Mose senza fondo, cause pendenti per 330 milioni

Di quel pozzo senza fondo che si chiama Mose, forse non si riuscirà mai a vedere la fine. Non si riuscirà mai a conoscerne il costo effettivo, oltre alla spesa ufficiale di 5 miliardi 439 milioni di euro, che in realtà arriveranno a 6 miliardi con le opere complementari, e ai probabili 100 milioni di euro all’anno per le gestione e la manutenzione. Venezia sembra adagiata non sulle isolette di una placida laguna, ma sulla Fossa delle Marianne, anche perché è impossibile prevedere l’esito di 33 dossier che riguardano la giustizia penale, civile e amministrativa, che per molti anni daranno lavoro agli avvocati. Un mare di scartoffie e di carte bollate, verrebbe da pensare, ma ciascuno ha un valore economico ragguardevole, al punto che – per quanto è possibile quantificare – si arriva a 328 milioni di euro che il Consorzio Venezia Nuova potrebbe sborsare, a fronte di crediti eventuali per una quindicina di milioni. Senza calcolare i danni per i malfunzionamenti contestabili alle imprese che hanno partecipato al progetto di dighe mobili contro l’acqua alta che dopodomani, per la prima volta, saranno alzate contemporaneamente, alla presenza del premier Giuseppe Conte.

L’elenco riservato, di cui Il Fatto è entrato in possesso, è stato predisposto dagli amministratori straordinari Giuseppe Fiengo e Francesco Ossola, insediati per volere dell’Anac dopo gli arresti del 2014. Anche loro sono citati in molte di quelle cause, tirati in ballo in una miriade di grandi e piccoli contenziosi, e in qualche caso devono provvedere di persona alla difesa, nonostante agiscano per conto dello Stato.

In questo panorama spiccano due cause civili. Covela, il consorzio costituito dal gruppo Mantovani di Piergiorgio Baita, all’epoca azionista di maggioranza, chiede 197 milioni di euro ad amministratori, presidenza del consiglio e ministeri interessati, per danni legati al commissariamento, oltre a 8 milioni e mezzo di pagamenti trattenuti. C’è poi una partita da 76,5 milioni di euro per danno d’immagine causato dallo scandalo tangenti, che vede contrapposti lo Stato al Consorzio, che si è rivalso sulle imprese Mantovani e Condotte d’Acqua per le false fatturazioni che coprivano la commessa delle tangenti.

Il capitolo penale ha visto il Consorzio parte civile nei confronti degli imputati, ma esso stesso è imputato come responsabile civile per mancato controllo dei dirigenti corrotti, in un procedimento dove altre aziende hanno patteggiato 500.000 euro. Il Cvn avanza, invece, 100.000 euro di provvisionale (ma la somma totale è da definire, la tangente fu di mezzo milione di euro) dall’ex deputato Pdl Marco Milanese, condannato in via definitiva. Ha avviato il pignoramento, ma i beni non bastano, perchè prima è arrivata la Corte dei Conti. L’ex presidente Giovanni Mazzacurati, ora deceduto, vantava una buonuscita da 7 milioni di euro, bloccata dagli amministratori straordinari, con contenzioso ancora aperto. Il Consorzio, assieme a Mazzacurati e all’imprenditore Mazzi, dovrà risarcire 6,9 milioni allo Stato per danno erariale. Ed è citato perfino per sanzioni antiriciclaggio.

Il Consorzio è poi nel mirino per i bilanci (anche della consociata Comar) che vengono contestati dalle società (Mantovani, Fincosit e Condotte) che si sono viste portar via una fetta enorme di ricavi con il commissariamento. Ma è in lite anche per le bonifiche (che costerebbero svariati milioni) dei terreni del Silo Pagnan di Marghera comperati per ricavare in terraferma un’officina di manutenzione delle barriere del Mose.

Le carte bollate si sprecano per lavori eseguiti e non pagati: Ccc chiede, 2,8 milioni di euro (e a sua volta il Consorzio vuole 4,8 milioni); Intercantieri Vittadello accampano richieste per 3,5 milioni; Mantovani ha ottenuto il rimborso di 2,9 milioni, ma deve versare al Consorzio 10 milioni; Covela ha ottenuto un decreto ingiuntivo da 13,5 milioni; i croati di Spalato che realizzarono le paratoie chiedono 2 milioni. Tre cause sono in piedi con tre ingegneri per più di 300 mila euro. Altre per cifre modeste. L’ingegnere Arredi, avanza 61 mila euro per collaudi, un proprietario di terreni a Sant’Erasmo chiede 50 mila euro per allagamenti e danni causati dai lavori alle rive, la ditta Pasquinelli 17 mila euro per lavori non pagati, un ex dipendente 7 mila euro per spese legali… Ma queste sono solo le briciole del Mose.

