Il coronavirus è costato caro anche alla Camera: il conto per l’acquisto di mascherine, gel e servizi medico-sanitari che si sono resi necessari per l’emergenza è stato finora pari a 2,5 milioni di euro. Così emerge dal Bilancio di Montecitorio che anche quest’anno ha limato costi e spese con un avanzo di amministrazione che consente di restituire 80 milioni allo Stato. Nota dolente il conticino presentato dal morbo che ha costretto l’amministrazione della Camera a correre ai ripari prosciugando di un quarto il fondo di riserva da 10 milioni di euro. Le spese hanno riguardato, in particolare, l’acquisizione dei dispositivi di protezione individuale per tutti i frequentatori delle sedi della Camera: mascherine e altre protezioni, per un esborso di circa 800 mila euro. Mentre 1,7 sono serviti per i servizi infermieristici: rilevazione della temperatura corporea agli ingressi e noleggio delle ambulanze come ambienti di biocontenimento. Dato l’imprevedibile evolversi della situazione, le spese potrebbero salire ancora: solo alla fine dell’esercizio sarà possibile stabilire l’effetto finanziario complessivo del contrasto al Covid-19.
600 dottorandi scrivono al Rettore Proroga di 6 mesi
Sono 600 alla Sapienza i dottorandi del 33°, 34° e 35° ciclo a firmare una lettera aperta rivolta al Rettore e al Senato accademico per chiedere di tener conto anche per loro del Covid. Già il Senato Accademico, il 26 maggio 2020, ha incaricato il rettore della Sapienza, Eugenio Gaudio, di promuovere presso il Ministero e la Conferenza dei rettori le istanze di questa particolarissima fascia di studenti ormai quasi ricercatori.
“La congiuntura internazionale del Covid-19 – si legge nel documento – ha costretto la maggior parte dei dottorandi ad un’interruzione delle attività di ricerca sotto molteplici e fondamentali aspetti: ricerca sul campo; accesso ai laboratori, missioni all’estero, lettura, schedatura e consultazione di fonti d’archivio o di altri materiali indispensabili”. Insomma, con le biblioteche chiuse, le aule vuote, le facoltà sbarrate, l’attività di studio e ricerca è stata del tutto impossibile. A meno di non volersi accontentare di ricerche “fai-da-te”, sminuendo il lavoro fatto.
Il governo, con il decreto Rilancio, ha annunciato una proroga retribuita di due mesi per i dottorandi del 33° ciclo, ma, scrivono gli studenti, “resta ancora incerta la situazione per coloro che non percepiscono la borsa di studio e per gli ex art. 5 e 6, così come appare non siano state decretate forme di tutela per i dottorandi dei cicli 34° e 35°”. E la proroga non ha garantito l’attività di quelli del terzo anno.
La richiesta è quindi una estensione della proroga facoltativa retribuita a sei mesi per tutti e tre i cicli (33°, 34° e 35°) nel caso dei dottorandi borsisti e il riconoscimento ai dottorandi ex art. 5 e 6 e senza borsa di una proroga anch’essa di sei mesi.
La lettera sarà sul tavolo del Senato accademico che si riunisce questa mattina a cui si chiede il pieno supporto come si chiede che il rettore Eugenio Gaudio si faccia portavoce di queste istanze presso la Crui e il Miur.
