La pistola fumante

Da quando, il 1° agosto 2013, la sezione Feriale della Cassazione da lui presieduta condannò definitivamente B. per frode fiscale a 4 anni, gli impiegati del pregiudicato – come da contratto – hanno svelato una raffica di particolari inquietanti della sua biografia, fino a quel momento immacolata. Una collezione da Guinness di scheletri nell’armadio scovati dai segugi del Giornale e degli altri fogli aziendali setacciando fascicoli, compulsando sentenze, auscultando portoni e fioriere, interrogando edicolanti, perlustrando bar, ristoranti, tavole calde, hotel e motel, importunando passanti, scoperchiando tombe e cassonetti, nella bizzarra convinzione che B. torni incensurato se si dimostra che uno degli 11 giudici che l’han condannato in primo, secondo e terzo grado è un poco di buono. Purtroppo, diversamente da quelle dei pm a B., le accuse degli house organ a Esposito si erano rivelate false. Falso che avesse barattato la richiesta di archiviazione per suo figlio, scoperto a cena con la Minetti, in cambio della condanna di B. (la richiesta sul figlio era di sei mesi prima che il processo B. giungesse sul suo tavolo). Falso che suo figlio parlasse con lo 007 La Motta in carcere (quello non era suo figlio, ma il figlio di suo fratello Vitaliano, allora Pg di Cassazione). Falso che a tavola Esposito alzi il gomito (è astemio).

Falso che tenesse lezioni a pagamento nella scuola della moglie all’insaputa del Csm (insegnava gratis con l’ok del Csm). Falso che si appropriasse di processi altrui per finire sui giornali (sostituiva doverosamente colleghi assenti). Falso che faccia vita da nababbo (la “prova”, una Mercedes, è un ferrovecchio del 1971 acquistato nel ’77 con 300mila km). Falso che fosse odiato per la sua faziosità quand’era pretore a Sapri (lo odiavano solo i suoi imputati che, accertò il Csm, avevano ordito “un complotto contro l’Esposito”). Falso che fosse stato trasferito per affari loschi (il Tar annullò il provvedimento perché le accuse erano fasulle). Falso che abbia anticipato a cena la condanna di Wanna Marchi. Falso che avesse raccontato in giro le telefonate sexy delle girl di Arcore (mai lette da nessuno e subito distrutte dai giudici di Napoli). Falso che sia una toga rossa di estrema sinistra (il Giornale, prima della sentenza su B., definì lui e gli altri 4 “toghe moderate”). Falso che una sera, a casa di un tizio di San Nicola Arcella (Cosenza), ospite d’onore insieme all’attore Franco Nero, ripetesse a cantilena per tutta la cena “Berlusconi mi sta sulle palle, gli faccio un mazzo così” (non l’aveva come imputato e si occupava di criminalità organizzata, mentre B. inspiegabilmente non aveva processi in materia).

Fin qui le panzane raccolte da Giornale, Libero e tv Mediaset a botta calda, quando si trattava di salvare il padrone dalla cacciata dal Senato in base a una legge, la Severino, che aveva votato pure lui con tutta FI. Ora, sette anni dopo, la Banda B. ci riprova, nel tentativo disperato di riverginarlo in vista del governissimo che fa benissimo. E, va detto, ci sta riuscendo grazie a nuovi testimoni di grande autorevolezza, terzietà e credibilità: un cameriere, un bagnino e uno chef dell’hotel di Ischia di proprietà del rascampàno di FI Mimmo De Siano, legatissimo al celebre Giggino ’à Purpetta, i quali giurano all’unisono che Esposito nei suoi soggiorni non faceva che ripetere: “Berlusconi è una chiavica” e “Berlusconi e De Siano li devono arrestare”. Così, come intercalare. “All’ingresso del ristorante – testimonia il cameriere – invece di dire ‘buonasera’, Esposito era solito affermare: ‘Ancora li devono arrestare’, riferendosi al dottor Berlusconi e al mio datore di lavoro”. Il fatto che i tre cantino tutti la stessa canzone e a Napoli si indaghi sulle loro testimonianze non deve ingannare. È più che credibile che un giudice di Cassazione, sapendo di albergare in un hotel del senatore De Siano, vada in giro per la hall preannunciando a chiunque incontri l’arresto del proprietario e del suo leader. “Scusi, cameriere: posto che Berlusconi è una chiavica, me lo farebbe un caffè corretto?”. “Salve, chef: siccome quelle chiaviche di Berlusconi e De Siano vanno arrestati, me lo porterebbe un antipastino di pesce?”. “Ehilà, bagnino: alla faccia di quelle chiaviche da arrestare del suo padrone e del premier, avrebbe un ombrellone, due lettini e un telo mare?”.
Casomai le prove esibite dal giurista Porro e dal giureconsulto Sansonetti (quello che non distingue una Corte d’appello da un paracarro, figurarsi dalla Cassazione), non bastassero a convincere le Corti di Strasburgo, Lussemburgo, Magdeburgo, Brandeburgo e Cheesburger, il Fatto è in grado di rivelare le due nuove prove in possesso agli avvocati. La prima è il nastro di una seduta spiritica con Filumena Ciucciasangue, nota medium di Casamicciola e candidata di FI che, chiacchierando del più e del meno con l’anima del giudice Franco, gli udì scandire accuse molto circostanziate al giudice Esposito (la registrazione si sente “sbsazgrttt… bsdparttzz…”, ma l’on. avv. Ghedini la sta facendo tradurre da uno fidato). La seconda è il video di Ciruzzu Scannacristiani, detenuto all’Ucciardone al 41-bis, che confida al compagno di ora d’aria: “Chill’ curnutone scurnacchiate d’Esposito m’ha fatt’ carcerà! Cià raggione Belluscone: è tutt’ nu cumblott”. A questo punto, il ricorso in Europa è una pura formalità.