B., l’audio e i testimoni: ecco cosa non torna

Da una settimana giornali e tv si occupano del caso dell’audio di Amedeo Franco, giudice relatore della sentenza di Cassazione che nel 2013 ha condannato Silvio Berlusconi a 4 anni per frode fiscale nell’ambito del processo sui diritti tv di Mediaset. Davanti all’ex premier, dopo aver anche lui firmato quel verdetto, Franco parla di “porcheria” e “condanna a priori”. Le sue parole sono state registrate e poi depositate dalla difesa di Berlusconi nell’integrazione al ricorso davanti alla Corte europea dei diritti dell’Uomo. Tanto è bastato ad una certa stampa per gridare al complotto. “Le carte del golpe”, ha titolato nei giorni scorsi Il Giornale, diretto da Alessandro Sallustri.

L’audio del giudice Franco è stato pubblicato direttamente in casa Mediaset dalla trasmissione di Nicola Porro Quarta Repubblica (Rete 4), che anche lunedì ha dedicato un’oretta del programma al caso per introdurre un altro “scoop”. Ossia il video di tre testimoni, i quali riferiscono di parole offensive contro Berlusconi pronunciate dal giudice Antonio Esposito (presidente del collegio feriale di Cassazione, che parla di “grave diffamazione” e annuncia querele anche contro la trasmissione). E così le tre testimonianze, con l’audio del giudice e altro ancora, come una sentenza civile che poco c’entra con il processo Mediaset, per alcuni sono le prove per dimostrare che quello che ha giudicato Berlusconi è stato un “plotone di esecuzione”, per usare le parole di Franco. Tanto prove però non sono. Ecco perché.

I testimoni e l’hotel di ischia

Partiamo dunque dall’ultimo “scoop”. Si tratta della testimonianza di tre dipendenti di un albergo di Lacco Ameno sull’isola d’Ischia, di proprietà della famiglia del senatore di Forza Italia Domenico De Siano, dove il giudice Esposito in passato ha trascorso alcuni giorni di vacanza. “Esposito spesso chiedeva di chi fosse la struttura alberghiera ed io rispondevo di De Siano (…). La sua risposta in napoletano era: ‘Ah sta con quella chiavica di Berlusconi’”. In un’altra occasione, “(…) nell’incontrarmi (…) affermava che prima o poi avrebbero arrestato sia il mio datore di lavoro che il Berlusconi”, racconta uno dei testimoni. Esposito ha sempre negato di aver pronunciato quelle frasi. Piccolo particolare, i verbali dei tre lavoratori sono stati raccolti nell’aprile 2014 attraverso le indagini difensive di un legale di Berlusconi e sono stati allegati al ricorso a Strasburgo. Come ha rivelato Il Fatto, poi, su quei verbali è stata aperta un’indagine della procura di Napoli, nata proprio dopo un esposto di Esposito, il quale, tra le altre cose, ha chiesto anche di accertare se nei confronti dei tre testimoni “sia ravvisabile l’ipotesi di false informazioni al pubblico ministero”. Richiesta ribadita anche in un’integrazione di memoria presentata qualche giorno fa a Napoli. Sul procedimento incombe la prescrizione.

La sezione feriale e la prescrizione

Da giorni si discute anche della prescrizione e sul perché il processo sia stato affidato alla sezione feriale della Cassazione. Che la prescrizione scattasse il primo agosto 2013 non è una data inventata, bensì è quella riportata sul frontespizio del fascicolo della III sezione penale della Cassazione, quella del giudice Franco, che il 9 luglio 2013 invia il fascicolo alla sezione feriale con la scritta tutta maiuscola “URGENTISSIMO”.

Nei giorni scorsi un altro giudice di quel collegio, Claudio D’Isa, ha fugato ogni dubbio: “Le tabelle stabiliscono le assegnazioni, in automatico. Non c’è discrezionalità. Chi parla di una scelta di giudici fatta apposta per far condannare Berlusconi, dice un falso eclatante”.

La decisione del tribunale civile

Il tormentone dei berluscones è che ci sia una sentenza del tribunale civile di Milano, mandata a Strasburgo ad aprile, che “ha demolito”, “raso al suolo” la condanna di Berlusconi. Non è affatto così. Quella sentenza, del giudice Damiano Spera, decima sezione civile del tribunale di Milano, non parla del processo Mediaset ma di un altro: Mediatrade, da cui Berlusconi esce in udienza preliminare con un proscioglimento poi confermato dalla Cassazione nel 2012, mentre per il filone romano ne esce definitivamente nel 2013. Mediatrade è il processo che ha esaminato le compravendite di diritti cinematografici, per l’accusa fittizie, attraverso il produttore Frank Agrama, dal 2000 al 2005. Invece, il processo Mediaset sopravvissuto alla prescrizione, riguardava fatti fino al 1999, con dichiarazioni fraudolente 2002-2003, da qui la condanna definitiva di Berlusconi per frode fiscale da 7 milioni e 300 mila.