Le scuole paritarie raddoppiano: ecco 300 milioni
L’aiuto alle scuole paritarie, come raccontano anche i numeri, sembra ancora una volta un aiuto alla Chiesa cattolica, che da decenni gestisce buona parte dell’istruzione dei più piccoli, complici le carenze del pubblico. Così, mentre dal ministero dell’Istruzione annunciano il via ad un grosso bando Pon per libri di testo e dispositivi digitali per gli studenti meno abbienti (236 milioni), in Parlamento raddoppiano i fondi alle scuole paritarie per l’emergenza Covid: a votare l’emendamento della Lega nel decreto Rilancio in commissione Bilancio alla Camera, quasi tutti escluso il M5S. Parliamo di 300 milioni di euro, di cui 180 destinati alle scuole dell’infanzia (0-6 anni) e 120 alle paritarie del primo e secondo ciclo per far fronte ai mancati introiti durante l’emergenza. Nella prima versione del testo ne erano stati destinati 150, poi sono raddoppiati. Qualche settimana fa la senatrice M5S Bianca Laura Granato aveva ritenuto sufficiente quanto già stanziato: “È una scelta giustificata e sorretta dal dettato costituzionale – aveva spiegato – che all’articolo 33 sancisce la piena libertà di insegnamento ma senza oneri per lo Stato nel caso delle scuole private”. A festeggiare l’accordo, il Pd (da Zingaretti alla vice ministra all’Istruzione, Anna Ascani), Italia Viva, Lega, Forza Italia e pure FdI. Grande giubilo per una fetta minima, e spesso difficile da monitorare, del mondo della scuola, che in assenza di didattica a distanza (bambini molto piccoli) ha anche potuto sfruttare la cassa integrazione: le paritarie rappresentano infatti circa il 10% della popolazione scolastica totale (840 mila studenti su più di 8 milioni) e si tratta soprattutto di istituti cattolici per gli alunni della fascia 0-6, ai quali appunto è stata destinata gran parte dei fondi stanziati. Sul totale degli studenti, almeno 500 mila sono nelle scuole dell’infanzia e di questi, 331 mila in scuole dell’infanzia cattoliche.
Covid, i poteri fortibattono cassa
Uno dei primi compiti dello Stato è di proteggere la salute dei propri cittadini. È scritto nell’articolo 32 della Costituzione e nessun interesse privato può limitare tale diritto fondamentale. Sembra una constatazione ovvia ma non lo è affatto.
Appellandosi a speciali corti arbitrali, le forze di mercato (grandi corporazioni, big pharma, fornitori di servizi idrici o elettrici, investitori stranieri) possono far causa agli Stati quando ritengono che i propri profitti –presenti e anche futuri– siano lesi dalle misure anti-Covid adottate dai governi.
È la trappola che minaccia gli Stati, nel momento in cui tentano di riequilibrare i rapporti con il libero mercato. Sull’onda del Covid, del necessario lockdown, dello sconquasso dei sistemi sanitari, le autorità pubbliche scoprono di esser state troppo dipendenti dal mercato globalizzato, tornano a essere cruciali, provano a dettare condizioni più stringenti alle imprese che chiedono prestiti o aiuti (è avvenuto sia pure parzialmente nel caso del prestito a FCA).
Ma le multinazionali non sono sempre disposte a perdere i vantaggi di cui hanno goduto in quasi mezzo secolo di neoliberismo e privatizzazioni. Non rinunceranno a reclamare risarcimenti per i guadagni che sono venuti meno o che verranno meno. Non si priveranno facilmente del ruolo fin qui svolto – il ruolo padronale di “poteri forti”– come dimostrato dall’atteggiamento sempre più stizzito dei nuovi vertici di Confindustria. Resisteranno finché potranno alla combinazione delle due norme costituzionali: l’articolo 32 sulla salute pubblica e l’articolo 41 che garantisce la libera impresa privata ma stabilisce che quest’ultima deve essere “indirizzata e coordinata a fini sociali” e “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Così il Covid può divenire fonte di guadagni miliardari in modo del tutto legale. La via è quella dei contenziosi tra le big corporation e gli Stati, cui vengono chieste compensazioni per i mancati profitti in occasione del lockdown e di varie misure governative per far fronte alla catastrofe sanitaria. I tribunali commerciali ad hoc che si occupano di questi contenziosi portano il nome di ISDS: investor-to-state dispute settlement, e proteggono le multinazionali da espropriazioni indirette o trattamenti discriminatori del paese di accoglienza. L’Unione europea e il suo Parlamento hanno abolito i passaggi più oscuri del regolamento ISDS e gli hanno dato un nuovo nome: ICS, Investment Court System. È intervenuta anche la Corte di giustizia europea, nel marzo 2018, giudicando il sistema ISDS incompatibile con il diritto europeo. Tra Stati europei il vecchio ISDS non vale più ma molte storture restano, nei trattati commerciali e di investimento con paesi esterni allo spazio dell’Unione.
