurezza” dice il consigliere regionale fiorentino leghista, Jacopo Alberti. Il sindaco di Firenze Dario Nardella invece preferisce non esporsi, la numero due Cristina Giachi replica: “Ribery ha avuto una reazione eccessiva, Firenze è una città sicura”.

Gli scudi levati dai tifosi in difesa di Firenze ricordano quelli di Napoli, un’altra città che vive di calcio, rispetto ai furti che hanno coinvolto i calciatori partenopei. Il caso più noto è quello dell’ex attaccante Ezequiel Lavezzi, la cui fidanzata fu scippata nel novembre 2011. “Napoli città di m… se mi succede qualcosa, il mio fidanzato se ne va di qui” scrisse provocando la reazione sdegnata della città. Sempre a Napoli, poi è toccato all’ex capitano Marek Hamsik, al bomber Edinson Cavani e da ultimo allo “scugnizzo” Lorenzo Insigne che nel 2016 fu fermato in centro con la moglie per portargli via soldi, gioielli e due rolex: “Dedicami un gol” gli aveva detto uno dei due ladri. I tifosi si sono sempre schierati dalla parte della città e della maglia: quelle contano più di qualunque cosa. Anche di due rolex trafugati.

L’Ordine contro la Lucarelli: “Ha danneggiato suo figlio Leon”

Capita di essere deferiti al Consiglio di disciplina dell’Ordine dei Giornalisti per aver violato la Carta di Treviso, il protocollo che tutela i minori nell’informazione. Di scoprirlo grazie a un post su Facebook della Lega. E, non bastasse, di apprendere che il minore di cui si sono violati i diritti è il proprio stesso figlio. È successo ieri a Selvaggia Lucarelli, in uno strascico dell’ormai noto confronto tra il suo Leon e Matteo Salvini al mercato del Portello, a Milano. “Lunedì mi scrive Alessandro Galimberti, il presidente dell’Ordine della Lombardia”, racconta. “Mi dice che i figli non sono un vessillo da esporre, e che ho dimenticato la Carta di Treviso. Il giorno dopo mi arriva uno screenshot di un post della Lega in cui si riprende un’agenzia appena uscita che annuncia il mio deferimento”.

Nel mirino dell’Ordine c’è il video, pubblicato sulla testata online Tpi, in cui Selvaggia chiede spiegazioni ai due agenti in borghese che hanno fermato e identificato il 15enne Leon, colpevole di essersi avvicinato al leghista e di avergli manifestato placidamente il proprio pensiero: “Volevo dirle che è molto razzista come persona”. Video in cui compare anche il giovane, ripreso nell’atto di fornire le proprie generalità (compresi data di nascita e indirizzo). E così Selvaggia avrebbe “reso possibile l’identificazione di suo figlio minorenne a mezzo stampa”, in spregio alla Carta di Treviso.

“Vorrei che l’Odg fosse stato così solerte anche quando Sallusti sul Giornale mi definiva ‘esperta di zoccolaggine’”, dice Selvaggia. “Due minuti dopo il litigio con Salvini, il volto di mio figlio era già in pasto a tutti i media nazionali, senza alcuna tutela nonostante sia minorenne. Avrei potuto far partire decine di querele, ma ho scelto di non farlo, perché è Leon che ha voluto essere lì. Se in quel momento gli agenti stavano chiedendo i dati sensibili a un 15enne, non vedo come possa essere mia responsabilità”.

“A Roma comanda Senese”. Nuovo colpo al clan del boss della camorra capitolina

Padre e figlio si scambiano le scarpe durante gli incontri in carcere, così il boss della camorra Michele Senese passa le indicazioni al suo rampollo Vincenzo, su come recuperare i soldi nascosti e gestire il patrimonio economico della famiglia. Una fortuna accumulata da Michele o pazz, trasferitosi a Roma negli anni ’80 da Afragola (Napoli), per spostare gli affari del clan camorristico Moccia nella Capitale. “Aveva alle spalle una famiglia blasonata della camorra – racconta il pentito Antonio Leonardi –, e questo fatto era notissimo e importante a Roma, era molto rispettato dai napoletani e dalle famiglie calabresi e siciliane”. In una Capitale frammentata dalle mafie, Senese ne diventa uno dei fulcri, e con il suo carisma e la sua caratura criminale è spesso chiamato a sanare i contenziosi tra i vari clan presenti in città. Nonostante sia detenuto per una condanna a 30 anni come mandante di un omicidio, è ancora molto rispettato. “È il boss della camorra romana! Comanda tutto lui!”, dice un affiliato intercettato.