Il verdetto di Franco nel 2014

Chi vuol far passare Berlusconi per una vittima di un complotto politico-giudiziario sostiene che, tra le varie prove, c’è una sentenza del 2014 della terza sezione penale della Cassazione, relatore proprio Amedeo Franco. È una sentenza in cui si stabilisce che, in caso di dimissioni dalla carica di amministratore delegato, prima della compilazione della dichiarazione dei redditi, un soggetto non possa essere perseguito se privo di cariche societarie al momento dei fatti, come Berlusconi. Ma il processo Mediaset è tutt’altra cosa, come evidenziato dalla stessa Cassazione costretta, dalle polemiche già all’epoca, a emettere un comunicato tecnico per specificarlo. In sostanza, si tratta di due fattispecie diverse. Il processo Mediaset è caratterizzato dalle cosiddette frodi carosello. Per Berlusconi non era una questione di cariche societarie. Secondo i giudici di merito di Milano, confortati dalla Cassazione, è stato Berlusconi, anche da presidente del Consiglio, “a perpetuare il meccanismo dei costi gonfiati, durante la compravendita dei diritti Tv, per costituire fondi neri all’estero di cui era l’unico beneficiario”. Per non parlare della prescrizione, accorciata grazie a una delle leggi ad personam, la ex Cirielli, che ha cancellato dal processo il falso in bilancio e l’appropriazione indebita. Dei 368 milioni occultati al fisco negli anni ne “sopravvivono” per la condanna soltanto 7,3.

L’intervista al mattino, Esposito assolto

“Mai visto in 35 anni un giudice che anticipa le motivazioni di una sentenza”, ha detto in tv l’avvocato Gian Domenico Caiazza a proposito di un’intervista del 2013 a Il Mattino del giudice Esposito dal titolo “Berlusconi condannato perché sapeva non perché non poteva non sapere”, come se il giudice avesse anticipato le motivazioni. La procura generale della Cassazione lo sottopose a un processo disciplinare di “violazione del dovere generale di riserbo”, ma Esposito ne è uscito con un’assoluzione, a dicembre 2014, della sezione disciplinare del Csm. Nelle motivazioni si legge che in quella intervista non disse nulla di più di quanto già risultasse dal dispositivo della sentenza e per di più l’intervista, rilasciata al giornalista Antonio Manzo, fu manipolata: “L’alterazione emerge in tutta la sua gravità se si considera che il testo era stato trasmesso via fax al dott. Esposito per una verifica preliminare” ma “non conteneva la domanda relativa al motivo della condanna” di Berlusconi.

Tra Letta, Renzi e Napolitano il Cav restò Cav

Silvio Berlusconi è ancora Cavaliere del Lavoro. Di più, non ha mai smesso di esserlo. Nonostante la sua decadenza da senatore arrivata con il voto di Palazzo Madama, il 27 novembre 2013, dopo la sentenza di condanna della Corte di Cassazione del primo agosto dello stesso anno.

La vicenda si interseca con 5 anni di storia politica di questo Paese, tre governi (Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni), la presidenza di Giorgio Napolitano e tangenzialmente anche quella di Sergio Mattarella. A svelarla è Giuseppe Salvaggiulo nel suo libro “Io sono il potere. Confessioni di un capo di gabinetto” (Feltrinelli). È infatti proprio un anonimo capo di gabinetto a raccontare che la procedura di revoca dell’onorificenza a Berlusconi fu avviata dal Ministero dello Sviluppo Economico, ma che nessuno dei titolari che si sono avvicendati negli anni la firmò mai.

La revoca dell’onorificenza di Cavaliere del lavoro è disciplinata dall’articolo 13 della legge 15 maggio 1986, n. 194. Si dispone che “previo parere” del consiglio dell’Ordine, su proposta del ministro dell’Industria del commercio e dell’artigianato (che ora è il ministro dello Sviluppo economico), dunque, la revoca è disposta con decreto del presidente della Repubblica. Quello di Berlusconi era tra i casi di “indegnità” previsti dal Codice etico della Federazione, che, infatti, segnalò il caso. Ma nulla accadde. Nonostante il precedente di Cosimo Tanzi, alla quale, l’onorificenza era stata revocata.