In spiaggia a Fregene scrisse e suonò per Joan Baez

Ho sempre ammirato (al punto da imitare piuttosto bene le sue canzoni affidate al fischio, nelle indimenticabili colonne sonore dei film di Leone), ma mai veramente conosciuto Ennio Morricone. Di lui sapevo tutto solo quando in sala si spegnevano le luci e la dotazione sonora del nostro cinema cominciava a diffondere la musica che nessuno, da allora, ha mai dimenticato.

Ma c’è una canzone molto nota che è nata in pochi giorni dalla intuizione del regista Giuliano Montaldo e dalla musicalità e dalla voce di Joan Baez ed è diventata, nella grandissima espansione di bellezza e di suono di Morricone, Here’s to you, Nicola and Bart, il celebre canto del nobile film Sacco e Vanzetti. È una delle più belle e famose del repertorio della Baez. A me è toccato di essere una sorta di coautore, nel senso di tramite e legame fra i momenti rapidi e diversi in cui questa canzone è nata.

Montaldo ha raccontato l’incontro con Joan a casa mia a New York, la Baez ha scritto di essere venuta in Italia su invito del produttore, decisa a dire “no” (ammirava il senso del film, ma non l’idea di fare una canzone per il cinema). È venuta a stare da noi a Fregene con il suo piccolissimo Gabriel, al Villaggio dei Pescatori di allora, dove Alice, in attesa di nostra figlia Daria, preferiva stare sul mare. Avevamo una baracca fra la casa di Francesco Rosi e quella di Gillo Pontecorvo e di fronte a noi un bunker, residuato di guerra, in cui si era sistemato Moravia con Dacia Maraini. Così ha preso vita l’avventura che Morricone avrebbe fatto diventare una delle più belle e importanti canzoni del tempo e forse anche di adesso. Prima esecuzione in spiaggia, per i vicini. Poi l’indimenticata presentazione del film.

Ex trombettista nei night compose per Mina e Ppp Sul Boss, suo fan, disse: “Bravo ‘Springfield’!”

I primi sette secondi. Al Maestro avevano detto che il destino di una canzone si giocava nell’attacco. “Prima che l’ascoltatore si distragga”, intuì Morricone. Negli anni Sessanta era lui a farti vorticare dentro la voragine in cui veniva risucchiata per sempre la memoria collettiva. L’ex trombettista da night nel tempo oscuro della guerra era diventato l’arrangiatore dei 45 giri d’oro nella Rca di Melis, la fabbrica dei successi: dove lavorava pure un rivale come Luis Bacalov.

L’ordine di scuderia era divertirsi e stupire: Morricone, che si era fatto le ossa “ripulendo” partiture sghembe per la radio, vestì Ogni volta di Paul Anka con un’orchestrazione sorniona da un milione e mezzo di copie. Si metteva lì, il Maestro, con la concentrazione mistica da grande scacchista (lo era: impattò la sfida con Spassky) e trovava il varco segreto di un universo parallelo: la vertigine de Il mondo di Jimmy Fontana; il crescendo pigramente sensuale di Sapore di sale con il sax prezioso di Gato Barbieri ma anche i rimbrotti a Paoli perché “cantava male”. E le estati eterne di Edoardo Vianello, vitellone spiaggiarolo su Abbronzatissima o Con le pinne, fucile ed occhiali, quando il mare era una tavola blu senza distanziamenti sociali.