Il rampollo dei Senese consegna i soldi della famiglia a fidati imprenditori, per aprire attività commerciali, diventandone socio occulto. Campania, Lazio, Veneto e Lombardia sono le regioni dove il clan apre autosaloni, ristoranti, negozi di abbigliamento e un caseificio, tutto alla luce del sole. Dieci società, per un valore di 15 milioni di euro, sequestrate dalla squadra mobile, la polizia valutaria della Guardia di finanzia e dalla Dda di Roma nell’ambito dell’inchiesta in cui sono indagate 28 persone. Oltre alla moglie Raffaella Gaglione e il figlio Vincenzo, in arresto anche il fratello Angelo Senese e molti prestanome, accusati di associazione mafiosa, intestazione fittizia di beni, autoriciclaggio, usura ed estorsione. Sigilli alla catena di ristorazione “il Baffo” e il “Lady Campagneria” a Roma.

Nell’inchiesta si fa il nome del narcotrafficante Fabrizio Piscitelli alias Diabolik, vicino ai Senese e ucciso a Roma la scorsa estate. “Se dobbiamo fare una cosa a tre o quattro, a me non mi va più – dice Senese a un interlocutore nel 2017 – al Lazialotto […] ci volevo andare a parlare perché lui c’ha, diciamo il canale, conosce qualcuno che ha i negozi”. Senese si riferisce a Piscitelli, leader degli Irriducibili Lazio, con il quale preferisce non fare affari.

In arresto anche Claudio Cirinnà, fratello della senatrice Pd Monica, accusato di estorsione, usura, autoriciclaggio e intestazione fittizia, ma senza l’aggravante mafiosa. “Non mi guardare negli occhi, non mi sfidare altrimenti ti do una testata in faccia”, dice Cirinnà alla vittima, alla quale aveva prestato dei soldi, insieme al figlio Riccardo (indagato), chiedendo la restituzione con interessi mensili del 10%.

Salvini e la Lega conquistano Botteghe Oscure

Trovare la Lega di Matteo Salvini in via delle Botteghe oscure è il segno che la storia si prende i suoi capricci.

Tra tutti i luoghi in cui il leghismo padano oramai nazionalizzato poteva scegliere di accasarsi, quello di trovarsi di fronte alle colonne d’Ercole del comunismo italiano, la monumentale sede del partito di Togliatti e poi di Longo, Berlinguer e poi giù fino ad Occhetto, sembra il più improvvisato e imprevisto.

Ma la storia non fa sconti alla gloria e il civico dal quale, secondo l’Adnkronos, Salvini farà in futuro le dirette su TikTok e Facebook, oltre alle incombenze quotidiane, sembra sia una sublocazione che l’Ugl, il sindacato della destra storica nel tempo leghistizzato, ha concesso al leader del centrodestra. E già il fatto che l’Ugl si trovi lì è un evento (diciamocelo) piuttosto eccentrico.

Del resto via delle Botteghe oscure è stata svuotata, e sono oramai decenni, da ogni classificazione e il palazzo edificato dai Marchini, che fu l’Altare della Patria rosso, la casa della falce e martello, negli anni si è piegata al mercato, alla lottizzazione immobiliare, alla tristezza di essere un condominio e un b&b.

E oggi chi di voi conosce l’indirizzo esatto del Pd? Le continue migrazioni, e le continue contrazioni elettorali, hanno portato gli eredi a una instabilità politica del domicilio che, tutto sommato, segue la precarietà dell’indirizzo politico.

Volendo essere suggestivi e trovare il bello nel brutto, o anche la suggestione nell’imprevisto, si potrà sempre prendere nota di quel che Massimo D’Alema disse della Lega Nord, quando Bossi la governava: “È una costola della sinistra”.

Ecco dunque la costola accasata. Ecco Salvini, il Matteo Palmiro.

Soldi alla Libia, scontro Leu-Iv in maggioranza

Lo scoglio è il rifinanziamento della formazione e dell’addestramento della Guardia costiera libica. Per questo, ieri, la maggioranza ha traballato a Palazzo Madama.