Resta la possibilità per ogni grande azienda straniera di ricorrere contro gli Stati ed esigere compensazioni, se considera non protetti i propri diritti. Così è previsto in una serie di trattati commerciali e di investimento negoziati negli ultimi anni dall’Unione europea (che sul commercio ha competenza esclusiva) per facilitare gli investimenti stranieri. Ecco qualche esempio: l’Australia è stata citata in giudizio da Philip Morris per una scritta “Il fumo uccide”; Veolia ha citato in giudizio la città di Alessandria di Egitto per aver portato il salario minimo da 41 a 72 euro; Vatten Fall ha fatto appello contro la Germania per nuove normative ambientali contro le centrali atomiche.
La riforma introdotta in occasione dell’accordo commerciale con il Canada (Ceta) introduce per la prima volta il diritto a fare appello contro le decisioni dei tribunali privati, ma con grosse limitazioni. Il tribunale d’appello potrà solo contestare l’interpretazione della legge, non cercare ulteriori prove o ascoltare nuovi testimoni o esperti. La giurisprudenza sarà inoltre vincolante per i casi legati all’accordo con il Canada, ma potrà essere contraddetta da centinaia di tribunali ISDS legati a altri trattati di investimento conclusi dagli Stati europei. Sono numerosi gli studi legali che assistono gli investitori stranieri in casi di risarcimenti. L’agenzia più quotata in Italia è la ArbLit. Il 26 marzo scorso, in pieno lockdown e mentre aumentavano i morti di Covid, l’agenzia pubblicò un articolo in cui si prospettavano attivazioni di cause risarcitorie “in conseguenza delle misure affrettate e mal coordinate” adottate dal governo Conte (https://globalarbitrationreview.com/article/1222354/could-covid-19-emergency-measures-give-rise-to-investment-claims-first-reflections-from-italy).
Negli Stati Uniti è attivo lo studio Shearman & Sterling, che in un recente rapporto sugli effetti economico-industriali della pandemia si dice “pronto a consigliare Stati e investitori in relazione a misure adottate dai governi nel contesto della pandemia Covid-19”. Tra le misure sotto accusa: sospensione dei pagamenti delle spese elettriche, controllo degli Stati sulla sanità privata per proteggere la salute pubblica (Spagna e Irlanda), produzione nazionale di ventilatori e equipaggiamenti medici (mascherine, guanti).
Un altro studio legale (Quinn Emanuel) sostiene che ampie compensazioni son dovute nei casi i cui gli investitori si sono sentiti espropriati in seguito a misure anti-Covid. Eguali domande di compensazioni possono essere fatte da parte di aziende costrette e produrre materiale medico. L’accusa potrebbe essere di “espropriazione indiretta e illegale”.
Ancora più grave, le aziende multinazionali potrebbero citare in giudizio gli Stati per i mancati pagamenti dei servizi idrici (lavarsi le mani di continuo è un indispensabile dispositivo anti-Covid), o per non aver prevenuto disordini sociali.
Per ora non sono ancora state attivate cause, e non tutti gli studi legali ricorrono alle parole minatorie di ArbLit. Shearman & Sterling è più prudente, e ammette che gli Stati hanno il “dovere e il diritto di proteggere la salute pubblica e la loro economia”. Gli studi legali si preparano ad affilare le armi, ma sanno che qualcosa sta cambiando: non sono più solo le destre estreme (i cosiddetti populisti) ma anche Macron e Angela Merkel a promettere la riconquista della perduta sovranità e indipendenza, nazionale ed europea. Non manterranno magari le promesse, ma è con questo nuovo linguaggio che si rivolgono ai cittadini cui hanno chiesto – e forse chiederanno ancora – i sacrifici del lockdown.