Giocava con il catalogo del pop nazionale, Morricone, non solo per garantirsi un “posto fisso”, come da mitologia sociale dell’epoca, bensì pure per sperimentare, senza darlo a vedere, con i vezzi della musica colta: per dare “corpo” al Barattolo di Gianni Meccia fece registrare il rotolìo di un vero cilindro di latta, roba che neanche Warhol e Cage messi insieme. Era astuto, l’allievo prediletto di Petrassi: buttava una citazione criptica da Beethoven nelle pieghe di una napoletanata di Miranda Martino o una trama dodecafonica in un capriccio beat per Rita Pavone, tanto nessuno se ne accorgeva. Tratteneva nell’orecchio tutti i rumori del mondo, sapendo che gli sarebbero tornati utili. Rientrato da Marsiglia, si ricordò della sirena della polizia francese: serviva la sigla per una trasmissione, al testo lavoravano Maurizio Costanzo e Ghigo De Chiara, Mina cantò quel capolavoro col gerundio, Se telefonando. “Poi me ne chiese un’altra, ma sparì: il fidanzato musicista non voleva”. Era Augusto Martelli: quella stizza certificava la grandezza del Maestro. Che aveva messo su “una filastrocca” con Pasolini per metterla in bocca a Modugno, Uccellacci e uccellini. E arrangiato C’era un ragazzo per Morandi con austera nonchalance.

Voleva essere ricordato per le composizioni alte, impresse il marchio nei juke box delle stagioni ruggenti. Con romanissima ironia demoliva l’ego delle star: ribattezzò l’amico Baglioni “Audio Bagliori”. Gli dei del rock lo omaggiavano ovunque: i Metallica, gli U2, i Clash, i Ramones, Waters. Springsteen, suo fan assoluto, partecipò a un rifacimento di C’era una volta il West in un album tributo. Ne chiesi conto al Maestro, e lui, fingendo un’amnesia: “Chi? Ah, quel bravo chitarrista. Springfield!”.

“Era un poeta artigiano: dei premi se ne fregava”

“Era una persona speciale Ennio Morricone. Un artigiano che emanava semplicità per poter nascondere quella sua genialità unica”. Così Carlo Verdone ricorda il grande artista che gli compose nel 1980 la colonna sonora di Un sacco bello, complice il “solito” Sergio Leone che li presentò.

Cosa ha provato la prima volta che ha sentito le musiche di Un sacco bello?

Quando Ennio mi invitò allo studio della Trafalgar per assistere all’incisione della colonna musicale, mi sono accorto che, ascoltando l’orchestrazione completa, il film mi scorreva davanti agli occhi come non era mai accaduto, e mi sembrava acquistasse più valore, più poesia. Questa cosa mi colpì molto, sentivo che le musiche erano adeguate alle diverse scene, malinconiche, ironiche, insomma perfette.

Che tipo di persona era?

Era un artigiano dalla semplicità unica, quando gli parlavi sembrava un normalissimo impiegato d’ufficio, però aveva una genialità nascosta, un’ironia su certi dettagli che raramente ho visto e ascoltato nelle persone. Si capiva che apprezzava la comicità e l’autoironia, non a caso andava d’accordo con Leone. Ennio però era più pacato di Sergio che invece era un mattacchione.

Quell’autoironia che gli ha fatto scrivere un necrologio preventivo di sé…

Quel suo saluto post mortem scritto preventivamente mi ha colpito. L’ha fatto in una maniera senechiana, lucida, non “strappacore”. È come se avesse voluto dire: “Basta così, la vita mi ha dato tutto, ringrazio tutti, ma basta così”. Mi ha davvero impressionato.

E come musicista cosa sentiva in lui di speciale?

Morricone non era un musicista normale. Anzitutto era spaventosamente colto, avendo avuto come docente il professor Goffredo Petrassi, che era un avanguardista, un autore di musiche moderne all’epoca incomprensibili. Evidentemente quella musica intelligente e intellettuale deve avergli allargato gli spazi della creatività. Credo che Ennio però avesse anche un altro dono, ovvero quello della sicurezza nell’azzardo: chi prima di lui “osa” mettere in musica un fischio, o un fischiettio? E il fischio l’ha messo alla fine anche di Un sacco bello, non posso certo scordarmelo. Ha introdotto lo scacciapensieri, inserito le voci umane, ogni tanto se ne usciva con qualche strumento nuovo, con rumori inediti. Insomma, un creativo totale.


Un sacco bello
a parte, qual è la sua colonna sonora che preferisce?

Sono diverse. Prediligo la musica di Mission, di C’era una volta in America, ma anche quel pezzo che accompagna la scena al cimitero de Il buono, il brutto e il cattivo con il duello finale. Ecco, oltre alla maestosità anarchica di quel brano c’è un montaggio del sonoro spettacolare.

Siete rimasti in contatto?

Qualche telefonata gliel’ho sempre fatta, e c’erano occasioni di incontro, fra premiazioni e serate. Anche qualche cena insieme. Ricordo che fu molto carino quando per un extra di un mio Dvd dedicò belle parole sul mio conto, un ricordo molto generoso da parte sua che solitamente era così schivo. Una decina di mesi fa sono andato a trovarlo a casa sua all’Eur, e l’ho trovato lucido però molto stanco: ogni minuto gli squillava il telefono, lo chiamavano in continuazione per premi ed onorificenze di cui tutto sommato gli importava ben poco.