E il sì al rinnovo delle missioni internazionali passa con i voti del centrodestra in blocco. Che alla fine non sono decisivi, ma la maggioranza sta sul filo del rasoio per tutto il giorno. Pesa la posizione di Leu, ma anche quella di Iv. La capogruppo di Leu Loredana De Petris, chiede e ottiene il voto per parti separate, annunciando il no del suo gruppo al rifinanziamento della Guardia Costiera e minacciando un no in blocco. Così, alla fine il punto controverso (il 22) viene separato dal resto. Su 276 votanti, dicono sì in 260 (142 della maggioranza, 118 dell’opposizione), no in 14 (i 6 di Leu, Emma Bonino e Martelli, 3 del Pd, ovvero gli orfiniani Francesco Verducci, Vincenzo D’Arienzo e Valeria Valente e 1 di M5S, Matteo Mantero), in 2 si astengono. Le altre missioni passano praticamente all’unanimità. Ma le assenze nelle file dell’opposizione raccontano anche un’altra storia: la spallata non è mai stata presa in considerazione. Perché se così fosse stato, si sarebbero presentati in blocco, puntando sulle difficoltà della maggioranza.

Il dibattito di ieri anticipa quello che a Palazzo Madama potrebbe succedere nei prossimi mesi. Soccorso di FI compreso. Per cercare di trovare una quadra, la maggioranza, prima dell’Aula, convoca una riunione. Ne esce con un ordine del giorno, voluto da Italia viva che impegna il governo a un maggior controllo sui diritti umani in Libia e soprattutto “ad operare per una rapida conclusione delle procedure di modifica del Memorandum sottoscritto con le autorità libiche nel 2017”. Il governo dà parere favorevole. Leu non vota neanche questo. Il centrodestra si astiene.

Il dissenso nella maggioranza è trasversale. E alla Camera senza il voto per parti separate, i giallorossi potrebbero non avere i numeri.

Sfascia-parchi, “violate le norme quadro” La Consulta boccia un’altra legge di Toti

Un’altra bocciatura – l’ennesima – della Corte costituzionale affossa una legge della giunta Toti. Stavolta è la n. 3 del 2019, ribattezzata “sfascia-parchi”, che tagliava di 540 ettari il territorio dei maggiori parchi liguri (Aveto, Antola, Alpi Liguri e Beigua) e sopprimeva 42 aree protette in provincia di Savona. Decisioni incostituzionali, scrivono i giudici, perché prese senza consultare gli enti locali coinvolti, come impone la legge quadro sulle aree protette. Pertanto, cinque articoli della “sfascia-parchi” violano la competenza statale in materia di ambiente ed ecosistema.

Non è la prima volta che il centrodestra di Toti propone leggi contrarie alla Costituzione. L’anno scorso la Consulta bloccava l’estensione delle concessioni balneari fino al 2047, competenza – anche in questo caso – riservata allo Stato. Ancor prima è toccato a un provvedimento che escludeva dalle assegnazioni di case popolari gli stranieri non residenti in Italia da almeno 10 anni, giudicato contrario al principio di ragionevolezza.

L’eredità del covid: la crisi, il futuro

La crisi Covid-19 non è stata, a oggi, dovuta all’aggressività del virus verso l’uomo, ma alla sua capacità di scompaginare un sistema sanitario fragile. Speriamo serva da lezione per un prossimo futuro. (…) Non come invece è accaduto dall’ultima pandemia (la suina del 2009) a oggi, dato che c’è stato un totale scollamento tra quanto annunciato e consigliato e ciò che, in realtà, è stato fatto. Di mezzo ci sono i politici, che noi eleggiamo perché ci rappresentino ma che spesso rappresentano solo le loro personali necessità. Fra queste, ovviamente, il consenso elettorale.

Investire per prevenire un evento che, molto probabilmente, avverrà oltre il proprio incarico politico è improduttivo in termini di guadagno dei voti. Diventa una spesa senza un impatto immediato. Questa è la chiave di volta. E per quei voti, loro vendono la salute e il benessere della gente, dei propri elettori. Se ciò non fosse, questa pandemia sarebbe stata solo un evento sanitario di maggior gravità rispetto a quelli normali, ma affrontabile. Pensare e programmare il futuro è onere e onore di pochi. L’OMS ha diramato allerte e invitato più volte i vari paesi a prepararsi a una nuova pandemia. Ha anche creato una struttura ad hoc per predisporsi ad affrontare proprio una pandemia influenzale: il Pandemic Influenza Preparedness Framework (o PIP

Framework). Nel testo a esso dedicato si legge che “l’implementazione di misure di risposta può essere rafforzata con attività di preparazione avanzata”. Dal 2012 al 2020 questo progetto ha potuto contare su un budget di circa duecento milioni di dollari. Nel 2018 sempre l’OMS ha pubblicato un documento di linee guida intitolato “Passi essenziali per lo sviluppo e l’aggiornamento di un piano nazionale di preparazione a una pandemia influenzale”, che avvertiva: “Il mondo deve aspettarsi un’epidemia di influenza killer, e anzi deve essere sempre vigile e preparato in modo tale da poter combattere la pandemia che sicuramente si verificherà.”