Polveri sottili (da Sparo)
Caro Klaus Davi, approfitto di questo spazietto per darti tutta la mia solidarietà contro l’ipocrisia che ti ha colpito quando, per propagandare le bellezze della Calabria, hai giustamente puntato il dito contro le polveri sottili del nord, contro lo sfruttamento del suolo delle regioni settentrionali, contro il Covid che ha invaso Veneto e Lombardia. Avevi ragione, in Calabria tutte queste cose non esistono e bisogna dirlo ai vacanzieri: che la smettano di andare a Riccione e a Jesolo dove alligna il coronavirus. Il tuo video-monito era perfetto e già che ci sono vorrei proporti di realizzarne un altro che vorrai offrire a Zaia per dimostrargli che il tuo intento non era denigratorio. Il governatore del Veneto potrà usarlo a favore della sua regione. Musica drammatica. Testo: “Oggi con il dilagare della criminalità organizzata in Calabria sarà bellissimo praticare una cultura di massa del turismo con un sistematico aumento del traffico di droga e delle sparatorie e degli ammazzamenti fra diversi clan della ‘ndrangheta”. Rumori di colpi di mitra. Immagini di sangue e di cadaveri. “A differenza della zone della Locride dove le simpatiche polveri sottili da sparo creano tassi di inquinamento alle stelle mentre efficientissime cementificazioni abusive migliorano l’ambiente, se venite a passare le vacanze sulle spiagge venete non entrerete in contatto con assassini, maschilisti, usurai, corrotti e corruttori, come capita tutti i giorni a chi prende il sole sulle spiagge calabre”. Caro Klaus una pubblicità del genere servirà ad appianare ogni equivoco tra Calabria e Veneto e tu sicuramente ne trarrai giovamento per la tua carriera politica.
Vigilare sì, ma senza gridare “Al lupo”
Credo che bisognerebbe fare una seria riflessione nel rimodulare la comunicazione sulla pandemia. Il virus non è scomparso e ciò vuol dire che circola e dobbiamo stare attenti, sia per proteggere i soggetti fragili che potrebbero ammalarsi gravemente, sia perché, a nostra insaputa, potrebbe mutare e diventare più aggressivo. Insomma, finché ci sarà, dovrà essere un sorvegliato speciale. D’altra parte, però, è anche vero che non ci si ammala più (in questo periodo) e che i tamponi positivi sono ormai una rarità. Probabilmente continuano a circolare molti inconsapevoli positivi che, non accusando alcun sintomo, non ricorrono al tampone. Un caso emblematico è l’“esperimento” involontario dei festeggiamenti dei tifosi napoletani per la vittoria per la Coppa Italia quindici giorni fa. Tutti abbiamo temuto che i comportamenti adottati e gli assembramenti avrebbero apportato conseguenze gravi, positivi e ricoverati. Non è accaduto nulla. Per chi è credente, San Gennaro ha fatto la sua parte, ma per noi virologi laici il significato è diverso. Il virus è presente con una carica virale (particelle di virus) molto bassa o addirittura è assente in vaste aree delle nostre regioni. Chi si infetta non ha un potenziale virale tale da ammalarsi. Allora mi domando se, come avviene per altri virus, non dobbiamo cominciare a pensare (pronti a cambiare idea, se fosse necessario) che questo ennesimo Coronavirus arrivato fra gli umani si stia abituando a convivere con noi senza danni particolari. Pur, ripeto, controllando attentamente il fenomeno, non sarebbe il caso di non far diventare una notizia qualche caso positivo, peraltro senza patologia? La gente è stanca al limite del rigetto dell’informazione. Noi continuiamo a vigilare, ma non continuiamo a gridare “al lupo”. Il pericolo è che, se dovesse esserci bisogno di nuove misure, non verrebbero più seguite.
Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano
Lauro, il Gasparri del rap con la voce da grattugia vilipesa
Non sembra, ma sono giorni esaltanti per la musica. Basta ascoltare la legaiola Susanna Ceccardi, che ha ribadito a In onda estate come Imagine di John Lennon sia una canzone marxista che strizza l’occhio all’Unione Sovietica che fu. Parole forti. Attendiamo bramosi altre recensioni della suddetta, certi che saprà farci sognare ancora. Magari dicendoci che Storia di un impiegato di De André era bolscevico, Animals dei Pink Floyd terrorista e La pappa al pomodoro un inno satanico.
Viviamo un’era artisticamente alla canna del gas e ogni giorno ne abbiamo la prova. Per esempio con il tweet di tre giorni fa di tal Achille Lauro, uno che ha frequentato due volte Sanremo per ricordarci che l’umanità ha fallito e – tutto sommato – che i Ricchi e Poveri a confronto non erano poi così male. Tal Achille Lauro, nome d’arte per un giuggiolone senz’arte alcuna, ha cinguettato sabato nel social dei morti viventi (Twitter): “Ho firmato il più importante contratto discografico degli ultimi 10 anni. Dormivo su un materasso per terra, adesso scelgo in quale stanza passare la notte e con chi. Sto lavorando a 2 album. Con il primo ci divertiremo, con il successivo cambieremo la musica italiana”. Me cojoni!
A differenza di quanto si possa pensare, il suddetto Lauro (Verona, 11 luglio 1990) era serio. E lo erano anche quelli che, di fronte a un tale delirio tragicomico, l’hanno pure difeso. Definendolo addirittura “artista”. Di prim’acchito verrebbe da dire a tal Lauro di andare a sculacciare i billi della Val di Chiana, pratica in cui forse (almeno lì) eccellerebbe, ma sarebbe un errore. Forte di un talento contagiosamente inesistente, Lauro fa benissimo a esultare: l’hanno riempito di soldi sebbene il talento non l’abbia mai intaccato neanche per sbaglio, e dunque il ragazzotto è su di giri. A Sanremo, solo perché si era vestito a casaccio, qualcuno l’aveva perfino paragonato a David Bowie: ovvio quindi che questo provocatore disinnescato e caricaturale adesso esulti. Ne ha ben donde. E fa bene pure a straparlare con entusiasmo dei nuovi dischi, ben sapendo (in quanto intelligente) che il primo sarà verosimilmente orrendo e il secondo persino peggio. Quanto al “cambiare la musica”, non c’è neanche bisogno di commentare una tale aberrazione lisergica: non essendo quella di tal Lauro “musica”, l’unica cosa che egli potrà cambiare in futuro sarà al massimo l’eventuale stipsi dei (non poco) masochistici fruitori delle sue cacofonie. Avvincente anche il passaggio, un po’ smargiasso e un po’ sessista, sul poter frequentare oggi gli hotel e le persone che vuole: gnuno si immagina i mondi paralleli che vuole e, non di rado, gli specchi riflettono quel che uno vuole (o crede). Tal Lauro, per darsi un’aria vagamente maudit, ama in effetti descriversi come uno che in passato ha sofferto miseria e indigenza (“i materassi per terra”), benché la sua vita sia stata tutt’altro che difficile come ha più volte raccontato Antonio Ricci. La verità – temiamo – è che l’unica straordinarietà di tal Lauro risieda nella sua squisitissima insipienza artistica: egli non ha doti evidenti, non sa fare pressoché niente e la sua voce vanta l’estensione aggraziata delle grattugie vilipese. Ciò nonostante – o forse proprio per questo – ha il suo pubblico. Tal Lauro è una sorta di Gasparri minore del quasi rap, e tanto gli basta per giocare alla rockstar. Son soddisfazioni. Negli anni Sessanta e Settanta di lui non si sarebbe accorto nessuno, ma in questa contemporaneità svilita e incarognita passa quasi per “geniaccio”. Siamo alla frutta. E tal Lauro sta lì a ricordarcelo.