C’era una volta Morricone. Ennio, 91 anni da Oscar

Grande lo era, eppure non s’è persuaso che i grandi continuino a far parlare di sé anche dopo la morte. Il necrologio, alla voce “che cos’è il genio”, se l’è scritto lui. Non può stupire, né chi lo conosceva bene, né chi sappia scrivere la musica, o almeno che significhi: dopo tante note, ha voluto l’ultima parola. Ricorda i familiari, gli amici, tra cui il regista che prediligeva, “Peppuccio” Tornatore, e “per ultima Maria (ma non ultima)”, la moglie adorata: “A Lei il più doloroso addio”.

Toccata e fuga, e funerali privati (già avvenuti alla presenza di pochi intimi): “Per una sola ragione: non voglio disturbare”. Sottrazione, come talvolta nelle sue partiture, e silenzio, cui s’è infine concesso. Non amava la definizione di colonna sonora, nondimeno, quelle che ci lascia sono le colonne d’Ercole della Settima Arte: le ha affrancate dal mero servizio, liberate dall’occasionalità, restituite alla piena dignità musicale. Nessun complesso di inferiorità, nessuna natura ancillare: la musica con Ennio Morricone dà del tu al cinema, lo guarda negli occhi e gli riempie le orecchie.

Nell’immaginario acustico collettivo c’è lui, primus inter pares, pop nel senso di popolare, arte nel senso di artigianato. L’art pour l’art, no: ha messo sempre davanti l’uomo, e se stesso, al creato, e il lavoro all’invenzione, la dedizione all’estro, la tecnica al miracolo, la pratica al genio che pure era. Poco prima di compiere i novant’anni alla domanda “come si sente a essere un orgoglio italiano?”, rispondeva: “Mi sento bene, perché so’ guarito dall’influenza”. Poi la registrazione, e un occhio all’orologio: giocava la sua Roma. Che non è più Caput mundi, ma grazie a lui ci si è riscoperta: citofonare Terrence Malick, Roland Joffé, Brian De Palma, Barry Levinson, Mike Nichols, John Carpenter, Quentin Tarantino, l’America non l’ha trovata lui, l’hanno trovata gli americani in Ennio.

Come osserva, e un po’ rosica, il New York Times, “non ha mai imparato a parlare inglese, non ha mai lasciato Roma per comporre, e per anni s’è rifiutato di prendere l’aereo”, risolvendosi a visitare gli Stati Uniti per la prima volta nel 2007, all’età di 78 anni. Cordoglio e ammirazione, nondimeno, si tengono per mano in tutto il mondo, che oggi scrive sotto dettatura, la sua, anche quando – come il Washington Post – ne fraintende l’epopea e trascrive l’onomatopea, “ah-ee-ah-ee-ah”, poi emendato nel “wildly inventive theme of The Good, the Bad and the Ugly”. Il Buono, il Brutto e il Cattivo, l’ocarina strappata all’oblio e consegnata al mito, gli spaghetti western che, alla pari con Sergio Leone, impiatta nella Storia del Cinema: “Partiture ‘infuocate’ (…) effetti sonori, tra cui famosi il fischio, le chitarre elettriche, la campane, la frusta, l’armonica a bocca, il carillon, l’organo, le voci (vocalizzi, sillabazioni), eccetera. Trova così modo di imporsi – scriveva Ermanno Comuzio in Musicisti per lo schermo (edizioni Ente dello Spettacolo) – uno stile riconoscibilissimo, imitato da tanti e diventato ‘maniera’”.

Oltre cinquecento colonne sonore, anche venti in un anno: orecchio fino e bocca buona. O, almeno, da sfamare: se già nell’ottobre del 1971 otteneva il primo Disco d’Oro per un milione di dischi venduti, la paura che non lo chiamassero più e dovesse cambiare mestiere se l’è portata appresso fino ai settant’anni, sicché, “io accettavo quasi tutto, salvo i film bruttissimi. Non ne avrò rifiutati più di cinque, sei in tutta la carriera: facevo di tutto per guadagnare”. Ci ha tratto uno sconfinato appartamento vista Campidoglio, il pianoforte a giocare a nascondino con l’arredo barocco, una scrivania monumentale per comporre. Ma è solo il domicilio, la residenza l’ha presa sotto le nostre docce, sui balconi e i terrazzi della pandemia, nella nostra carta d’identità musicale. Bernardo Bertolucci, per cui firmò da Prima della rivoluzione (1964) a La tragedia di un uomo ridicolo (1981), sosteneva che Ennio avesse scritto almeno due o tre possibili inni nazionali italiani, lui si sarebbe limitato a “rallentare e riarmonizzare” quello di Mameli e lo propose, invano, al presidente della Repubblica Ciampi – nel televisivo Cefalonia di Riccardo Milani ve n’è traccia, e una dissacrante anticipazione in Bianco, rosso e Verdone.