Nel 2013 il titolare dello Sviluppo economico (Mise) era Flavio Zanonato per il governo Letta. “Ce ne occupammo. Ricordo che affrontammo la questione, ma non come andò a finire”, dice oggi al Fatto. Sostiene (sempre parlando con il Fatto) di non ricordare proprio nulla Federica Guidi, che a lui successe con Renzi (in quota Berlusconi). Entrambi rimandano ai loro capi di gabinetto dell’epoca, che erano rispettivamente, Goffredo Zaccardi (oggi capo di gabinetto di Roberto Speranza) e Vito Cozzoli (rimasto al Mise fino a pochi mesi fa, con Luigi Di Maio e Stefano Patuanelli). Ma a questione non era amministrativa, bensì politica. Tanto è vero che l’incartamento rimase in un cassetto.

Un altro tassello della storia viene fornito dai ricordi di chi – all’epoca – lavorava al Quirinale. Giorgio Napolitano non firmò mai il decreto di decadenza (che comunque in ultima istanza toccava a lui) non solo perché non arrivò mai la richiesta da parte del Mise, ma anche perché gli avvocati di Berlusconi trovarono un escamotage. Ovvero la richiesta dell’interessato di essere sospeso dalla Federazione dei Cavalieri del Lavoro. Si legge in un documento della Federazione del 19 marzo 2014: “Oggi si è tenuto il Consiglio direttivo della Federazione nazionale dei Cavalieri del Lavoro che ha concluso l’esame della posizione di Silvio Berlusconi (…)Nelle fasi conclusive di questa procedura, alla vigilia della riunione odierna, è pervenuta una lettera di autosospensione di Silvio Berlusconi, dalla Federazione stessa, pur avendo egli fatto ricorso alla Corte di Giustizia europea nonché avendo in corso di presentazione una istanza di revisione del processo che lo ha riguardato”. E così, “il Consiglio Direttivo ha preso atto dell’autosospensione”. A quel punto la pratica si ferma.

Carlo Calenda, arrivato al Mise dopo la Guidi, sostiene di non aver mai saputo nulla di questa storia. Ma in realtà, c’è un’altra aporia nella vicenda: Berlusconi si autosospese dalla Federazione (ovvero dall’associazione dei Cavalieri del lavoro), ma non dall’Ordine, perché per l’onorificenza la sospensione non è prevista. Nessuno agli alti piani della politica aveva intenzione di infierire ulteriormente sul Caimano. Tanto più su una cosa minore, alla quale lui teneva molto, ma che non era poi così significativa. A chiudere definitivamente la storia interviene nel 2018 la riabilitazione di B. da parte del Tribunale di sorveglianza di Milano. Nel frattempo, dal sito del Quirinale non è mai sparito il suo nome come Cavaliere del lavoro.

La Pm Dolci nessun favore alle mafie, ma serve vigilare

“Mai come in questo momento noi autorità giudiziaria dobbiamo controllare”. Il procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di Milano Alessandra Dolci sceglie una strada molto pragmatica per commentare il decreto semplificazioni.

Dagli affidamenti diretti fino a 150mila euro ai bandi più semplici oltre i 5 milioni, dove possono trovare terreno fertile le mafie?

Di certo negli affidamenti diretti. Le organizzazioni criminali puntano la maggior parte delle volte agli appalti medi o piccoli. Alzare la soglia di un affidamento diretto che non prevede certificato antimafia può favorire gli interessi criminali. Mi faccia dire però che in generale la direzione presa dal governo non può essere letta come un favore alle mafie, anzi.

Ci spieghi.

Non vi è dubbio che abbiamo bisogno di semplificare. Perché la troppa burocratizzazione oggi favorisce un altro fenomeno illecito, e cioé quello della corruzione. Noi però dobbiamo essere presenti.

C’è chi grida al rischio infiltrazioni anche in relazione alla maggiore semplificazione per ottenere i certificati antimafia.

Anche qua, citando Battisti: lo scopriremo solo vivendo. Mi sembra però che non ci sia una rivoluzione rispetto al prima. Solo si annulla il tempo di 30 giorni per ottenere il certificato. Cosa che succedeva anche in passato, visto che la certificazione è sempre arrivata ben oltre il mese, sfiorando anche i tre mesi. Di certo le stazioni appaltanti dovranno rendere obbligatoria la sottoscrizione dei protocolli di legalità.

I colletti bianchi dei clan non stanno brindando?

Direi proprio di no. Il Paese ha due esigenze, far ripartire l’economia e controllare che la criminalità non ne approfitti. Di certo tutte queste procedure in deroga, così come al contrario la troppa burocratizzazione, potrebbero favorire corrotti e corruttori. Ma ripeto: l’importante dal nostro punto di vista di magistrati è essere presenti. E se i boss vorranno brindare, cercheremo con le inchieste di non farglielo fare a posteriori.

Il Prof Vannucci basta disastri come l’ospedale in fiera o il G8

“La cultura dell’emergenza finora ci ha sempre predisposto al malaffare”. Secondo Alberto Vannucci, professore di Scienza Politica all’Università di Pisa, le nuove soglie per l’affidamento diretto e quelle per la procedura negoziata sono un rischio, allo stesso modo della gestione dei commissari in deroga a gran parte dei consueti obblighi di legge.