Rotta l’omertà sull’Uranio, Adesso tocca alla politica
Il generale Roberto Vannacci sembra aver rotto l’omertà che per anni ha regnato sull’esposizione dei militari all’uranio impoverito e sulla tutela della salute nei teatri operativi. Dopo di lui, il tenente colonnello Fabio Filomeni, all’epoca dei fatti stretto collaboratore del generale in Iraq quale Responsabile del servizio di prevenzione e protezione, ha confermato al Fatto Quotidiano quanto denunciato dall’alto ufficiale fornendo particolari e dettagli più gravi e inquietanti. E ancor più preoccupa il silenzio della politica e, soprattutto, delle istituzioni militari. Non un commento, una smentita, una formula interlocutoria, una condanna e nemmeno, al limite, un’accettazione delle responsabilità. Nulla!
È purtroppo una caratteristica del mondo militare: il silenzio, l’immobilismo, il mutismo assoluto di fronte a situazioni suscettibili di creare imbarazzo soprattutto tra gli uomini con tante stellette!
La vicenda coinvolge, infatti, in prima persona l’attuale capo di Stato maggiore della Marina, ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, ma anche direttamente il capo di Stato maggiore della Difesa, generale Enzo Vecciarelli e la ex ministro della Difesa, Elisabetta Trenta. Il generale Vannacci non si è limitato a scrivere fiumi di richieste, relazioni, rapporti, istanze, resoconti e piccanti esposizioni durante il suo mandato di un anno in Iraq ma, al suo rientro, e prima di rivolgersi alla Procura militare e a quella ordinaria, ha voluto conferire con l’intera catena gerarchica militare e politica. Nulla è trapelato e non si ha notizia di provvedimenti e correttivi a seguito delle sue audizioni.
All’inizio di marzo 2019, infatti, il generale Vannacci veniva ricevuto dal capo di Stato maggiore della Difesa a cui ha fornito, su richiesta, una dettagliata relazione scritta. Erano quindi rappresentate, seppur in formulazione potenziale, gravi omissioni, violazioni di norme, atti prevaricatori e irregolarità nell’applicazione della normativa di sicurezza nei teatri e circa i rapporti gerarchici tra il comandante del contingente e il Comando operativo interforze. Quello che sappiamo è che il capo di Stato maggiore della Difesa ha approvato la richiesta di far conferire il generele Vannacci con l’allora ministro. Null’altro.
È molto inquietante perché il generale Vecciarelli, quale vertice apicale militare e quale diretto superiore dell’ammiraglio Cavo Dragone, all’epoca ancora al Coi, avrebbe dovuto verificare la veridicità di quanto rappresentato dal generale Vannacci, assumere provvedimenti per evitare il ripetersi di tali situazioni negative e procedere con le segnalazioni ai competenti organi giudiziari e le eventuali sanzioni disciplinari. O nei confronti di Vannacci, qualora lo stesso avesse mentito o trasfigurato la realtà, o nei confronti di Cavo Dragone, qualora quanto rappresentato dal generale dei corpi speciali si fosse rivelato corretto. Invece nulla. Cavo Dragone è stato nominato capo di Stato Maggiore della Marina e Vannacci è stato promosso generale di divisione.