Salvaguardando al contempo un superlativo musicale assoluto, Morricone senza girare una sola inquadratura ha dato al cinema come pochissimi altri. Come, al Bif&st del 2019, l’ha spiegato Tornatore, che lavora da tempo a un documentario sul Maestro: “C’è un muro che separa da sempre i musicisti del cinema dagli altri, ma è pure vero che Pasolini nei suoi primi due film chiamò come musicista Bach e dopo chiamò Morricone”.

Castex mette l’assolutore di Sarkozy alla Giustizia

Nomi nuovi, ma anche conferme importanti, nel governo presentato ieri sera dal premier francese Jean Castex: una formazione che il presidente della Repubblica Emmanuel Macron vede nascere sotto il segno di “obiettivi e unità”, cioè concretezza e compattezza. Ma i media francesi leggono, nei gesti e nelle scelte del nuovo premier, elementi di discontinuità con il suo predecessore, Edouard Philippe, rieletto domenica sindaco di Le Havre, e – in prospettiva – di potenziale frizione con Macron.

Cambiano di titolare i ministeri dell’Interno – Gerald Dermanin al posto di Cristophe Castaner –, della Giustizia – l’avvocato Eric Dupond-Moretti al posto di Nicole Belloubet –, della Cultura – Roselyne Bachelot al posto di Franck Riester –. Come responsabile della Transizione ecologica, Barbara Pompili rimpiazza Elizabeth Borne, che va al Lavoro. Restano al loro posto i ministri che formano il pacchetto europeo e internazionale: Yves Le Drian agli Esteri, Bruno Le Maire all’Economia, Florence Parly alla Difesa. All’interno dell’esecutivo, vi sono pure cambi di funzioni e di attribuzioni, con diversi ministeri raggruppati in grandi poli. Fra i nomi più gettonati della vigilia, mancano all’appello l’economista ed ecologista Laurence Tubiana, che s’era già chiamata fuori; il patron del gruppo alimentare Danone Emmanuel Faber; e l’ex direttore generale della polizia Frédéric Péchenard, pronosticato all’Interno – ma il tasso “sarkozista” del nuovo governo sarebbe probabilmente stato eccessivo –. A soprendere è la nomina alla Giustizia di Éric Dupond-Moretti: un principe del foro sanguigno e polemico, avvezzo alle prese di posizione clamorose e controcorrente, dal processo relativo alle intercettazioni di Nicolas Sarkozy. Soprannominato “Acquittator” (Assolutore) per la capacità di far scagionare i suoi clienti, ha difeso con successo Jean Castela, considerato il killer del prefetto Claude Erignac, l’ex ministro Bernard Tapie, il calciatore Karim Benzema e l’ex ministro Jérôme Cahuzac. È difensore del terrorista Abdelkader Merah, fratello del jihadista che fece strage a Tolosa nel 2012, e fa parte del collegio di difesa internazionale di Julian Assange. È stato anche favorevole al divieto di legittimità del Front National.

L’agenda del 2017, cioè della sua elezione e della sua vittoria nelle politiche dopo le presidenziali, resta centrale, ma – twitta Macron – “deve adattarsi agli sconvolgimenti e alle crisi internazionali che stiamo vivendo: bisogna forgiare una nuova via”.

A prima vista, gli analisti avevano valutato che Macron lo avesse scelto per non avere qualcuno che gli faccia ombra, se dovesse ripresentarsi, com’è probabile, alle elezioni del 2022. Farà il discorso all’Assemblea il 15, dopo avere però lasciato a Macron la scena del 14 luglio, la festa nazionale. L’agenda di Castex è impegnativa: pilotare la fine dell’emergenza, con la riapertura delle attività e la ripresa dell’economia; rilanciare i negoziati con i sindacati sulla riforma delle pensioni; rivitalizzare e rianimare la maggioranza presidenziale, uscita malconcia dalle elezioni municipali. Diversamente da Philippe, che non desiderava farsene carico, il nuovo primo ministro vuole essere il capo della maggioranza parlamentare.

Coup de théâtre di Johnson. Ma i sipari sono già calati

“The show must go on”, cita su Twitter il ministro delle Finanze britannico Rishi Sunak annunciando, con il titolare della Cultura Oliver Dowden, un pacchetto governativo da 1.57 miliardi di sterline di sostegno alle Arti. Anzi, alle industrie creative, perché al Regno Unito, politica e società, è chiaro fin dagli anni Sessanta che danza, teatro, cinema, opera, musica, produzione televisiva, stand up comedy, arte sono linfa economica e culturale, e una voce sostanziale del prodotto interno lordo e del soft power internazionale di una Global Britain dall’immagine appannata.