Professor Vannucci, perché ritiene aumenti il pericolo di infiltrazioni criminali nelle opere pubbliche?

La maggioranza degli appalti, quelli sotto ai 150mila euro, verranno affidati senza gara. Basta il buon senso per capire che saranno più vulnerabili al rischio di corruzione o di infiltrazione mafiose. Ma soprattutto questo espone anche gli amministratori più onesti a enormi pressioni: sapendo che tutto il potere decisionale sarà in mano a loro, i malintenzionati sapranno a chi rivolgersi utilizzando, se necessario, intimidazioni e ricatti.

Sopra quella soglia però la procedura negoziale dovrebbe dare più garanzie.

Il problema è che questa parvenza di concorrenza è molto ambigua, soprattutto in Italia dove è nota la propensione delle imprese a fare cartello più che a farsi la guerra.

Affidarsi ai commissari, che spesso sono sindaci o governatori, non è un modo per controllare più da vicino i lavori?

In realtà è un modello che in Italia ha sempre portato corruzione e che adesso diventa la normalità. Ricordiamo che siamo il Paese del G8 alla Maddalena e di molto altro. Veniamo dal caso dell’Ospedale in Fiera di Bertolaso. Il commissario di solito è stato garanzia di affidamento ad amici e parenti o comunque a portatori di interessi non dichiarabili.

Con il ponte di Genova però ha funzionato.

Si invoca sempre questo caso, ma si tratta di un’opera specifica. C’era un’esigenza di ricostruire in tempi rapidi con tutti i riflettori addosso. Ora è impensabile estendere quel modello a 150 altre opere e sperare che i risultati siano gli stessi.

Sfinimento giallorosa Casaleggio da Conte

Un governo sospeso, salvo intese. “Ecco il trampolino di rilancio per il Paese” assicura il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, e il trampolino sarebbe il dl semplificazioni. Ma i giallorosa devono ancora chiudere quegli accordi tecnici per cui non è bastata una maratona in Consiglio dei ministri, dalle 11 di lunedì alle 4 del mattino di ieri. Così ecco il decreto approvato salvo intese, l’equilibrismo della maggioranza che galleggia in attesa di qualcosa. “Sblocchiamo i cantieri” celebra Conte. Elenca opere come un esorcismo, citando anche la Gronda di Genova: da sempre osteggiata dai 5Stelle, ma invocata da Italia Viva anche nel question time della scorsa settimana con Conte alla Camera. E i grillini genovesi si agitano. Il capogruppo Luca Pirondini riassume al Fatto: “Se il presidente intendeva solo il primo lotto per il raddoppio dell’A7 va bene, se si riferiva all’intero progetto no”.

Di certo nel pomeriggio Conte parte per Lisbona, prima tappa di un tour europeo. Ma dietro di sè lascia le scorie di una notte da sfinimento, con il Pd a fare muro contro il liberi tutti ai cantieri. Un problema anche per la ministra dem alle Infrastrutture, Paola De Micheli, che aveva trovato con 5Stelle e Iv un compromesso. Ma il Pd con il capodelegazione Dario Franceschini e altri ministri, come quello agli Affari europei Vincenzo Amendola, semina dubbi: “Rischiamo infrazioni a livello europeo alzando troppo i tetti senza gara”. Si discute per ore, poi Franceschini concede: “Va bene la prima versione”. Però c’è un altro nodo, la riforma dell’abuso di ufficio per limitarne la portata. “Su questo ripropongo la riserva già manifestata in altre sedi” dice secca la capodelegazione di Iv, Teresa Bellanova. Soprattutto, parla il Guardasigilli e capodelegazione del M5S, Alfonso Bonafede: “Il reato va perimetrato meglio, così c’è troppa incertezza”. Nel dettaglio, Bonafede propone di collegarlo alla violazione di norme precettive (quelle che impongono agli amministratori cosa fare). Ergo, il testo andrà perfezionato.

In qualche modo il Cdm finisce. Ma mal di pancia e sospetti riemergono. Alcuni parlamentari del M5S si scambiano ansie nelle chat. Temono che con il dl i controlli antimafia sulle opere siano depotenziati, “perché si prevede l’aumento del ricorso all’autocertificazione”. E si lamentano perché “viene tolta la colpa grave” per danno erariale. Comunque scoglii per Conte, che prima di partire per il Portogallo riceve a palazzo Chigi Davide Casaleggio: l’uomo della piattaforma web Rousseau, di cui i big del M5S vorrebbero togliergli la gestione. Era stato Casaleggio a chiedere un incontro: forse anche perché, nota malizioso un 5Stelle di governo, “sperava di essere chiamato agli Stati generali”. E il premier lo accoglie nel suo appartamento privato, per due ore di colloquio. “Abbiamo parlato di tutto, anche delle Regionali” dirà poi il manager. In sostanza, Casaleggio garantisce a Conte che da lui non arriveranno mai problemi per il governo. E neppure da Alessandro Di Battista, che lunedì sera si era visto a cena a Roma con il manager.