Il buon senso può venire meno ma il rispetto della norma certamente no! Il Dpr n. 83 del 2005,poi integrato nel Dpr n. 90 del 2010, stabilisce che in caso di “eventi di particolare gravità o risonanza” l’autorità militare competente (qui il generale Vecciarelli, considerato che l’ammiraglio dipendeva direttamente da lui) istituisca una inchiesta formale o sommaria per “valutare l’opportunità di adottare le misure correttive di carattere organizzativo o tecnico necessarie ad evitare il ripetersi degli eventi dannosi e di dare l’avvio ai procedimenti rivolti a individuare eventuali responsabilità penali, disciplinari, amministrative”. Non c’è dubbio che quanto riferito dal generale Vannacci rientri in questa previsione.
*Presidente dell’Osservatorio militare
Dietro il mes, la voglia di teleguidare l’Italia
Si moltiplicano gli appelli nazionali e internazionali affinché l’Italia sottoscriva un prestito del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) di supporto alla crisi pandemica. L’ultimo, con un’intervista al Corsera del 4 luglio, è di Valdis Dombrovskis, vice presidente della Commissione.
Chiariamo subito che il Mes è vincolato al rispetto di una rigorosa condizionalità (art. 136(3) del trattato europeo). Occorre inoltre considerare gli effetti del regolamento comunitario 472/2013, che prevede che un paese che accede a un finanziamento Mes è sottoposto a “sorveglianza rafforzata”, e che nel corso di essa il Consiglio possa decidere, a maggioranza qualificata, che siano necessarie misure più drastiche, compreso un programma di aggiustamento macroeconomico (articolo 3(7) del regolamento). Il 7 maggio scorso una lettera dei commissari Dombrovskis e Gentiloni ha sospeso l’applicazione di alcune parti del regolamento, tra cui l’art. 3(7). Tuttavia, il regolamento non è stato emendato. Non sorprende dunque che alcuni stati membri, tra cui l’Italia, abbiano il timore che accendendo un prestito Mes possano ritrovarsi la troika in casa.
Dando per scontata la buona fede dei commissari, potrebbe verificarsi la cosa seguente: l’Italia entra nel Mes pandemico, e incassa i 36 miliardi. Non ci sono condizionalità immediate, salvo l’uso dei fondi per rispondere alla crisi sanitaria. Nel corso di una missione post-programma, o nell’ambito della procedura del semestre europeo, la Commissione scopre che le condizioni italiane si sono aggravate ed è necessario un intervento ben più consistente per far fronte alla crisi finanziaria imminente o in atto. Non costringe l’Italia a entrare in un programma di aggiustamento macroeconomico, come previsto dall’articolo 14(4) del regolamento, dato che la lettera Dombrovskis-Gentiloni ha disattivato questo comma, ma consiglia caldamente l’ingresso in un programma Mes di dimensioni maggiori. In tali circostanze la pressione politica diverrebbe molto forte, si moltiplicherebbero gli appelli “a fare presto”, e sarebbe molto difficile per il governo italiano, vecchio o nuovo che sia, ignorare l’invito.
È noto che la situazione finanziaria italiana si deteriorerà sensibilmente nel corso del 2020. Il debito pubblico è destinato ad aumentare del 20% del Pil secondo le previsioni più favorevoli. I fondi del Recovery Fund in corso di negoziazione, che l’Istituto Bruegel stima ottimisticamente in 86 miliardi di contributi, saranno molto inferiori al deficit pubblico, stimato da Eurostat all’11% del Pil, 180 miliardi solo nel 2020. Soprattutto, negli ultimi 25 anni il tasso di crescita italiano è stato quasi sempre al di sotto del tasso di interesse.
In queste condizioni, il debito pubblico italiano è sostenibile solo se i tassi di interesse rimangono molto bassi, ovvero fin quando continua il programma di acquisto di debito della Bce. Questo però ha grossi problemi di congruenza con la lettera e lo spirito dei trattati europei, come evidenziato dalla recente sentenza della corte costituzionale tedesca.
Nel futuro più o meno prossimo la politica monetaria della Bce dovrà normalizzarsi. All’inizio della crisi la Presidente Lagarde dichiarò che il compito della Bce non è quello di chiudere gli spread, e aveva ragione di dirlo. Inoltre, le regole fiscali europee (patto di stabilità e crescita, Fiscal Compact), per ora sospese, verranno reintrodotte.