Solo il teatro ha un fatturato annuale di quasi un milione di sterline per 350 mila addetti. Con la Cultura si mangia, direbbe qualcuno, e ora è urgente soccorrere un settore più di altri massacrato dal Covid, che ha desertificato sale, gallerie e set, drenato risorse a istituzioni culturali pubbliche e private con budget già in precario equilibrio e paralizzato lavoratori e indotto. La citazione centra perfettamente lo spirito del tempo. Qualche dato, da Bloomberg. In un West-end fantasma, il virus ha fermato Trappola per topi di Agatha Christie, in scena senza interruzioni dal 1952; I Miserabili, da 1985; Il Fantasma dell’opera, dal 1986. Lo Sheffield Theatre ha chiuso i battenti il 14 marzo, su un adattamento del Coriolano di Shakespeare. Due giorni dopo Boris Johnson ha consigliato al pubblico di evitare i teatri: la mannaia per le 1.300 sale grandi e piccole del Regno Unito, molte rette quasi esclusivamente dai biglietti o, ma vale solo per i più prestigiosi, dagli abbonamenti. Il direttore artistico Robert Hastie ha commentato: “Abbiamo perso il 90% dei fondi”. Sabato hanno riaperto i cinema e alcuni musei, ma per teatri e sale da concerto con margini di profitto già minimi ripartire con posti ridotti dagli obblighi di distanziamento è una sfida mortale, perché sono ambienti chiusi ad assembramento obbligato, con foyer spesso stracolmi, backstage piccoli e poche riserve per garantire santificazione e aerazione sicure.

A Londra la crisi del turismo ha drenato il pubblico dei musical storici, destinazione di milioni di turisti, dal Re Leone a Wicked a Mamma mia. Show costosissimi, che hanno bisogno di garantire il 60-70% della capacità solo per coprire i costi di produzione. E ci sono già le prime vittime illustri. Il gruppo che regge i Nuffield Theatres a Southampton è fallito a maggio, dopo 50 anni di attività e un lavoro culturale che ne ha fatto un punto di riferimento regionale. Perfino l’Old Vic di Londra, uno dei più sperimentali e prestigiosi, è a rischio. A un passo dal fallimento il Globe a Bankside, vicino la Tate Modern: è la copia quasi esatta dell’originale, che sorgeva poco distante, e ha in cartellone solo opere di Shakespeare. È un simbolo del teatro britannico, perché da qui sono passati i suoi interpreti più grandi. Solo due settimane fa un centinaio di artisti, fra cui Phoebe Waller-Bridge, James McAvoy, Andrew Scott, Tom Stoppard, hanno pubblicato una lettera aperta proprio a Sunak e Dowden chiedendo un intervento sostanziale, dopo che la pubblicazione dei dati dell’Istituto di statistica sul-
l’impatto del virus sull’industria culturale: almeno 400 mila disoccupati e 74 miliardi di introiti mancati. Una “catastrofe culturale”, economica e sociale, con il piano di cassa integrazione all’80% in scadenza ad agosto.

Il supporto pubblico, in forma di prestiti, sgravi fiscali e sovvenzioni, servirà a impedire il fallimento di progetti, istituzioni e compagnie nei prossimi difficili mesi, prima di un ritorno alla normalità che, teme qualcuno, non avverrà mai. Come ha notato Suba Das, direttore artistico della compagnia teatrale HighTide: “La maggiore preoccupazione resta quella per gli artisti freelance, i nuovi talenti e i più marginalizzati della società, che sono sempre i più a rischio in momenti di incertezza economica”. E poi ci sono i progetti educativi, migliaia, che fanno affidamento su fondi pubblici per coinvolgere in percorsi artistici ragazzi di aree svantaggiate. Un effetto collaterale che potrebbe avere profonde ripercussioni sociali. Malgrado le incertezze, i commenti degli addetti ai lavori sono, per ora, di unanime approvazione: ed è un consenso raro in questi mesi di controversa gestione della crisi da parte del governo Johnson. Finirà che a salvarlo, anche politicamente, sarà proprio la Cultura. Sipario. Applausi.

Il “collega” Salvini è come Kim Jong-un che difende l’art. 21

Da domenica sappiamo che sei hai 15 anni, indossi la tua mascherina, ti avvicini a un politico che va ai suoi comizi e abbraccia signore anziane senza indossarla, aspetti educatamente il turno per poter parlare con lui e gli dici “io credo che lei sia omofobo e razzista”, quel politico ti risponderà sarcastico “Ti voglio bene”.
Perché quel politico che si chiama Matteo Salvini, ai suoi contestatori non risponde. Li sbeffeggia. Poi, siccome il ragazzino quindicenne potrebbe nascondere una molotov sotto la mascherina o chissà cos’altro, due poliziotti bloccano il ragazzino e gli chiedono un documento perché devono identificarlo. Identificarlo perché con educazione, senza urlare o spintonare nessuno, ha dato del razzista a un politico che tramite decreto penale è stato condannato a pagare 5.700 euro per aver intonato cori razzisti contro i napoletani. Perché ha dato dell’“omofobo” a un politico che mentre viene presentata alla Camera la proposta di introdurre il reato di omotransfobia, commenta che servirebbe anche quella contro l’eterofobia perché una persona che viene picchiata viene picchiata, che importa se le botte arrivano perché è omosessuale, perché è discriminata, perché è vittima di pregiudizi. Geniale. Attendiamo che lanci anche il suo #whitelivesmatter.