Perché l’ex deputato romano e Casaleggio sono compagni di cordata, fautori di un congresso vero per il M5S con un nuovo capo (mentre Beppe Grillo vuole una segretaria collegiale). Hanno una linea comune, anche sulle Regionali. E Casaleggio la spiega così al premier: “Non sono contrario ad accordi con il Pd nelle Regioni presidente, ma devono essere basati sui temi, su punti di programma condivisi”. Il premier ascolta. Fuori, tanti parlamentari 5Stelle ruminano rabbia: “Perché Conte l’ha ricevuto, a che titolo?”. Non può essere entusiasta neppure Di Maio, che assieme ad altri big aveva preso come un’intromissione l’appello del premier ad alleanze locali con il Pd. Però Casaleggio ha un suo ruolo. “Lui e Grillo sono le uniche due figure citate nello Statuto” ricordano dal M5S. Bisogna avere a che fare con il manager, che prepara un grande evento a Milano per fine luglio. Per rivendicare peso.

Contrario Grandi opere inutili sono un danno e un costo per tutti

Il decreto Semplificazioni approvato “salvo intese” prevede che siano “sbloccate” oltre 30 opere infrastrutturali da affidare a commissari con poteri eccezionali, mettendo così tra parentesi la concorrenza. Si tratta, ancora una volta, di una lista della spesa la cui desiderabilità è tutt’altro che fuori discussione. Il presupposto che vede l’esecutivo allinearsi a tutti quelli che lo hanno preceduto sembra essere quello che le infrastrutture sono il “volano della crescita” e che quindi ogni euro investito in nuove opere sia di per sé auspicabile. Il consenso è unanime, da destra a sinistra, passando per il centro. Ma i dati a nostra disposizione sono di segno diverso. Prendiamo in esame, ad esempio, le tratte dell’alta velocità completate nello scorso decennio con un investimento che sfiora i 40 miliardi. Chi potrebbe sostenere che quella spesa abbia modificato in misura apprezzabile le prospettive di crescita dell’Italia nel suo complesso? E, se guardiamo più in dettaglio, scopriamo che la Provincia di Napoli, collegata alla rete AV, ha visto il reddito pro-capite diminuire tra il 2008 e il 2016 del 3,2% mentre quella di Bolzano (250 km dalla più vicina stazione AV) ha fatto un balzo in avanti del 19,2%. Volendo poi guardare al passato, uno studio di E. Ciani, G. de Blasio (Banca d’Italia) e S. Poy ha mostrato come la realizzazione della autostrada Salerno – Reggio Calabria negli anni ’60 non abbia avuto effetto significativo sulla crescita della Regione. Non vi è ragione per attendersi un risultato diverso investendo 5 miliardi per le ferrovie in Sicilia. Più infrastrutture non sono sufficienti per crescere ma neppure sono necessarie. L’Irlanda, isolata come la Sicilia e con una popolazione pressoché identica, dotata di una modestissima rete ferroviaria, con soli 53 km di linee elettrificate (il 99% dei viaggi si effettua su strada), ha un Pil pro-capite pari a 60.000 € pari a 3,4 volte quello siculo. E se la crescita non ci sarà, rimarranno solo più tasse per coprire le spese sostenute: poche decine di migliaia di privilegiati viaggeranno più velocemente e comodamente a spese di tutti i contribuenti.

 

Favorevole il sud ha diritto alla modernità: così più turisti e aziende

Lo scenario della crisi economica che si sarebbe presentato dopo l’emergenza sanitaria era chiaro già dall’inizio. Oggi si prevede -12% del Pil, significa meno posti di lavoro e ancor meno capacità di spesa. Era necessario un intervento radicale, il Dl Semplificazione segna il cambio di passo rispetto ad un Paese che fino a questo momento è stato impantanato nella burocrazia e nelle lungaggini. Prima ancora di investire, l’italia deve sbloccare e poter spendere tutto il denaro che ha stanziato negli anni, per opere o lavori che non sono mai stati completati o addirittura iniziati.