Ebbene, cosa è stato fatto in Italia? I governi si sono alternati e via via si sono nominate commissioni, ma senza arrivare a nessun risultato. Come riportato sul sito del ministero della salute, nel 2006 è stata istituita la commissione interministeriale di valutazione in materia di biotecnologie, ma nella pagina dedicata risultano ancora le voci riguardanti direttore generale, mail, telefono e fax; in compenso è presente un lunghissimo elenco di uffici con mansioni diverse, fra le quali “Piano sanitario nazionale e piani di settore” e “Prevenzione delle malattie infettive”. Un altro organo di consulenza dell’esecutivo è il Comitato nazionale per la biosicurezza, biotecnologie e scienza della vita (o CNBBSV), che stando al suo sito istituzionale è “un organismo di supporto del governo per l’elaborazione di linee di indirizzo scientifico, produttivo, di sicurezza sociale e di consulenza in ambito nazionale e comunitario sulle problematiche più attuali riguardanti la biosicurezza, le biotecnologie e le scienze della vita.” Nell’homepage campeggia la scritta: “Emergenza coronavirus – Il CNBBSV prosegue regolarmente i propri lavori in videoconferenza”, eppure l’ultima riunione in seduta plenaria risale al 4 dicembre 2019, e non c’è traccia di attività riportate nel 2020. Quanto all’ultimo piano pandemico approvato dalla conferenza stato-regioni è datato 2006, aggiornato nel 2010 (dopo l’influenza suina del 2009) e mai più. Esiste anche un Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie (abbreviato in CCM); costituito nel 2004, avrebbe dovuto emanare e periodicamente aggiornare le linee guida del piano pandemico. Il CCM ha persino, al suo interno, un sottocomitato “Virus influenzali e pandemia”, che però è inattivo da anni (l’ultimo aggiornamento della pagina dedicata risale addirittura al 2010). (…)

La pandemia non è stata un fulmine a ciel sereno: sapevamo tutto, e tutti sapevano. Dal 2001 a oggi ben quattro esercitazioni – gestite dagli Stati Uniti, ma alcune con la presenza di delegati stranieri in rappresentanza di stati e settori d’importanza strategica – hanno simulato un evento del genere. (…)
Se queste esercitazioni non fossero rimaste documenti sulle scrivanie dei vari burocrati del mondo, credo che la risposta all’esplosione del virus sarebbe stata più rapida ed efficiente. Non avremmo avuto decine di tavoli tecnici che si inventavano sul momento come organizzare la risposta all’emergenza sanitaria. Aggiungo che quella che stiamo vivendo, fra le possibili pandemie ipotizzate, non è certo la più grave. Adesso che i buoi sono scappati, i politici passano la parola alla scienza, come se fossero stati colpiti da un evento imprevedibile, al pari di un fulmine. Sconosciuto sì, imprevisto no. Da anni sapevamo che prima o poi sarebbe arrivata una pandemia. Ci siamo riuniti decine di volte a Bruxelles, Parigi, New York. (…) Ma, mentre noi tecnici cercavamo di ottimizzare la risposta a un evento sconosciuto seppur atteso, l’economia mondiale imponeva tagli alle spese sanitarie. Si è seguita una politica di riduzione dei posti letto, del personale e delle erogazioni pubbliche a favore di quelle private. Le convenzioni con il privato sono state presentate come una panacea per la sanità; in realtà hanno convertito un servizio pubblico in un business. (…)

Come abbiamo più volte detto, l’ultima pandemia si è verificata nel 2009: quella di influenza suina. Diversi modelli matematici, che tengono conto anche della grande accelerazione temporale operata dalla globalizzazione, ci avvisano che ogni dieci, massimo quindici anni avremo una nuova emergenza infettivologica. A questo punto sorge una domanda banale: come si fa a pensare di rispondere a un evento infettivo grave senza avere a disposizione un numero di stanze di isolamento e posti letto in rianimazione superiore alla richiesta routinaria? Se non si implementa un sistema del genere si verifica ciò che è accaduto nei mesi di marzo e aprile: le terapie intensive intasate solo da malati Covid-19. (…) L’italica incapacità di programmare e di prevenire eventi catastrofi ci non si manifesta solo su terremoti, incendi, crolli, ma anche nel rinviare l’assunzione di decisioni che pongono poi di fronte a situazioni drammatiche e difficilmente risolvibili.