Poi, quel ragazzino che è incidentalmente anche mio figlio, viene sbattuto sulla pagina ufficiale “Lega Salvini Premier” per ben due volte perché Salvini ai quindicenni non risponde, li fa insultare dal suo elettorato, per non sporcarsi le mani.

Un eroe, insomma: se gli dai del razzista prima passi attraverso l’identificazione della polizia, poi attraverso la gogna dei suoi scagnozzi del web. Il tutto mentre lui posta il selfie della buonanotte col gatto in braccio, confrontandosi politicamente al massimo con chi dice che preferisce i cani perché i gatti sono troppo indipendenti. Nel frattempo arriva anche la sua ciurma di difensori di una certa caratura, perché giustamente il povero Salvini è indifeso, al muro, massacrato da un quindicenne che gli ha dato del razzista in mezzo a guardie del corpo, polizia in borghese, cento persone che acclamavano il capitano e urlavano zecca al ragazzino. E quindi il capostruttura Rai Angelo Mellone, quello che presenta libri nella sede di Casapound, poche ore dopo l’accaduto dà del cretino a quel ragazzino in un tweet e chissà che magari questa promozione a vice-direttore di Rai 1 che brama tanto non arrivi in fretta per meriti acquisiti su twitter. E poi il solito giornalaccio di destra, che ieri in un articoletto in difesa del capitano chiama il quindicenne “piccolo molestatore” e inventa un contesto di “urla sguaiate” smentite anche da tutti i video in circolazione. Una scena pietosa in cui adulti a capo di partiti, giornali e reti tv fanno i bulletti con un adolescente che ha una sua sensibilità per quello che succede nel mondo e un suo senso di giustizia, e ha il coraggio di esprimerli senza timori reverenziali, cercando il confronto civile con gli adulti. Perché alla fine di questo, sarebbe colpevole il quindicenne, oltre che di essere mio figlio, e dunque certamente “imbeccato” e “strumentalizzato”.

E invece, mi spiace per Matteo Salvini, ma la notizia è che nella scuola in cui va mio figlio che per una buffa coincidenza è quella dove va anche il suo, ci sono tanti giovanissimi che militano in gruppi di sinistra, che hanno una coscienza civile, che manifestano e scioperano per motivi che non sono perdere un giorno di scuola. Tra quei ragazzini c’è anche il mio, che per sua fortuna ha una buona dose di personalità e per mia sfortuna ha una tale dose di personalità da contestare anche me, all’occorrenza. Quindi non si faccia illusioni, Matteo Salvini: è zeppo di adolescenti che lo disprezzano senza essere teleguidati dagli adulti, a patto che esistano adulti che riescono a teleguidare adolescenti e nel caso vorrei conoscerli per farmi autografare almeno il décolleté.

E non me ne vorrà Salvini, ma ho riso molto, anziché arrabbiarmi, quando ho letto la sua ultima sparata: “Se la mamma ritiene di sfruttare un BIMBO di 15 anni per battaglia politica non commento, da giornalista rispetto la Carta di Treviso, quindi la tutela dei minorenni. È stata lei a buttare in pasto ai giornali il figlio, mio figlio è geloso della sua privacy, le mando un bacione”. Matteo Salvini che rispetta la carta di Treviso è tipo Kim Jong-un che rispetta l’articolo 21 della Costituzione sulla libertà di espressione. Si è dimenticato delle minorenni sbattute sulla sua pagina, di suo figlio al Papeete sulla moto d’acqua della polizia, di sua figlia fotografata con la ruspa su Instagram, della bambina portata sul palco di Bibbiano che non era neppure una bambina di Bibbiano ma serviva per la sua propaganda e quindi sarebbe andata bene pure se fosse stata bielorussa. E già che ci siamo, si è dimenticato pure che non è più tempo di bacioni. Primo perché c’è il Covid, secondo perché come dicono gli adolescenti, è un’espressione da “boomer”. E se provasse ad ascoltarli, gli adolescenti, anziché ridacchiare e farli identificare dai suoi scagnozzi, forse l’avrebbe imparato pure lui.

 

Lo sbirro che fu a un passo dal prendere Provenzano

C’è uno sbirro, Alessandro Scuderi, che, facendo correttamente il proprio lavoro nella Sicilia degli anni 80 e 90, ha incrociato alcuni dei misteri mafiosi d’Italia. Era sullo scoglio dell’Addaura il 21 giugno del 1989 (era accanto al brigadiere dei carabinieri Francesco Tumino, arrivato a disinnescare l’ordigno preparato per il giudice Giovanni Falcone – l’artificiere che lavorò sull’esplosivo in modo maldestro sarà poi condannato per falsa testimonianza).