È probabile, dunque, che l’Italia necessiti di un aggiustamento strutturale nel futuro prossimo. Molti attori nazionali e internazionali hanno interesse a far sì che tale aggiustamento, potenzialmente devastante, sia inquadrato nelle regole esistenti in modo da minimizzare i rischi per la zona euro. Tali regole prevedono: negoziazione di un Memorandum of Understanding con relativa condizionalità; accesso a un programma Mes di dimensioni ben più consistenti di quello pandemico; intervento successivo della Bce con il programma di acquisti OMT.
Dunque, mi sembra che dietro all’invito pressante ad accettare i fondi del Mes ci sia il tentativo di incanalare la crisi italiana entro binari consolidati prima che essa si manifesti in tutta la sua gravità, approfittando della presenza di un governo amico (per lo meno in una sua componente). Tuttavia, come tutti i piani che si proiettano in un futuro incerto, molte cose possono deviare dal corso previsto. Per esempio, l’opinione pubblica italiana è fortemente ostile a nuovi programmi di austerità, come evidenziato da due survey experiments del Max Planck Institute. Inoltre, se le cose dovessero davvero andare come descritto sopra, la tenuta delle forze “responsabili” nel panorama politico italiano non è affatto scontata.
*Direttore del Max Planck Institute di Colonia
Infermieri “Sedotti e abbandonati” E spariti nel racconto dei media
Caro direttore, le scrivo purtroppo per manifestare il mio disappunto e una certa delusione riguardo la gestione dell’informazione a proposito del mondo infermieristico. Parto dei fatti: a Milano gli infermieri si sono ritrovati in piazza con una protesta pacifica per ricordare i colleghi vittime del Covid-19 e per presentare delle istanze di riforma della professione dal punto di vista contrattuale e culturale. Ho trovato ingiusto da parte del suo giornale mettere in luce, per fare un esempio, il solo “angelo della morte” dell’ascolano, senza citare gli altri scesi in piazza. Ho scelto di abbonarmi al Fatto poiché per me è sempre stato un baluardo per i più deboli, una possibilità per mettere in luce le ingiustizie sociali e per dar voce alle categorie inascoltate. Certo e fiducioso nel potere costruttivo delle critiche.
Luca Conca
Caro Luca, non è solo il mondo infermieristico a rimanere, troppo spesso, fuori dai radar dell’informazione. È il mondo del lavoro nel suo insieme che paga decenni di pensiero unico in cui il lavoro è stato ridotto per lo più a costo da tagliare. “Il Fatto Quotidiano” è un’eccezione, come riconosce lei stesso, anche per la scelta di dar voce a chi altrove non ne ha. Forse non l’abbiamo fatto abbastanza sulle condizioni di lavoro, le problematiche professionali e il ruolo degli infermieri nel modello sanitario che si è affermato nel nostro Paese: lavoro pesante e responsabilità sempre crescenti a fronte di stipendi che il più delle volte, a metà carriera, non raggiungono i 1.500 euro netti. Non è solo questione di dare notizia di una o più manifestazioni pubbliche, quelle sono tante ma non sempre riescono a modificare rapporti di forza che penalizzano in modo drammatico chi lavora. Un giornale come il nostro ha il compito di raccontare, approfondire e analizzare, e la sua lettera ci ricorda che dobbiamo farlo ancora di più. Ha fatto bene a scriverla. Non ci dica, però, che abbiamo fatto male a dar notizia dell’infermiere che, nell’Ascolano, è stato accusato di aver ucciso volontariamente alcuni pazienti. È un fatto che colpisce proprio perché ci fidiamo, come milioni di italiani, dei nostri infermieri. E come tale è nostro dovere raccontarlo.
Alessandro Mantovani