Abbiamo scelto di puntare tanto sull’edilizia scolastica, edilizia carceraria, opere nei comuni, sull’alta velocità. Ci sono studi che dimostrano come proprio l’alta velocità produca un miglioramento del pil del 10/15 per cento nel territorio interessato. Molte di queste opere saranno realizzate al Sud: metteremo a disposizione infrastrutture che renderanno appetibile il Meridione sia per gli investimenti industriali sia per il turismo. Il vero rilancio non può che avvenire solo se Nord e Sud viaggiano, vivono, esportano alla stessa velocità; il Sud ha diritto finalmente alla modernità. So che alcune opere non si giustificano con i numeri e col fabbisogno, ma il progetto è quello di migliorare il territorio, avere una prospettiva a lungo termine. Da meridionale ne faccio anche un discorso di dignità e di orgoglio. Portare l’alta velocità a Palermo o a Catania significa provare a ricucire l’Italia. Senza dimenticare che proprio di fronte a noi abbiamo un continente come l’Africa che per l’ Italia potrà essere una grande opportunità commerciale tra 10 o 15 anni. Mi sento anche di tranquillizzare chi fosse preoccupato sull’aspetto legalitario: i requisiti anti-mafia saranno resi più snelli nel loro iter burocratico (per esempio distribuendo il lavoro su più prefetture), ma i requisiti e i controlli non cambiano, anzi. E il cosiddetto “modello spagnolo” già utilizzato negli ultimi anni ha dimostrato che dando soldi agli amministratori locali per le piccole opere non ci sono stati fenomeni di corruzione.

 

Fiumicino, da Renzi (e i giallorosa) un regalo da 1 miliardo ai Benetton

La mano è renziana, ma l’ok è arrivato dall’intera maggioranza giallorosa, col parere favorevole di governo e relatore. Nel decreto Rilancio sono state prorogate tutte le concessioni aeroportuali per due anni. La modifica è passata con un emendamento riformulato e firmato dal renzianissmo deputato Luciano Nobili (Iv) lo scorso venerdì.

Il testo, poche righe, spiega che l’atto è dovuto “in considerazione del calo del traffico negli aeroporti italiani derivante dall’emergenza Covid e dalle misure di contenimento adottate dallo Stato e dalle Regioni”. In questo modo le concessioni vengono tutte prorogate di 24 mesi. Magari è una coincidenza, ma tra queste la prima che salta agli occhi è quella di Fiumicino e Ciampino, in mano ad Aeroporti di Roma, società controllata dai Benetton. La concessione (approvata, come per Autostrade, in forza di legge) scade nel 2044, così si arriverà al 2046. Nel 2019 la società ha chiuso con un margine operativo lordo di 511 milioni su 1.109 di fatturato, nel 2018 di 405 su 1.026 di ricavi. La proroga vale quasi un miliardo per Adr, che è controllata da Atlantia, la holding dei Benetton. Dal 2014 al 2018 la società ha distribuito ai suoi azionisti complessivamente 965 milioni di euro di dividendi. Una vera miniera d’oro.

Nella maggioranza spiegano che la mossa era inevitabile visto il disastro del settore aeroportuale, anche se, a denti stretti, qualcuno ammette che la proroga è notevole. Ad ogni modo arriva in un momento delicato, col governo impegnato nel braccio di ferro con i Benetton sulla concessione di Autostrade per l’Italia (Aspi) dopo il disastro del Morandi. I piani dell’esecutivo prevedono di costringere Atlantia a cedere il controllo di Aspi, e una mossa del genere sembra andare in direzione di una distensione dei rapporti. Altra coincidenza: nel piano “Italia veloce”, tra le infrastrutture è previsto anche il raddoppio della pista di Fiumicino, vecchio progetto caro ai Benetton ma finora bocciato da Comune e ministero dell’Ambiente. Ieri Fdi ha infierito sul blitz. “Lanciano strali e anatemi contro i Benetton, dentro il palazzo si accordano con la sinistra per garantire le loro posizioni”, ha attaccato Giorgia Meloni.

L’intervento si inserisce in un settore, quello aeroportuale, dove le concessioni hanno una durata già assai lunga, e scadranno in media fra 20 anni (a fronte di danni per il Covid limitati in un biennio). In Italia, secondo i dati di Avionews, su 45 aeroporti solo cinque sono stati aggiudicati tramite gara mentre otto in forza di legge (tra cui quella di Adr, che gode di una concessione di assoluto favore).

Commissari e (molte) deroghe Modello Genova in tutta Italia

Da ieri, o meglio da quando il decreto Semplificazioni andrà in Gazzetta ufficiale, inizia la stagione delle grandi e piccole opere in deroga, per la gran parte senza gara e con procedure negoziate direttamente con le imprese. La portata dello “sblocca cantieri” che lunedì notte è stato approvato “salvo intese” (cioè ancora da scrivere) è enorme. Per un anno (per ora) scatta una deregolamentazione profonda degli appalti pubblici: procedure più veloci, meno gare, stazioni appaltanti e (tanti) commissari con poteri in deroga. La lista delle opere già c’è: 130 (costo 190 miliardi) quelle considerate “prioritarie” dal “Piano Italia Veloce”. Si tratta di strade, ponti, dighe, e molte infrastrutture dell’alta velocità ferroviaria. Almeno 36 vengono commissariate subito (tra queste c’è l’Av in Sicilia, un affare da 6 miliardi). “Il testo sblocca una volta per tutte i cantieri e gli appalti” per offrire “una strada a scorrimento veloce” perché “l’Italia deve correre ma senza favorire gli appetiti criminali”, esulta in conferenza stampa il premier Giuseppe Conte, che parla di “riforma mai vista”. “Ridurremo le disuguaglianze infrastrutturali nel Paese”, spiega la ministra Paola De Micheli. Ecco cosa cambia.