Quello stesso sbirro era sulle tracce dei killer di Serafino Famà (avvocato ucciso nel novembre del ‘95 su ordine del boss Giuseppe Di Giacomo) quando mise sotto controllo i telefoni di Gino Ilardo, cugino di Piddu Madonia e scoprì, con sorpresa, che il figlio di “don Lillo”, uno che parlava con Bernardo Provenzano, era confidente dei carabinieri e aveva iniziato a raccontare le varie anime del consesso mafioso. Un confidente talmente prezioso che avrebbe potuto portare alla cattura del boss corleonese nell’ottobre del 1995 invece che nell’aprile di 11 anni dopo.

C’è uno “sbirro”, Alessandro Scuderi, che in una notte del settembre del 1997, si inoltra delle campagne tra Catania, Enna e Caltanissetta, assieme a una fonte mafiosa di rango, alla ricerca dei covi usati dai boss latitanti per i soggiorni, e, in un ristorante sopra Enna, grazie al racconto particolareggiato del confidente, disegna un identikit di Provenzano, con tanto di sciarpa per coprire la cicatrice di un intervento alla tiroide. Quel disegno, visto oggi, è uguale al boss emerso dalla latitanza l’11 aprile 2006 tra ricotte e pizzini. Un lavoro che, preso seriamente, avrebbe forse consentito sviluppi investigativi più rapidi. La storia di questo sbirro, dei misteri in cui si imbatte, della caparbietà con cui li affronta e delle porte in faccia che riceve, la racconta Giampiero Calapà nel libro A un passo da Provenzano – Una storia nascosta nella trattativa Stato-mafia (Utet). Ed è un pezzo di storia italiana.

 

A un passo da Provenzano – Giampiero Calapà, Pagine: 176, Prezzo: 16, Editore: Utet

Da Platì a Milano per riorganizzare la cosca: faceva il bidello nel liceo “Padre Puglisi”

Affiliato alla ‘ndrangheta “con dote di picciotto”, arrivato da Platì a Milano nel 2018 per riorganizzare la rete della cosca Barbaro-Papalia. Per farlo si era scelto una copertura da insospettabile, quella di bidello, vincendo un concorso pubblico e andando a lavorare al liceo Giambattista Vico di Corsico, per poi spostarsi quest’anno, ironia della sorte, all’istituto superiore Padre Pino Puglisi di Buccinasco. Lui è Luigi Virgara, platiota classe ‘75. Il suo nome sta nell’elenco dei 17 arrestati ieri dai carabinieri della compagnia di Corsico guidata dal capitano Pasquale Puca e dal tenente Armando Laviola. Traffico e spaccio di droga, controllo di piazze e territorio.

L’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto della Dda Alessandra Dolci, è il seguito dell’indagine Quadrato del 2018. Anche allora fu fotografata la rete dei narcos calabresi. Un duro colpo per la cosca, la cui riorganizzazione era stata affidata a Virgara definito il “cugino che viene dalla montagna per prendere i soldi”. A lui e a Saverio Barbaro è contestata l’aggravante mafiosa. Entrambi, secondo il pentito Domenico Agresta, sono affiliati alla ‘ndrangheta di Platì. Ora, al di là della cocaina, storico core business dei clan condotto con l’utilizzo di pizzini per le comunicazioni riservate, uno dei dati inediti è il tema delle graduatorie per il personale amministrativo, tecnico e ausiliario (Ata) delle scuole, usate come “copertura sicura” dai rampolli dei clan. Oltre al nome di Virgara, nelle liste pubbliche delle scuole di Milano sono decine i cognomi che riconducono a casati mafiosi. Tra questi i Papalia e in particolare Domenico Papalia, classe ‘83, detto Micu u Bruttu. Nell’indagine di ieri è protagonista, pur non indagato, della rete di contatti di Virgara. Di Domenico Papalia, scrive il gip, è “stata appurata l’intraneità ad ambienti della ‘ndrina Carciutu, egemone nell’area sud-ovest di Milano, quale articolazione della ‘ndrangheta di Platì, costituente la cornice dell’aggravante mafiosa contestata a Luigi Virgara”. Papalia abita nel comune di Gudo Visconti in via Venti Settembre. Un indirizzo che ricorre più volte perché qui hanno il domicilio molti personaggi legati al clan. Qui i carabinieri hanno piazzato una telecamera, poi scoperta da Papalia. Virgara incontra diverse persone oggi non indagate ma dallo “spiccato pedigree criminale”. Tra questi Domenico Marando, detto Micu u Sceiccu, residente a Gudo e coinvolto in un’indagine per estorsione con Domenico Trimboli, alias Micu Murruni, altro referente delle ‘ndrine. Virgara è in contatto con Francesco Romeo, detto u Pettinaru e con Giuseppe Molluso, nipote di Giosofatto e Francesco Molluso, boss di lungo corso. Giosofatto di sé dirà: “Sono un capo mafia di Buccinasco”.