 

Riforma della Rai: servono pochi garanti e molte idee

C’è qualcuno, tranne questo giornale e qualche blog, che parli ancora di riforma della Rai-Tv? Eppure la Rai è in un pantano per qualità di programmi, materie trattate dai programmi, autonomia dei Tg rispetto ai partiti o a lobby palesi all’occhio appena smaliziato. Matteo Salvini, da principale oppositore del governo, dopo aver avuto con la sua panza spazi incredibili al Papeete di Milano Marittima, continua ad averne senza alcun problema sparando autentiche cazzate quotidiane sul Ponte di Genova, il “suo Ponte” dove non c’è stata una gara neppure minima.

Nel 2019, dopo i molti passaggi burocratici all’interno dei meandri ministeriali, la Rai ha ricevuto ufficialmente 1.909,7 milioni di euro dal canone, mentre ne ha tirati su dalla pubblicità 647,6. Il canone è quindi pari a circa 3 volte il carico pubblicità. Rispetto al 2000, il rapporto è molto migliorato a favore della risorsa certa del canone: allora incassava in complesso 5.000 miliardi di lire, in euro, fanno 2.582 milioni di euro. Poco meno di 1.300 dal canone (il più basso e allora il più evaso d’Europa) e circa altrettanti dalla pubblicità. Con l’euro l’inflazione è stata, nell’ultimo ventennio molto frenata, per cui la Rai col canone in bolletta ci ha guadagnato. Mentre è crollata la risorsa pubblicitaria. Eppure è una Rai, rispetto a vent’anni fa, molto più “commerciale” e molto meno di servizio pubblico di vent’anni fa, soprattutto su Rai3 (per non parlare della Radio, cenerentola, con Radio3 che si batte eroicamente, con scarse risorse). Contiamo le trasmissioni “fucilate”: via Ambiente Italia di Beppe Rovera con splendidi servizi suoi, di Igor Staglianò, di Claudia Apostolo, ecc. a ora strategica, primo pomeriggio, del sabato, inchieste in tutta Italia, in diretta (memorabili quelle sull’abusivismo in pieno Parco Nazionale del Gargano o sul Lago di Garda), dibattiti, ecc. Nel regno degli animali curata da Giorgio Celli vero competente, mai sostituita dopo la sua elezione all’Europarlamento nonostante istanze e pressioni. Bellitalia, al top degli ascolti con Fernando Ferrigno specialista di Beni culturali, ben posizionata la domenica pomeriggio per tre quarti d’ora (sopravvive liofilizzata col valoroso Marco Hagge, la domenica mattina). Nel pomeriggio il mitico Albero Azzurro educativo per ragazzi, poi confinato ai canaletti digitali e ripristinato da poco in versione light. Allora andava già forte su Rai3 Geo, con la sola Sveva Sagramola, programmista Vittorio Papi, poi costretti anche loro a spadellare ricette di cucina. Quando a Silvia Calandrelli, veltroniana di ferro (quanti incarichi?), chiesi perché la Rai non programmasse una storia dei cibi tipici italiani (Boccaccio parla già di Parmigiano), rispose “i nostri esperti la stanno studiando”. Studia, studia. Tanto c’è il canone a far da serra a una Rai dove hanno comandato per anni gli agenti di questo e quel Divo, dove non si produce praticamente nulla in proprio (tutto Endemol, Palomar, ecc.), dove ben poco si sperimenta (luci e costumi sono rimasti quelli della fase più “commerciale” di Raiset o Mediarai). Cosa se ne fa di tanti canaletti digitali da zero virgola ascolti? Li riunisca in uno solo. Classica è un canale Discovery. La Bbc finanzia 6 orchestre sinfoniche in varie città. Altrettante l’Ard tedesca. La Rai una sola a Torino e ne aveva 4. Che vergogna.

Come riformarla? Liberandola dalle catene delle leggi Giacomelli-Renzi che la vincolano (peggio con Salvini) al governo direttamente. Dandole un comitato di “garanti” nominato da tre vertici (Quirinale, Senato, Camera) che a sua volta designi un esecutivo di holding ristretto, 5 membri. I quali rispondano soprattutto ai loro garanti.