Appalti sotto “soglia”. Il testo elimina l’obbligo di fare le gare fino alla cosiddetta “soglia europea”, cioè 5,2 milioni. L’affidamento sarà diretto fino a 150 mila euro. Oltre si andrà con procedura “negoziata” chiamando un numero di imprese variabile: 5 fino a 350 mila euro, 10 fino a 1 milione e 15 fino alla soglia. I tempi vengono accorciati (da 2 a 4 mesi per individuare l’azienda e l’affidamento, del ritardo ne rispondono i dirigenti). Parliamo del 97% degli appalti pubblici in Italia.

Appalti sopra soglia. Sopra i 5,2 milioni le stazioni potranno fare gare aperte, ma anche ristrette o procedure negoziate (motivandolo). Per le opere considerate “urgenti” per superare la crisi “anche economica” innescata dal Covid si potrà andare con la procedura negoziata d’urgenza (“senza pubblicazione del bando di gara”). Le stazioni appaltanti avranno “poteri in deroga ad ogni disposizione di legge diversa da quella penale” e dal codice antimafia. In queste rientrano “edilizia scolastica, universitaria, sanitaria e carceraria, dei trasporti e delle infrastrutture stradali, ferroviarie e idriche”. Cioè quasi tutto, tra cui quelle dei contratti di programma di Anas e Rete ferroviaria (Fs). Per tutti i tempi massimi sono fissati in 6 mesi per gli atti. Per le opere “complesse”, arrivano i commissari con i poteri in deroga di cui sopra. È il “modello Genova” usato per ricostruire il Morandi, che piace a Iv e 5Stelle. A differenza di Genova, però, commissari e stazioni appaltanti dovranno rispettare tre articoli del codice degli appalti che impongono criteri di correttezza nell’impiego di manodopera; criteri di sostenbilità energetica e ambientale e assenza di “conflitti d’interesse” delle imprese. In questo senso, il modello si avvicina a quello dell’Expo, anche se mancano l’obbligo di contrattazione e di vigilanza collaborativa dell’Anticorruzione.

Le opere. L’elenco è lungo. Quelle considerate “prioritarie” dalla lista del Mit – per i quali per un anno potranno in teoria scattare anche i poteri in deroga delle stazioni appaltanti – sono 130, per una spesa di 113 miliardi per quelle ferroviarie e 54 per quelle stradali. Dentro c’è di tutto, dal Tav Torino-Lione alla Gronda autostradale di Genova (opera cara ad Autostrade dei Benetton), a decine di opere di alta velocità al Nord e al Sud fino al raddoppio dell’aeroporto di Fiumicino. Per molte di queste, circa 50, arrivano i commissari con poteri in deroga a quasi tutto: al netto di quelle idriche (tra cui c’è anche il Mose di Venezia), dei porti e di scuole, ospedali e altri edifici individuati dai ministeri, ce ne sono 36 infrastrutturali (valore: circa 20 miliardi). In gran parte è alta velocità ferroviaria (o meglio “alta capacità”), oltre alle linee Brescia-Padova e Venezia Trieste (1,8 miliardi), c’è la Salerno-Reggio Calabria e la Palermo-Catania (6 miliardi, cara a mezzo arco politico, specie i 5stelle), la Roma-Pescara (700 milioni); ma anche opere stradali come la 106 Ionica (1,3), la Ragusa-Catania (700 milioni) e anche la Strada dei Parchi A24-A25, l’unica per cui il Mit ha già previsto un commissario (che riceverà con la struttura uno sproposito di 60 milioni in 5 anni, per progetti che valgono 300 milioni nel quinquennio, cosa che ha infastidito molti nel governo).

Altre cose. Nel passaggio in Cdm, il testo originario è stato migliorato: eliminata la liberalizzaizone dei subappalti e ripristinato l’obbligo di aggiornare dopo luglio il Documento di regolarità contributiva (Durc), tolto alla Camera dal Dl rilancio. Resta la riforma dell’Abuso d’ufficio e l’eliminazione della colpa grave dalla responsabilità erariale dei dirigenti che firmano gli atti. Dimezzati i tempi della Valutazione d’impatto ambientale.